martedì 18 agosto 2015

Quel diritto che si fa un po’ più in là...


C’è un’agenzia dell’Onu che riesce a stento - e forse quest’anno non riuscirà più - a rendere tutti i
servizi per cui venne creata con una Risoluzione ad hoc nel dicembre del 1949. Si parla di
mancanza di finanziamenti, ma forse a monte c’è dell’altro: c’è un diritto che, seppur sancito
dall’Onu, è così fastidioso per chi dell’Onu s’è regolarmente fatto beffe, che ora potrebbe essere
tranquillamente liquidato con la scusa dei finanziamenti mancanti.
Sto parlando dell’Unrwa, cioè l’agenzia per i rifugiati palestinesi che nel 1948 furono cacciati o
costretti a fuggire dalle loro case e che da allora aspettano di potervi tornare come, appunto,
stabilisce l’articolo 11 della Risoluzione Onu n. 194.
Da diversi mesi il Commissario generale Unrwa invia appelli preoccupati ed ha recentemente
scritto a Ban Ki Moon parole accorate affinché venga saldato il debito di 101 milioni di dollari che
permetterebbe di iniziare regolarmente l’anno scolastico. Questo consentirebbe a 500.000 bambini
dai 5 ai 14 anni di usufruire del diritto allo studio e ricorda che “l’educazione è riconosciuta a livello
globale come fattore primario di crescita e sviluppo umano” e che "Niente è più importante per questi
bambini in termini di dignità e identità dell'educazione che ricevono.”
Queste le parole del Commissario generale Unrwa Pierre Krähenbühl il quale aggiunge che in
questo “momento di crescente instabilità in tutto il Medio Oriente, il ruolo di UNRWA è sempre più
importante."
Ma nel suo rapporto-appello al Segretario generale dell’Onu conclude con quello che forse è visto
come il peccato originale che Unrwa deve espiare e cioè “la capacità dell’Agenzia di contare
pienamente sulla riconferma della volontà della comunità internazionale ... in attesa di una giusta soluzione
alla loro (dei rifugiati palestinesi) causa”.
“In attesa di una giusta soluzione alla loro causa”. Questo l’hanno ben capito alcuni dirigenti
scolastici dei 58 campi profughi diffusi in Palestina (sia Cisgiordania che Gaza) oltre che in
Libano, Siria e Giordania. La partita non si sta giocando solo sul diritto allo studio, per quanto
importante esso sia in termini di dignità e identità. È un altro il diritto che si vuole eliminare, e
basta leggere le tante dichiarazioni contro l’Unrwa reperibili su numerosi siti israeliani per capire il
perché profondo dell’angoscia di tanti palestinesi di fronte alla chiusura di 700 scuole e 8 centri di
formazione, privando 500.000 studenti e circa 29.000 docenti e ausiliari del diritto allo studio i
primi e del loro lavoro gli altri.
E’ l’enunciato dell’articolo 11 della Risoluzione 194 la vera posta in gioco. È quel “diritto al
ritorno” che Israele legge in funzione anti-israeliana e che rappresenta la memoria storica di
un’ingiustizia da sanare e l’intralcio al piano D (cioè l’occupazione dell’intera Palestina fino al
Giordano) che è nel progetto di fondazione di Israele e che scavalca totalmente la stessa
Risoluzione 181 relativa alla partizione della Palestina storica dopo il mandato britannico.
Del resto basta leggere, tra le tante, anche solo le sincere dichiarazioni rilasciate al Parlamento
europeo – e non contestate – dal leader dei coloni Gershom Mesika, ospite di un nostro
europarlamentare e capo del Consiglio regionale degli insediamenti nel nord della Cisgiordania, che
lo stesso si ostina a definire col nome biblico di Samaria, regione che rappresenterebbe “il cuore
stesso dello stato di Israele” e che, pertanto, deve farne parte in toto insieme alla “Giudea”.
Meglio ancora, per fugare ogni dubbio, sarebbe opportuna l’analisi della sostanza illegale della
recente nomina ad ambasciatrice di Israele in Italia di una cittadina ... italiana (!) occupante di una
casa in un insediamento dichiarato illegale dal Diritto internazionale e, quindi, in totale spregio
della legalità internazionale, per capire quali siano le mire israeliane e quali e quanti i suoi
supporter. Non va dimenticato che gran parte di questi supporter sono anche donatori Onu che non
stanno effettuando le loro donazioni all’Agenzia Unrwa nonostante il Segretario generale Ban Ki
Moon abbia definito “imperativo” che l’Agenzia riceva il denaro necessario ai suoi scopi ed abbia
esortato i paesi donatori a non indugiare oltre.
Fino ad ora i nostri media non hanno ancora dato notizia delle manifestazioni che si stanno
svolgendo da giorni sotto le sedi dell’Unrwa in Palestina e del clima di angoscia che si respira in
tutti i campi profughi. Solo il Manifesto ha pubblicato un articolo chiaro e circostanziato della
situazione, ma il Manifesto è un giornale indipendente, diciamo pure che i lunghi tentacoli che
inducono all’autocensura non raggiungono il suo inviato in Medio Oriente. Purtroppo però è un
quotidiano di nicchia e non arriva a quel pubblico abitualmente nutrito dal leit motif “Israele ha
diritto a difendersi”, frase magica che pone in ombra ogni altra verità e che, nonostante l’abuso
reso ormai grottesco dai fatti, ancora non conosce tramonto.
Detto con chiarezza: l’Unrwa deve sparire, perché la sua esistenza è un atto d’accusa, sebbene
poco efficace, contro Israele, contro i suoi crimini – commessi e tuttora registrati nel suo atto di
nascita e, prima ancora, nella sua gestazione – e contro i suoi sostenitori tout court che nella
fattispecie meglio si caratterizzano come complici.
I palestinesi che non hanno ceduto alla rassegnazione, dopo settant’anni di occupazione e d’inganni,
leggono quindi in quel che sembra un mero problema finanziario la volontà politica di eliminare
l’istituzione che concretizza questo atto d’accusa e che tiene vivo il diritto al ritorno, diritto in senso
proprio, come sancito dalla citata Risoluzione Onu. Essi sanno bene che la situazione in Medio
Oriente in questo periodo è talmente caotica, tra massacri e cambi di alleanze, terrorismo indotto e
terrorismo di regime che potrebbe essere il momento buono per raggiungere la soluzione finale
delle questione palestinese. Questo temono quei numerosi palestinesi che sanno leggere oltre il
contingente e che vedono nella mappa geografica ridisegnata dagli Usa nel 2003 un progetto in
corso di compimento. Non caso le tre forze politiche più significative (Fatah, Hamas e Fronte
popolare) pur nelle loro divisioni, concordano nel ritenere artificiale la crisi finanziaria dell’Unrwa.
Ma forse sbagliano, cittadini e istituzioni politiche, ad attribuire all’agenzia Onu la responsabilità di
tale situazione. Del resto, una delle forme più scaltre ed anche più diffuse per neutralizzare
l’avversario è quella di fornirgli un avversario-specchio. In tal modo l’opposizione si concentra su
chi viene trasformato in nemico invece che in possibile alleato e il processo cammina secondo il
disegno del suo ideatore.
Ma la realtà che si vive in questo momento nei campi profughi non è caratterizzata solo da
comprensibile grande agitazione, quanto dall’accavallarsi di posizioni lucide e coraggiose, come
quella di far iniziare lo stesso l’anno scolastico pur senza i fondi Unrwa, con quelle di chi preferisce
portare i propri figli altrove dichiarando così la propria rassegnazione insieme al proprio disprezzo
per l’ente che non riesce a offrire il servizio scolastico. Lo sforzo di chi ha capito che cedere in
questo momento significa lasciar liquidare la situazione dei profughi (come desidera Israele
appoggiato dai suoi sostenitori) è uno sforzo da sostenere come possibile. Liquidare la situazione
profughi significa in ultima analisi liquidare la causa palestinese e accreditare la vittoria
all’illegalità e all’illegittimità di uno Stato nato col pretesto della Risoluzione 181 (mai rispettata) e
col progetto di espandersi fino al Giordano utilizzando forme diverse di “pulizia etnica” della
popolazione autoctona. Le divisioni nel mondo arabo mai come ora renderebbero semplice questo
passo. E dietro la scelta di non finanziare l’Unrwa solo pochi nell’opinione pubblica mondiale
vedrebbero la lunga mano capace di artigliare perfino la Grecia di Syriza sporcandola con un
accordo militare che ne cancella l’etica su cui aveva ottenuto i consensi per esistere, o di
accarezzare intellettuali occidentali sempre attenti alla democrazia e ai diritti umani fino al
momento della micidiale carezza sionista, o di offrire ghiotte occasioni di successo politico capaci
di far chiudere gli occhi di fronte allo scadimento dei valori fondanti della democrazia, andando ben
oltre il conflitto più immorale e più ammantato di falsità narrative degli ultimi cento anni.
Ma dove sono i media mainstream? forse stanno aspettando i primi disordini seri per dare notizia
che “la violenta protesta” palestinese si è scagliata proprio contro un’agenzia Onu destinata a
proteggerli, concludendo secondo copione questo ennesimo capitolo di mortificazione di un popolo
che aspetta giustizia.
Per questo è importante che quanto sta succedendo - e che investe 193 paesi Onu - venga alla luce
in modo corretto e prima che l’inversione temporale tra azione e reazione confonda la cronaca e la
realtà dei fatti. Non è importante solo per il popolo palestinese e per chi ne sostiene i diritti, è
importante per chiunque creda nel rispetto del Diritto universale.
Patrizia Cecconi
12 agosto 2015
Patrizia Cecconi
Presidente Associazione “Oltre il Mare”, onlus
patriziacecconi2@gmail.com – associazioneoltreilmare@gmail.com
tel/fax +39.065880187 – mobile +39.3476090366

sabato 4 luglio 2015

In Israele, ci muoviamo in mezzo agli assassini e ai torturatori


In Israele, ci muoviamo in mezzo agli assassini e ai torturatori
L'atto di censura nei confronti del Teatro Al-Midan[cfr. A.Hass su Internazionale ]scaturisce dall’invidia della capacità dei nostri assoggettati di vincere l’oppressione, di pensare e creare, sfidando la nostra immagine di loro come inferiori.

di Amira Hass | 22 giugno 2015 |



Haaretz

Nelle nostre case, nelle nostre strade e nei nostri luoghi di lavoro e divertimento ci sono migliaia di persone che hanno ucciso e torturato migliaia di altre persone o hanno diretto la loro uccisione e la loro tortura. Scrivo “migliaia” invece del più vago “innumerevoli” – un’espressione relativa a qualcosa che non si può misurare.

La grande maggioranza di coloro che uccidono e torturano (anche adesso) vanno fieri delle proprie gesta e la loro società e le loro famiglie sono orgogliose delle loro gesta – benché normalmente sia impossibile trovare un collegamento diretto tra i nomi dei morti e torturati ed i nomi di coloro che uccidono e torturano, e anche quando è possibile,[ciò] è proibito. E’ proibito anche dire “assassini”. Ed è proibito scrivere “malviventi” o “persone crudeli”.

Io, crudele? Dopo tutto, le nostre mani non sono coperte di sangue quando schiacciamo il bottone che sgancia una bomba su un edificio che ospita 30 membri di una famiglia. Malvivente? Come potremmo usare questo termine per designare un soldato di 19 anni che uccide un ragazzo di 14 anni che è uscito per raccogliere piante commestibili?

I killer e i torturatori ebrei e i loro diretti superiori agiscono come se avessero un’autorizzazione ufficiale. I palestinesi morti e torturati che si sono lasciati alle spalle negli scorsi 67 anni hanno anche dei nipoti e delle famiglie in lutto per i quali la perdita è una costante presenza. Nei corridoi universitari, nei centri commerciali, negli autobus, nei distributori di carburante e nei ministeri governativi, i palestinesi non sanno chi, tra la gente che incrociano, ha ucciso, o quali e quanti membri delle loro famiglie e del loro popolo ha ucciso.

Ma ciò che è certo è che i loro assassini e torturatori vanno in giro liberamente. Come eroi.

In questa malsana situazione in cui i palestinesi soffrono lutto e angoscia, noi, gli ebrei israeliani, non possiamo vincere. Con la nostra aviazione e le nostre forze armate e la nostra Brigata Givati e le nostre celebri unità di commando d’elite, siamo dei perdenti in questo contesto. Ma poiché siamo i dominatori indiscussi, falsifichiamo il contesto e ci appropriamo del lutto.

Non ci accontentiamo dei terreni, delle case e delle vie di comunicazione dirette che abbiamo rubato loro e di cui ci siamo impadroniti ed abbiamo distrutto, e che continuiamo a distruggere e a rubare. No. Noi in più neghiamo ogni ragione, ogni contesto storico e sociale delle espulsioni, spossessamenti e discriminazioni che hanno costretto un piccolissimo manipolo di quei palestinesi che sono cittadini di Israele a cercare di imitarci prendendo le armi. Si sono ingannati pensando che le armi fossero lo strumento giusto di resistenza, o hanno raggiunto il colmo della rabbia e dell’impotenza e deciso di uccidere.

Che se ne pentano o no, la loro delusione non cancella il fatto che avevano ed hanno tutte le ragioni di resistere all’oppressione e alla discriminazione e malvagità che sono parte del dominio di Israele su di loro. Condannarli come assassini non ci trasforma in vittima collettiva in questa equazione. Invece di indebolire le ragioni della resistenza, noi stiamo soltanto intensificando e migliorando gli strumenti di oppressione. E un mezzo di oppressione è l’insaziabile desiderio di vendetta.

L’attacco al Teatro Al-Midan e lo spettacolo “Un tempo parallelo” sono parte di questa sete di vendetta. E comprende anche tantissima invidia. Invidia per la capacità di coloro che opprimiamo di vincere l’oppressione e il dolore, di pensare, di creare e di agire, sfidando la nostra immagine che li dipinge inferiori. Loro non ballano la nostra musica come poveri smidollati.

Come in una caricatura antisemita, per noi tutto si concentra nelle finanze, nel denaro. Noi non stiamo zitti, noi ci vantiamo. Siamo felici se solo togliamo loro i finanziamenti. Li abbiamo trasformati in una minoranza nella nostra terra quando li abbiamo espulsi e non abbiamo concesso loro il ritorno, ed ora il 20% che è rimasto qui dovrebbe dirci grazie e pagare con le tasse degli spettacoli che esaltano lo Stato e la sua politica. Questa è democrazia.

Non è una guerra culturale, o una guerra sulla cultura. E’ un’altra battaglia – probabilmente una causa persa, come quelle precedenti – per un futuro sano per questo paese. I cittadini palestinesi di Israele erano una forma di assicurazione per la possibilità di un futuro sano: si può dire un ponte, bilingue, pragmatico, anche se contrario alla loro volontà. Ma dobbiamo attuare dei cambiamenti, dobbiamo imparare come ascoltarli, perché questa assicurazione sia valida. Ma noi, gli indiscussi dominatori, non prevediamo di ascoltarli e non conosciamo il significato di cambiamento.

Una nota finale: I rapporti sull’omicidio di un residente di Lod, Danny Gonen, alla sorgente di Ein Bubin vicino al villaggio di Dir Ibzi’a erano accompagnati da collegamenti a recenti precedenti attacchi: la persona ferita in un attacco terroristico vicino alla colonia di Alon Shvut, il poliziotto di frontiera accoltellato vicino alla Tomba dei Patriarchi a Hebron. E che cosa si ometteva di menzionare? Ovviamente, due giovani palestinesi recentemente uccisi dai soldati israeliani: Izz al-Din Gharra, di 21 anni, colpito a morte il 10 giugno nel campo profughi di Jenin e Abdullah Ghneimat, 22 anni, schiacciato il 14 giugno a Kafr Malik da una jeep dell’esercito israeliano.

In media ogni notte l’esercito israeliano compie 12 raid di routine. Per i palestinesi, ogni raid notturno, che spesso comporta l’uso di granate stordenti e di gas e sparatorie, è un mini attacco terroristico.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)

martedì 16 giugno 2015

IL MOSTRO INGORDO CHE DIVORA LA CISGIORDANIA







Questo enorme insediamento 'trasforma i villaggi palestinesi in una prigione'

La costruzione procede a ritmo sostenuto nella colonia di Leshem, creando ancora un altro 'blocco di colonie' in Cisgiordania e bisecandola irrevocabilmente.

Gideon Levy | Giugno 5, 2015



Si va a tutta velocità a Leshem, nella parte nord-occidentale della Cisgiordania. Mentre alcune persone si stanno ancora divertendo - o stanno ingannando - aggrappandosi all'idea di una soluzione a due stati, e mentre ogni disperato approccio palestinese di un'organizzazione internazionale di qualsiasi tipo è bollato come "mossa unilaterale" che viola i siglati accordi, Israele sta costrendo un altro mega-insediamento nel cuore della Cisgiordania ad un ritmo rapido. Ma questa non è considerata una mossa unilaterale, in nessun modo.

Decine di "scatolette" di cemento sono già occupate; altre centinaia sono in costruzione. Mentre stavamo parlando di altre cose, questi cubi grigi uniformi sono sorti e hanno completato la dannosa continuità territoriale che si estende dalla pianura costiera all'insediamento urbano di Ariel, e da lì a Tapuah Junction, Ma'aleh Efraim e la Valle del Giordano - una chiara , linea retta che taglia in due la Cisgiordania.

Un altro bastone tra le ruote dell'ultima debole possibilità della creazione di uno stato palestinese.

In breve tempo, quando la costruzione in questo insediamento si completerà e un altro paio di migliaia di coloni si muoveranno nelle sue 600 abitazioni, e quando Ariel e le sue comunità satelliti saranno riconosciuti come un "blocco insediamento" - dichiarato unilateralmente trovarsi all'interno del consenso israeliano e come tale da non evacuare - Israele sarà in grado di congratularsi con se stesso per un lavoro ben fatto: l'aborto del non ancora nato Statoi di Palestina.

Benvenuti a Leshem. Una delle impressioni avvicinandosi al vasto cantiere è che una metropoli è in costruzione: decine di intimidenti bulldozer, i carri moderni di Israele, rotolano sopra tutta la terra su ruote e catene in acciaio, creando un frastuono assordante, sollevando colonne di sporcizia e polvere - scavando , tagliando, perforando, frantumando, livellando e ferendo la collina che diventerà anche un insediamento.

Gli antenati di Leshem sporgono dalle vette circostanti: gli insediamenti di Alei Zahav, Paduel, Ariel e le zone industriali di Barkan e Ariel occidentale. Accanto a loro, nascosti nella loro vergogna, ci sono città e villaggi palestinesi con la terra magra che rimane nelle loro mani dopo che la maggior parte di essa è stata saccheggiata: Kufr a-Dik, Brukin, Deir Balut, Rafat.

Strade sterrate conducono al cantiere, accanto al quale i primi Leshemiti vivono già. I loro figli stanno già amoreggiando nel nuovo parco giochi, spruzzi di colore in un mare di grigio. Quando questi bambini cresceranno, non si parlerà con loro di uno stato palestinese o di insediamenti. Nessuno potrà mai dire loro che il loro insediamento è stato costruito su terra palestinese rubata, con lo scopo di sabotare l'ultima prospettiva di una soluzione politica. Essi continueranno a crescere in una comunità nazionale-religiosa nelle case con quattro esposizioni, sistemi solari di riscaldamento avanzati, tutte superbamente pianificate e progettate, in quello che sarà considerato il centro del paese, non lontano dalla linea verde dimenticata. Perché, c'è Tel Aviv all'orizzonte, e l'aeroporto di Ben Gurion, anche.

Tutte le case di questo nuovo insediamento sono uniformi in apparenza, residenze unifamiliari calcolate per realizzare il sogno di ogni israeliano. Bandiere blu e bianche stanno già sventolando nella brezza accanto ai lotti e piccole e medie vetture, giapponesi e coreane, sono parcheggiate fuori le residenze piccolo borghesi . Verranno qui per fede e ideologia, ma anche per la "qualità della vita".

Leshem è in costruzione più velocemente della nuova autostrada da Tel Aviv a Gerusalemme.

Un po 'di storia: Questa comunità è iniziata come un quartiere di 19 ville la cui costruzione è stata sospesa per motivi non chiari - vi è più di una versione di quello che è successo - e i cui scheletri qui furono abbandonati. Le Forze di Difesa Israeliane si addestravano presso il sito - allora conosciuto come Chabad Illit, evocando il periodo iniziale del quartiere - durante la seconda intifada. Nel 2010, quando la costruzione è stata rinnovata sulla collina sopra le ville, è stata indicata come un "quartiere" dell'insediamento di Alei Zahav, che è, l'espansione di un insediamento già esistente. Così, la sua istituzione non avrebbe causato un putiferio, anche se il "quartiere" era in realtà un insediamento completamente separato. Tutti sanno che Israele non costruisce nuovi insediamenti, estende solo quelli esistenti.

Ma oggi i segni ti portano a Leshem, non ad Alei Zahav o a qualsiasi tipo di mero quartiere. Questo insediamento è stato costruito da imprenditori privati, la strada che conduce ad esso si trova sulla terra palestinese di proprietà privata, e anche se la High Court of Justice è intervenuta momentaneamente, la costruzione è proseguita senza impedimenti.

Accanto a Leshem sono le splendide antichità di Deir Samaan, un convento di epoca romana ed epoca bizantina. Non ci sono molti siti archeologici così impressionanti e così trascurati come questo. Ha tutto: enormi cisterne e pavimenti a mosaico, frantoi e mulini, un orologio solare, un abbeveratoio per i cavalli, le rovine di una chiesa e di sistemi idrici sotterranei, cupole in pietra e colonne di marmo sparse sul terreno - i resti di un antico meraviglioso modo di vivere.

L'acqua verde muffa riempie le cisterne e le vasche antiche, e l'intero sito è svilito dai resti fuligginosi di barbecue, bottiglie di plastica, lattine vuote di conserve e altri rifiuti lasciati da persone che amano questa terra.

La proprietà adiacente al cantiere, tra cui le rovine archeologiche, apparteneva a Fars a-Dik. Docente di scienze politiche all'American University di Jenin, 35 anni, single e che lavora per una ONG coinvolta nello sviluppo della politica della sanità pubblica. Vive in Kufr a-Dik, il villaggio vicino, con una popolazione di 6000, la maggior parte delle cui terre sono state saccheggiate e dichiarate terreno statale, al fine di creare Leshem, anche se Kufr a-Dik è stato poi lasciato senza terreno su cui costruire. Circa 100 famiglie hanno già lasciato il villaggio per Ramallah.

Fars a-Dik aveva un piccolo uliveto di 25 dunam (6,25 ettari), che suo padre ha piantato 35 anni fa. Nel 1996, lo stato ha espropriato parte dei terreni di famiglia e ha dichiarato un sito archeologico, cioè Deir Samaan. Il figlio ha ora un cantiere mostruoso accanto a ciò che resta del suo boschetto, ed i suoi alberi sono coperti da strati di polvere e rifiuti edili. Ulivi bianchi sono ciò che rimane, che non offrono olive da raccogliere.

La sua terra è circondata su tutti i lati da insediamenti, e una volta Leshem sarà completamente popolato è improbabile che a lui sarà consentito l'accesso alla sua terra. A-Dik lo sa. Leshem lo separa anche da un altro appezzamento di terra che appartiene alla sua famiglia. Egli quasi mai va là, a causa della grande distanza che deve percorrere per raggiungerla. Gli agricoltori provenienti da un villaggio vicino stanno lavorando quella terra per lui.

A-Dik paragona la costruzione di Leshem ad un dito con cui Israele sta colpendo nel cuore della Cisgiordania al fine di spezzarla.

"Gli israeliani vogliono unificare tutti gli insediamenti della zona in una sola unità," dice, "e trasformare i villaggi palestinesi tra di loro in una vasta prigione, di cui Israele ha la chiave. Se Israele vuole, aprirà e ci permetterà l'accesso alla nostra terra, e se no, non lo farà. E 'più probabile che non lo farà. Kufr a-Dik si trasformerà da un villaggio in un campo, perché non c'è nessun posto rimasto per costruirvi. Quando [il primo ministro Benjamin] Netanyahu e [il presidente palestinese Mahmoud] Abbas parlano di uno scambio territoriale, è del mio paese che stanno parlando ".

Ma a-Dik sa che anche che il parlare di scambi di territori è ormai altro se non chiacchiere inattive.

Ha un amico in Inghilterra che di recente lo ha visitato nel suo villaggio, per la prima volta in cinque anni. Non riusciva a credere ai suoi occhi.

http://www.haaretz.com/week…/twilight-zone/.premium-1.659551

Traduzione a cura https://www.facebook.com/IlPopoloCheNonEsiste

domenica 14 giugno 2015

L’alleanza clandestina di Israele con gli stati Arabi del Golfo sta diventando pubblica




Di Murtaza Hussain

7 giugno 2015

Nel 2009, un cablogramma diplomatico del Dipartimento di Stato americano ha fornito uno dei primi barlumi di una nascente alleanza tra Israele e gli stati arabi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). Il cablogramma citava le parole pronunciate dal funzionario del ministero degli esteri israeliano, Yakov Hadas: “Gli Arabi del Golfo credono nel ruolo di Israele perché percepiscono lo stretto rapporto di Israele con gli Stati Uniti,” e che “Gli stati del GCC “credono che Israele possa fare un miracolo.”

Israele e gli stati del Golfo condividevano anche un interesse nel contrastare quella che consideravano una crescente influenza iraniana in Medio Oriente. E così, mentre le due parti in pubblico litigavano – l’Operazione militare di Israele “Piombo Fuso” era appena costata più di 1.400 vite nella Striscia di Gaza ed era stata condannata dall’Arabia Saudita, in una lettera alle Nazioni Unite come “aggressione feroce”- avevano “buoni rapporti personali” a porte chiuse, ha detto Hadas, secondo quanto scritto in uno dei cablogrammi. Si dice che Hadas abbia aggiunto che gli Arabi del Golfo tuttavia “non erano pronti a fare in pubblico quello che dicono in privato.”

Premiamo il pulsante ‘avanti veloce’ di 6 anni e sembra che gli stati si siano finalmente preparati a parlare pubblicamente delle loro relazioni più cordiali con Israele. Durante un evento al Consiglio per le Relazioni estere di questa settimana a Washington, di cui ha riferito Eli Lake, della Bloomberg (multinazionale nel settore dei mass media, n.d.t.), ex funzionari sauditi che occupano alte posizioni, e funzionari israeliani non solo hanno condiviso il palco, ma hanno rivelato che i due paesi avevano tenuto una serie di incontri ad alto livello per discutere obiettivi strategici comuni, particolarmente riguardo alla percepita supremazia regionale dell’Iran. All’evento l’ex Generale Saudita Anwar Eskhi ha chiesto apertamente un cambiamento di regime in Iran, mentre l’ex ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Dore Gold, una volta feroce critico dell’Arabia Saudita, ha parlato del suo avvicinamento al paese in anni recenti e della possibilità di risolvere le restanti differenze tra le due nazioni, affermando: “Stare oggi su questo palco non significa che abbiamo risolto tutte le differenze che le nostre nazioni hanno condiviso nel corso degli anni, ma la nostra speranza è che saremo in grado di occuparcene completamente negli anni a venire.”

Le relazioni con Israele sono state da lungo tempo un argomento “esplosivo” per gli stati arabi. In seguito alla creazione di Israele nel 1948, e al conseguente trasferimento di centinaia di migliaia di profughi palestinesi, altri paesi mediorientali hanno mantenuto una posizione di pubblica ostilità verso Israele, in linea con l’opinione pubblica nazionale di vecchia data. Sebbene paesi come l’Egitto, con una dittatura militare, abbiano concluso trattati di pace ufficiali con Israele, senza tener conto del sentimento popolare, per lo più gli stati del Golfo sono rimasti lontani da questo.

Tuttavia, in anni recenti, due fenomeni delle insurrezioni arabe e della crescente influenza iraniana, hanno spinto i leader del GCC più vicino a Israele. L’anno scorso, il principe saudita Turki bin Fasal hanno fatto il passo senza precedenti, di pubblicare un contro editoriale su un importante giornale israeliano che chiedeva la pace tra Israele e le nazioni del GCC, e anche una risoluzione al conflitto israelo-palestinese. Mentre gli Stati Uniti durante l’Amministrazione Obama hanno perseguito la distensione con l’Iran in anni recenti, sono comparsi anche rapporti che indicano una cooperazione nascosta riguardo alla sicurezza, tra Israele e gli stati del GCC. Il sito di inchieste Middle East Eye, ha di recente documentato l’esistenza di voli segreti tra Abu Dhabi e Tel Aviv, malgrado ci sia una palese proibizione per i cittadini israeliani di entrare negli Emirati Arabi Uniti (UAE – United Arab Emirates).

Nel suo libro del 2012: After the Sheikhs: The Coming Collapse of the Gulf Monarchies [Dopo gli sceicchi: l’imminente crollo delle monarchie del Golfo], il Professore dell’Università di Durham, Chris Davidson, ha scritto che gli stati del Golfo continueranno a cercare l’appoggio di Israele grazie alle crescenti pressioni esterne sugli stati del Golfo in seguito al le insurrezioni nella regione. Anche quando descrive i paesi del GCC come entità formate da “popolazioni nazionali che per lo più sono anti-israeliane e pro-palestinesi, dove gli argomenti di Israele e del sionismo spesso provocano forti emozioni,” il libro documenta il crescente coordinamento politico ed economico da parte dei leader del GCC con le loro controparti israeliane, verificatosi in anni recenti.

Ci sono comunque segnali che anche il sentimento popolare anti-israeliano in questi paesi forse sta cambiando. Un recente sondaggio d’opinione tra i sauditi, condotto dagli studenti del Centro Interdisciplinare di Herzlya, un’università israeliana, ha trovato che una minoranza del pubblico saudita considerava Israele un’importante minaccia al loro paese, e citava invece l’Iran o il nascente Stato Islamico come principali oggetti di preoccupazione. “Ciò che pensiamo qui in Israele sui Sauditi non è esattamente ciò che in realtà sono,” ha detto Alex Mintz del suddetto Centro, che ha aiutato a supervisionare il sondaggio. “Supponiamo di conoscere ciò che la gente in Iran, a Gaza e in Arabia Saudita pensa, [ma]nessuna delle persone con cui ho parlato pensava che i Sauditi avrebbero detto, con un di 3 a 1che l’Iran li spaventava più di Israele, nessuno prevedeva questo.”

Mentre l’amministrazione Obama cerca di concludere un accordo nucleare controverso con l’Iran il mese prossimo, sembra probabile che gli stati Arabi del Golfo e Israele, tradizionali alleati dell’America, uniti nella loro opposizione all’accordo, continueranno a far crescer il loro coordinamento strategico. La recente decisione presa da ex funzionari che occupavano alte posizioni e che rappresentano gli interessi sia del Golfo che di Israele, di rendere pubblica la loro collaborazione, è soltanto il segnale più recente della forza di questa crescente alleanza. Dato che questa relazione sta fiorendo sullo sfondo di una crisi ancora in corso tra Israele e Palestina, e anche di una supremazia dei partiti politici di estrema destra all’interno di Israele, sembra chiaro che i leader del GCC abbiano deciso subito dopo la Primavera Araba di mettere i loro ristretti interessi politici al di sopra di qualsiasi principio dichiarato pubblicamente riguardante la stabilità nella regione.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znet/article/israel-s-clandestine-alliance-with-gulf-arab-states-is-going-public

Originale : The Intercept

Traduzione di Maria Chiara Starace

Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0

domenica 10 maggio 2015

La battaglia alle Nazioni Unite per ‘far vergognare’ Israele per l’abuso di minori







6 maggio 2015

I SOLDATI ISRAELIANI COME I MILITANTI DELL’ISIS? ALL’ONU CI PENSANO SU.
La battaglia alle Nazioni Unite per ‘far vergognare’ Israele per l’abuso di minori

L’attacco a Gaza dello scorso anno aumenta la pressione su Ban Ki-moon per mettere l’esercito israeliano nella medesima lista dello Stato islamico e dei talebani

di Jonathan Cook
Martedì 5 maggio 2015

Gruppi di solidarietà palestinesi si sono attivati sui social media per intensificare la pressione sul segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon per includere Israele per la prima volta su una “lista nera” di gravi violazioni dei diritti dei bambini.
La campagna, che culmina nella presentazione di una petizione on-line all’ufficio di Ban, il 7 maggio, è stata lanciata dopo le indicazioni che Israele sta esercitando enormi pressioni su funzionari delle Nazioni Unite per evitare di essere nominato.
L’ufficio di Ban è tenuto a rendere l’elenco pubblico nelle prossime settimane.
Una fonte delle Nazioni Unite di alto livello, che ha voluto mantenere l’anonimato a causa della natura diplomaticamente sensibile di qualsiasi annuncio, ha detto a Middle East Eye che i principali consiglieri di Ban avevano raccomandato che l’esercito israeliano fosse identificato come un serio violatore dei diritti dei bambini.
Ciò lo metterebbe, per la prima volta, al fianco di gruppi come lo Stato islamico, i talebani e i gruppi affiliati di al-Qaeda, spingendo ulteriormente Israele verso l’isolamento internazionale.
Israele ha trovato sempre meno sostenitori nella comunità internazionale quando ha cercato di impedire le mosse palestinesi sia per conquistare il riconoscimento della sua sovranità alle Nazioni Unite che per essere accettata presso gli organismi internazionali quali il Tribunale penale internazionale dell’Aia. I rapporti con la Casa Bianca hanno recentemente raggiunto un livello basso senza precedenti.
La decisione, ha detto la fonte, era diventata quasi inevitabile dopo i recenti risultati di una inchiesta delle Nazioni Unite sull’ attacco israeliano a Gaza la scorsa estate conosciuto come Operazione Protection Edge, che ha ucciso più di 500 bambini palestinesi e feriti almeno altri 3.300.
L’inchiesta ha concluso che l’esercito israeliano aveva preso di mira sei scuole delle Nazioni Unite dove i civili, tra cui molti bambini, erano rifugiati, anche se gli era stato notificato dei siti e delle coordinate GPS in anticipo.
Ban ha descritto gli attacchi – che hanno ucciso 44 palestinesi e feriti altri 227 – come “una questione di estrema gravità”.
L’uccisione su larga scala e la mutilazione di bambini, e gli attacchi contro le scuole, sono tra i “trigger” per l’inclusione nella lista in un processo di monitoraggio delle Nazioni Unite dei diritti dei minori nei conflitti in tutto il mondo, che hanno introdotto una decina di anni fa.
Intimidazione del personale
Tuttavia, ci sono preoccupazioni in ambito ONU e tra esperti dei diritti dei bambini che, nonostante le prove contro Israele, la pressione politica da Israele e Stati Uniti potrebbe far sì che l’esercito israeliano rimanga fuori dalla lista.
In un segno della preoccupazione di Israele, i suoi funzionari hanno protestato energicamente a febbraio, quando il personale locale delle Nazioni Unite a Gerusalemme aveva dovuto ratificare una raccomandazione al quartier generale delle Nazioni Unite che Israele fosse incluso. All’ultimo minuto, l’incontro è stato annullato.
Uno dei funzionari di Ban privatamente si è lamentato con Ron Prosor, ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, sull’ l’intimidazione del personale dell’agenzia a Gerusalemme, secondo un rapporto sul quotidiano britannico Guardian.
Nonostante l’intervento di Israele, ha detto la fonte delle Nazioni Unite, funzionari dell’agenzia a Gerusalemme e i consulenti di Ban a New York, avevano deciso che le prove contro Israele era irresistibili.
Se Ban avesse ricevuto una tale raccomandazione, le pressioni su di lui sarebbero state intense, ha detto Gerard Horton, un avvocato specializzato nel trattamento di Israele dei bambini. “Una volta che le cose si muovono a New York, diventano altamente politiche”, ha detto a MEE.
“Dopo tutto, gli Stati Uniti pagano una grossa fetta del bilancio delle Nazioni Unite, in modo che i funzionari delle Nazioni Unite non possono permettersi di ignorare i desideri dell’amministrazione. Se i funzionari delle Nazioni Unite vogliono aiutare i bambini in Africa e in Iraq, devono chiedersi se vale la pena di rischiare tutto per una lotta contro Israele.”
Gli attivisti sui social media hanno creato un nuovo gruppo, 4Palkids, per cercare di portare la pressione di base su Ban.
Ariyana Love, una degli organizzatori, ha detto: “La nostra speranza è che, se Israele è messo sulla lista, inizierà un processo di portare sanzioni contro Israele da parte della comunità internazionale”.
La credibilità delle Nazioni Unite in gioco
La fonte delle Nazioni Unite ha detto che sarebbe senza precedenti se Ban ponesse il veto sulla raccomandazione della sua squadra a New York che tratta sui bambini e i conflitti armati, guidata da Leila Zerrougui.
“Il Segretario Generale non ha mai posto il veto su una raccomandazione per l’inclusione in questa lista e sarà difficile per lui farlo ora e mantenere la credibilità delle Nazioni Unite in Medio Oriente”, ha detto la fonte.
Una portavoce a Gerusalemme per l’UNICEF, che conduce il processo di monitoraggio locale, ha riferito tutte le questioni a New York, dicendo che era “confidenziale”.
L’ufficio di Ban ha detto che la relazione sarà pubblicata nel mese di giugno, ma non ha voluto commentare quali paesi dovevano essere elencati o se Israele avesse fatto pressioni al segretario generale.
In via ufficiosa, funzionari delle Nazioni Unite hanno notato che Ban dovrà tener conto del fatto che il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite deve presentare la propria relazione sull’Operazione Protection Edge nei prossimi mesi. Il rapporto dovrebbe essere duramente critico sull’operazione di 50 giorni di Israele e l’elevato numero risultante di vittime civili palestinesi.
Israele viene regolarmente condannato dalle commissioni per i diritti umani delle Nazioni Unite, più di recente in una risoluzione da parte della Commissione sulla condizione della donna. Ma Israele e gli Stati Uniti di solito liquidano tali risultati come partigiani, dato che le commissioni rappresentano i governi nazionali, tra cui gli stati arabi e musulmani.
Un elenco di Israele da Ban – con l’appoggio implicito del Consiglio di Sicurezza, che originariamente ha istituito il monitoraggio dei diritti dei bambini nelle zone di conflitto – porterà molto più peso.
Horton, uno dei fondatori di Military Court Watch, un’organizzazione di monitoraggio sulla detenzione di Israele di bambini palestinesi, ha detto che il malcontento corrente degli stati occidentali con Israele potrebbe dare a Ban la sala diplomatica per punirlo.
“C’è molta rabbia in Europa e negli Stati Uniti verso il governo israeliano, soprattutto dopo che [il primo ministro israeliano] Benjamin Netanyahu ha dichiarato pubblicamente durante la recente campagna elettorale che non avrebbe permesso la creazione di uno stato palestinese”, ha detto.
“Il posizionamento di Israele nella lista potrebbe essere un modo di inviare un colpo attraverso gli inchini. Sarebbe un grande imbarazzo per Israele, ma richiamerebbe molto meno sangue rispetto al veto degli Stati Uniti su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza contro, per esempio, gli insediamenti di Israele. “
‘Lista della vergogna’
Dal 2005, le agenzie delle Nazioni Unite sono state incaricate di monitorare 23 conflitti, compreso quello tra Israele e i palestinesi, sulle gravi violazioni dei diritti dei bambini.
Sei gravi violazioni sono state identificate che qualificano una parte di un conflitto per l’inclusione nella lista. Esse sono: uccidere e mutilare i bambini, rapimenti, attacchi sessuali, attacchi contro scuole e ospedali, la negazione dell’ accesso umanitario, e il reclutamento di bambini come soldati.
L’ufficio del Segretario generale delle Nazioni Unite pubblica relazioni annuali dettagliate in tutti i conflitti, mettendo in evidenza le gravi violazioni dei diritti dei bambini. Tuttavia, l’esercito israeliano ha finora evitato l’inclusione in un allegato che è giunto ad essere conosciuto come la “lista della vergogna”.
Nella relazione dello scorso anno, 52 partiti sono stati nominati per le violazioni più gravi contro i bambini in stati come Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Myanmar, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Siria e Yemen. Sono state incluse diverse forze armate governative.
Anche se l’esercito israeliano non è stato identificato in tale relazione come uno dei più gravi abusanti, è stato criticato per le violazioni contro i bambini palestinesi che hanno incluso: le azioni che hanno portato a morti e feriti; arresti notturni; trattamento crudele e degradante durante gli interrogatori; minacce di violenza sessuale; trasferimenti alle prigioni israeliane, in violazione della Convenzione di Ginevra; attacchi contro la scuola; e il rifiuto per i pazienti di Gaza del trattamento ospedaliero richiesto.
Human Rights Watch, un osservatorio di New York, ha notato che l’inclusione nella lista si è rivelata vincente per frenare peggiori violazioni dei diritti dei bambini da parte degli Stati.
“La ‘lista della vergogna’ è stato uno strumento straordinariamente efficace per ottenere che i governi migliorassero i record per i diritti dei loro bambini,” Beda Sheppard, vice direttore della divisione dei diritti dei bambini di HRW, ha osservato all’inizio di quest’anno.
Issam Yunis, direttore di Al-Mezan, un gruppo per i diritti umani a Gaza, ha detto a MEE che listare Israele era di vitale importanza per aumentare le protezioni per i palestinesi sotto occupazione.
“Al momento, Israele è del tutto irresponsabile, soprattutto a Gaza, dove ha una luce verde per fare quello che gli piace. Gaza è una società di bambini [ i numeri mostrano che il 44 per cento della popolazione è sotto i 14 anni], quindi è inevitabile che paghino il prezzo più pesante per l’impunità di Israele. “
Incontro passo avanti
Nel caso di Israele e nei territori palestinesi occupati, le violazioni sono state documentate e monitorate dal 2007 da un gruppo di lavoro guidato dall’ Agenzia Onu per l’infanzia, l’UNICEF. Il gruppo comprende altre importanti agenzie delle Nazioni Unite, organizzazioni umanitarie internazionali e organizzazioni israeliane e palestinesi per i diritti umani.
Fino a quest’anno, esperti di diritti dei bambini palestinesi hanno osservato, Israele non solo era stato escluso dalla lista definitiva pubblicizzata dall’ufficio del Segretario generale delle Nazioni Unite, ma non era ancora stato discusso per l’inclusione.
“Quest’anno, c’è stata una svolta, in quanto il report locale comprendeva una proposta per la prima volta di valutare se Israele dovrebbe essere sulla lista”, ha detto Abed Ayed Eqtaish, un avvocato per il ramo palestinese di Defence for Children International.
Ha detto che era per questo che Israele aveva cercato di impedire la riunione di febbraio.
Ha poi aggiunto: “Le cose sono notevolmente sempre più difficili per Israele. La pressione cresce di anno in anno.”
Il Consiglio delle organizzazioni palestinesi per i diritti umani con sede a Gerusalemme, una coalizione di 12 gruppi palestinesi, ha inviato una lettera a Ban nel febbraio chiedendogli di essere “imparziale” e includere Israele nella lista.
Hanno scritto: “le ripetute offensive militari israeliane, la prolungata occupazione militare e la violenza militare ricorrente in combinazione con il completo disprezzo per il diritto internazionale ha ostacolato gli sforzi significativi verso l’attuazione di protezioni complete per i bambini che vivono [sotto l’occupazione].”
L’iscrizione nell’elenco si aggiungerebbe in modo significativo alla critica crescente della condotta di Israele durante l’Operazione Protection Edge dello scorso anno . Rapporti da gruppi per i diritti umani hanno già accusato Israele di compiere crimini di guerra.
Testimonianze dei soldati
Questa settimana, un gruppo di ex soldati israeliani, Breaking the Silence, ha pubblicato le testimonianze di soldati che hanno servito a Gaza. Molti hanno detto di aver ricevuto ordini simili dai loro comandanti: di sparare ai palestinesi in tutte le zone di combattimento , armati o no, in aree che Israele considerava.
Un sergente è stato citato dicendo: “Le istruzioni sono di sparare subito. Chiunque sia – armato o disarmato, non importa. Le istruzioni sono molto chiare. Qualsiasi persona che incontri, che vedi con gli occhi – spara per uccidere. Si tratta di una istruzione esplicita. “
Breaking the Silence ha concluso che Israele era “nel migliore dei casi indifferente alle vittime tra la popolazione palestinese”.
Anche se le critiche nelle Nazioni Unite ad Israele si sono concentrate sulla uccisione e la mutilazione di bambini nell’attacco dello scorso anno a Gaza, Yunis di Al-Mezan ha detto che Israele avrebbe dovuto essere indicato molto prima, per la grave violazione del “negare l’accesso umanitario”.
“L’assedio di Gaza è andato avanti per quasi un decennio e soddisfa i criteri di una grave violazione”, ha detto. “Se Israele è elencato quest’anno, è importante che vi rimanga fino alla fine di tali violazioni.”

mercoledì 29 aprile 2015

I bombardamenti americani in Siria distruggono il paese e rafforzano l'IS


http://www.activistpost.com/2015/04/al-qaedas-air-force-united-states-and.html

It was evident early on that the US bombing of alleged ISIS targets inside Syria was, in reality, an attempt to support the terrorist organization backed by NATO and the US as opposed to an attempt to defeat it. While such a suggestion has been repeatedly labeled as a “conspiracy theory” by the mainstream media and other gatekeepers in the “independent” media, the fruits of America’s labor in terms of the bombing campaign cannot be ignored. Likewise, neither can the world ignore the results of Saudi Arabia’s bombing of Yemen.

The truth is that the United States, NATO, and the GCC/Arab League are bombing in couched support of ISIS, increasing its gains and hold on power with every sortie fired. With this fact recognized, the NATO/GCC network of national governments can now officially be labeled as the Air Force of Al-Qaeda.

For instance, while the secular government of Bashar al-Assad remained the only force inside Syria actually fighting al-Qaeda and ISIS – terrorist organizations trained, funded, armed, and deployed by the United States, NATO, and the GCC – the brutality of these death squads was used by the Western propaganda machine to justify a bombing campaign that was actually directed at Syrian military and civilian infrastructure.

These strikes were launched against Syrian oil refineries (see here also), bridges, civilian neighborhoods, warehouses, agricultural centers, and grain silos. Others were made strategically against infrastructure that was set to soon be taken back by the Syrian military after long-fought battles with the terrorists.

Likewise, the US bombing campaign in Iraq has had much more to do with protecting Western-owned oil fields and death squad herding than eliminating ISIS. In fact, Iraqi armed forces and government officials have repeatedly revealed that the US military has actually been supplying ISIS during the entire course of the bombing.
Yet while the Western mainstream press has attempted to paint the Iraqi claims of American assistance to ISIS as “conspiracy theories” and the manifestation of jealousy, that same press has been forced to admit that the bombing campaign has resulted in a stronger ISIS presence in Iraq and Syria and that the terrorist group has become stronger in terms of strategic location and military presence.

As the Daily Beast reported in January of 2015,

American jets are pounding Syria. But ISIS is taking key terrain—and putting more and more people under its black banners.

ISIS continues to gain substantial ground in Syria, despite nearly 800 airstrikes in the American-led campaign to break its grip there.

At least one-third of the country’s territory is now under ISIS influence, with recent gains in rural areas that can serve as a conduit to major cities that the so-called Islamic State hopes to eventually claim as part of its caliphate. Meanwhile, the Islamic extremist group does not appear to have suffered any major ground losses since the strikes began. The result is a net ground gain for ISIS, according to information compiled by two groups with on-the-ground sources.

In Syria, ISIS “has not any lost any key terrain,” Jennifer Cafarella, a fellow at the Washington, D.C.-based Institute for the Study of War who studies the Syrian conflict, explained to The Daily Beast.

Even U.S. military officials privately conceded to The Daily Beast that ISIS has gained ground in some areas, even as the Pentagon claims its seized territory elsewhere, largely around the northern city of Kobani. That’s been the focus of the U.S.-led campaign, and ISIS has not been able to take the town, despite its best efforts.

The report continued by pointing out that the ISIS gains were not only in terms of land mass but also in terms of “control of people,” meaning populated areas and strategic locations. It reads,

“Assessing the map, ISIS has almost doubled its territorial control in Syria. But more importantly, the number of people who now live under ISIS control has also increased substantially,” CDS political adviser Mouaz Moustafa said.

With the fall of that much territory into ISIS hands, Syrians who once lived in ungoverned or rebel held areas are now under ISIS’s grip. Of course, in an irregular war like this one, control of people is far more important than control of territory. In that regard, too, things appear to be going in the wrong direction.


Since the U.S. campaign began in August, “there are little buds of ISIS control in eastern Homs, al Qalamoun [which borders northern Lebanon], and southern Damascus that do appear to be growing because of that freedom of operation that can connect those western cells to key ISIS terrains in Raqqa and Deir ez Zour” in northern and eastern Syria.

While the United States and NATO act as al-Qaeda’s Air Force in Iraq and Syria, Saudi Arabia and the Arab League fulfill the same role in Yemen. In addition to bombing the Houthi rebels in a bid to retain ousted President Hadi in power and to prevent the possibility of greater Iranian influence in the region, the Saudis have also provided direct air support for extremists and al-Qaeda jihadis who are currently on the ground in Yemen, themselves taking control of swaths of territory.

For instance, in an interview with NPR, Leila Fadel stated:

Well, al-Qaeda has been growing in Yemen for a while. But it seems to be accelerating in the midst of this bombing campaign. And it [al Qaeda] is not a focus of the Saudi-led airstrikes right now.



But critics say that actually Saudi’s war is feeding al-Qaeda. One western diplomat says al-Qaeda’s actually growing like a weed right now. And a spokesman for al-Qaeda inside Yemen says they’re really happy with the airstrikes because it’s weakening their enemies, who are the Houthis and the Yemeni army.

In other words, the Saudi airstrikes are enabling al-Qaeda’s influence and territorial gains to spread across the country.

This, of course, should come as no surprise to any informed observer. Saudi Arabia has long been recognized as the largest supporter of terror worldwide, only attempting to slightly veil its support for terrorist organizations like ISIS, al-Qaeda, and Chechen rebels. That support for terror and terrorism comes with the obvious blessing of the United States, Israel, and NATO since that terror is directed at target countries abroad and a dissatisfied but compliant target population at home.

The fact is that al-Qaeda, IS, and the other related terrorist organizations function as the CIA’s Arab legion. They are used to weaken and overthrow governments as well as to act as a constant bogeyman for populations back home so that civil liberties and Constitutional rights will be sacrificed willingly for the perception of security.

If the American people will wise up to this fact, one of the major tools used by the world oligarchy to terrorize the domestic population and the rest of the world will be yanked from their hands.

lunedì 20 aprile 2015

La complicità dell’Acea nello sfruttamento del lavoro minorile palestinese nelle colonie israeliane



Comunicato del Comitato No all'Accordo Acea-Mekorot. Steph

http://bdsitalia.org/index.php/comunicati-nomekorot/1735-acea-hrw

La complicità dell’Acea nello sfruttamento del lavoro minorile palestinese nelle colonie israeliane

L’organizzazione internazionale per i diritti umani Human Rights Watch (HRW) ha pubblicato un nuovo rapporto sul lavoro minorile palestinese nelle colonie israeliane in Cisgiordania. Nel rapporto, Ripe for Abuse (Maturi per gli Abusi), HRW documenta casi di minori palestinesi, anche di 11 anni, che lavorano in condizioni vietate dal diritto internazionale.

I minori palestinesi lavorano in genere 8 ore al giorno per 6-7 giorni alla settimana, per una paga che in media è meno della metà della paga minima obbligatoria per la legge israeliana. Trattano pesticidi e sostanze chimiche di cui, sempre per la legge israeliana, è vietato l’uso da parte di minori e che sono del tutto vietate nell’UE perché dannose per la salute. Portano carichi pesanti, utilizzano macchine pericolose e lavorano a temperature molte alte nelle serre. Non hanno l’assicurazione sanitaria e sono costretti a pagare autonomamente le spese mediche per infortuni e malattie contratte sul lavoro.

I minori intervistati lavorano nella Valle del Giordano, dove vivono circa 80.000 palestinesi e 9.500 coloni israeliani. Il 94% delle terre sono vietate ai palestinesi mentre Israele ha assegnato l’86% dell’area alle colonie e alle loro piantagioni. La società idrica nazionale israeliana Mekorot fornisce il 70% del fabbisogno di acqua delle colonie nella Valle del Giordano, sottraendola illegalmente dalle falde idriche sotterranee alla valle. L’altro 30% viene dal fiume Giordano, al quale i palestinesi non possono accedere.

Il mancato accesso alle terre e all’acqua fa sì che il tasso di povertà tra i palestinesi nell’area sia il più alto in tutta la Cisgiordania. Infatti, la stragrande maggioranza dei bambini intervistati ha affermato di aver abbandonato la scuola per aiutare le proprie famiglie, come confermano anche insegnanti e direttori scolastici.

Ed è proprio con la Mekorot che l’Acea ha firmato un accordo di cooperazione nel dicembre del 2013. Tale accordo aveva già reso l’Acea complice delle violazioni del diritto internazionale da parte di Mekorot, che, oltre a sottrarre illegalmente l’acqua alle falde palestinesi e fornirla alle colonie illegali israeliane, riduce sistematicamente il rifornimento di acqua alle comunità palestinesi e partecipa alla distruzione delle infrastrutture idriche palestinesi.

Il Comitato No all’Accordo Acea-Mekorotha ripetutamente chiesto un incontro con il Sindaco Marino, al quale è stato inviato un dossier sulle complicità di Mekorot con il regime israeliano di occupazione, ma non ha mai ricevuto una risposta.

Ora si aggiunge anche il ruolo della Mekorot nel favorire lo sfruttamento del lavoro minorile palestinese.

Cosa altro ci vuole affinché il Comune di Roma, azionista di maggioranza, e l’Acea prendano misure per assicurare che l’accordo non abbia un seguito in modo da evitare complicità con le violazione dei diritti?

Il Comitato fa di nuovo appello a tutti gli enti locali il cui servizio idrico è affidato a società partecipate da Acea affinché si attivino per far ritirare l’accordo.

Comitato No all’Accordo Acea Mekorot
fuorimekorotdallacea@gmail.com
bdsitalia.org/no-mekorot

Il rapporto e il video di Human Rights Watch:

"Maturi per gli abusi: il lavoro minorile palestinese nelle colonie agricole israeliane in Cisgiordania"
http://www.hrw.org/sites/default/files/reports/isrpal0415_forUPload_2.pdf
https://www.youtube.com/watch?v=DlIexEA3I6Q

sabato 18 aprile 2015

Scontri tra palestinesi vicino a Damasco



Scontri tra palestinesi vicino a Damasco

http://www.voltairenet.org/article187349.html


Mercoledì 1 aprile 2015, nel campo profughi palestinese di Yarmuk, nella periferia di Damasco, si è tenuta una cerimonia organizzata dal ministero siriano della Riconciliazione.

Tuttavia, il campo è stato attaccato da elementi armati provenienti dal vicino villaggio Hajar el-Aswad, alleati ad alcuni ex militanti di Hamas, che inizialmente raggiunsero il Fronte al-Nusra (al-Qaïda) e che oggi fanno parte dell’Emirato islamico (Daesh).

Per varie ore, degli scontri violenti hanno opposto l’Emirato islamico a diverse milizie palestinesi, tra cui alcuni ex compagni di Hamas. A fine serata, gli jihadisti controllavano gran parte del campo. Ma durante la notte, l’Esercito Arabo Siriano ha spiegato dei rinforzi in favore delle milizie palestinesi, obbligando così gli jihadisti di Daesh ad abbandonare completamente il campo.

In Siria, il campo "Yarmuk" e il campo "Palestina", non sono solo dei campi profughi con tende o delle baraccopoli, come negli altri vicini Stati arabi. In realtà sono delle vere e proprie città, costruite secondo le regole siriane. Tradizionalmente vengono amministrati dalla Repubblica araba di Siria, in collaborazione con alcuni partiti politici palestinesi.

Verso la fine del 2012, alcuni miliziani di Hamas, fedeli a Khaled Mechaal, hanno fatto infiltrare nel campo degli jihadisti di Fronte al-Nusra (al- Qaïda) e degli ufficiali del Mossad, nel tentativo di assassinare i leader del Fatah e del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP) [1]. La Repubblica araba di Siria ha mandato immediatamente 160 000 SMS ai profughi, invitandoli a fuggire. Tra questi, 120 000 profughi sono stati rialloggiati in scuole ed hotel della capitale in 48 ore. L’Esercito Arabo Siriano, così, ha dato l’assalto al campo con il sostegno dell’Autorità palestinese. In definitiva, visti gli scontri terribili e l’assedio subito, un accordo politico ha portato ad un "congelamento" della situazione del campo, dove si trovavano ancora 18 000 persone. La cerimonia di ieri, avrebbe dovuto segnare la riconciliazione tra la Repubblica araba di Siria, l’FPLP ed il Fatah da una parte, e dall’altra, un certo ramo di Hamas e alcuni elementi del Fronte al-Nusra.

Da un paio d’anni, alcuni gruppi palestinesi opposti alla Repubblica araba di Siria, attaccano tutti i convogli di approvvigionamento alimentare che entrano nel campo, confiscano la merce e la rivendono 3.5 volte il suo prezzo agli abitanti del campo. La popolazione per alimentarsi, è costretta quindi a diventare membro di questi gruppi che, in cambio, gli versano un salario in dollari.

La stampa del Golfo ha lanciato una campagna di propaganda che accusa l’Esercito Arabo Siriano di bombardare e lasciar morire di fame i palestinesi, emulando le azioni di Israele nella Striscia di Gaza.

Tuttavia, la Siria è l’unico Stato arabo ad offrire l’uguaglianza giuridica assoluta ai palestinesi e l’accesso gratuito alle scuole, alle università e a tutti i servizi sociali. Numerosi generali dell’Esercito Arabo Siriano sono palestinesi.

Traduzione
Federico Vasapolli

mercoledì 8 aprile 2015

Internazionale «Yarmouk, modello del conflitto regionale, paga lo scotto della guerra ad Assad»


il manifesto - quotidiano comunista

Edizione del 8 aprile 2015



—  Chiara Cruciati, 7.4.2015

Siria. Intervista all'analista palestinese Nassar Ibrahim: nel campo di Damasco presenti tutti gli attori del conflitto siriano. Secondo l'Olp, i combattenti palestinesi hanno riconquistato parte del campo profughi



Deca­pi­ta­zioni, assenza di cibo e medi­ci­nali, colpi di arti­glie­ria con­tro le case e cec­chini che mirano a chiun­que provi a uscire o entrare nel campo. Yar­mouk, la “capi­tale” dei rifu­giati pale­sti­nesi, il sim­bolo della dia­spora e dell’agognato diritto al ritorno, vive l’ennesimo capi­tolo della sua per­so­nale tragedia.

A com­bat­tere den­tro Yar­mouk sono i gruppi pale­sti­nesi, nell’estremo ten­ta­tivo di difen­dere quel poco di nor­ma­lità che il campo ha sem­pre rap­pre­sen­tato fino allo scop­pio della guerra civile siriana. Ma i resi­denti sono allo stremo, senza cibo, acqua né medi­ci­nali, fa sapere l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifu­giati palestinesi.

Secondo Anwar Abdel-Hadi, respon­sa­bile dell’Olp in Siria, «lo Stato Isla­mico [entrato defi­ni­ti­va­mente a Yar­mouk una set­ti­mana fa, ndr] con­trolla ora il 60% di Yar­mouk, dopo aver preso il 90% ma essere stato poi respinto dai gruppi armati da alcuni quar­tieri del campo». Ancora sono in corso gli scon­tri tra le vie strette del campo pro­fu­ghi, scon­tri a cui prende parte l’artiglieria del governo di Dama­sco, inten­zio­nato a non per­met­tere agli isla­mi­sti di avvi­ci­narsi ulte­rior­mente al cuore della capitale.

«Yar­mouk il più grande campo pro­fu­ghi pale­sti­nese al mondo e base per decenni della lea­der­ship pale­sti­nese in esi­lio, è modello della guerra civile siriana ma anche del più ampio con­flitto che oggi scuote la regione – spiega al mani­fe­sto l’analista pale­sti­nese Nas­sar Ibra­him – Den­tro Yar­mouk sono pre­senti, diret­ta­mente e indi­ret­ta­mente, tutti gli attori locali, regio­nali e inter­na­zio­nali che da quat­tro anni ten­tano di deci­dere le sorti di Dama­sco, facendo col­las­sare il governo del pre­si­dente Bashar al-Assad. Ci sono i gruppi isla­mi­sti creati e finan­ziati dal Golfo e dalla Tur­chia; ci sono le oppo­si­zioni mode­rate, stru­mento occi­den­tale; ci sono i gruppi pro-Assad, c’è l’esercito gover­na­tivo; c’è il calif­fato di al-Baghdadi».

Den­tro Yar­mouk sono in tanti a com­bat­tere, ma a pagarne le spese è quel che rimane della popo­la­zione del campo, che prima oscil­lava tra le 150mila e le 180mila per­sone, per lo più rifu­giati pale­sti­nesi, ma anche siriani poveri impos­si­bi­li­tati a vivere nella capi­tale. Dif­fi­cile dare un bilan­cio esatto delle vit­time: la stampa parla di 40 morti dallo scorso mer­co­ledì, quando l’Isis ha fatto irru­zione nel campo; fonti medi­che di quasi 200.

I gruppi pre­senti coprono l’intero spet­tro del con­flitto: due gruppi pale­sti­nesi pro-Assad, il Fronte Popo­lare per la Libe­ra­zione della Pale­stina – Gene­ral Com­mand e Fatah al Inti­fada, vicino ad Hez­bol­lah; i qae­di­sti di al-Nusra, i siriani isla­mi­sti di Ahrar al-Sham, i siriani mode­rati dell’Esercito Libero, oppo­si­zione a Dama­sco; e i gruppi pale­sti­nesi Aknaf Beit al-Maqdis (orga­niz­zati da Hamas) e i fuo­riu­sciti del Pflp, al-Uhda al-Umariya.

«Nel 2011 il governo di Dama­sco ha ten­tato di lasciare fuori i pro­fu­ghi pale­sti­nesi dal con­flitto. Vi sono stati tra­sci­nati dalla deci­sione di Hamas di abban­do­nare l’ex alleato siriano, per schie­rarsi con l’asse di oppo­si­zione – con­ti­nua Ibra­him – Fino al 2012 il capo di Hamas, Kha­led Meshaal, aveva la sua base a Yar­mouk. Que­sta rot­tura ha por­tato i gruppi pale­sti­nesi vicini ad Hamas a schie­rarsi con i ribelli siriani: Yar­mouk è finita nel cuore del conflitto».

«Oggi Yar­mouk è il terzo fronte aperto in que­ste set­ti­mane dalle oppo­si­zioni interne e dai nemici esterni con­tro il governo Assad, a seguito delle vit­to­rie segnate dall’asse sciita in Yemen (dove l’Arabia Sau­dita non rie­sce a fre­nare l’avanzata Hou­thi) e in Iraq (dove i pasda­ran ira­niani hanno libe­rato Tikrit). Il primo fronte è al con­fine con la Gior­da­nia: una set­ti­mana fa al-Nusra ha preso il prin­ci­pale valico con il regno hashe­mita, Nasib. Il secondo fronte è a nord, a Idlib, occu­pata dai qae­di­sti. E il terzo è Yar­mouk, che dopo le bat­ta­glie per il con­trollo delle regioni set­ten­trio­nali, da Aleppo a Raqqa, e quelle meri­dio­nali al con­fine con il Golan, ha fatto tor­nare cen­trale Damasco.Yarmouk è oggi fon­da­men­tale per­ché a pochi km dal cuore del governo Assad, per­ché modello del più ampio con­flitto a livello nazio­nale e regio­nale e, infine, per­ché rap­pre­senta la que­stione pale­sti­nese e i ten­ta­tivi di stru­men­ta­liz­za­zione da parte di tutti gli attori coinvolti».

Chi paga le spese delle tante guerre per pro­cura medio­rien­tali è la popo­la­zione civile. Lunedì il Con­si­glio di Sicu­rezza dell’Onu ha chie­sto la crea­zione di un accesso uma­ni­ta­rio al campo per garan­tire la pro­te­zione dei civili e la loro eva­cua­zione. Ma la situa­zione, dice Pierre Kra­hen­buhl, capo dell’agenzia Onu Unrwa, «è più dispe­rata che mai». Alle bombe gover­na­tive che pio­vono sul campo, nel ten­ta­tivo di col­pire le posta­zioni dell’Isis, si aggiun­gono le atro­cità dello Stato Isla­mico: almeno nove com­bat­tenti pale­sti­nesi sareb­bero stati uccisi, due di loro decapitati.

Così il numero di resi­denti di Yar­mouk con­ti­nua ad assot­ti­gliarsi: 18mila dopo lo scop­pio della guerra civile, il 10% della popo­la­zione totale; 15-16mila oggi, dopo la fuga dispe­rata dalle bar­ba­rie dell’Isis di altri 2mila rifu­giati che in qual­che modo sono riu­sciti a rom­pere l’assedio e a darsi alla fuga.

giovedì 19 marzo 2015

"Macerie" recensione di Patrizia Cecconi

Recensione di “Macerie”, di Miriam Marino, ed. Città del Sole, 2014 Macerie.

Un romanzo doloroso e bello che riporta su carta la realtà palestinese. Un titolo pesante, proprio come le macerie di vite, di sentimenti, di diritti, di felicità e di bellezze violate che accompagnano quasi ogni pagina di questa storia dolorosa e bella. Una storia che ha per protagonista Tivka, adolescente israeliana che scopre di essere figlia di una donna palestinese. Inizia da questa scoperta sconcertante un percorso verso la verità fatto di decostruzioni e ricostruzioni che accompagnano la sua crescita fino a una consapevolezza che le renderà impossibile il ritorno nella famiglia israeliana di suo padre. Macerie che si sostituiscono alle certezze e che provocano disorientamento e dolore, ma anche entusiasmo e coraggio. Quel coraggio che è proprio dell’adolescenza, e che porta Tivka a riconoscersi con altri adolescenti che sanno lottare duramente come adulti, ma che sanno anche innamorarsi teneramente, nonostante il dolore che li avvolge. Come sempre nei suoi lavori letterari, Miriam afferra la realtà e la trasforma in una finzione narrativa che rende i personaggi - altrimenti schiacciati nel grigiore della cronaca - vivi nelle loro emozioni e capaci di coinvolgere il lettore fino a farlo soffrire d’indignazione o sorridere di tenerezza davanti alle espressioni di questa adolescenza che a dispetto di tutto ama la vita. Il volume si apre con l’agonia di un geco afferrato da una gatta. Un’agonia prolungata dalla pietà della protagonista, ancora bambina, che cerca di salvarlo. E’ casuale? O è forse una chiave di lettura? Certo, sapendo l’amore dell’autrice per gli animali e in particolare per gatti, resi addirittura protagonisti di alcuni suoi racconti struggenti, la domanda è pertinente, ma l’autrice non dà chiavi interpretative nello svolgersi del romanzo e quello del geco sembra soltanto un episodio che segnala la sensibilità di Tivka davanti al dolore dell’ altro. La stessa sensibilità che le farà fare una precisa scelta di campo, dapprima insieme al suo amico israeliano che si batte contro l’occupazione, poi del tutto interna alla società palestinese, reale vittima dello strapotere israeliano che nella famiglia paterna veniva esaltato come patriottismo. Il romanzo s’intreccia con circa dieci anni di eventi, segnati, quando più quando meno, dai drammi vissuti dal popolo palestinese e va a concludersi col massacro di Jenin del 2002. Anni che vedono nella vita privata di Tivka il fiorire di amicizie profonde e di inaspettati grandi amori e lo spegnersi di vite giovani e giovanissime per mano israeliana o per la disperazione di un dolore che non lascia scampo. Un romanzo doloroso e bello, fatto di storia vera, terribilmente amara, e di sentimenti delicati eppure forti come le piantine che i detenuti del carcere di Ansar 3, nel deserto, riescono incredibilmente a far crescere tra torture e privazioni imposte dai carcerieri israeliani. E come quelle piantine che sfidano il deserto e i carcerieri, riuscendo a crescere contro ogni perfida legge umana, così il romanzo si chiude con un’aspettativa di speranza nell’attesa che Jamal, il solo volto che ormai riesce a illuminare l’animo di Tivka, veda aprirsi le porte della prigione in cui è rinchiuso senz’altro motivo che quello di essere un palestinese che vuole la Palestina libera. Patrizia Cecconi – Marzo 2015 patriziacecconi2@gmail.com

giovedì 12 marzo 2015

L’Ucraina e la NATO-USA Connection


*
6 Marzo 2015

di *Antonio Mazzeo*

*Intervento all’incontro-dibattito “USA – NATO – Unione Europea: La
crisi ucraina e la ricostruzione del movimento contro la guerra”, Roma,
6 marzo 2015*

Per sostenere e “difendere” il regime fascista di Kiev,
l’amministrazione Obama e il complesso militare-finanziario-industriale
degli Stati Uniti d’America sono pronti a utilizzare i più micidiali
strumenti di guerra. A metà febbraio, Washington ha ribadito le proprie
intenzioni belliche di fronte ai partner europei e alla Russia di Putin,
rischierando a Spangdahlem (Germania) dodici aerei da attacco al suolo
A-10 Thunderbolt II e 300 aviatori del 355th Fighter Wing dell’US Air
Force, provenienti dalla base aerea di Davis-Monthan (Arizona). I
sofisticati velivoli hanno disseminato morte e distruzione in
Afghanistan, Iraq e Libia: sono armati con cannoni lunghi più di sei
metri, i GAU-8/ “Avenger” (vendicatori), in grado di sparare fino a
4.200 colpi al minuto. I proiettili di 30 centimetri contengono ognuno
300 grammi di uranio impoverito e riescono a perforare facilmente
blindati e carri armati. “I Thunderbolt opereranno per i prossimi sei
mesi congiuntamente ad altri velivoli da guerra della Nato
principalmente lungo le frontiere di Russia, Lituania, Estonia, Romania
e Bulgaria, ma potranno essere impiegati in caso di crisi anche nel
continente africano”, ha dichiarato il Dipartimento della difesa Usa.

Il trasferimento in Europa degli A-10 dell’US Air Force è stato deciso
nel quadro della cosiddetta “Operation Atlantic Resolve”, la missione
militare avviata dal Pentagono dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina,
e rientra nel Theater Security Package (TSP), il piano di sicurezza e di
“difesa attiva” che prevede la predisposizione di reparti di pronto
intervento nelle aree del pianeta ritenute “sensibili”. “Atlantic
Resolve è un’ulteriore dimostrazione della volontà degli Stati Uniti di
contribuire alla scurezza collettiva della Nato e supportare i nostri
partner in Europa orientale, alla luce dell’odierno intervento russo in
Ucraina”, ha riferito il generale Ben Hodges, comandante dell’Esercito
americano in Europa (USAREUR, US Army Europe).

Il piano statunitense di rafforzamento della propria presenza militare
in funzione anti-Russia prevede pure che ad aprile un imprecisato numero
di cacciabombardieri F-15C “Eagles” siano trasferiti dagli Stati Uniti
in alcune basi europee, sino ad oggi top secret. Sempre nel quadro
dell’operazione “Atlantic Resolve”, lo scorso mese di gennaio 75
velivoli da combattimento “Stryker” del 2° Reggimento di Cavalleria di
US Army sono stati schierati in alcuni paesi dell’est Europa per
partecipare a una serie di esercitazioni con le forze terrestri dei
partner Nato. Contemporaneamente, un centinaio di militari della IV
Divisione di Fanteria dell’esercito Usa di stanza a Fort Carson
(Colorado) sono giunti in Germania per coordinare in ambito alleato le
operazioni terrestri di “contenimento” della Russia sul fronte
orientale. A partire dal mese di marzo, oltre 3.000 militari del 1st
Heavy Brigade Combat Team, della 3rd Combat Aviation Brigade, della
Divisione d’artiglieria e della 3rd Infantry Division saranno distaccati
per non meno di tre mesi in Germania, Estonia, Lettonia, Lituania,
Polonia, Romania e Bulgaria. “Grazie a queste unità, il numero delle
esercitazioni con i nostri alleati nel quadro di Atlantic Resolve
aumenterà del 60% nel 2015”, ha spiegato il generale Tom Jones,
vicecomandante dell’US Air Force in Europa.

Nel 2014, il personale Usa assegnato alle basi dell’Europa orientale è
cresciuto di 3.000 unità, sommandosi così ai circa 67.000 militari già
presenti nel continente. In particolare, più di 400 tra militari e
dipendenti civili statunitensi sono giunti nella base di Mihail
Kogalniceanu, Romania, elevata a vero e proprio hub aereo per il
transito delle forze aeree Usa e Nato. Sempre in Romania si alternano
200 Marines Usa per partecipare ad esercitazioni e interventi marittimi
nel Mar Nero, nell’ambito della Black Sea Rotational Force 14 di US
Navy, attivata nel settembre 2014. Sei caccia F-15C e 150 avieri dell’US
Air Force sono stati trasferiti nel marzo 2014 in Lituania dalla base
britannica di Lakenheath per partecipare alla Baltic Air Patrol, la
missione Nato di pattugliamento e sorveglianza dello spazio aereo delle
Repubbliche baltiche e dell’Ucraina. Team dell’aeronautica statunitense
si addestrano a rotazione in Polonia dove dal novembre 2012 è attivo un
piccolo distaccamento aereo, la prima presenza in pianta stabile di
personale Usa in territorio polacco. Sempre in questo paese sono
periodicamente rischiarati i cacciabombardieri F-16 a capacità nucleare
provenienti dalla base Italiana di Aviano (Pordenone) e i velivoli cargo
C-130 “Hercules” impiegati in esercitazioni congiunte con le forze
armate polacche. Dal prossimo mese di aprile, altri tre velivoli C-130 e
un centinaio di avieri provenienti dalla grande base tedesca di Ramstein
giungeranno nello scalo aereo di Powidz. Il 24 luglio 2014, il
Comandante supremo delle forze Nato e Usa in Europa, generale Philip
Breedlove, ha chiesto al Pentagono di realizzare in Polonia un deposito
dove stoccare armi, munizioni ed equipaggiamenti militari “per
supportare il rapido dislocamento di migliaia di militari contro la
Russia”. Come se non bastasse, il governo polacco ha formalmente chiesto
a Washington di trasferire stabilmente in Polonia perlomeno un gruppo di
volo con cacciabombardieri F-16 di stanza oggi in Italia.

*L’escalation militare statunitense in Ucraina*

Ovviamente lo scoppio del conflitto in Crimea e nell’Ucraina orientale è
stato utilizzato pretestuosamente da Washington per rafforzare la
propria presenza militare nel martoriato paese europeo. L’escalation è
stata rapida ed inarrestabile: prima sono giunti “consiglieri” e
contractor, poi i parà, le forze speciali e i mezzi corazzati. Nel
giugno 2014, un gruppo di ufficiali Usa sono stati inviati a Kiev per
collaborare con le forze armate locali nella realizzazione “a medio e
lungo termine” della “riforma del sistema difensivo ucraino”. Qualche
mese dopo, gli uomini di vertice del Pentagono si sono incontrati con i
generali ucraini per discutere “le modalità con cui gli Stati Uniti
possono rafforzare la cooperazione militare e aiutare l’Ucraina a
potenziare le proprie forze armate”, come riportato dal Dipartimento
della difesa. Poi, a settembre, duecento paracadutisti della 173^
Brigata Aviotrasportata dell’esercito Usa di stanza a Vicenza, hanno
raggiunto Yavoriv (nelle vicinanze di Lviv, a 50 km circa dal confine
con la Polonia), per partecipare all’esercitazione multinazionale “Rapid
Trident”, la prima in territorio ucraino dopo la crisi politico-militare
in Crimea, insieme a più di 1.100 militari provenienti da 14 paesi
(Ucraina, Azerbaijan, Bulgaria, Canada, Georgia, Germania, Gran
Bretagna, Lettonia, Lituania, Moldavia, Norvegia, Polonia, Romania e
Spagna). “Nel corso di Rapid Trident sono state eseguite operazioni di
peacekeeping, trasporto mezzi, pattugliamento, individuazione e
disattivazione di materiale esplodente”, ha riferito il portavoce del
Pentagono, colonnello Steve Warren. “L’esercitazione ha contribuito a
promuovere la stabilità e la sicurezza regionale, rafforzare la
partnership con gli alleati e migliorare l’interoperabilità tra il
Comando delle forze Usa in Europa USAREUR, le unità terrestri
dell’Ucraina e gli altri paesi Nato”. Ancora nel grande centro di
addestramento di Yavariv (uno dei più grandi d’Europa, con una
superficie di 425 Km2), tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015, una
squadra di specialisti del “Tobyhanna Army Depot” (Pennsylvania) - il
principale centro logistico del Dipartimento della difesa per la
gestione dei sistemi elettronici - ha addestrato i militari ucraini
all’uso del nuovo sistema radar LCMR (Lightweight Counter Mortar Radar)
AN/TPQ-48/5, in grado di individuare le provenienza dei tiri di
artiglieria, mortai e razzi e indirizzare il tiro di contro-batteria.
Secondo fonti stampa statunitensi, il Pentagono avrebbe fornito alle
forze armate ucraine una ventina di esemplari di questo sistema radar.

Subito dopo la visita ufficiale a Kiev del generale Usa-Nato Phil
Breedlove (26 e 27 novembre 2014), una dozzina di medici dell’Air Force
Special Operations Command Europe (SOCEUR) di Stoccarda hanno raggiunto
Khmelnytskyi, nell’Ucraina occidentale, per formare più di 600
dipendenti del ministero della difesa ucraino alle procedure mediche da
seguire nei campi di battaglia. Il personale di SOCEUR, proveniente
dall’US Army 1st Battalion, dal 10th Special Forces Group, dall’Air
Force 352nd Special Operations Group e dalla Naval Special Warfare Unit
2, collabora oggi anche con l’organizzazione non governativa “Patriot
Defense” che conduce corsi di formazione a favore delle forze armate
ucraine e della famigerata Guardia nazionale. Le unità della Guardia
nazionale, comprendenti non meno di 45-50.000 “volontari”, sono state
costituite dal governo di Kiev nel marzo 2014 con un primo finanziamento
Usa di 19 milioni di dollari e hanno incorporato le formazioni
neonaziste Donbass, Azov, Aidar, Dnepr-1 e Dnepr-2, già addestrate nel
2006 da istruttori Nato in Estonia e poi utilizzate per il colpo di
stato in Ucraina e le pulizie etniche contro le popolazioni di lingua
russa. Il comandante di US Army Europe, gen. Ben Hodges, ha annunciato
che entro la fine del mese di marzo 600 paracadutisti circa della 173^
Brigata di fanteria aviotrasportata di Vicenza saranno inviati al centro
di Yavariv per addestrare tre battaglioni del Ministero dell’Interno.
“Questa nuova missione in Ucraina serve a rimarcare l’impegno Usa per la
sicurezza del Mar Nero”, ha spiegato Hodges. “I nostri paracadutisti
avranno il compito di preparare le forze armate ucraine a difendersi
dall’artiglieria e dai razzi dei Russi e dei ribelli e interverranno
pure nella messa in sicurezza di strade, ponti e infrastrutture”.

Contemporaneamente al potenziamento del dispositivo militare Usa in
Ucraina, sono aumentati a dismisura gli “aiuti militari” e le consegne
di armamenti pesanti al governo di Kiev. Il primo massiccio stanziamento
finanziario risale al marzo 2014 (23 milioni di dollari), con il “piano
di assistenza alla difesa delle frontiere ucraine contro le provocazioni
delle forze armate russe e le violenze fomentate dai ribelli
filo-russi”, come riferito dal Pentagono. Successivamente, Washington ha
approvato ulteriori stanziamenti a favore delle forze armate ucraine per
5 milioni di dollari in giubbotti antiproiettili, visori notturni,
caschi protettivi, dispositivi robot anti-esplosivi, kit sanitari e
equipaggiamenti per le telecomunicazioni. Altre attrezzature “non
letali” (sistemi d’allarme, vestiario, escavatori, camion, generatori
elettrici, apparecchiature radio, ecc.) sono state assegnate invece alla
neo-costituita Guardia statale di protezione delle frontiere.

Secondo quanto rivelato a fine gennaio dal New York Times,
l’amministrazione Obama si prepara a fornire “aiuti militari”
all’Ucraina per più di 3 miliardi di dollari nel triennio 2015-2017: tra
essi spiccherebbero missili anti-tank, lanciamissili anti-blindati,
radar, velivoli a pilotaggio remoto (UAV), contromisure elettroniche
anti UAV, blindati “Humvees”, ecc. Agli ucraini verrebbero fornite
inoltre armi e munizioni prodotte nell’ex Unione Sovietica, attualmente
stoccate in un deposito della CIA in North Carolina. All’estensione del
programma di riarmo hanno collaborato alcuni “assistenti esterni”
dell’amministrazione Obama, come il generale in pensione Michèle
Flournoy e l’(ex) ammiraglio James Stavridis, già Comandante delle forze
armate Usa e Nato in Europa.

*L’Ucraina è sempre più Nato*

Le relazioni politiche-militari tra le autorità di Kiev e gli alti
comandi della Nato si sono fatte sempre più strette a partire del 2002,
anno in cui fu adottato il cosiddetto “Piano di azione Nato-Ucraina” e
l’allora presidente Kuchma annunciò l’intenzione di aderire all’Alleanza
Atlantica. Nel 2005, il presidente “arancione” Yushchenko fu
ufficialmente invitato a partecipare al summit alleato di Bruxelles che
lanciò un “dialogo intensificato” Nato-Ucraina e, tre anni più tardi, il
vertice interalleato di Bucarest si espresse favorevolmente all’ingresso
dell’Ucraina nella Nato. Nel 2009 le autorità ucraine firmarono un
accordo che consentì il transito terrestre nel paese di mezzi e
rifornimenti per le forze Nato in Afghanistan, mentre gli uomini guida
delle forze armate ucraine furono ammessi a partecipare ai corsi del
Nato Defense College a Roma e Oberammergau (Germania). Sempre in vista
dell’integrazione delle forze armate ucraine con quelle Nato, presso
l’Accademia militare di Kiev è stata poi istituita una “facoltà
multinazionale” con docenti Nato. Con lo scoppio del conflitto in
Crimea, il governo ucraino ha deciso di accelerare l’iter di adesione
all’Alleanza atlantica: il 24 dicembre 2014, il Parlamento ha approvato
la proposta di legge del presidente Petro Poroshenko con cui l’Ucraina
rinuncia unilateralmente allo status di Paese non allineato e formalizza
la richiesta di ingresso nella Nato.

Secondo fonti giornalistiche indipendenti, in questi mesi Bruxelles
starebbe inviando in Ucraina carichi di armi, consiglieri militari ed
“esperti in contro-insorgenza” in vista di un attacco in grande scala
che le forze armate e i gruppi paramilitari locali intenderebbero
sferrare in primavera a Donbas. Con le linee strategiche anti-russe
approvate al vertice dei ministri della difesa della Nato tenutosi in
Galles nel settembre 2014, si è deciso di raddoppiare i fondi annuali a
favore dell’Ucraina del cosiddetto NATO Science for Peace and Security
(SPS) Programme, il programma interalleato di cooperazione e formazione
sui temi della “difesa” contro gli agenti chimici, biologici e nucleari
e delle cyber war. Nel corso della sua visita a Kiev il 20 e 21 novembre
2014, il generale Bartels, presidente del Nato Military Committee, ha
reso noto che saranno messi a disposizione dell’Ucraina i NATO Trusts
Funds per coprire finanziariamente le spese per la formazione e
l’assistenza del personale militare nei settori C3 (comando, controllo e
comunicazioni), della logistica, della cyber defence e della
riabilitazione del personale ferito in combattimento. A fine dicembre,
nell’ambito del Defence Education Enhancement Programme (DEEP), un team
di esperti militari Nato provenienti da Canada, Repubblica ceca,
Lituania, Polonia e Stati Uniti ha dato vita a Kiev a una serie di corsi
di formazione finalizzati ad accrescere l’interoperabilità dei reparti e
dei mezzi da guerra ucraini con quelli delle forze armate alleate.

*Una punta di lancia Nato contro Mosca*

Sempre in occasione dell’ultimo vertice dei ministri della Nato in
Galles è stato approvato all’unanimità il piano che modifica le azioni
d’intervento ai confini meridionali e orientali dell’Alleanza e triplica
il numero dei militari assegnati alla Response Force (NRF), la Forza
congiunta di rapido intervento che così potrà disporre di 30.000 uomini.
Prima dell’estate saranno definiti i dettagli logistici per il
potenziamento della task force, mentre la piena operatività sarà
raggiunta solo dopo il vertice Nato di Varsavia previsto nel giugno
2016. Sei i paesi che guideranno a rotazione la Response Force:
Germania, Italia, Francia, Gran Bretagna, Polonia e Spagna. Corpo
d’élite della nuova NRF sarà la brigata di terra Spearhead (punta di
lancia) con 5.000 militari circa e che sarà supportata da forze aeree e
navali speciali e, in caso di crisi maggiori, da due altre brigate con
capacità di dispiegamento rapido. “Al fine di garantirne la massima
prontezza operativa, la task force si avvarrà di sei nuovi centri di
comando e controllo dislocati in Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania,
Polonia e Romania”, ha annunciato il Segretario generale della Nato,
Jens Stoltenberg. “Se esploderà una crisi, questi centri assicureranno
che le forze nazionali e Nato, ovunque si trovino, possano agire subito.
Essi renderanno ancora più rapidi i dispiegamenti, supporteranno la
difesa collettiva e aiuteranno a coordinare l’addestramento e le
esercitazioni”.

“L’Italia assicurerà il proprio supporto al processo di implementazione
del Readiness Action Plan (RAP), il piano di risposta operativa della
Nato, nella certezza che garantirà all’Alleanza un insieme di strumenti
idonei a rafforzare la cornice di sicurezza globale, soprattutto in
risposta alle minacce derivanti dalla crisi tra Russia e Ucraina ed a
quelle provenienti dall’area mediorientale e del Nord Africa”, ha
dichiarato poche settimane fa la ministra Roberta Pinotti. All’Italia,
in particolare, è stato chiesto di ricoprire il ruolo di Framework
Nation per la costituzione della forza congiunta di pronto intervento
basata sulla brigata Spearhead. Inoltre, al nostro paese è stato
assegnato dall’1 gennaio 2015 - e sino alla fine d’agosto - il comando
della Baltic Air Patrol, la missione Nato di pattugliamento dei cieli
delle Repubbliche baltiche avviata nel 2004 e che dopo lo scoppio della
crisi ucraina ha visto quadruplicare il numero dei velivoli e dei
militari impegnati. Per le operazioni aeree anti-russe, l’Italia ha
messo a disposizione quattro caccia multiruolo Eurofighter “Typhoon”,
rischierati nell’aeroporto militare di Šiauliai, in Lituania. Al comando
italiano della BAP sono stati assegnati anche quattro caccia Mig-29
delle forme armate polacche schierati a Šiauliai, quattro Eurofighter
spagnoli di base nell’aeroporto di Amari (Estonia) e quattro
cacciabombardieri belgi F-16 a Malbork (Polonia).

“In Ucraina è in gioco la sicurezza dell’Europa e degli Stati Uniti
d’America e per questo dobbiamo rafforzare in questo paese il nostro
ruolo e la nostra presenza militare”, ha dichiarato il 25 febbraio
scorso il generale Philip Breedlove nel corso di un’audizione al
Comitato per le forze armate del Congresso degli Stati Uniti d’America.
“Non sappiamo cosa farà alla fine Putin, ma dobbiamo prepararci al
peggio. Le forze russe continuano ad operare sul campo in Ucraina,
fornendo sostegno diretto ai separatisti. Mosca ha inoltre inviato più
di 1.000 pezzi di armi pesanti, come carri armati e sistemi
d’artiglieria e di difesa aerea. L’aggressione della Russia non è solo
contro l’Ucraina ma riguarda altri stati ex-URSS come la Moldavia, dove
le forze armate russe sono presenti nella conflittuale regione del
Trans-Dniester”. Così l’Europa torna a sentire le odi alla guerra totale.

martedì 10 marzo 2015

Studenti sotto tiro

Gli studenti palestinesi temono torture ed abusi in conseguenza dell’impennata di arresti da parte dell’ANP e di Israele


Nei mesi scorsi un apparente aumento degli arresti di studenti in Cisgiordania ha colpito attivisti di orientamento islamista e dei partiti di sinistra.

Gli ufficiali della sicurezza hanno sottolineato l’importanza di eliminare le cellule armate in Cisgiordania, ma gli arrestati sostengono che raramente gli interrogatori riguardano la sicurezza.

Bethan Staton - MEE


Lunedì 2 Marzo 2015


L’università di Birzeit, nella periferia di Ramallah, ha la fama di essere una delle migliori università palestinesi. E’ un elegante complesso in pietra bianca che, sotto i raggi del sole, sembra nuovo di zecca, è costantemente affollato da gruppi di studenti che chiacchierano, radunati attorno a gazebo politici, o che corrono da una classe e all’altra.

Il mese scorso, tuttavia, l’area universitaria è diventata una prigione per sei studenti. Per circa tre mesi vi si sono accampati, hanno mangiato nel bar, studiato nella biblioteca e dormito in un piccolo ripostiglio. Per protesta e per paura, si sono rifiutati di uscire dal campus finché la loro sicurezza non fosse stata garantita.

Militanti del Blocco Islamico, il movimento studentesco di Hamas, hanno ricevuto mandati di comparizione per essere arrestati o interrogati dall’Autorità Nazionale Palestinese. Per questi giovani non era una novità. Molti sono al corrente degli arresti da parte di palestinesi o israeliani e sapevano che rimanere nell’università era il solo modo per evitare la brutalità da parte di entrambi.

Dopo lunghi negoziati delle organizzazioni dei diritti umani per garantire la loro incolumità, la scorsa settimana gli studenti hanno finalmente potuto tornare a casa. Ma la loro libertà è una piccola vittoria. Dure esperienze simili a quella degli ultimi mesi si sono presentate molte volte nel passato e i militanti pensano che sia solo questione di tempo prima di altri arresti ed interrogatori. Credono anche di essere stati colpiti per ragioni politiche.

“L’Autorità Nazionale Palestinese vuole rimanere al potere. Il loro principale avversario è Hamas e la sua popolarità sta aumentando,” ha dichiarato a Middle East Eye Abdel Rahman Hamdan, studente di ingegneria, uno di quelli che sono rimasti nell’università. “Hanno paura che, lasciando lavorare Hamas e il Blocco Islamico, la gente avrà ancora più fiducia in loro e forse si opporrà alle autorità.”

Come la maggioranza dei suoi colleghi, Hamdan si è accampato a Birzeit alla fine dello scorso anno, quando membri del Blocco Islamico hanno ricevuto una raffica di convocazioni ed arresti. L’escalation ha coinciso con l’anniversario della fondazione di Hamas in dicembre: una data importante che i militanti speravano di celebrare con una commemorazione.

Hamdan è stato arrestato poco prima di quella data. E’ stato rilasciato senza imputazioni dopo 24 ore di interrogatorio, che secondo lui riguardava le attività del Blocco Islamico ed ha comportato l’uso della tortura.

“Mi hanno chiesto delle attività all’interno dell’università e mi hanno detto che dovevamo disdire la commemorazione,” ha affermato. “Non mi hanno incolpato di niente ma questo è successo prima delle celebrazioni all’università: è stata una specie di messaggio: devi fermarla [la commemorazione], e non vogliamo che tu la faccia.”

L’esperienza degli studenti di Birzeit non è l’unica. Negli ultimi quattro mesi c’è stato un apparente aumento degli arresti di studenti in Cisgiordania, che ha colpito quelli che militano nei partiti islamici e di sinistra. Tra novembre e gennaio si è saputo che 41 studenti sono stati arrestati nelle università della Cisgiordania e in dicembre gli universitari di Hamas e del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [storico gruppo palestinese della sinistra marxista. N.d.tr.] hanno manifestato nei campus di Birzeit e di Al Quds per protestare contro gli arresti dei loro militanti.

Hamdan – e militanti di sinistra che vogliono rimanere anonimi per garantire la loro incolumità – hanno detto a MEE che gli arresti colpiscono in modo sproporzionato i gruppi islamici, ma che anche quelli dell’opposizione di sinistra sono colpiti. “Quando sono iniziati gli arresti politici, si sono opposti insieme, li hanno rifiutati,” ha detto Hamdan della collaborazione tra le diverse fazioni dello spettro politico. “Lavorano bene insieme contro la repressione.”

Un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese non ha risposto alla richiesta di MEE di commentare la questione. Ufficiali della sicurezza hanno sottolineato l’importanza di eliminare le cellule armate in Cisgiordania, ma gli arrestati affermano che raramente vengono poste domande relative alla sicurezza durante gli interrogatori, che riguardano piuttosto le attività dei gruppi universitari. Hamdan insiste che rappresentano una minaccia insignificante: gruppi come il Blocco Islamico hanno una funzione rappresentativa nelle associazioni studentesche, si occupano principalmente delle condizioni di vita, dell’assistenza finanziaria, di sport e di manifestazioni politiche all’interno del campus.

Nelle elezioni del 2014 a Birzeit il Blocco Islamico ha perso di stretta misura rispetto ai militanti di Fatah per 20 eletti contro 23. Ma ci sono indicazioni che durante l’estate la popolarità di Hamas è aumentata. Il professor Sameeh Hammoudeh di Birzeit spiega che per un’ANP dominata da Fatah la preoccupazione riguardo alla percezione di questa minaccia deve farsi sentire nella politica studentesca – un campo visto come un indicatore dei sentimenti dell’opinione pubblica.

“Vogliono ridurre il potere di Hamas: è una minaccia per l’ANP, quindi devono trovare il modo per limitarla,” afferma Hammoudeh. “Penso che sia una questione soprattutto politica. Non credo ci siano serie ragioni dovute alla sicurezza (per l’arresto degli studenti), perché Hamas in Cisgiordania non svolge attività violente contro Israele. Ma forse l’ANP vuol sapere se sta succedendo qualcosa o no.”

Le testimonianze degli arrestati, comunque, indicano che fare domande e raccogliere informazioni è importante per i servizi di sicurezza palestinesi. Gli studenti tendono a vedere gli arresti da parte dell’ANP come di breve durata ma caratterizzati da interrogatori brutali, mentre quelli da parte israeliana comportano il rischio di lunghe condanne.

Inoltre gli arresti da parte dell’ANP possono frequentemente essere seguiti da detenzioni da parte delle forze di sicurezza israeliane.

Sayed Hashesh, un membro del Blocco Islamico che, come Hamdan, è attualmente accampato a Birzeit, è stato arrestato sia dagli israeliani che dai palestinesi. Nel novembre del 2013, durante il suo secondo anno di università, è stato arrestato e interrogato dalla polizia dell’ANP; un mese e mezzo dopo anche dalle autorità israeliane.

Hashesh ha passato dieci mesi in un carcere israeliano, finchè ha patteggiato la pena. Dopo pochi mesi dal suo rilascio, tuttavia, le forze della sicurezza preventiva palestinese lo hanno di nuovo arrestato.

“Non mi hanno parlato per tutto il giorno e mi hanno lasciato senza cibo né acqua. Poi mi hanno detto di mettermi contro il muro e di alzare le mani “ ha raccontato la sua esperienza a MEE. “Dopo un’ora mi sono sentito stanco, per cui mi sono girato ed ho abbassato le mani. A quel punto hanno iniziato a darmi calci e a picchiarmi.”

Il ventunenne studente specializzando in scienze politiche racconta che ha perso i sensi, che stava sanguinando dalla testa per le percosse, e quando è stato rilasciato non gli hanno restituito la carta d’identità. Da allora ha avuto altre convocazioni – sia da parte di Israele che dell’ANP – ed è rimasto nell’università per evitare un altro arresto.

“Gli israeliani hanno minacciato che loro e l’ANP insieme non mi avrebbero lasciato continuare gli studi e mi avrebbero arrestato. Hanno detto che prima mi avrebbe arrestato l’ANP e poi lo avrebbero fatto gli israeliani,” ha raccontato. “E’ sempre così. Se vieni incarcerato dall’Autorità Nazionale Palestinese finisci anche nelle carceri israeliane.”

Hashesh crede di essere stato arrestato perché milita nel Blocco Islamico. “L’Autorità Nazionale Palestinese usa la tortura, e gli israeliani utilizzano un altro metodo di interrogatorio. Ma sono le stesse domande, le stesse risposte per ottenere lo stesso risultato. E’ come una gara a chi ottiene per primo le risposte,” dice.           

In base agli accordi di Oslo, l’ANP e le autorità israeliane condividono informazioni e coordinano le attività sulla questione della sicurezza. Non è chiaro cosa questo preveda precisamente: Hashesh è stato chiaro nel sottolineare che la sua esperienza non dimostra necessariamente che ci sia stata condivisione delle informazioni o coordinamento. Quello che sembra chiaro, comunque, è che gli studenti attivi in gruppi come il Blocco Islamico o il Fronte Studentesco di Azione Progressista [ PSAF, organizzazione studentesca legata al Fronte Popolare per la Liberazinoe della Palestina. N.d.tr.] corrono il rischio di essere presi di mira da entrambe le parti.

Ciò suggerisce che l’ANP ed Israele stanno lavorando allo stesso obiettivo, che è bloccare le attività di Hamas in Cisgiordania. “Mostra che entrambi voglio bloccare la crescita di Hamas” sostiene Hashesh. “Non so se ci sia stato coordinamento [tra ANP ed Israele] la prima volta che sono stato arrestato. Ma penso che entrambi mi abbiano arrestato per la stessa ragione.”

Anche Mohammed Jamil, direttore dell’Organizzazione Araba per i Diritti Umani, che si trova in Gran Bretagna, crede che il recente incremento degli arresti di studenti si tratti del risultato sia della collaborazione in materia di sicurezza che di una politica relativa ai propri interessi [dell’ANP]. AOHR ha rivelato in un recente rapporto che più di 1.206 palestinesi sono stati arrestati dall’ANP nel 2014, tra cui 353 studenti.

“In parte è per far contenti gli israeliani, perché a volte forniscono informazioni agli israeliani su questi studenti,” ha detto Jamil parlando a MEE su Skype. “Ed è anche per aiutare Fatah, la fazione rivale, a vincere le elezioni interne.”

Qualunque siano le motivazioni degli arresti, afferma, gli studenti pagano un prezzo alto. “Prima degli arresti c’è un essere umano, e dopo il rilascio alcuni di loro sono a pezzi. Diventano deboli, pessimisti, hanno idee più negative su quei servizi di sicurezza. Quando prendi uno studente e lo arresti, lo distruggi. E’ una distruzione sistematica.”

Durante la loro permanenza nell’università, Hamdan e Hashesh hanno descritto la loro situazione come se fossero in prigione: “La nostra vita ora è solo all’università,” ha detto Hashesh il mese scorso a MEE dalla biblioteca di Birzeit. “Siamo stufi perché non possiamo uscire e ci mancano i nostri genitori. Studiamo e durante il giorno aiutiamo gli studenti, e poi andiamo a dormire. E’ così.”

Nel campus, tuttavia, arresti e proteste come queste non scioccano più e, dopo una serie di scioperi e sit-in simili, la situazione degli studenti del Blocco Islamico non fa più notizia. Parlando dal suo ufficio nell’università, Sameeh Hammoudeh, docente universitario, dice che l’attuale contesto ha avuto un impatto soffocante sulla politica: dice che “nel cuore degli studenti” c’è paura, ispirata alla minaccia reale di torture ed abusi.

Comunque gli studenti dicono di non essere stati scoraggiati dal lavorare con il Blocco Islamico. “Le azioni dell’ANP hanno solo reso il Blocco Islamico più forte,” sostiene Hamdan. Reprimere questa organizzazione, secondo lui, aumenta solo la sua forza di attrazione e la sua legittimazione agli occhi dell’opinione pubblica. “Nonostante quello che stanno facendo le autorità, il Blocco Islamico continua a lavorare. Non si arrendono mai e la gente vuole persone così.”



(traduzione di Amedeo Rossi)