venerdì 27 febbraio 2015

«Vagando di erba in erba» di Patrizia Cecconi

Recensione




«Vagando di erba in erba" è un libro denso e articolato che può essere letto da molti punti di vista. E' allo stesso tempo un diario di viaggio, un accurato studio della vegetazione palestinese, dei suoi siti archeologici, della sua storia e al contempo l'immagine della bellezza palestinese offesa ogni giorno dall'occupante.
Il tema centrale è il diritto ad andare in Palestina come in una terra di vacanza, perché questo luogo offeso è anche un concentrato di vita, di cultura, di storia, di umanità che resiste e produce cultura, arte, eccellenze in più campi senza aspettare la fine dell'occupazione.
Il viaggio è raccontato giorno per giorno e il discorso che parte leggero a volte si arena, malgrado la volontà dell'autrice, contro lo scoglio duro dei vari soprusi.
In Palestina di solito non si va in vacanza, eppure la Palestina è bellissima, c'è un solo problema: non esiste giuridicamente e se ci si vuole recare per qualunque motivo bisogna passare per il carceriere. Non si va da nessuna parte senza il suo permesso. Può rimetterti su un aereo o in prigione, a sua discrezione, nessuno protesterà.
La confusione generata ad arte dalla propaganda israeliana sembra aver cancellato la Palestina dalla mente dei turisti ignoranti, Israele è dappertutto, ma benché si vanti di aver fatto fiorire il deserto, rubando l'acqua ai palestinesi, i suoi cittadini conoscono ben poco la sua flora, per lo più hanno importato piante da altri luoghi, di quelle locali conoscono soprattutto gli ulivi che continuano ad abbattere o radere al suolo lasciando distese di tristi monconi come quelli che feriscono lo sguardo passando per Gerico.
I 30 giorni di viaggio raccontati in altrettanti capitoli, iniziano ognuno con una citazione poetica palestinese e il libro si apre con una poesia di M. Darwish. Nel libro tutto è correlato, le persone, la vegetazione. la storia, la cultura, l'arte, la cucina, l'archeologia, ogni frammento della Palestina si riflette in un altro e a un altro ancora rimanda, in un allargamento e simultaneamente un approfondimento del racconto, che travalica la cultura palestinese e trova legami storici e mitici fin nell'antica Grecia con un taglio così erudito che rende impossibile e riduttiva un'unica lettura.
Ogni esperienza vissuta in ogni singola giornata è intrecciata alla vegetazione palestinese, che come un filo conduttore ne segna ogni aspetto. Conosciamo struttura, storia e proprietà di ogni singola pianta tanto che il libro è tra le tante altre cose anche un trattato di botanica.
Tra tutte ricorre e troneggia la senape. Cresce ovunque, anche dove tutto è stato distrutto, rinasce anche se è stata strappata. Il contrasto tra il minuscolo seme e l'altezza e vigore della pianta si presta bene come metafora di questo popolo caparbio e l'autrice non può rinunciare a citare i versi di Mahmud Darwish «Noi siamo parte del nostro ambiente e lo condividiamo con i fiori, e come loro cerchiamo un clima adatto per crescere, e ritornare continuamente alla vita dopo una breve morte.» Nella città di Qalkilya circondata dal muro che ha inglobato sorgenti e frutteti sottraendoli alla città, le case hanno tuttavia giardini e «qui tutti quelli che possono piantano almeno un fiore» nota l'autrice. Il legame palestinese con la terra ha la forza del sacro e la signora anziana che offre con « fierezza» i fichi alla viaggiatrice dice che senza la terra nessuna casa palestinese è una casa e l'albero che produce quei fichi è come una stanza di questa casa. Andando da Qalkilya a Tulkarem Patrizia scopre l'origine del nome della città: Karma e significa vigneti.
Una terra dei miracoli la Palestina, dove le orchidee fioriscono in agosto e il tronco di un albero sfonda un muro di contenimento per rialzarsi oltre di esso e svettare contro il cielo. «E' un albero cresciuto da se, appartiene a questa terra, ha sfondato il muro ed è uscito fuori così» risponde la suora salesiana alla domanda di Patrizia. « E' un'immagine folgorante nella sua suggestione metaforica. E' come un manifesto naturale posto lì a dichiarare solennemente al mondo che la Resistenza non ha nessun muro che possa fermarla!» scrive Patrizia. E cerca insistentemente il colocynthis-Handala, la cocurbitacea amara usata da sempre tanto in medicina quanto in erboristeria per la cura del diabete ma la pianta, diventata una rarità, non si trova. La pianta amara aveva ispirato il disegnatore palestinese Naji Al Ali per disegnare il bambino sempre presente nelle sue vignette girato di spalle che guarda la scena come un testimone. Era una rappresentazione di se stesso, quando a dieci anni, era diventato profugo. Handala si sarebbe girato quando la Palestina sarebbe diventata libera, ma Handala gira il mondo ancora di spalle e anche Naji Al Ali non c'è più. Patrizia prende una decisione: farà un viaggio esclusivamente alla ricerca del colocynthis, ne cercherà i semi per depositarli ovunque e ogni anno ripianterà la Resistenza finché non ce ne sarà più bisogno.
Ma la Palestina è anche terra di paradossi: a Beit Jala Patrizia assiste a una riunione di contadini, un agricoltore ottantenne «solido come una roccia» racconta che il suo campo è sempre stato parte della sua vita ma l'esercito lo lascia entrare a coltivarlo solo sette otto giorni l'anno, non bastasse questo gli hanno anche distrutto il pozzo, la ragione: la costruzione di un muretto che secondo le autorità israeliane rappresentava una «violazione ambientale». Lasciando da parte il fatto che il pozzo non costituiva violazione alcuna, cosa dire di una contestazione simile da parte di chi di muro ne costruisce 700 chilometri? Si chiede l'autrice, e cita la propaganda israeliana che invita i turisti a «fare un'esperienza unica piantando un albero che seguiterà a crescere e fruttificare». Secondo tale propaganda il JNF (fondo nazionale ebraico) avrebbe trasformato un deserto in un giardino. Certamente il JNF ha piantato milioni di alberi, intere foreste a volte, sui resti dei villaggi palestinesi distrutti, nel contempo ne ha abbattuti altrettanti appartenenti ai palestinesi. L'interpretazione del rispetto dell'ambiente israeliano è davvero sconcertante, mentre inquina e massacra il territorio palestinese si fa paladino di ambientalismo. Eh si, Patrizia ha ragione, la Palestina è anche terra di paradossi!
Nessuna manifestazione vegetale sfugge alla viaggiatrice, che ricerca erbe spontanee, non pettinate, pratoline che crescono all'ombra di un muro dove neppure arriva il sole e conosciamo le qualità soporifere di questo fiore così poco apprezzato. «Belle e selvatiche» era il titolo di un suo bellissimo libro sulle piante spontanee che spesso vengono estirpate dai giardini senza che se ne conoscano le proprietà e l'uso né i benefici che se ne potrebbero trarre. Ma come in «Belle e selvatiche» anche in questo libro, pur riportandone dettagliatamente descrizione, storia e proprietà, Patrizia non parla solo di piante ed esse sono occasione di riflessioni sulla forza della natura che trionfa sulle cattiverie umane, o sull'acqua sottratta ai palestinesi e il suo raccontare passa dalla storia del villaggio a quella delle piante e al loro legame nel tempo. «Se girate in tutta la Palestina storica ogni tanto trovate un saber che spunta dal terreno. Dovunque c'è un saber c'era un villaggio palestinese» le dice Abuna Yousef, Patrizia non sa cosa sia un saber, ma le verrà tradotto: si tratta dell'Opunzia ficus-indica, il fico d'india, che gli arabi hanno sempre usato per segnare i confini tra i campi, tanto che l'uso si è diffuso anche in Sicilia dopo il loro passaggio.
Le piante possono anche essere finte, come gli uomini, e un ramo di plastica che finge di essere edera è accostato nella similitudine al parlamentare incontrato che non riesce a convincere l'autrice.
Nel suo peregrinare di erba in erba Patrizia s'imbatte in un cespuglio fiorito di ginestra. Sorge spontaneo il ricordo dei versi leopardiani che affidavano a questo fiore un messaggio di dignità e di resistenza contro la furia della natura che rende precaria la condizione umana. Ma in Palestina la potenza distruttrice non è il Vesuvio con le sue eruzioni, ma l'esercito israeliano che ogni venerdì aggredisce le manifestazioni dei villaggi lasciando a terra morti e feriti, eppure il venerdì successivo ritrovano la sfida della ragione e della dignità del popolo palestinese che lotta per i propri diritti.
E' ormai ora di partire, la nostra viaggiatrice si guarda intorno caso mai le fosse sfuggita qualche manifestazione vegetale, ed ecco che la trova, una pianta spontanea così resistente che sta creando problemi alla Monsanto, famosa multinazionale dedita a spacciare veleni agricoli e OGM. Una pianta che non teme nessun clima, che non si ammala, una pianta resistente che cresce in tutta la Palestina, è l'amaranto. Contiene vitamine A e C e niente è riuscita a debellarla.
«In Palestina la tragedia è un momento e la vita che resiste è tutto il resto» nota l'autrice davanti a un venditore di frutta dalla faccia allegra che dice «Qui si coltiva di tutto e tutto viene bene nonostante «quelli là». I palestinesi «amano davvero la vita» e a Qaikylia, circondata dal muro, si organizzano festival di musica, di poesia, scuole di danza e perfino sfilate di moda. A Qalqylia c'è anche uno zoo, in un parco giochi, che contiene un museo didattico e un ristorante. Nel campo profughi della città di Jenin, sede di tre importanti università, c'è il Freedom Theatre e Jenin organizza festival internazionali di cinema. A Ramallah è attivo il centro di musica Kamanjati, dove i ragazzi imparano a suonare il violino. Dappertutto Patrizia scopre una volontà di vivere, non sopravvivere, una creatività che diventa essa stessa resistenza. A Deieshe, un campo profughi recintato da un muro di tre metri e mezzo, c'è il centro culturale «Ibdaa», che vuol dire creatività. Il centro, attivissimo, fondato da una ventina d'anni, organizza di tutto: danza, teatro, filmografia, storia orale, arti visive. Di fronte alla porta del centro, sul muro,vi sono dipinti i ritratti di Mahmud Darwish, Gassan Kanafani e Naji Al Ali. Un poeta, uno scrittore e un vignettista, il disegnatore di Handala, tre pilastri della cultura palestinese, due di loro morti non per cause naturali. La cultura spaventa l'occupante più della resistenza attiva.
L'arte in ogni sua forma è molto presente in Palestina e Patrizia ha occasione di conoscere un artista, Monther, l'incontro programmato di qualche minuto si prolunga e si trasforma in un lungo scambio di idee. Quasi tutti i quadri dell'artista sono figurativi e Patrizia viene colpita in particolare da quello che rappresenta una donna col capo rovesciato che tiene in braccio il corpo morto del figlio, il quadro si chiama «La madre del martire» come immediatamente riconosce l'autrice, e poi c'è il ritratto del «mulathan» che significa mascherato perché il soggetto ha il volto coperto dalla kefia, e tiene in mano un fiore. Lo tende verso lo sguardo dell'osservatore, ma non è un fiore reciso, è un fiore in un vaso, ciò significa che bisogna piantare fiori di resistenza. L'artista ci tiene a ribadire che l'arte è per lui una manifestazione della vita, il popolo palestinese ama la vita e «tutto ciò che rende la vita su questa terra degna di essere vissuta» conclude citando Darwish. Patrizia non può fare a meno di classificarlo come per una pianta: genere e specie. Genere: incorrotto, specie: artista.
«Stanno cercando di distruggere il nostro spirito, ma noi siamo determinati a resistere» afferma un amico palestinese e in mezzo a mille difficoltà i palestinesi riescono anche a produrre le loro eccellenze e a sviluppare progetti significativi come la «Tenda delle nazioni». La fattoria di Dhaer, che dà vita al sogno di suo padre e della sua famiglia di trasformare il terreno in un punto di riferimento per un progetto di pace. Sul terreno è stata costruita un'azienda agricola ecologica, dove si sviluppano attività di studio e ricerca, campi estivi per i ragazzi, sperimentazioni di tecniche agricole naturali, corsi di informatica, di lingue eccetera. Ci vengono a lavorare da tutto il mondo. Dal 1991 Israele cerca di appropriarsi di questo terreno e i coloni che circondano la zona hanno tagliato centinaia di alberi ma con l'aiuto dei volontari internazionali ne sono stati piantati il doppio. Si chiama «tenda delle nazioni» perché è grazie alla presenza e alla solidarietà internazionale che Israele non ci ha messo ancora le mani sopra.
A Taybeh i palestinesi stanno tentando di piantare molti tipi di uva da loro scoperti e che non erano mai stati analizzati prima e Patrizia visita il birrificio di Nadim Khoury, formatosi a Boston, che produce una birra artigianale sulla linea della birra Sam Adams, un rivoluzionario americano. Il produttore ha scelto lo slogan «Taste the revolution» ispirandosi alla birra di Boston come al personaggio di Sam Adams. «Non abbiamo ancora un paese, ma abbiamo una birra! Produrre ed essere riconosciuti nel mondo per la nostra qualità e la nostra resistenza pacifica» dice Khoury con un sorriso «tra il furbo e il bonario».
La «jandali» è una delle migliori uve dolci palestinesi, da cui si ricavano i vini bianchi di Cremisan, una vera eccellenza, ma questa qualità di uva si trova anche in altre zone della Palestina.
La Palestina è anche ovviamente terra di siti archeologici e l'autrice non li trascura, visita Sebastya, con il suo eccezionale sito archeologico di epoca romana, Beit Sahour, dove sono stati scoperti antichi siti, rovine di chiese e monasteri, Gerico, una città fondata circa 10mila anni fa le cui fortificazioni erette prima delle piramidi egiziane testimoniano la sua vita antica. Di ogni chiesa, ogni moschea, ogni sito archeologico l'autrice racconta la storia antica e recente, le stratificazioni attraverso i secoli, e lega queste informazioni alle riflessioni sul presente. Sulla spianata delle moschee, la cui bellezza mozzafiato indurrebbe al rispetto e alla venerazione qualunque essere umano non avvilito dall'odio, l'autrice non può fare a meno di pensare ai tunnel e alle gallerie sotterranee che Israele continua a scavare sotto le fondamenta mettendo a rischio la sua stabilità. Già sono comparse delle crepe e dei cedimenti sulla sua pavimentazione. Eppure il luogo era diventato patrimonio dell'umanità, ma delle leggi umane, giuridiche e morali Israele se ne infischia.
La Palestina è una terra bellissima, carica di storia, cultura, bellezza, antichità e resistenza. E la resistenza i palestinesi la fanno non solo con le manifestazioni, ma con l'arte, con la cultura, la poesia, con le eccellenze nel campo agricolo, con la vita che afferma se stessa e vuole essere una vita degna di essere vissuta. Perfino con l'ironia e con la gioia di vivere, malgrado loro, gli occupanti.
Si, la Palestina potrebbe essere una splendida meta di vacanze, e questo libro ha il merito, tra gli altri, di averlo ampiamente dimostrato. Dopo averlo letto viene voglia di fare i bagagli e partire. Purtroppo la violenza dell'occupazione scoraggia i visitatori e anche per Natale, quando a Betlemme si sperava che arrivassero un pò di turisti per risollevare momentaneamente le sorti dell'economia locale, questa speranza è stata disattesa. Dopo l'ultima incursione a Gaza i turisti si tengono alla larga.
La nostra speranza è che si possa presto visitare la Palestina senza cani da guardia e impedimenti ovunque, senza l'occupazione ad amareggiare anche le giornate più belle, i luoghi di paradiso e la sua splendida popolazione.
Miriam Marino

martedì 10 febbraio 2015

BDS: MITI E REALTA'



Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni: miti e realtà.
rivolta globale
Mon, 09/02/2015 - 11:40
di
Nicola Pratt


Quando ho scritto questo testo i membri della Middle East Studies Association (MESA) dovevano votare una mozione che, se approvata, avrebbe aperto la strada per una discussione sulla campagna BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) contro Israele. Questo articolo non è una difesa della mozione, che pure sostengo con tutto il cuore, ma è un contributo per l'anno a venire a ciò che spero sia una discussione duratura sul BDS stesso.

Nel 2002 la società civile palestinese ha lanciato ai cittadini di tutto il mondo un appello per boicottare e disinvestire da Israele fino al riconoscimento dei diritti umani dei palestinesi, ossia: la fine dell'occupazione e dell'assedio delle terre arabe, il rispetto del diritto al ritorno per i profughi palestinesi e l'uguaglianza per i cittadini palestinesi in Israele. Nel 2004 gli accademici e gli intellettuali palestinesi hanno lanciato la Campagna per il Boicottaggio Culturale ed Accademico, sostenuta da varie organizzazioni accademiche e culturali, compresa la Federazione dei Sindacati dei Professori e degli Impiegati delle Università Palestinesi che rappresenta lo staff universitario nei Territori Palestinesi Occupati. Da allora questa campagna è divenuta un movimento globale ed è in continua crescita il numero dei paesi dove si sostiene il BDS, tra cui gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito, l'Irlanda, la Francia, l'Italia, il Sudafrica, l'India ed il Pakistan.

Il BDS può assumere varie forme ma è di particolare interesse per i membri dell'AMEWS [Association for Middle East Women's Studies NdT] l'appello per il boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane. Come ci si poteva immaginare i sostenitori di Israele sono stati molto espliciti nel condannare il boicottaggio accademico, a volte facendone delle descrizioni sbagliate, in primo luogo affermando che il boicottaggio è razzista. È essenziale sottolineare che il boicottaggio accademico non ha come oggetto gli israeliani come individui ma piuttosto le istituzioni ed i loro rappresentanti ufficiali. Inoltre non è un appello a boicottare Israele per sempre ma fino a che non cesserà le sue sistematiche violazioni del diritto internazionale.

Sono state proposte numerose altre argomentazioni per delegittimare il BDS, a volte da persone che sostengono di sostenere i diritti palestinesi o la pace in Israele/Palestina. In questo testo cerco di sfatare questi miti e di spiegare perché il BDS in generale, tra cui il boicottaggio accademico, è un mezzo legittimo per assicurare la giustizia in Israele/Palestina – senza la quale non ci sarà mai alcuna vera pace.

Mito n°1: il BDS impedisce il dialogo e dunque è contrario alla pacificazione
Il BDS rappresenta un radicale allontanamento dagli esempi tradizionali di pacificazione liberale fondati sul dialogo e la cooperazione. Il BDS è nato a causa del fallimento del paradigma liberale di pacificazione incarnato dal processo di pace di Oslo che in più di vent'anni non ha cessato l'occupazione e l'annessione di terre palestinesi da parte di Israele (ed anzi ha permesso maggiori furti di terra) e non ha raggiunto una soluzione giusta per i profughi palestinesi, figuriamoci concludere il violento conflitto in Israele/Palestina.

Il BDS riconosce che gran parte di questo fallimento è dovuto allo squilibrio di forze tra Israele e i palestinesi e anche al fallimento del processo di Oslo nel riconoscere i diritti dei palestinesi garantiti dal diritto e dalle convenzioni internazionali. Israele, anche con la complicità e la partecipazione attiva degli USA, ha costretto i palestinesi a svendere i propri diritti umani in nome della “pace”. Allo stesso tempo la comunità internazionale ha ripetutamente fallito nel rendere Israele responsabile delle sue numerose violazioni del diritto internazionale, che includono le confische delle terre, la costruzione di colonie, le demolizioni delle case, l'embargo e l'assedio, le detenzioni senza processo, la tortura e i crimini di guerra. Gli USA e l'UE hanno ripetutamente fatto pressioni sull'Autorità Palestinese affinché questa non aderisse alla Corte penale internazionale (ICC) per proteggere Israele dalle sue responsabilità. Sebbene nel gennaio 2015 l'ICC abbia accettato di investigare sui crimini di guerra nei territori palestinesi ciò è avvenuto a duro prezzo visto che Israele ha sospeso il trasferimento di più di 100 milioni di dollari delle imposte palestinesi e gli USA stanno minacciando di sospendere gli aiuti.

Contro questo scenario il BDS rappresenta un nuovo esempio per la pace che può aprire nuovi spazi di dialogo fondati sui diritti e la giustizia.

Mito n°2: il BDS ha come obiettivo ingiusto le università israeliane, che sono in prima linea nel sostegno alla pace.
Qualsiasi sforzo delle università israeliane a sostegno della pace viene oscurato dalla loro complicità nell'ultradecennale occupazione e violazione dei diritti dei palestinesi. Le università sono coinvolte nella ricerca e lo sviluppo di tecnologia bellica utilizzata per attuare le politiche coloniali di Israele contro i palestinesi. Ad esempio il Technion ha sviluppato il bulldozer “D9” controllato a distanza utilizzato dall'esercito per demolire le abitazioni palestinesi, l'Università Bar-Ilan ha partecipato ad una ricerca congiunta con l'esercito per sviluppare l'intelligenza artificiale utilizzata sui droni impiegati nei numerosi assalti contro la Striscia di Gaza, ditte private di tecnologia bellica, come la Elbit, usano come consulenti i dottorandi in scienza e tecnologia ed il Centro Interdisciplinare di Herzliya è stato responsabile per l'elaborazione della “Dottrina Dahiya”, o dottrina dell'uso sproporzionato della forza, utilizzata nella guerra contro Gaza del 2014. Le università israeliane sono coinvolte anche nell'addestramento militare.

Le principali università israeliane hanno pubblicamente espresso il loro sostegno all'IDF [Israeli Defence Forces, le forze d'occupazione israeliane NdT] durante “l'Operazione Margine Protettivo” mentre invece punivano chiunque nei campus si opponesse alla guerra. Di solito gli israeliani che svolgono il servizio di leva non pagano le rette universitarie e godono di altri benefici accademici, cosa che necessariamente discrimina i cittadini palestinesi di Israele che sono esclusi dalla coscrizione obbligatoria.

Sebbene vi siano degli individui coraggiosi che si oppongono alle politiche coloniali israeliane questi sono una minoranza, spesso intimidita e censurata a causa delle loro opinioni, e la loro opposizione non ha portato ad un mutamento nelle politiche delle loro istituzioni. Lungi dal voler isolare questi individui il BDS solidarizza con loro.

Mito n°3: Il BDS è una violazione della libera espressione e della libertà accademica
Il BDS non impedisce agli accademici assunti dalle università israeliane di partecipare a conferenze internazionali, di pubblicare le proprie ricerche o di incontrarsi con i propri colleghi di altre parti del mondo. Le linee guida del BDS chiedono di non permettere che le istituzioni accademiche israeliane operino come se nulla fosse mentre continuano ad essere complici delle violazioni sistematiche dei diritti dei palestinesi commesse dal loro governo. Nello specifico ci viene chiesto di rispettare ciò che segue:

- Non partecipare a conferenze ospitate da istituzioni israeliane e/o finanziate dallo Stato d'Israele;
- Non svolgere lezioni nelle istituzioni israeliane;
- Non condurre ricerche congiunte con istituzioni israeliane;
- Non patrocinare visite nelle istituzioni israeliane;
- Non esaminare proposte di sovvenzioni per enti israeliani;
- Non recensire articoli di riviste accademiche provenienti da istituzioni israeliane;
- Gli unici individui oggetto del boicottaggio sono coloro che operano come rappresentati ufficiali delle istituzioni accademiche o gli accademici che rappresentano lo Stato di Israele.

Al contrario sono gli avversari del BDS che stanno cercando di limitare la libertà d'espressione minacciando coloro che lo sostengono od anche impedendo di discutere del BDS. Nel 2011 Israele ha vietato ai suoi cittadini di sostenere il boicottaggio dei prodotti, dei servizi o delle organizzazioni israeliane.

Inoltre è importante evidenziare come le politiche coloniali di Israele sono un ostacolo significativo alla libertà accademica e al diritto all'istruzione dei palestinesi. Dal '67 Israele ha periodicamente chiuso le università palestinesi per mesi e mesi e le ha fatte diventare bersagli delle operazioni militari: durante la guerra contro Gaza del 2014 le strutture educative della Striscia sono state bombardate e parecchie università della West Bank sono state oggetto delle irruzioni delle autorità israeliane che hanno portato a gravi danneggiamenti e devastazioni. A causa dell'embargo decennale imposto da Israele sulla Striscia di Gaza agli studenti palestinesi è stato impedito di andare nelle università della West Bank e viceversa. I professori e gli studenti di Gaza hanno pochissime possibilità di viaggiare all'estero per la propria istruzione o per delle conferenze poiché possono uscire solo attraverso il valico di Rafah, che è aperto solo per periodi limitati di tempo, ed hanno difficoltà nell'ottenere i visti. I palestinesi in West Bank sono obbligati ad un viaggio via terra in Giordania per prendere un aereo e sono dunque costretti ad aggiungere un ulteriore giorno alla propria tabella di marcia. I palestinesi del '48 [I palestinesi che vivono nella cosiddetta Israele NdT] e quelli residenti a Gerusalemme devono affrontare delle procedure di “sicurezza” umilianti all'aeroporto Ben Gurion. Come sipuò immaginare non è facile incontrare dei professori palestinesi durante le conferenze internazionali, compreso l'incontro annuale della Middle East Studies Association.

Mito n°4: Il BDS si concentra ingiustamente su Israele
Qualcuno dice che ci si concentra ingiustamente su Israele quando nel mondo ci sono trasgressori ben più vergognosi dei diritti umani. Israele, a differenza di altri violatori dei diritti umani, si è già denotata per il livello di impunità internazionale di cui gode. Si è denotata anche per le centinaia di miliardi di dollari ricevuti dagli Stati Uniti sotto forma di aiuti mentre l'UE l'ha incluso come unico paese non europeo che può accedere ai finanziamenti per la ricerca accademica e scientifica nell'ambito del programma Horizon 2020.

Qualcuno afferma che anche l'Autorità Palestinese ed Hamas stanno violando i diritti umani dei palestinesi. A differenza di Israele Hamas è stata punita dai governi occidentali tramite il boicottaggio del loro governo e con la loro complicità nell'embargo sulla Striscia di Gaza. Le violazioni da parte dell'AP rientrano nel suo ruolo di gestione dell'occupazione israeliana (altrimenti nota come “cooperazione sulla sicurezza”). Secondo il diritto internazionale Israele in quanto potenza occupante è il principale responsabile per le violazioni dei diritti umani nei TPO.

Mito n°5: I boicottaggi e le sanzioni non funzionano.
Al contrario: i boicottaggi operati dalla società civile, come quello degli autobus a Montgomery nel '55 ed il movimento contro l'apartheid sudafricana degli anni '80, hanno una lunga storia nel fare pressione ai governi e ad altre organizzazioni per affrontare delle situazioni ingiuste. Il movimento BDS globale non fa pressioni solo su Israele ma anche sugli altri governi che permettono ad Israele di continuare con il proprio comportamento criminale, non ultimi gli Stati Uniti. Inoltre il boicottaggio è anche tattico a causa dell'alto grado di presenza internazionale delle istituzioni accademiche israeliane.

Infine siamo moralmente obbligati a rispettare l'appello per il boicottaggio di Israele perché proviene dalle vittime delle violazioni israeliane. Come ha dichiarato Desmond Tutu: “se sei neutrale di fronte all'ingiustizia hai scelto di stare dalla parte dell'oppressore”. Come femminista sto con gli oppressi contro gli oppressori. Se le società civili in ogni altra parte del mondo avessero fatto appello per un boicottaggio delle istituzioni complici della loro oppressione, incluse le mie, le avrei considerate allo stesso modo.

Da Jadaliyya, ripreso da un articolo apparso sull'edizione del febbraio 2015 del bollettino telematico dell'Association for Middle East Women's Studies.
Traduz. Emanuele Calitri

lunedì 9 febbraio 2015

La guerra globale


In Ucraina la guerra globale è alle porte. Si mobiliti finalmente tutta la sinistra italiana!
08 Febbraio 2015 19:11 Internazionale - Pace e guerra
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soldato donbass 2di Mauro Gemma

Quando uno dei “potenti della terra”, il presidente francese Hollande, arriva a fare affermazioni che non escludono la possibilità dello scatenamento, nello scenario ucraino, di una guerra dalle proporzioni inimmaginabili tra l'Occidente imperialista e la Russia, non occorre essere particolarmente ferrati in politica internazionale per capire che ormai si corre il rischio di essere arrivati a un punto di non ritorno.

L'ipotesi di una spaventosa guerra globale non viene avanzata più solamente dalle voci isolate di qualche esperto preveggente, come quelle di coloro che già tempo fa la ipotizzavano nelle prime fasi del conflitto del Donbass, attribuendo all'imperialismo statunitense persino la volontà di utilizzare le armi più devastanti per affermare definitivamente il proprio progetto egemonico nell'intero spazio post-sovietico.


Ora, di fronte a quanto sta accadendo, con l'intenzione ormai dichiarata dell'amministrazione USA di scendere in campo prepotentemente a fianco dell'esercito dei golpisti di Kiev, rendendo esplicito il sostegno di armi e istruttori che già, sottobanco, era stato garantito fin dall'inizio alle operazioni “antiterroriste” nell'Ucraina sud orientale avviate dai dirigenti nazional-fascisti della giunta ucraina e sfociate in un autentico genocidio delle popolazioni dell'Ucraina sud orientale, si precisa un quadro che dovrebbe terrorizzare l'opinione pubblica dell'intero nostro continente.

Nella prospettiva dell'eventuale fallimento degli ultimi tentativi di composizione negoziata del conflitto, in grado di garantire almeno una parziale distensione della situazione, e della evidente determinazione degli Stati Uniti (e dei vertici della NATO) di procedere con le soluzioni estreme, le conseguenze più catastrofiche rischiano di investire anche l'Italia che sarebbe inghiottita nel vortice di un'avventura pianificata nell'altra parte dell'Oceano. E non bastano certo le dichiarazioni dei nostri ministri, di allineamento alle posizioni più possibiliste di Francia e Germania. Nel momento in cui le operazioni più aggressive verso la Russia fossero avviate, i vincoli che legano noi (e tutti gli altri alleati) alla NATO non lascerebbero alcuno spazio di manovra anche ai più riluttanti. Come afferma, senza timore di essere smentito, il presidente francese Hollande, “noi sappiamo che l'unico scenario può essere la guerra”. Del resto, a cosa, se non a una guerra micidiale, servirebbe ora la forza di intervento rapido di 30.000 soldati della NATO, che si sta dislocando nella regione baltica e nell'Europa orientale?

Ce ne sarebbe a sufficienza per rabbrividire e apprestarsi a una mobilitazione capillare delle coscienze in difesa della pace e per scongiurare un conflitto che già nelle dimensioni attuali comporta costi umani e materiali terribili, nel cuore stesso del nostro continente. Eppure i segnali che arrivano in merito alla reazione dell'opinione pubblica, nel nostro paese e in Europa, non sono certo confortanti.

A questa desolante inerzia non si sottrae neppure la sinistra. E nel nostro paese la sua sottovalutazione della pericolosità della situazione assume contorni persino deprimenti.

Stendiamo un pietoso velo sul comportamento della sinistra oggi presente in parlamento. Mentre quella interna al PD sembra allineata, senza particolari distinguo, alle posizioni ufficiali del partito di sostegno esplicito al golpe di Kiev e ai suoi dirigenti nazional-fascisti e di demonizzazione della Russia (è di pochi giorni fa la sconcertante esibizione televisiva della stessa segretaria generale della CGIL a giustificazione delle sanzioni alla Russia, con l'utilizzo degli argomenti propagandistici dei settori più oltranzisti dell'imperialismo), “Sinistra ecologia e libertà”, dopo avere inizialmente simpatizzato per i protagonisti del golpe di Kiev, continua a mantenere il più rigoroso (e complice) silenzio sulle vicende che sconvolgono le terre violentate dall'aggressione nazista ai confini della Russia, come se la cosa non la riguardi o le crei imbarazzo.

Ma, a essere obiettivi, non è che la sinistra extra-parlamentare se la passi meglio. Neppure da queste parti, con qualche lodevole eccezione, il tema della pace messa a repentaglio nel cuore dell'Europa sembra riscuotere un particolare successo. In tutte le ultime iniziative allestite all'insegna dell'unità della sinistra, pur caratterizzate da temi importanti e pregnanti come quelli del lavoro e della difesa della Costituzione, minacciata dalle manovre del governo Renzi, non sembra essercene traccia. Se si prova a leggere gli interventi di autorevoli dirigenti delle organizzazioni della sinistra extraparlamentare, di sue personalità storiche, a esaminare i contenuti di molti siti web di riferimento di partiti e componenti della cosiddetta “sinistra radicale”, si rimane colpiti dalla quasi completa assenza di contenuti che vadano oltre la semplice e sporadica registrazione delle notizie su quanto accade sul fronte di guerra del Donbass.

Fanno eccezione e meritano la massima considerazione e rilievo le iniziative messe in campo da tenaci personalità del giornalismo e della cultura (come Giulietto Chiesa, Manlio Dinucci, Domenico Losurdo e Vauro Senesi), da gruppi informali e da alcuni siti web (oltre al nostro Marx21.it che ha dato ampio spazio a materiali e campagne promossi dai comunisti ucraini e russi, ricordiamo quelli di Contropiano e del CIVG), le campagne di sensibilizzazione come quella che ha visto come protagonisti i musicisti della Banda Bassotti con i loro concerti nelle zone interessate dalla guerra, i presidi e le manifestazioni di comitati locali spesso purtroppo scollegati dalle forze più organizzate della sinistra, numerose pagine facebook (come “con L'Ucraina antifascista” e “Fronte Sud”) e, tra le forze politiche, il Partito Comunista d'Italia e la Rete dei comunisti che, fin dall'inizio, hanno messo a disposizione le loro strutture e i loro militanti per manifestazioni e dibattiti su quanto accade in Ucraina, che hanno coinvolto alcune migliaia di cittadini. Spicca poi il lavoro straordinario di Pandora TV che ha garantito una quotidiana controinformazione che ha cercato di contrastare il torrente di menzogne rovesciatoci addosso dall'apparato mediatico dominante. E mi scuso se ho dimenticato qualcuno.

Ma è la questione della nostra appartenenza alla NATO quella che ormai non può più essere derubricata dall'agenda dell'iniziativa politica di quella che si suole chiamare “sinistra” nel nostro paese. E' la parola d'ordine dell'uscita dell'Italia dall'alleanza militare imperialista che oggi dovrebbe essere posta all'ordine del giorno della più grande mobilitazione di massa. E non è più giustificabile che iniziative come quelle che, negli ultimi mesi, sono state avviate con la proposta della creazione di un Comitato No Nato (http://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/24863-perche-dobbiamo-uscire-dalla-nato.html) siano delegate a un gruppo di attivisti volonterosi e determinati. Attorno a questa iniziativa non è più rinviabile la partecipazione e l'adesione di un vasto schieramento di forze che hanno a cuore la pace.

E invece la questione che più dovrebbe essere all'ordine del giorno, non solo per il popolo italiano ma per tutti i popoli del nostro pianeta, la questione della pace compromessa dalle guerre, dalle aggressioni e dall'ingerenza sfacciata dell'imperialismo e dei suoi disegni egemonici, che rischiano di trasformarsi in catastrofe globale, è quasi completamente assente nel confronto di chi si propone di chiamare a raccolta le forze della sinistra. Come se le sorti dell'umanità su cui incombe questa minaccia non riguardassero gli uomini e le donne del nostro paese, più di ogni altro problema.

E' invece venuto veramente il momento di prendere piena consapevolezza della gravità della situazione che stiamo vivendo in queste ore. La guerra globale è alle porte. Non ci sono più giustificazioni. I comunisti, la sinistra, tutti i democratici si mobilitino finalmente, con tutte le loro forze, in modo corrispondente alle gloriose tradizioni del movimento per la pace del nostro paese, contro la scalata aggressiva di USA e NATO nel Donbass, contro la guerra imperialista. Prima che sia troppo tardi.
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sabato 7 febbraio 2015

Il prestigio dell'Italia



L’ARTE DELLA GUERRA

Il «prestigio» dell’Italia

Manlio Dinucci

Non poteva aprirsi meglio il 2015 per quell’Italia che basa sulle missioni militari «il suo rinnovato prestigio» (come sostenuto dal presidente Napolitano).

«Grande apprezzamento» per l’impegno italiano sui vari fronti di guerra è stato espresso nientemeno che dal generale Martin Dempsey, la massima autorità militare Usa, negli incontri con il capo di stato maggiore della Difesa, ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, e con il ministro della Difesa Roberta Pinotti.

Subito dopo l’ammiraglio Mantelli ha preso parte a Bruxelles agli incontri tra i capi di stato maggiore della Difesa dei 28 paesi Nato, incentrati sulle «situazioni di crisi nei fianchi est e sud dell’Alleanza», sul «futuro della missione Resolute Support in Afghanistan» e sulla messa a punto del «Readiness Action Plan per garantire le capacità di risposta rapida e determinata alle nuove minacce alla sicurezza dell’Alleanza». L’impegno dell’Italia è a tutto campo.

Sul «fianco est», cacciabombardieri italiani Eurofighter 2000 Typhoon (gli stessi usati nella guerra Nato contro la Iugoslavia), sono stati schierati in Lituania, da dove hanno effettuato la loro prima missione intercettando un aereo russo che volava sul Baltico.

Sul «fianco sud», dopo aver partecipato alla guerra Nato contro la Libia, l’Italia partecipa all’intervento militare in Siria, effettuato dalla coalizione internazionale a guida Usa, e a quello in Iraq dove, nel quadro della stessa coalizione, ha inviato aerei, droni, armi e istruttori.

Sempre più presente l’Italia anche nel Golfo persico, in particolare attraverso la partnership militare con il Qatar e il Kuwait, i cui piloti vengono addestrati a Galatina dall’aeronautica italiana. Navi militari italiane partecipano a tutte le operazioni Nato, dal Mediterraneo (per «garantire la sicurezza») all’Oceano Indiano (per «la caccia ai pirati»).

Sempre sul «fianco sud», l’Italia si è spinta in profondità nell’Africa subsahariana, partecipando all’esercitazione Flintlock 2015, organizzata dalle Forze speciali del Comando Africa degli Stati uniti, che inizierà in Ciad il 16 febbraio, estendendosi a Niger, Nigeria e Camerun e, a nord, fino in Tunisia.

In Afghanistan, dove la missione Nato «Isaf» è stata trasformata in missione Nato «Resolute Support», l’Italia continuerà a operare militarmente con aerei da trasporto C-130 J e da guerra elettronica EC-27 della 46a Brigata aerea di Pisa, velivoli a pilotaggio remoto Predator del 32° stormo di Amendola e, ancor più di prima, con forze speciali, oggi potenziate dalla nascita del comando unificato a Pisa.

L’Italia partecipa allo stesso tempo al «Readiness Action Plan», che potenzia la capacità Nato di proiettare forze militari sia verso est (con la motivazione della «minaccia russa») che verso sud (con la motivazione della «guerra al terrorismo», alimentato dalla stessa Nato). In tale quadro, le basi Usa/Nato in Italia svolgono un ruolo di fondamentale importanza.

Tutto ciò comporta per l’Italia una crescente spesa militare, diretta e indiretta. Secondo la Nato, essa ammonta oggi in media a 52 milioni di euro al giorno, secondo il Sipri a 72 milioni che, in base all’impegno assunto dall’Italia di portarla al 2% del pil, dovranno salire a quasi 100 milioni al giorno. Per assicurare non la difesa dell’Italia, ma la sua partecipazione a una strategia aggressiva.

Dato che la speranza è l’ultima a morire, non resta che sperare che il concetto di prestigio nazionale del nuovo Presidente della Repubblica si basi non sulla guerra, ma sul ripudio della guerra come sancisce la nostra Costituzione.

(il manifesto, 3 febbraio 2015)

venerdì 6 febbraio 2015

DEMOLITE CASE DISTRUTTO STRUTTURE DEPORTATO PALESTINESI. I DANNI COMPIUTI DA ISRAELE



ONU: Israele ha demolito nel 2014 le case di 1177 palestinesi a Gerusalemme e nella Cisgiordania.

Dall’inizio del 2015, le autorità israeliane hanno distrutto 77 strutture, deportando 110 palestinesi

di Amira Hass

01.02.2015, Haaretz



Dall’inizio del 2015, l’Amministrazione Civile dell’esercito israeliano [nome improprio dell’amministrazione militare israeliana che governa sui Territori Occupati. N.d.tr.] ha demolito 77 case, recinti di bestiame, capannoni di fabbriche ed altre strutture di palestinesi nell’area C della Cisgiordania, in quanto erano stati edificati senza permesso. Secondo un rapporto stilato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento delle Attività Umanitarie (OCHA), il risultato è stato che 110 persone, di cui circa la metà bambini, hanno perso le loro case nel pieno dell’inverno.

Secondo l’OCHA, tra il 19 e il 26 gennaio l’Amministrazione Civile ha demolito 41 strutture, molte di più rispetto alla media settimanale del 2014, che era di 9 demolizioni a settimana. In un lasso di tempo di 7 giorni, gli ispettori dell’Amministrazione Civile hanno emesso 45 ordini di divieto di costruzione e due ordini di demolizione.

Nel 2014 l’Amministrazione Civile ha demolito le case di 969 palestinesi – per un totale di 493 case e strutture di pertinenza – costruite senza permesso nell’area C della Cisgiordania, che in base agli Accordi di Oslo è sotto il controllo esclusivo di Israele. A Gerusalemme est sono state demoliti 7 edifici di palestinesi, compresi due il 29 gennaio nei dintorni di Jabal Mukkaber. Sono stati distrutti edifici anche a Isawiyah, Shoafat e Ras al Amud. A Gerusalemme est 208 palestinesi sono stati sgomberati nel 2014 in seguito alla demolizione di 97 edifici. Nel 2014, secondo i dati dell’OCHA, le autorità israeliane hanno distrutto 590 strutture di proprietà di palestinesi nell’area C e a Gerusalemme est, espellendo 1.177 persone.

Le 41 strutture demolite dall’Amministrazione Civile tra il 19 e il 26 gennaio, secondo l’OCHA, si trovavano nelle comunità beduine o di altri pastori nell’area di Hebron, Jerico, Ramallah e Beit Iksa, a nordovest di Gerusalemme. Tra di esse vi erano edifici donati da organizzazioni umanitarie europee. Gli ordini di interruzione di costruzione sono stati emessi nei confronti di un parco finanziato da nazioni donatrici nell’area di Yatta e di edifici nell’area di Ramallah e nei dintorni di Tubas, nella Valle nord del Giordano.

Il Coordinatore militare delle Attività Governative nei Territori ha replicato che, in base ai suoi dati, l’Amministrazione Civile era intervenuta nei confronti di 408 strutture palestinesi costruite illegalmente nel 2014, 118 delle quali sono state distrutte dai proprietari. Ha aggiunto che nel gennaio 2015 42 edifici sono stati soggetti all’applicazione della legge.

Il 23 gennaio il Coordinatore per la Residenza e le Questioni Umanitarie delle Nazioni Unite, James W. Rawley, ha espresso preoccupazione riguardo alla recente ondata di demolizioni di case palestinesi da parte delle autorità israeliane in Cisgiordania e Gerusalemme est. “Negli ultimi tre giorni, 77 palestinesi, di cui più della metà bambini, sono rimasti senza casa”, ha detto Mr. Rawley. “Alcune delle strutture demolite erano state fornite dalla comunità internazionale per sostenere famiglie vulnerabili. Le demolizioni, che hanno come conseguenza lo sgombero forzato e l’espulsione, sono una violazione degli obblighi di Israele in base al diritto internazionale e provocano inutili sofferenze e tensioni. Devono cessare immediatamente”, ha affermato Rawley.

Le politiche di pianificazione di Israele limitano fortemente la possibilità per i palestinesi di costruire a Gerusalemme est, discriminandoli rispetto agli ebrei. Nell’area C – la maggior parte della Cisgiordania – tranne in casi eccezionali, Israele non consente ulteriori costruzioni palestinesi, richieste dalla naturale crescita della popolazione, e non permette il collegamento di centinaia di comunità, con circa 300.000 residenti palestinesi, alle infrastrutture (dati di OCHA). Perciò le tre opzioni disponibili per la popolazione sono vivere in case sovraffollate e in condizioni difficili, spostarsi nelle zone palestinesi nelle aree A e B o costruire senza permesso e, senza alcuna possibilità di scelta , continuare a costruire senza permesso.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

mercoledì 4 febbraio 2015

MENZOGNE DI GUERRA


SIBIALIRIA: la prima a morire in guerra è la Verità
Menzogne di guerra

La Madre di tutte le menzogne di guerra: le mani mozzate ai bambini in Belgio


Questo articolo viene pubblicato contemporaneamente anche nel sito www.centoannidiguerre.org quale contributo di Sibialiria all’istituendo Comitato contro le celebrazioni della Prima guerra mondiale.



Incombe il governativo Centenario della Grande Guerra che già si annuncia all’insegna della esaltazione del sacrificio per la Patria, dell’onore di essere “Italiani brava gente”, al richiamo alla compattezza nazionale contro i nemici interni ed esterni, alla necessità di rafforzare il nostro apparato militare contro le “forze ostili”… Temiamo quindi che la quantità enorme di celebrazioni metterà in secondo piano un aspetto fondamentale di quel conflitto e cioè l’irrompere di una propaganda basata su menzogne che servirono a spingere verso la guerra una opinione pubblica che , fino a quel momento , sembrava riluttante. La più famosa di queste menzogne fu, certamente, la sbalorditiva malvagità esternata dalle truppe tedesche in Belgio, malvagità di cui le mani mozzate ai bambini rappresenta l’apice.

Se Sibialiria si sofferma su questa impostura, vecchia ormai di cento anni, non è certo per velleità enciclopediche o per additare una recente pubblicazione che, incredibilmente, la riprende come vera. Da sempre le guerre sono accompagnate o precedute da accuse al nemico di turno, presentato come un mostro capace di qualsiasi crimine : ma è solo con la Prima guerra mondiale – con l’irrompere dei quotidiani e delle cartoline a colori – che la creazione di falsi di guerra diventa una vera e propria industria che assolda grafici di talento, scrittori famosi, giornalisti… Il primo prodotto di successo di questa industria è stata, appunto, la leggenda dei bambini belgi con le mani mozzate dai tedeschi. Una menzogna, che ha avuto un impatto emotivo enorme (il compianto giornalista Alessandro Curzi, ad esempio, ricordava che suo padre, socialista e da sempre contrario alla guerra, nel 1915 divenne interventista, quando apprese dai giornali questa notizia) e che ha contribuito in modo determinante a far precipitare l’umanità in una guerra costata milioni di morti.

E dire che se c’era una nazione che, veramente, faceva mozzare le mani ai bambini, questo era il Belgio.



Il Rapporto Bryce

grandemanimozzeTutti le campagne mediatiche per avere successo devono contenere almeno due elementi: una storytelling, – e cioè un episodio di grande impatto emotivo che suggerisce un corpus di credenze – e l’autorevolezza di chi questo episodio narra (che, solitamente dissuade il pubblico dal verificarne la veridicità). Ad esempio, la storytelling dei “neonati strappati alle incubatrici nel Kuwait dai soldati iracheni” raccontata da Nayirah – una infermiera del Kuwait – fu considerata da molti attendibile non già dalla dichiarazione di questa anonima infermiera (che poi si scoprì essere la figlia di Saud Nasir al-Sabah, ambasciatore del Kuwait negli USA, e istruita dall’agenzia di pubbliche relazioni Hill & Knowlton,) ma dalla circostanza che nessuno della Commissione senatoriale USA (davanti alla quale fu pronunciata) osò metterla in dubbio. Oggi, generalmente, la veridicità della notizia è garantita dalla televisione e dai suoi ineffabili corrispondenti di guerra che, in qualche caso, dopo aver diffuso evidentissimi falsi – ad esempio, le “Fosse comuni di Gheddafi” – quando questi falsi sono universalmente riconosciuti tali, per garantirsi una verginità, dichiarano di essere stati ingannati.

Cento anni fa l’autorevolezza della notizia fu garantita dal ponderoso Rapporto Byrce, (qui è possibile leggere il documento in originale) – redatto, nel dicembre 1914, dal Comitato per indagare le voci sulle atrocità in Belgio istituito dal primo ministro inglese Herbert Asquith e diretto dal visconte Lord James Bryce – che riportante mostruose atrocità commesse dai soldati tedeschi in Belgio (persone stuprate, crocifisse, impalate, accecate… donne sgozzate e/o con mammelle amputate… e, soprattutto, bambini con mani mozzate) divenne, in poche settimane, un best seller.

Subito tradotto in 30 lingue dal governo inglese, il Rapporto Byrce, (anche grazie a veementi promotori come lo scrittore Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes) conobbe varie versioni. In Italia, ad esempio, sia il Corriere della sera sia Il Messaggero ne stamparono una edizione popolare arricchita con varie illustrazioni. Da qui il libro di Achille De Marco Sangue belga che descriveva, con una fantasia davvero perversa, tutta una serie di mutilazioni tra cui “bimbe mutilate dei piedi e obbligate a correre sui moncherini per il passatempo spirituale della soldataglia tedesca”. Curiosamente, questo episodio non era riportato nel Rapporto Byrce – che il De Marco assicurava essere la fonte del suo libro – ma fu comunque ampiamente ripreso dalle successive “edizioni popolari” del Rapporto.

Innumerevoli sono state poi le raffigurazioni attestanti le atrocità riportate nel Rapporto. Soprattutto cartoline illustrate a colori; le più famose quelle commissionate dallo Stato maggiore francese al disegnatore Francisque Poulbot: si stima che la serie più famosa delle sue cartoline sia stata stampata in un milione di copie.



L’attendibilità del Rapporto Byrce

lanciaFinita la prima guerra mondiale, i documenti originali delle deposizioni dei presunti testimoni belgi (tutti anonimi) che costituivano il Rapporto Byrce rimasero secretati. Non fu questa l’unica stranezza che insospettì gli storici. Verosimilmente, c’era anche la curiosità di sapere come avessero fatto i membri della commissione di indagine coordinata da Byrce a gironzolare in un Belgio occupato dall’esercito tedesco e a incontrare così tante persone disposte (se pur anonimamente) a testimoniare. Fu per questo che alcuni ricercatori – tra cui Arthur Ponsonby e Fernand van Langenhove – ripercorsero le aree del Belgio (distretto di Liegi, Valle della Meuse, Aarschot,, Mechelen, Louvain…) menzionate nel Rapporto come teatro degli efferati crimini commessi dai tedeschi. Ma non trovarono alcuna conferma di questi supposti episodi. Analogo risultato quando indagarono su un famoso (cinque prime pagine sul Times) evento riportato nel Rapporto Byrce: tredici bambini del villaggio di Sempst violentati e poi finiti con le baionette. Poi passarono in esame l’evento clou: i bambini con le mani mozzate. Da cosa era nata questa leggenda? Sostanzialmente, da due rumors. Nel primo, un anonimo sacerdote del distretto di Termonde, in una predica, avrebbe raccontato di un bambino che lo aveva avvicinato per chiedergli quale preghiera innalzare a Gesù per fargli crescere le mani mozzate dai Tedeschi. Nel secondo, che sarebbe avvenuto in un ospedale del nord del Belgio, una bambina di sei anni con le mani mozzate avrebbe composto questa straziante preghiera (riportata nel periodico Semaine religieuse di l'Ille-et-Vilaine): “Signore non ho più le mani. Un crudele soldato tedesco me le ha prese, dicendo che i bambini belgi e francesi non hanno diritto ad avere le mani; che questo diritto lo hanno solo i bambini dei tedeschi. E me le ha tagliate. E mi ha fatto molto male. Ma il soldato rideva e diceva che i bambini che non sono tedeschi non sanno soffrire. Da quel giorno, Signore, la mamma è diventata pazza ed io sono sola. Il babbo è stato portato via dai soldati tedeschi il primo giorno di guerra. Non ha mai scritto. Certamente, lo avranno fucilato…”. Le puntigliose ricerche di van Langenhove e di altri non trovarono alcuna conferma di questi episodi. Analogo risultato ottenuto da Francesco Saverio Nitti, già ministro durante la guerra e in seguito, presidente del Consiglio: “Abbiamo sentito raccontare la storia dei piccoli infanti belgi ai quali gli unni avevano mozzato le mani. Dopo la guerra, un ricco americano, scosso dalla propaganda francese, inviò in Belgio un emissario per provvedere al mantenimento dei bambini cui erano state tagliate le povere manine. Non riuscì ad incontrarne nemmeno uno. Mister Lloyd George e io stesso, quando ero capo del governo italiano, abbiamo fatto eseguire delle minuziose ricerche per verificare la veridicità di queste accuse, nelle quali, in certi casi, si specificavano nomi e luoghi. Fu rilevato che tutti i casi oggetto delle nostre ricerche, erano stati inventati.”

img3618_1L’inattendibilità del Rapporto Byrce non significa, certo, che non vi furono esecuzioni sommarie, o altri crimini, commessi dalle truppe di occupazione tedesche. Esecuzioni dettate anche dalla psicosi imperante tra le truppe tedesche che vedevano nelle numerose feritoie che costellavano i muri delle case belghe (in realtà “fori in muratura” destinati a fissare le impalcature per gli imbianchini delle facciate) una postazione per cecchini. Psicosi, tra l’altro, istituzionalizzata da autorevoli opinionisti tedeschi come il professore universitario B. Händecke che sul quotidiano Nationale Rundschau spiegava che la crudeltà belga era già iscritta nell’arte fiamminga.



I falsi di guerra

La leggenda dei bambini con le mani mozzate, oltre che per il suo enorme impatto nell’opinione pubblica (In Italia, uno dei pochissimi studiosi che ne denunciò la falsità fu Benedetto Croce) merita di essere analizzata perché si basa su un aspetto che caratterizzerà fino ai nostri giorni i falsi di guerra: l’illogicità del gesto.

L’occupazione tedesca del Belgio era finalizzata all’invasione della Francia, non certo all’attuazione di una qualche pulizia etnica, per la quale, cioè, bisogna terrorizzare la popolazione autoctona per costringerla a fuggire. Corollario di questa strategia era l’esigenza per la Germania di garantirsi un Belgio relativamente tranquillo dopo che – già nei primi giorni dell’invasione – era stata neutralizzata gran parte della resistenza. In questo contesto – come fece notare van Langenhove – sarebbe stato del tutto illogico per la Germania non solo organizzare (secondo il Financial Times veniva direttamente dal Kaiser la direttiva di torturare i bambini, specificando – tra l’altro – quali torture dovessero essere eseguite) ma anche permettere ufficialmente il compiersi di tali gratuite atrocità contro la fascia più inerme della popolazione. In altri termini “…(di fronte a queste atrocità)… cosa altro avrebbero fatto gli abitanti dei paesini teatro di tali infamie se non avventarsi, magari con qualche coltello da cucina, sul primo tedesco che passava?” Se questo si fosse verificato, la Germania si sarebbe trovata ad affrontare una resistenza immensamente più feroce di quella che caratterizzo l’invasione del Belgio, durante la guerra franco-prussiana, nel 1870.

Nonostante ciò, innumerevoli, illogiche, menzogne di guerra (basti pensare ai cecchini di Assad che sparano sulle donne incinte), anche oggi, vengono prese per buone da gran parte dell’opinione pubblica. Come è possibile? Tra gli studiosi che si occuparono di questo fenomeno, un posto di rilievo spetta, certamente allo storico Marc Bloch che, nel 1921, pubblicò Riflessioni d’uno storico sulle false notizie della guerra un testo breve ma ancora oggi illuminante per capire su quali meccanismi i creatori di falsi di guerra basino il loro agire. “Solo grandi stati d’animo collettivi hanno il potere di trasformare in leggenda una cattiva percezione. – dichiara Bloch – Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; la sua messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento.”

Una menzogna di guerra, quindi , serve sostanzialmente a cementare tutto un corpus di credenze già imposte all’opinione pubblica e a trasformare in paranoia il diffuso senso di insicurezza. Paranoia che, quindi, impone di fermare il nemico di turno prima che possa colpire anche l’inerme consumatore della menzogna (oggi, solitamente, un telespettatore). E bisogna agire subito, perché il nemico dispone, nel paese del consumatore, di una quinta colonna (pacifisti, disfattisti, comunità etnico- religiose…) o è dotato di imperscrutabili armi capaci di seminare ovunque distruzione.



Agli albori della Prima guerra mondiale la costruzione di un nemico capace delle più turpi efferatezze, che, se non lo si fosse fermato in tempo sarebbero dilagate dovunque, fu affidata in Italia (fino ai primi mesi del 1915 alleata dell’Impero austro-ungarico) ad una torma di giornalisti i quali furono letteralmente comprati da emissari del governo francese o inglese e/o da gruppi industriali interessati alle commesse militari. E così, in pochi mesi, fu imbastita una gigantesca campagna mediatica – imperniata sullo “stupro del piccolo e pacifico Belgio” – fatta propria da non pochi intellettuali e accompagnata da innumerevoli manifestazioni, culminate nel Maggio radioso, che chiedevano l’entrata in guerra.

padreIronia della sorte, anche in quei giorni, “il Belgio” continuava a mozzare le mani ai bambini. Nel Congo, fino al 1909 proprietà privata di Leopoldo II re del Belgio. Per costringere le popolazioni a raccogliere nelle foreste il Caucciù e consegnarlo agli agenti della Société Générale de Belgique. Un abominio, accompagnato dallo sterminio – in 23 anni – di circa 9 milioni di congolesi, che aspetta ancora di essere ricordato in qualche museo o Giornata della Memoria.





Francesco Santoianni

Redazione di Sibialiria
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martedì 3 febbraio 2015

L’ARTE DELLA GUERRA



Il «prestigio» dell’Italia

Manlio Dinucci

Non poteva aprirsi meglio il 2015 per quell’Italia che basa sulle missioni militari «il suo rinnovato prestigio» (come sostenuto dal presidente Napolitano).

«Grande apprezzamento» per l’impegno italiano sui vari fronti di guerra è stato espresso nientemeno che dal generale Martin Dempsey, la massima autorità militare Usa, negli incontri con il capo di stato maggiore della Difesa, ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, e con il ministro della Difesa Roberta Pinotti.

Subito dopo l’ammiraglio Mantelli ha preso parte a Bruxelles agli incontri tra i capi di stato maggiore della Difesa dei 28 paesi Nato, incentrati sulle «situazioni di crisi nei fianchi est e sud dell’Alleanza», sul «futuro della missione Resolute Support in Afghanistan» e sulla messa a punto del «Readiness Action Plan per garantire le capacità di risposta rapida e determinata alle nuove minacce alla sicurezza dell’Alleanza». L’impegno dell’Italia è a tutto campo.

Sul «fianco est», cacciabombardieri italiani Eurofighter 2000 Typhoon (gli stessi usati nella guerra Nato contro la Iugoslavia), sono stati schierati in Lituania, da dove hanno effettuato la loro prima missione intercettando un aereo russo che volava sul Baltico.

Sul «fianco sud», dopo aver partecipato alla guerra Nato contro la Libia, l’Italia partecipa all’intervento militare in Siria, effettuato dalla coalizione internazionale a guida Usa, e a quello in Iraq dove, nel quadro della stessa coalizione, ha inviato aerei, droni, armi e istruttori.

Sempre più presente l’Italia anche nel Golfo persico, in particolare attraverso la partnership militare con il Qatar e il Kuwait, i cui piloti vengono addestrati a Galatina dall’aeronautica italiana. Navi militari italiane partecipano a tutte le operazioni Nato, dal Mediterraneo (per «garantire la sicurezza») all’Oceano Indiano (per «la caccia ai pirati»).

Sempre sul «fianco sud», l’Italia si è spinta in profondità nell’Africa subsahariana, partecipando all’esercitazione Flintlock 2015, organizzata dalle Forze speciali del Comando Africa degli Stati uniti, che inizierà in Ciad il 16 febbraio, estendendosi a Niger, Nigeria e Camerun e, a nord, fino in Tunisia.

In Afghanistan, dove la missione Nato «Isaf» è stata trasformata in missione Nato «Resolute Support», l’Italia continuerà a operare militarmente con aerei da trasporto C-130 J e da guerra elettronica EC-27 della 46a Brigata aerea di Pisa, velivoli a pilotaggio remoto Predator del 32° stormo di Amendola e, ancor più di prima, con forze speciali, oggi potenziate dalla nascita del comando unificato a Pisa.

L’Italia partecipa allo stesso tempo al «Readiness Action Plan», che potenzia la capacità Nato di proiettare forze militari sia verso est (con la motivazione della «minaccia russa») che verso sud (con la motivazione della «guerra al terrorismo», alimentato dalla stessa Nato). In tale quadro, le basi Usa/Nato in Italia svolgono un ruolo di fondamentale importanza.

Tutto ciò comporta per l’Italia una crescente spesa militare, diretta e indiretta. Secondo la Nato, essa ammonta oggi in media a 52 milioni di euro al giorno, secondo il Sipri a 72 milioni che, in base all’impegno assunto dall’Italia di portarla al 2% del pil, dovranno salire a quasi 100 milioni al giorno. Per assicurare non la difesa dell’Italia, ma la sua partecipazione a una strategia aggressiva.

Dato che la speranza è l’ultima a morire, non resta che sperare che il concetto di prestigio nazionale del nuovo Presidente della Repubblica si basi non sulla guerra, ma sul ripudio della guerra come sancisce la nostra Costituzione.

(il manifesto, 3 febbraio 2015)

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