lunedì 24 marzo 2014
L’Autorità Nazionale Palestinese è sull’orlo del fallimento
Solo il raggiungimento della condizione di Stato potrebbe salvare la Cisgiordania da un’incombente ondata di violenze, crimini, caos, malattie, sostiene un importante rapporto palestinese
21 marzo 2014
di Amira Hass - Ha’aretz
Il collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese trasformerebbe la Cisgiordania in un luogo violento e caotico, ad alto tasso di criminalità e a rischio per la salute. Ma, anche se la maggioranza dei palestinesi volesse la sopravvivenza dell’A.N.P., sia per amore di un fondamentale ordine sociale o per interesse personale, e nonostante i timori di Israele di dover farsi carico di tre milioni di palestinesi della Cisgiordania, il regime del presidente Mahmoud Abbas crollerebbe in poco tempo se Israele continuasse a ostacolare l’aspirazione palestinese all’indipendenza.
Queste sono le conclusioni a cui è arrivato un consistente studio durato 6 mesi e condotto dal rinomato Centro Palestinese di Analisi e Ricerca Politica (Palestinian Center for Policy and Survey Research) di Ramallah, diretto dal Dr. Khalil Shikaki.
Un gran numero di palestinesi ha un ben radicato interesse nel fatto che l’ANP continui ad esistere, sostiene Shikaki. I rapporti con l’ANP comportano “vantaggi di carattere finanziario, status politico e sociale, e ci sono ambienti che dipendono dai propri rapporti con l’ANP. Qualunque cosa dovesse succedere all'ANP li priverebbe di questi privilegi. Si tratta di organizzazioni, di gruppi economici o individui che hanno posizioni di potere che gli permettono di distribuire favori ai propri sostenitori.
“Se ne avessero il potere, farebbero del loro meglio per evitare [il crollo dell’ANP],” dice Shikaki, “Ma persino quelli che hanno un interesse personale a soddisfare le richieste di Israele, con lo scopo di salvare l’ANP, non lo potranno fare ancora per molto.” Se il palestinese medio ancora sostiene l' esistenza dell’ANP è perché desidera un certo livello di ordine pubblico, aggiunge. “ La gente non vuole trovarsi senza un potere centrale che sia in grado di evitare il caos e l’anarchia per le strade, anche se è molto critica nei confronti dell’ANP e del suo modo di operare. Ma i palestinesi sono disposti a rischiare che collassi completamente, se ciò accadesse nel contesto di una lotta per cambiare lo status quo. Se ci fosse una buona ragione perché crolli, allora [l’atteggiamento è] lasciamo che succeda.”
L’ANP ha compiuto 20 anni, ma critiche nei confronti della sua efficacia si sono sentite già all’inizio della seconda Intifada, nel 2000. Sono tornate ed intensificate negli ultimi due o tre anni, quando è apparso chiaro che l’ANP non è stata in grado di ottenere nessuno dei due obiettivi per i quali è stata creata: la condizione di Stato e la fornitura di servizi pubblici. Se a questo si aggiungono le sempre più acute difficoltà economiche e la rottura con la Striscia di Gaza, il quadro del fallimento è completo.
Un rapporto senza precedenti.
“Il rapporto finale ‘The Day After’: le possibilità, le conseguenze e le implicazioni politiche di un collasso o dissoluzione dell’ANP” non ha precedenti per quanto riguarda la portata e l’impegno a fare i conti con la questione. Più di 200 professionisti palestinesi hanno partecipato alle discussioni che hanno portato a un rapporto di 250 pagine.
Lo studio conclude sostenendo che l’ANP potrebbe collassare in uno dei seguenti tre modi. Il primo, lo scenario meno probabile, sarebbe la decisione volontaria della dirigenza palestinese di sciogliere l'ANP. Il secondo avverrebbe in conseguenza del potere di Israele di punirla economicamente, militarmente e politicamente, insieme alla pressione politica ed economica, soprattutto americana, in risposta a passi da parte palestinese che violino l’attuale status quo, come ad esempio far ricorso alla Corte Penale Internazionale o dirigere una sollevazione non armata. La terza possibilità sarebbe il crollo risultante da una agitazione e ribellione interna palestinese.
Tra i partecipanti [alla discussione n.d.t.] ci sono coloro che vedono la disintegrazione dell’ANP come un fatto certo nel breve periodo, dato il rifiuto di Israele ad accettare la soluzione “dei due Stati” in linea con i principi e le decisioni internazionali. In base a quanto sostiene Shikaki, coloro che considerano positivamente il crollo dell’ANP per il momento sono in minoranza, e tendenzialmente sono persone favorevoli a uno Stato unico binazionale. Ma è evidente che i tre principali attori – la stessa ANP, Israele e la comunità internazionale – non sono interessati alla scomparsa dell’ANP.
Shikaki sostiene di aver chiesto agli Israeliani “in base a quali circostanze Israele potrebbe perdere interesse nel preservare l'ANP, e la loro opinione è stata che i palestinesi non sono stupidi e non vogliono arrivare al punto da far cambiare a noi [israeliani] le nostre priorità.” Questa prospettiva di Israele sembra confermare la posizione dei palestinesi critici che sostengono che l’ANP è asservita agli interessi di Israele. In effetti Shikaki afferma:” Tutti i palestinesi che hanno partecipato alla discussione condividono l’idea che Israele e l’ANP hanno un comune interesse a che l’ANP continui a funzionare. Nel complesso la società palestinese capisce che l’ANP è in grado di esistere finchè Israele ne è soddisfatta, e finchè i palestinesi ritengono che è utile a loro.”
Gli israeliani intervistati sono consci del fatto che le politiche di Israele sarebbero in grado di rovesciare l’ANP? Sì, secondo Shikaki:”Pensano che [la politica di Israele] possa peggiorare notevolmente le condizioni, ma che Israele entrerà in campo all’ultimo momento ed eviterà un crollo.”
Shikaki ha rilevato che tutti i partecipanti ritengono che “ci sarebbe un tentativo a tutti i livelli di prevenire un collasso.” Paradossalmente, egli dice:” Ciò offre ad ognuno degli attori il conforto di credere di poter fare molto danno alla controparte senza rischiare che essa imploda.” In questo modo, i rapporti Israele-ANP diventano come una competizione per dimostrare la propria capacità di resistenza, un’analogia usata nelle discussioni focalizzate sui modi in cui i palestinesi potrebbero obbligare gli israeliani a cedere per primi.
Se c’è una decisione di smantellare volontariamente l’ANP, “i palestinesi possono cercare di obbligare Israele a rendere più dura l’occupazione, tornando alla situazione prevalente prima del 1994, oppure a cambiare politica e arrivare a negoziati seri per porre termine all’occupazione, o a ritirarsi unilateralmente dalla maggior parte della Cisgiordania, “in base al documento finale del Centro. Oppure, nel caso di un collasso dovuto a pressioni esterne o interne, “ la prevedibile mancanza di sicurezza potrebbe obbligare Israele a riconsiderare le sue opzioni.”
Il rapporto conclude che i risultati di un fallimento dell’ANP dipenderebbero soprattutto da se i vari membri della dirigenza palestinese romperanno o meno le consolidate abitudini di scarsa pianificazione, di mancanza di trasparenza, di eccessiva centralizzazione, di mancanza di organi consultivi e di gratificazione immediata di interessi privati e di fazione. Piuttosto, i dirigenti palestinesi potrebbero decidere di rinnovare lo status dell’OLP e di includere nei suoi ranghi i movimenti islamisti; decentralizzare la pianificazione e la gestione e trasferire queste responsabilità alle organizzazioni e istituzioni civili; mettere in piedi un meccanismo di gestione alternativo; oppure formare un governo in esilio.
Hamas sarebbe il grande vincitore.
Questi sono alcuni dei passi preliminari che i partecipanti alla ricerca hanno raccomandato per ridurre le gravi ripercussioni di un crollo dell’ANP. Queste comprendono danni economici per il settore pubblico e privato; povertà molto diffusa; frammentazione sociale e politica; l’aumento delle malattie, con particolare danno per la salute dei bambini; saccheggio delle infrastrutture; rafforzamento delle tribù e dei clan; accentuazione della spaccatura tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania; nascita di bande armate e caos della sicurezza pubblica; e un ritorno alla violenza come mezzo di lotta. Un risultato certo è che Hamas, ed in particolare il governo di Hamas a Gaza, risulterebbe rafforzato.
Tra i partecipanti alla ricerca vi erano docenti universitari, attuali o ex ministri, parlamentari di ogni fazione, uomini d’affari e dirigenti di organizzazioni non governative. Hanno preso in considerazione gli effetti di un fallimento dell’ANP sulla sicurezza, sull’economia, sui rapporti tra Fatah e Hamas e sulla vita politica, sulla salute, sull’educazione, sulle infrastrutture, sulla telefonia e le comunicazioni, sulle amministrazioni locali, sul potere giudiziario e sul futuro della lotta per l’indipendenza.
Il Centro ha anche realizzato 180 interviste a palestinesi per avere una percezione più profonda dei punti di vista prevalenti. Oltre a ciò, Shikaki ha intervistato 12 israeliani tra i militari, l’amministrazione civile, alcuni esponenti di gruppi politici diversi (ma non dell’estrema destra) e istituti di ricerca, anche se Shikaki non li ha voluti specificare.
( traduzione di Amedeo Rossi)
martedì 4 marzo 2014
Israele sequestra i giochi della scuola di gomme
Piccoli droni sulla Scuola di Gomme: l’esercito israeliano confisca i nuovi scivoli dei bambini, appena donati dal Governo Italiano, e installati presso la scuola di Khan al-Amar. Un fatto tanto grave quanto assurdo e inspiegabile, che colpisce ancora una volta i piccoli bimbi beduini.
di Michele Giorgio – Il Manifesto
Gerusalemme, 28 febbraio – «Eravamo lì a parlare tranquillamente con Abu Khamis e i rappresentanti della comunità beduina Jahalin, a Khan al Ahmar. Avevano portato con noi le attrezzature di gioco per i bambini donate dalla cooperazione italiana e nell’accampamento il clima era gioioso, sereno, quello di una giornata di festa». Robert – nome di fantasia – parla a bassa voce, ci chiede di non rivelare la sua identità. «All’improvviso – aggiunge – si è sentito un rumore, un forte ronzio… Abbiamo alzato lo sguardo e con sgomento abbiamo visto girare sulle nostre teste uno strano velivolo, grande come un televisore e dotato di telecamere. Girava sopra di noi a non più di 5-6 metri d’altezza». Robert e tutti i presenti si rendono conto di avere davanti agli occhi un piccolo drone. Abu Khamis e i beduini lo avevano già notato qualche giorno prima quell’aggeggio strano che volava sopra la zona facendo uno strano rumore. Ma avevano alzato le spalle, abituati come sono ad ogni diavoleria ed angheria dei loro invandenti “vicini”, i coloni israeliani che da anni fanno di tutto per cacciarli via e che vorrebbero abbattere la «Scuola di Gomme» che l’ong italiana Vento di Terra ha costruito per i loro bambini.
«Qualcuno ci stava osservando, anzi spiando e non riuscivamo a capire perché», prosegue Robert, con un filo di voce. Passano pochi secondi e il nostro testimone e gli altri presenti capiscono a chi stava trasmettendo la telecamera sistemata sul “televisore volante”. Sbucano dal nulla, proprio come il drone, i militari israeliani inviati dall’Amministrazione Civile per i Territori Occupati, che comunicano ai presenti la confisca delle attrezzature donate dall’Italia ai bambini di Khan al-Amar.
Al rappresentante del consolato italiano, giunto con due veicoli da trasporto – uno con a bordo qualche sacco di cemento e l’altro con un’altalena a tre posti e uno scivolo con un tunnel e due scale – non resta che prendere atto della comunicazione delle autorità israeliane relativa al blocco e alla confisca dell’«installazione illegale». Tutto avviene con rapidità mentre il “televisore volante” continua a volteggiare a bassa quota. Del massiccio utilizzo dei droni da parte delle forze militari israeliane si sa da tempo. Ne sanno qualcosa gli abitanti di Gaza che da anni convivono con il ronzio di questi velivoli senza pilota che non poche volte si trasformano in strumenti di morte sparando missili contro militanti veri e presunti delle formazioni armate palestinesi, che fanno anche morti e feriti tra i passanti. Che i droni potessero essere usati anche per sorvegliare i poveri beduini Jahalin e i loro bambini sempre pronti a regalare un sorriso, nessuno se lo aspettava. Una novità che non lascia tranquilli Abu Khamis e la sua gente.
Su quanto accaduto giovedì le autorità consolari italiane mantengono un basso profilo. In serata abbiamo cercato, senza successo, di raggiungere telefonicamente il console generale d’Italia a Gerusalemme, Davide La Cecilia che, al mattino, aveva preso parte a Gerico alla cerimonia di chiusura di un importante progetto della Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Esteri: « Support the emergency of education in the Palestinian Territories of East Jerusalem, Bethlehem and Jericho ». Un progetto che ha interessato 14 istituzioni educative pubbliche e private palestinesi a Gerusalemme Est, Betlemme e Gerico, a beneficio di 6,739 studenti (di cui 515 disabili), 1.495 docenti e 784 famiglie.
Da anni a Khan al Ahmar, alle porte di Gerusalemme, lungo la strada che porta alla Valle del Giordano, è impegnata la ong Vento di Terra di Milano, che vi ha realizzato nel 2009 la «Scuola di Gomme», una struttura ecologica fatta di argilla, legno e circa 2000 vecchi pneumatici che mantiene una temperatura ideale nelle aule durante l’inverno e l’estate. Questo istituto scolastico tanto particolare è costato pochissimo e ospita circa 130 alunni, in buona parte ragazze. Più di tutto ha dato una risposta efficace ai bisogni d’istruzione dei Jahalin espulsi dal Negev nel 1950 e che da allora vivono sparsi nell’area a sud-est di Gerusalemme.
Oggi nell’accampamento di Khan al Ahmar, che si trova su un terreno appartenente al villaggio di Anata, ci sono 250 persone hanno vissuto lì per decenni. Un dato che non interessa ai coloni israeliani di Kfar Adumin – giunti in quella zona in violazione delle leggi internazionali – che fanno pressione sull’Amministrazione Civile affinchè i beduini vengano cacciati via e la scuola sia distrutta. Da allora è in corso una dura battaglia legale, con i rappresentanti di Kfar Adumim che hanno presentato per ben tre volte una petizione all’Alta Corte di Giustizia per ottenere la demolizione. La forte attenzione internazionale e dei mezzi d’informazione ha contribuito, sino ad ora, a contenere l’offensiva dei coloni. Ma si fa sempre più dura e i Jahalin e coloro che li sostengono ora devono fare i conti anche con i droni, la tecnologia più avanzata a disposizione delle forze di occupazione.
Approfondimenti:
Campagna “La Terra dei Bambini” in difesa dei diritti fondamentali di ogni bambino: istruzione, cure mediche, alimentazione, gioco.
Informazioni e cartella stampa:
ventoditerra@ventoditerra.org
T. +39 02.39.43.21.16
M. +39 340.46.29.484
M. +39 347.91.99.465
domenica 2 marzo 2014
Il migliore discorso del mondo
di Josè Pepe Mujica
Trascrizione a cura di Martino Pirone
(Un discorso che non sarà dimenticato e che vorremmo sentire da tutti i politici)
Discorso pronunciato a braccio al G20 a – Rio (Brasile) 21 giugno 2012 - alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile – dal mitico Presidente dell’Uruguay, Josè Pepe Mujica.
Autorità presenti di tutte le latitudini e organismi, molte grazie e i nostri ringraziamenti al popolo del Brasile, e alla sua Signora Presidente, e molte grazie alla buona fede che sicuramente hanno manifestato tutti gli oratori che mi hanno preceduto ed esprimiamo la intima volontà come governanti di accompagnare tutti gli accordi che questa povera umanità possa sottoscrivere.
Senza dubbio ci permettiamo di farci alcune domande a voce alta: per tutta la sera si è parlato di sviluppo sostenibile, di tirare fuori masse immense dalla povertà. Che cos’è che ci svolazza in testa ? Il modello di sviluppo e di consumo attualmente è quello delle società ricche.
Mi domando: cosa succederebbe a questo pianeta se gli Hindu avessero la stessa proporzione di auto per famiglia che hanno i tedeschi ? Quanto ossigeno ci resterebbe per poter respirare ? Più chiaramente: il mondo oggi ha gli elementi materiali per rendere possibile che 7 – 8 miliardi di persone possono avere lo stesso grado di consumo e di spreco che hanno le più opulenti società occidentali ? Sarà possibile ? O dovremo fare un giorno un altro tipo di discussione ? Perché abbiamo creato una civilizzazione, quella in cui siamo, figlia del mercato, figlia della concorrenza, e che ha prodotto un progresso materiale portentoso ed esplosivo.
Però quello che era economia di mercato ha creato società di mercato ! E ci ha portato a questa globalizzazione, che significa guardare a tutto il pianeta ! STIAMO GOVERNANDO LA GLOBALIZZAZIONE O E’ LA GLOBALIZZAZIONE CHE GOVERNA NOI ?
E’ possibile parlare di solidarietà e “che siamo tutti uniti”, in una economia basata sulla concorrenza spietata ? Fin dove arriva la nostra fratellanza ? Nulla di questo lo dico per negare l’importanza di questo evento. NO! è per il contrario! La sfida che abbiamo davanti è di una portata di carattere colossale e la grande crisi non è ecologica, E’ POLITICA! L’uomo non governa oggi le forze che ha scatenato fino a quando le forze che ha scatenato governano l’uomo e la vita, perché non veniamo sul pianeta per svilupparci in termini generali. Veniamo alla vita cercando di essere felici. Perché la vita è corta e ci va via. E nessun bene vale quando la vita, e questo è elementare. Però se la vita mi va a sfuggire, lavorando e lavorando per consumare un “plus”, la società di consumo è il motore! Perché, in definitiva, se si paralizza il consumo, o si ferma, si ferma l’economia, e se si ferma l’economia è il fantasma della stagnazione per ognuno di noi.
Però questo iper-consumo, a sua volta, è quello che sta assalendo il pianeta! E deve generare, questo iper-consumo, cose che durano poco, perché si deve vendere tanto! E una lampadina elettrica non può durare più di 1.000 ore accesa. Ma ci sono lampadine che possono durare 100mila, 200mila ore. Perché il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare e dobbiamo avere una civilizzazione di uso smaltimento! E siamo in un circolo vizioso! Questi sono problemi di carattere politico! Non si tratta di regredire all’uomo delle caverne, né di avere un “monumento dell’arretratezza”. E’ CHE NON POSSIAMO INDEFINITIVAMENTE CONTINUARE AD ESSERE GOVERNATI DAL MERCATO, MA CHE DOBBIAMO GOVERNARE IL MERCATO! Per questo dico che il problema è di carattere politico, nel mio umile modo di pensare. Perché i pensatori antichi: Epicuro, Seneca, gli (indios) Aymara definivano “povero non è chi possiede poco, ma veramente povero è chi necessita infinitamente di tanto” e desidera, e desidera e desidera sempre più. Questa è la chiave di carattere culturale. Quindi saluto lo sforzo e gli accordi che si fanno, e lo accompagno come governante. Perché so che alcune cose che sto dicendo “stridono”, però dobbiamo renderci conto che la crisi dell’acqua, che la crisi dell’aggressione ambientale non è la causa. La causa è il modello di civilizzazione che abbiamo costruito. E ciò che dobbiamo rivedere è il nostro modo di vivere ! Perché ?
Appartengo a un piccolo paese, molto ben dotato di risorse naturali per vivere. Nel mio paese ci sono 3 milioni di abitanti, poco più, 3 milioni e 200mila. Però ci sono 13 milioni di vacche delle
migliori al mondo! E un 8 – 10 milioni di ovini stupendi! Il mio paese è esportatore di cibo, di latticini, di carne. E’ una pianura, quasi il 90% del suo territorio è utilizzabile. I miei compagni lavoratori lottarono per le 8 ore di lavoro e ora stanno ottenendo 6 ore. Però che ottiene 6 ore poi fa due lavori, pertanto lavora più di prima. Perché ? Perché deve pagare un mucchio di rate: il motorino che ha comprato, l’automobile che ha comprato. E paga rate! E paga rate! E quando arriva ad estinguerle è un vecchio reumatico come me, e la vita gli va via! E uno si fa questa domanda: è questo il destino della vita umana ? Queste sono cose molto elementari; lo sviluppo non può essere contro la felicità! Deve essere a favore della felicità umana! dell’amore! della terra! delle relazioni umane! di prendersi cura dei figli! di avere amici! e di avere l’elementare, l’essenziale! Precisamente ! Perché questo è il tesoro più importante che hanno. Quando lottiamo per l’ambiente, il primo elemento dell’ambiente si chiama: LA FELICITA’ UMANA. Grazie.
(Note da “Il fatto quotidiano” e “LINKIESTA”: il Presidente José Pepe Mujica è un mito. In un mondo in cui la gente si scanna per il potere, per l’accumulo di beni materiali, lui, Presidente dell’Uruguay, si trattiene solo 485 dollari dello stipendio per vivere e destina gli altri 7500 alla beneficenza. Vive di poco, anzi di pochissimo, in una vecchia fattoria senza neppure l’acqua corrente, ma solo l’acqua del pozzo.
Non ha la scorta né un conto in banca, e per il fisco uruguaiano è un “nullatenente”. José Alberto Mujica Cordano è da due anni il presidente dell’Uruguay. Dei 250mila pesos (circa 10 mila euro) del suo stipendio da Capo di Stato, Mujica trattiene per sé soltanto 800 euro, e devolve il resto al Fondo Raúl Sendic, un'istituzione che aiuta lo sviluppo delle zone più povere del Paese. Dice: «questi soldi, anche se sono pochi, mi devono bastare perché la maggior parte degli uruguaiani vive con molto meno».)
sabato 1 marzo 2014
Migranti. Il documento: smilitarizzazione dei territori e delle frontiere, abolizione dei visti, e "Dublino" da abrogare
Un patto costituente dal basso
—Alessandra Sciurba, 3.2.2014
Il 2 febbraio del 2014 la Carta di Lampedusa ha iniziato a muovere i suoi passi nel mondo a partire dal rovesciamento del ruolo imposto all’isola da cui prende il nome: da frontiera e confine del Mediterraneo e dell’Europa, a centro propulsore di una nuova visione dello spazio mediterraneo ed europeo.
Una visione che si può costruire soltanto a partire dall’eliminazione delle politiche migratorie e del pensiero che ad esse soggiace, perché abbatterle, spiega il Preambolo, significa non soltanto affermare i diritti di una parte della popolazione, ma anche costruire «una radicale trasformazione dei rapporti sociali, economici, politici, culturali e giuridici (…) a partire dalla costruzione di un’alternativa fondata sulla libertà e sulle possibilità di vita di tutte e tutti senza preclusione alcuna che si basi sulla nazionalità, cittadinanza e/o luogo di nascita».
Libertà di movimento; libertà di scelta; libertà di restare; libertà di costruzione e realizzazione del proprio progetto di vita in caso di necessità di movimento; libertà personale; libertà di resistenza: principi che — senza lasciare alcun margine di mediazione — mettono al centro i desideri delle persone, e il valore della loro vita in tutte le dimensioni in cui essa si esprime a partire dal «riconoscimento che tutte e tutti in quanto esseri umani abitiamo la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata».
Solo nella seconda parte della Carta questi principi sono declinati nel linguaggio delle politiche attuali, perché con esse è necessario confrontarsi e il loro definitivo superamento è presupposto indispensabile della nuova geografia politica, territoriale ed esistenziale costruita dalla carta di Lampedusa.
Il primo obiettivo e quindi quello della «smilitarizzazione», affermando la necessità dell’immediata abolizione di tutte le operazioni legate alla militarizzazione dei territori e alla gestione dei dispositivi di controllo dei confini». A partire da esso la libertà di movimento implica l’abolizione dei visti, delle quote di ingresso, del legame tra soggiorno e possesso di un contratto di lavoro e dei vincoli imposti ai ricongiungimenti familiari (sottolineando l’enorme processo di clandestinizzazione delle persone che questo sistema ha prodotto), così come del principio delle «clausole migratorie» imposto dall’Ue ai paesi di origine e transito dei migranti. L’affermazione della libertà di scelta comporta l’immediata abrogazione del Regolamento di Dublino che impone a chi chiede asilo di poterlo fare solo nel primo paese europeo che raggiunge, ignorando i percorsi delle persone e i loro legami affettivi. La libertà di restare declina un nuovo concetto del diritto al lavoro e all’abitare, del diritto di cura e di accesso al welfare, del diritto all’istruzione e del diritto alla preservazione e alla costruzione del proprio nucleo familiare e affettivo, così come alla partecipazione politica e sociale, oltre che la necessità dell’affermazione di un linguaggio della non discriminazione e di nuove forme di cittadinanza radicalmente più inclusive anche del principio dello ius soli.
In caso di necessità di movimento viene affermata l’illegittimità dei respingimenti formali e informali e dell’esternalizzazione della protezione internazionale, e la necessità di aprire canali di arrivo garantito che non costringano più le persone a rischiare la propria vita nel tentativo di salvarla, con la predisposizione di attività di accoglienza diffusa, auto-gestionaria e auto-organizzata. La libertà di resistenza comprende anche il diritto/dovere di disobbedire a leggi ingiuste.
La libertà personale, infine, muovendo dalla denuncia di tutte le violenze e le morti impunite che si sono susseguite negli ultimi decenni, è declinata nella necessità di abrogare immediatamente la detenzione amministrativa e di chiudere i centri in cui essa avviene, nonché tutte le strutture di accoglienza contenitiva.
Questi principi non compongono una proposta di legge, né sono una richiesta agli stati o ai governi: sono il fondamento di un patto costituente che afferma un diritto dal basso, delle dichiarazioni che sono già azioni e che uniscono le molteplici realtà che le hanno sottoscritte e tutte quelle che lo faranno nell’impegno di praticarle. La Carta è uno strumento nuovo e prezioso anche solo per le modalità con cui è stato elaborato. La sua storia si scrive da oggi in poi.
—Alessandra Sciurba, 3.2.2014
Il 2 febbraio del 2014 la Carta di Lampedusa ha iniziato a muovere i suoi passi nel mondo a partire dal rovesciamento del ruolo imposto all’isola da cui prende il nome: da frontiera e confine del Mediterraneo e dell’Europa, a centro propulsore di una nuova visione dello spazio mediterraneo ed europeo.
Una visione che si può costruire soltanto a partire dall’eliminazione delle politiche migratorie e del pensiero che ad esse soggiace, perché abbatterle, spiega il Preambolo, significa non soltanto affermare i diritti di una parte della popolazione, ma anche costruire «una radicale trasformazione dei rapporti sociali, economici, politici, culturali e giuridici (…) a partire dalla costruzione di un’alternativa fondata sulla libertà e sulle possibilità di vita di tutte e tutti senza preclusione alcuna che si basi sulla nazionalità, cittadinanza e/o luogo di nascita».
Libertà di movimento; libertà di scelta; libertà di restare; libertà di costruzione e realizzazione del proprio progetto di vita in caso di necessità di movimento; libertà personale; libertà di resistenza: principi che — senza lasciare alcun margine di mediazione — mettono al centro i desideri delle persone, e il valore della loro vita in tutte le dimensioni in cui essa si esprime a partire dal «riconoscimento che tutte e tutti in quanto esseri umani abitiamo la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata».
Solo nella seconda parte della Carta questi principi sono declinati nel linguaggio delle politiche attuali, perché con esse è necessario confrontarsi e il loro definitivo superamento è presupposto indispensabile della nuova geografia politica, territoriale ed esistenziale costruita dalla carta di Lampedusa.
Il primo obiettivo e quindi quello della «smilitarizzazione», affermando la necessità dell’immediata abolizione di tutte le operazioni legate alla militarizzazione dei territori e alla gestione dei dispositivi di controllo dei confini». A partire da esso la libertà di movimento implica l’abolizione dei visti, delle quote di ingresso, del legame tra soggiorno e possesso di un contratto di lavoro e dei vincoli imposti ai ricongiungimenti familiari (sottolineando l’enorme processo di clandestinizzazione delle persone che questo sistema ha prodotto), così come del principio delle «clausole migratorie» imposto dall’Ue ai paesi di origine e transito dei migranti. L’affermazione della libertà di scelta comporta l’immediata abrogazione del Regolamento di Dublino che impone a chi chiede asilo di poterlo fare solo nel primo paese europeo che raggiunge, ignorando i percorsi delle persone e i loro legami affettivi. La libertà di restare declina un nuovo concetto del diritto al lavoro e all’abitare, del diritto di cura e di accesso al welfare, del diritto all’istruzione e del diritto alla preservazione e alla costruzione del proprio nucleo familiare e affettivo, così come alla partecipazione politica e sociale, oltre che la necessità dell’affermazione di un linguaggio della non discriminazione e di nuove forme di cittadinanza radicalmente più inclusive anche del principio dello ius soli.
In caso di necessità di movimento viene affermata l’illegittimità dei respingimenti formali e informali e dell’esternalizzazione della protezione internazionale, e la necessità di aprire canali di arrivo garantito che non costringano più le persone a rischiare la propria vita nel tentativo di salvarla, con la predisposizione di attività di accoglienza diffusa, auto-gestionaria e auto-organizzata. La libertà di resistenza comprende anche il diritto/dovere di disobbedire a leggi ingiuste.
La libertà personale, infine, muovendo dalla denuncia di tutte le violenze e le morti impunite che si sono susseguite negli ultimi decenni, è declinata nella necessità di abrogare immediatamente la detenzione amministrativa e di chiudere i centri in cui essa avviene, nonché tutte le strutture di accoglienza contenitiva.
Questi principi non compongono una proposta di legge, né sono una richiesta agli stati o ai governi: sono il fondamento di un patto costituente che afferma un diritto dal basso, delle dichiarazioni che sono già azioni e che uniscono le molteplici realtà che le hanno sottoscritte e tutte quelle che lo faranno nell’impegno di praticarle. La Carta è uno strumento nuovo e prezioso anche solo per le modalità con cui è stato elaborato. La sua storia si scrive da oggi in poi.
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