giovedì 28 febbraio 2008
UN UOMO MORDE UN CANE
Un cane che morde un uomo non è una notizia. Ma se è un uomo a mordere un cane allora si che è una notizia. I palestinesi uccisi tutti i giorni dalle incursioni israeliane non sono una notizia, qualunque sia il loro numero o la loro età. Ma se un razzo kassam uccide una persona a Sderot questa si, è una notizia. Ai morti quotidiani nella Striscia e in Cisgiordania nessuno dà importanza, è roba normale, ma un ucciso a Sderot scatena feroci incursioni sulla popolazione inerme e uccide 14 persone in due giorni, tra cui 4 bambini e un neonato.
L'incursione ha distrutto anche la sede del Medical Relief che ospitava la principale clinica e farmacia della Striscia di Gaza, un ambulanza, un centro di sostegno per portatori di handicap, e gli uffici amministrativi. L'ambulanza, tutte le medicine e buona parte delle attrezzature sono andate distrutte. l'edificio è così danneggiaato da non poter più essere ancora utilizzato a meno di costosi interventi di recupero resi impossibili dal divieto israeliano di far entrare a Gaza qualsiasi materiale edile e pezzi di ricambio.
Medical Relief è una delle principali ONG palestinesi che offrono servizi sanitari. Nel 2007 ha raggiunto circa un milione e mezzo di palestinesi in 5oo città e villaggi. Ciò è stato ottenuto tramite una rete di infrastrutture e risorse umane costruite a Gerusalemme in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza nel corso di 29 anni di attività. Un'incursione e tanti anni di lavoro e sforzo sono andati distrutti. la vita dei palestinesi è un lavoro di Sisifo.
Qualcuno si ricorda ancora della convenzione di Ginevra secondo cui le punizioni collettive e il colpire personale medico è un crimine?
L'incursione ha distrutto anche la sede del Medical Relief che ospitava la principale clinica e farmacia della Striscia di Gaza, un ambulanza, un centro di sostegno per portatori di handicap, e gli uffici amministrativi. L'ambulanza, tutte le medicine e buona parte delle attrezzature sono andate distrutte. l'edificio è così danneggiaato da non poter più essere ancora utilizzato a meno di costosi interventi di recupero resi impossibili dal divieto israeliano di far entrare a Gaza qualsiasi materiale edile e pezzi di ricambio.
Medical Relief è una delle principali ONG palestinesi che offrono servizi sanitari. Nel 2007 ha raggiunto circa un milione e mezzo di palestinesi in 5oo città e villaggi. Ciò è stato ottenuto tramite una rete di infrastrutture e risorse umane costruite a Gerusalemme in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza nel corso di 29 anni di attività. Un'incursione e tanti anni di lavoro e sforzo sono andati distrutti. la vita dei palestinesi è un lavoro di Sisifo.
Qualcuno si ricorda ancora della convenzione di Ginevra secondo cui le punizioni collettive e il colpire personale medico è un crimine?
mercoledì 27 febbraio 2008
93 BAMBINI UCCISI DALL'EMBARGO A GAZA
Al telegiornale di rai tre abbiamo visto la lunga fila di bambini di Gaza che hanno partecipato alla catena umana che ha attraversato tutta la Striscia. Non c'è stato problema nel comporre la catena, a Gaza le persone non mancano essendo il luogo più popolato del mondo. La catena umana era una protesta non violenta contro l'embargo israeliano che ha ucciso solo nell'ultimo mese ben 93 bambini. A Gaza, come è ormai noto, manca tutto. Israele che controlla la Striscia come il più crudele dei carcerieri, non solo impedisce di far entrare i generi di prima necessità e necessari per la vita, ma impedisce anche alle persone di uscire, Gaza è una prigione di cui Israele ha gettato la chiave, da lì non esce neanche un gatto. (Non è un modo di dire, Alice, la gatta di una giovane italiana che aveva condiviso per un pò il dolore di Gaza e in questa gattina trovata sul posto aveva ricevuto un lenimento alla tristezza, non ha avuto il permesso di uscire con lei.)
Riceverà una sanzione Israele per la morte di questi 93 innocenti? Non credo, non l'aveva ricevuta nemmeno dopo l'orrendo massacro di Jenin, anzi, non c'era stata nemmeno la doverosa inchiesta internazionale, così come Sharon non ha mai pagato per Sabra e Shatila.
Un'amica palestinese mi ha mandato un video sui bambini di Gaza. Faceva venire i brividi vedere quei bimbi piccoli così atterriti da diventare assenti, con lo sguardo vuoto e spento e bambine un pò più grandi che tentavano di consolarli, loro stesse con i volti stravolti dalla paura: c'era un'incursione in corso.
Quando penso a Gaza mi viene in mente quella scena di Shinder'List dove il nazista del Lagher, sparava sulle persone per puro sport, così a caso, senza neppure odio o rancore, solo così per divertirsi un pò. Le incursioni dal cielo, i droni, le cannonate dal mare, sono pane quotidiano per Gaza. le ultime notizie parlano di un progetto di nuove massicce invasioni e bombardamenti sulla popolazione inerme, "per sconfiggere i terroristi". Chi morirà stavolta?
Io mi chiedo fino a quando durerà la nostra indifferenza? Fino a quando durerà la vergognosa complicità internazionale con Israele? Anche nel movimento per la pace c'è un'incredibile omologazione tra il genocidio portato avanti da Israele e gli approssimativi razzi kassam fatti in casa che fanno danni ridicoli al confronto. Si, certo, forse sarebbe meglio che codesti razzi fossero puntati verso la barriera metallica elettrificata che circonda Gaza, in un'azione di giusta resistenza come quando è stato fatto saltare il muro a Rafah, ma stiamo attenti a far passare l'idea che c'è un conflitto simmetrico, perchè questo porta acqua al mulino dell'occupante. Mi è arrivata una notizia sconvolgente, ma non nuova: alcuni soldati ad Hebron, si divertivano a soffocare i bambini per vedere chi resisteva di più prima di svenire.
Un giorno questo orrore sarà fiinalmente sotto gli occhi di tutti e tutti ci chiederemo: come abbiamo fatto a non vederlo? Allora verrà il momento della vergogna per tutti, esattamente come era stato dopo la Shoah. Come giustamente afferma Mandela, quella della Palestina è la questione morale fondamentale della nostra epoca. Non sarebbe meglio svegliarci adesso?
Riceverà una sanzione Israele per la morte di questi 93 innocenti? Non credo, non l'aveva ricevuta nemmeno dopo l'orrendo massacro di Jenin, anzi, non c'era stata nemmeno la doverosa inchiesta internazionale, così come Sharon non ha mai pagato per Sabra e Shatila.
Un'amica palestinese mi ha mandato un video sui bambini di Gaza. Faceva venire i brividi vedere quei bimbi piccoli così atterriti da diventare assenti, con lo sguardo vuoto e spento e bambine un pò più grandi che tentavano di consolarli, loro stesse con i volti stravolti dalla paura: c'era un'incursione in corso.
Quando penso a Gaza mi viene in mente quella scena di Shinder'List dove il nazista del Lagher, sparava sulle persone per puro sport, così a caso, senza neppure odio o rancore, solo così per divertirsi un pò. Le incursioni dal cielo, i droni, le cannonate dal mare, sono pane quotidiano per Gaza. le ultime notizie parlano di un progetto di nuove massicce invasioni e bombardamenti sulla popolazione inerme, "per sconfiggere i terroristi". Chi morirà stavolta?
Io mi chiedo fino a quando durerà la nostra indifferenza? Fino a quando durerà la vergognosa complicità internazionale con Israele? Anche nel movimento per la pace c'è un'incredibile omologazione tra il genocidio portato avanti da Israele e gli approssimativi razzi kassam fatti in casa che fanno danni ridicoli al confronto. Si, certo, forse sarebbe meglio che codesti razzi fossero puntati verso la barriera metallica elettrificata che circonda Gaza, in un'azione di giusta resistenza come quando è stato fatto saltare il muro a Rafah, ma stiamo attenti a far passare l'idea che c'è un conflitto simmetrico, perchè questo porta acqua al mulino dell'occupante. Mi è arrivata una notizia sconvolgente, ma non nuova: alcuni soldati ad Hebron, si divertivano a soffocare i bambini per vedere chi resisteva di più prima di svenire.
Un giorno questo orrore sarà fiinalmente sotto gli occhi di tutti e tutti ci chiederemo: come abbiamo fatto a non vederlo? Allora verrà il momento della vergogna per tutti, esattamente come era stato dopo la Shoah. Come giustamente afferma Mandela, quella della Palestina è la questione morale fondamentale della nostra epoca. Non sarebbe meglio svegliarci adesso?
sabato 16 febbraio 2008
A PROPOSITO DI BANDIERE
Per la morte di Pezzullo, il militare ucciso in Afganistan, Oderzo, la sua cittadina natale era piena di bandiere tricolori per ricordarlo. Ci sono stati anche i cinque minuti di silenzio.
Io vorrei fare una proposta:
Appendiamo una bandiera bianca alla finestra ogni volta che muore un operaio sul lavoro. Più che di guerra, è di lavoro che si muore nel nostro paese, ma in questi casi le bandiere non si appendono, forse perchè sarebbero troppe? Forse perchè dopo aver usato tutte le lenzuola di casa poi bisognerebbe passare agli asciugamani e chissà cos'altro?
In alternativa si potrebbe mettere alla finestra la suddetta bandiera ogni volta che viene uccisa una donna. O, se si vuole passare all'estero, appendere una bandiera palestinese ogni volta che muore un civile a Gaza o in Cisgiordania. Solo oggi ne sono stati uccisi 7 dall'esercito israeliano che ha fatto un attentato a Gaza con le sue squadre della morte. Poi ne ha feriti 50 in un'incursione in Cisgiordania. Poche parole dai telegiornali. Poche parole per i morti quotidiani sul lavoro, poche parole per le donne uccise, poche parole o nulla per il lento genocidio di Gaza e per i morti di occupazione nella West Bank.
Vogliamo fare anche, non cinque, ma solo un minuto di silenzio per ogni operaio morto sul lavoro, ogni donna uccisa o ogni innocente assassinato?
Bè, capisco, forse non basterebbero tutti i minuti della giornata.
Io vorrei fare una proposta:
Appendiamo una bandiera bianca alla finestra ogni volta che muore un operaio sul lavoro. Più che di guerra, è di lavoro che si muore nel nostro paese, ma in questi casi le bandiere non si appendono, forse perchè sarebbero troppe? Forse perchè dopo aver usato tutte le lenzuola di casa poi bisognerebbe passare agli asciugamani e chissà cos'altro?
In alternativa si potrebbe mettere alla finestra la suddetta bandiera ogni volta che viene uccisa una donna. O, se si vuole passare all'estero, appendere una bandiera palestinese ogni volta che muore un civile a Gaza o in Cisgiordania. Solo oggi ne sono stati uccisi 7 dall'esercito israeliano che ha fatto un attentato a Gaza con le sue squadre della morte. Poi ne ha feriti 50 in un'incursione in Cisgiordania. Poche parole dai telegiornali. Poche parole per i morti quotidiani sul lavoro, poche parole per le donne uccise, poche parole o nulla per il lento genocidio di Gaza e per i morti di occupazione nella West Bank.
Vogliamo fare anche, non cinque, ma solo un minuto di silenzio per ogni operaio morto sul lavoro, ogni donna uccisa o ogni innocente assassinato?
Bè, capisco, forse non basterebbero tutti i minuti della giornata.
giovedì 14 febbraio 2008
Arrivano i Talebani
C'è da rimanere esterrefatti di fronte a ciò che è accaduto a Napoli dove la polizia ha fatto irruzione nell'ospedale ed ha sequestrato....il feto e poi ha costretto a rispondere alle sue domande una donna appena uscita dalla sala operatoria. Sembra di essere tornati indietro nel tempo, agli anni prima della legge 194 quando le donne venivano arrestate ancora sanguinanti o morivano di aborto clandestino ed erano trattate come delle delinquenti. La loro dignità e i loro diritti umani erano inesistenti e irrilevanti. Abbiamo lottato duramente perchè il diritto fondamentale di essere padrone del nostro corpo e di una maternità responsabile diventassero una realtà. ora una banda di cialtroni e delinquenti appoggiati dai talebani cristiani della santa sede sta facendo della 194 un argomento per la loro squallida e insopportabile campagna elettorale. A questa gente non interessano i diritti umani delle persone nate e viventi, ma solo quelli del ...feto! In realtà tutto va bene per portare acqua sporca al loro mulino. Si prepara un nuovo rigurgito di follia, un periodo oscuro in cui si strumentalizza la dignità delle donne a sporchi fini. Alla società ricordiamo che quando le donne sono represse tutta la società civile è repressa e tutti sono meno liberi.Non accetteremo una nuova caccia alle streghe, non accetteremo di far passare le loro scarpe sudicie sul nostro corpo e sulla nostra vita!
mercoledì 6 febbraio 2008
A PROPOSITO DEL GIORNO DELLA MEMORIA
La vera lezione di Auschwitz
La Shoa oggi viene troppo legata alla difesa di Israele. Perdendo il suo significato universale
Tony Judt - Il Sole 24 Ore Domenica 27.1.08
Testo tratto dal discorso tenuto all'autore a Brema, in occasione del ricevimento del premio Hannah Arendt.
Negli ultimi anni il rapporto tra Israele e l'Olocausto è mutato. All'inizio l'identità di Israele fu costruita sul rifiuto del passato, trattando l'Olocausto come una prova di debolezza, una debolezza che era compito di Israele superare dando vita a un nuovo tipo di ebreo. Oggi, quando Israele è esposto al biasimo internazionale per il modo di gestire i rapporti con i palestinesi e per l'occupazione del territorio conquistato nel 1967, i suoi difensori tendono a chiamare in causa la memoria dell'Olocausto. Attenti, dicono, se criticate Israele con troppa veemenza, sveglierete i demoni dell'antisemitismo. Anzi, il messaggio è che un atteggiamento fortemente critico nei confronti di Israele non si limita a risvegliare l'antisemitismo: è di per sé antisemitismo. E con l'antisemitismo si apre la strada che porta - o ritorna - al 1938, alla "notte dei cristalli" e di là a Treblinka e ad Auschwitz. Se volete sapere dove va a finire, dicono costoro, non avete che da visitare Yad Vashem a Gerusalemme, l'Holocaust Museum a Washington o i monumenti commemorativi e i musei sparsi in tutta Europa.
Comprendo i sentimenti che dettano queste affermazioni. Ma queste affermazioni in sé sono molto pericolose. Quando a me e ad altri, con la scusa che non vanno risvegliati gli spettri del pregiudizio, viene rimproverato il dissenso nei confronti di Israele, rispondo che il problema va posto al contrario. E proprio un tabù del genere che può stimolare l'antisemitismo. Da qualche anno visito università e scuole superiori, negli Stati Uniti e altrove, per tenere conferenze sulla storia europea del dopoguerra e la memoria della Shoah. Sono gli argomenti che tratto anche nell'università dove insegno. E posso dire quali conclusioni ne ho derivate. Oggi non c'è bisogno di ricordare agli studenti il genocidio degli ebrei, le conseguenze storiche dell'antisemitismo e il problema del male. Tutti conoscono queste cose, con un'ampiezza ignota ai loro genitori. Ed è così che dev'essere. Ma mi ha colpito recentemente la frequenza con cui affiorano nuove domande: «Perché ci fissiamo sull'Olocausto?», «Perché (in certi Paesi) è illegale negare l'Olocausto ma non altri genocidi?», «Non si sta esagerando la minaccia dell'antisemitismo?». E ancora, sempre più spesso: «Non è che Israele sta usando l'Olocausto come scusa?».
Due sono i miei timori: che sottolineando l'eccezionalità storica dell'Olocausto e al contempo invocandolo costantemente in riferimento alle vicende contemporanee, abbiamo creato confusione nei giovani; e che gridando all'antisemitismo ogni volta che qualcuno attacca Israele o difende i palestinesi stiamo allevando una generazione di cinici. Perché la verità è che oggi l'esistenza di Israele non è in pericolo. E oggi, qui in Occidente, gli ebrei non si trovano ad affrontare minacce e pregiudizi neppure lontanamente paragonabili a quelli del passato, né paragonabili ai pregiudizi attualmente nutriti nei confronti di altre minoranze. Facciamo un piccolo esercizio. Vi sentireste al sicuro, accettati e benvenuti, negli Stati Uniti, oggi, se foste un musulmano o un immigrato clandestino? E se foste un "Paki" in certe zone dell'Inghilterra? O un marocchino in Olanda? Un "beur" in Francia? Un nero in Svizzera? Uno "straniero" in Danimarca? Un rumeno in Italia? Uno zingaro ovunque in Europa? E non vi sentireste più al sicuro, più integrati, più accettati come ebrei? Credo che siamo tutti in grado di rispondere.
In molti di quei Paesi - Olanda, Francia, Stati Uniti, per non parlare della Germania - la minoranza ebrea locale è fortemente rappresentata nel mondo degli affari, dei media e delle arti. In nessuno di quei Paesi gli ebrei sono stigmatizzati, minacciati o emarginati.
Il pericolo di cui gli ebrei - e non solo loro - dovrebbero preoccuparsi, se c'è, viene da un'altra direzione. Abbiamo agganciato la memoria dell'Olocausto così saldamente alla difesa di un unico Paese - Israele - che rischiamo di provincializzarne il significato morale.
È vero, il problema del male nel secolo scorso, per citare Hannah Arendt, ha preso la forma del tentativo tedesco di sterminare gli ebrei. Ma non si tratta solo dei tedeschi e non si tratta solo degli ebrei. Non si tratta neppure solo dell'Europa, anche se è là che quel tentativo è avvenuto. Il problema del male - del male totalitario, del male del genocidio - è un problema universale. Ma se lo si manipola per trarne un vantaggio locale, ciò che accadrà (e io credo stia già accadendo) è questo: coloro che vivono in contesti lontani da quel crimine - o perché non sono europei o perché sono troppo giovani perché per loro il ricordo di quell' evento abbia rilevanza - non capiranno che rapporto abbia con loro la memoria che ne viene coltivata e smetteranno di ascoltare quando cercheremo di spiegarglielo.
In altre parole l'Olocausto perderà la sua risonanza universale. Dobbiamo sperare che ciò non avvenga e dobbiamo trovare il modo per mantenere intatta la lezione centrale che davvero può venirci dalla Shoah: e cioé la facilità con cui le persone - un popolo intero - possono essere diffamate, demonizzate e annientate. Ma non approderemo a nulla, se non riconosciamo che questa lezione potrà anche essere messa in dubbio e dimenticata. Se non mi credete, andate a chiedere, fuori dai paesi sviluppati dell'Occidente, qual è la lezione di Auschwitz. Avrete riposte ben poco rassicuranti.
Non c' è una soluzione facile a questo problema. Ciò che pare chiaro agli europei dell'Europa occidentale è ancora oscuro per gli europei di'Est, come era oscuro agli stessi europei dell'Ovest quarant'anni fa. Il monito morale di Auschwitz, che campeggia a caratteri cubitali sullo schermo della memoria europea, è quasi invivisibile per africani e asiatici. E ancora - e forse soprattutto - ciò che sembra lampante alle persone della mia generazione avrà sempre meno senso per i nostri figli e i nostri nipoti. Possiamo preservare un passato europeo che la memoria sta sfumando in storia? Non siamo condannati a perderlo, anche solo in parte?
Forse tutti i nostri musei, i nostri monumenti commemorativi, le nostre gite scolastiche obbligatorie non sono il segno che oggi siamo pronti a ricordare, ma indicano invece che riteniamo di esserci lavati la coscienza e di poter cominciare a mollare e a dimenticare, delegando alle pietre il compito di ricordare al posto nostro. Non so: l'ultima volta che sono stato al Monumento agli ebrei d'Europa assassinati, a Berlino, annoiati ragazzini in gita scolastica giocavano a rimpiattino tra le steli. Quello che so per certo è che se la storia deve svolgere il compito che le compete, e conservare per sempre traccia dei crimini passati e di tutto il resto, è meglio lasciarla stare. Quando andiamo a saccheggiare il passato per profitto politico - scegliendone i pezzi che fanno al caso nostro e reclutando la storia a insegnare opportunistiche lezioni morali - ne caviamo cattiva morale e anche cattiva storia. Nel frattempo, forse dovremmo, tutti quanti, fare attenzione quando parliamo del problema del male. Perché di banalità ce n'è più di un tipo. C'è la notoria banalità di cui parlava Hannah Arendt: l'inquietante, normale, familiare, quotidiano male dentro gli esseri umani. Ma c'è anche un'altra banalità, quella dell'abuso: l'effetto di appiattimento e desensibilizzazione del vedere o dire o pensare la stessa cosa troppe volte, fino a stordire chi ci ascolta e a renderlo immune al male che descriviamo. Questa è la banalità -la banalizzazione - che rischiamo oggi.
Dopo il 1945 la generazione dei nostri genitori accantonò il problema del male perché per loro - aveva troppo significato. La generazione che verrà dopo di noi corre il pericolo di accantonare il problema perché ora contiene troppo poco significato. Come si può impedire che ciò avvenga? In altre parole, come si può fare in modo che il problema del male resti la questione fondamentale della vita intellettuale, e non solo in Europa? Non ho una risposta ma sono sicuro che questa è la domanda giusta. È la domanda che Hannah Arendt ha posto sessant'anni fa. E sono certo che la porrebbe ancora oggi.
Di Tony Judt è in libreria «Dopoguerra». Mondadori. pagg.l.076. €32.00.
La Shoa oggi viene troppo legata alla difesa di Israele. Perdendo il suo significato universale
Tony Judt - Il Sole 24 Ore Domenica 27.1.08
Testo tratto dal discorso tenuto all'autore a Brema, in occasione del ricevimento del premio Hannah Arendt.
Negli ultimi anni il rapporto tra Israele e l'Olocausto è mutato. All'inizio l'identità di Israele fu costruita sul rifiuto del passato, trattando l'Olocausto come una prova di debolezza, una debolezza che era compito di Israele superare dando vita a un nuovo tipo di ebreo. Oggi, quando Israele è esposto al biasimo internazionale per il modo di gestire i rapporti con i palestinesi e per l'occupazione del territorio conquistato nel 1967, i suoi difensori tendono a chiamare in causa la memoria dell'Olocausto. Attenti, dicono, se criticate Israele con troppa veemenza, sveglierete i demoni dell'antisemitismo. Anzi, il messaggio è che un atteggiamento fortemente critico nei confronti di Israele non si limita a risvegliare l'antisemitismo: è di per sé antisemitismo. E con l'antisemitismo si apre la strada che porta - o ritorna - al 1938, alla "notte dei cristalli" e di là a Treblinka e ad Auschwitz. Se volete sapere dove va a finire, dicono costoro, non avete che da visitare Yad Vashem a Gerusalemme, l'Holocaust Museum a Washington o i monumenti commemorativi e i musei sparsi in tutta Europa.
Comprendo i sentimenti che dettano queste affermazioni. Ma queste affermazioni in sé sono molto pericolose. Quando a me e ad altri, con la scusa che non vanno risvegliati gli spettri del pregiudizio, viene rimproverato il dissenso nei confronti di Israele, rispondo che il problema va posto al contrario. E proprio un tabù del genere che può stimolare l'antisemitismo. Da qualche anno visito università e scuole superiori, negli Stati Uniti e altrove, per tenere conferenze sulla storia europea del dopoguerra e la memoria della Shoah. Sono gli argomenti che tratto anche nell'università dove insegno. E posso dire quali conclusioni ne ho derivate. Oggi non c'è bisogno di ricordare agli studenti il genocidio degli ebrei, le conseguenze storiche dell'antisemitismo e il problema del male. Tutti conoscono queste cose, con un'ampiezza ignota ai loro genitori. Ed è così che dev'essere. Ma mi ha colpito recentemente la frequenza con cui affiorano nuove domande: «Perché ci fissiamo sull'Olocausto?», «Perché (in certi Paesi) è illegale negare l'Olocausto ma non altri genocidi?», «Non si sta esagerando la minaccia dell'antisemitismo?». E ancora, sempre più spesso: «Non è che Israele sta usando l'Olocausto come scusa?».
Due sono i miei timori: che sottolineando l'eccezionalità storica dell'Olocausto e al contempo invocandolo costantemente in riferimento alle vicende contemporanee, abbiamo creato confusione nei giovani; e che gridando all'antisemitismo ogni volta che qualcuno attacca Israele o difende i palestinesi stiamo allevando una generazione di cinici. Perché la verità è che oggi l'esistenza di Israele non è in pericolo. E oggi, qui in Occidente, gli ebrei non si trovano ad affrontare minacce e pregiudizi neppure lontanamente paragonabili a quelli del passato, né paragonabili ai pregiudizi attualmente nutriti nei confronti di altre minoranze. Facciamo un piccolo esercizio. Vi sentireste al sicuro, accettati e benvenuti, negli Stati Uniti, oggi, se foste un musulmano o un immigrato clandestino? E se foste un "Paki" in certe zone dell'Inghilterra? O un marocchino in Olanda? Un "beur" in Francia? Un nero in Svizzera? Uno "straniero" in Danimarca? Un rumeno in Italia? Uno zingaro ovunque in Europa? E non vi sentireste più al sicuro, più integrati, più accettati come ebrei? Credo che siamo tutti in grado di rispondere.
In molti di quei Paesi - Olanda, Francia, Stati Uniti, per non parlare della Germania - la minoranza ebrea locale è fortemente rappresentata nel mondo degli affari, dei media e delle arti. In nessuno di quei Paesi gli ebrei sono stigmatizzati, minacciati o emarginati.
Il pericolo di cui gli ebrei - e non solo loro - dovrebbero preoccuparsi, se c'è, viene da un'altra direzione. Abbiamo agganciato la memoria dell'Olocausto così saldamente alla difesa di un unico Paese - Israele - che rischiamo di provincializzarne il significato morale.
È vero, il problema del male nel secolo scorso, per citare Hannah Arendt, ha preso la forma del tentativo tedesco di sterminare gli ebrei. Ma non si tratta solo dei tedeschi e non si tratta solo degli ebrei. Non si tratta neppure solo dell'Europa, anche se è là che quel tentativo è avvenuto. Il problema del male - del male totalitario, del male del genocidio - è un problema universale. Ma se lo si manipola per trarne un vantaggio locale, ciò che accadrà (e io credo stia già accadendo) è questo: coloro che vivono in contesti lontani da quel crimine - o perché non sono europei o perché sono troppo giovani perché per loro il ricordo di quell' evento abbia rilevanza - non capiranno che rapporto abbia con loro la memoria che ne viene coltivata e smetteranno di ascoltare quando cercheremo di spiegarglielo.
In altre parole l'Olocausto perderà la sua risonanza universale. Dobbiamo sperare che ciò non avvenga e dobbiamo trovare il modo per mantenere intatta la lezione centrale che davvero può venirci dalla Shoah: e cioé la facilità con cui le persone - un popolo intero - possono essere diffamate, demonizzate e annientate. Ma non approderemo a nulla, se non riconosciamo che questa lezione potrà anche essere messa in dubbio e dimenticata. Se non mi credete, andate a chiedere, fuori dai paesi sviluppati dell'Occidente, qual è la lezione di Auschwitz. Avrete riposte ben poco rassicuranti.
Non c' è una soluzione facile a questo problema. Ciò che pare chiaro agli europei dell'Europa occidentale è ancora oscuro per gli europei di'Est, come era oscuro agli stessi europei dell'Ovest quarant'anni fa. Il monito morale di Auschwitz, che campeggia a caratteri cubitali sullo schermo della memoria europea, è quasi invivisibile per africani e asiatici. E ancora - e forse soprattutto - ciò che sembra lampante alle persone della mia generazione avrà sempre meno senso per i nostri figli e i nostri nipoti. Possiamo preservare un passato europeo che la memoria sta sfumando in storia? Non siamo condannati a perderlo, anche solo in parte?
Forse tutti i nostri musei, i nostri monumenti commemorativi, le nostre gite scolastiche obbligatorie non sono il segno che oggi siamo pronti a ricordare, ma indicano invece che riteniamo di esserci lavati la coscienza e di poter cominciare a mollare e a dimenticare, delegando alle pietre il compito di ricordare al posto nostro. Non so: l'ultima volta che sono stato al Monumento agli ebrei d'Europa assassinati, a Berlino, annoiati ragazzini in gita scolastica giocavano a rimpiattino tra le steli. Quello che so per certo è che se la storia deve svolgere il compito che le compete, e conservare per sempre traccia dei crimini passati e di tutto il resto, è meglio lasciarla stare. Quando andiamo a saccheggiare il passato per profitto politico - scegliendone i pezzi che fanno al caso nostro e reclutando la storia a insegnare opportunistiche lezioni morali - ne caviamo cattiva morale e anche cattiva storia. Nel frattempo, forse dovremmo, tutti quanti, fare attenzione quando parliamo del problema del male. Perché di banalità ce n'è più di un tipo. C'è la notoria banalità di cui parlava Hannah Arendt: l'inquietante, normale, familiare, quotidiano male dentro gli esseri umani. Ma c'è anche un'altra banalità, quella dell'abuso: l'effetto di appiattimento e desensibilizzazione del vedere o dire o pensare la stessa cosa troppe volte, fino a stordire chi ci ascolta e a renderlo immune al male che descriviamo. Questa è la banalità -la banalizzazione - che rischiamo oggi.
Dopo il 1945 la generazione dei nostri genitori accantonò il problema del male perché per loro - aveva troppo significato. La generazione che verrà dopo di noi corre il pericolo di accantonare il problema perché ora contiene troppo poco significato. Come si può impedire che ciò avvenga? In altre parole, come si può fare in modo che il problema del male resti la questione fondamentale della vita intellettuale, e non solo in Europa? Non ho una risposta ma sono sicuro che questa è la domanda giusta. È la domanda che Hannah Arendt ha posto sessant'anni fa. E sono certo che la porrebbe ancora oggi.
Di Tony Judt è in libreria «Dopoguerra». Mondadori. pagg.l.076. €32.00.
LO SCRITTORE PALESTINESE TARIQ ALI SULLA FIERA DEL LIBRO DI TORINO
Perchè non parteciperò alla fiera del libro di Torino 2008 di Tariq Ali
traduzione a cura di ISM-Italia
Quando ho accettato di partecipare alla Fiera del Libro di Torino, come ho fatto altre volte, io non sapevo che ‘l’ospite d’onore’ sarebbe stato Israele nel 60° anno della sua costituzione. Ma questo è anche il 60° anniversario di quello che i palestinesi chiamano la ‘nakba’…il disastro che accadde loro quell’anno, quando furono espulsi dai loro villaggi, uccisi in molti, e alcune donne stuprate dai colonizzatori. Questi fatti non sono più in discussione. Allora perché la fiera del libro di Torino non invita i palestinesi in ugual numero? 30 scrittori israeliani e 30 palestinesi (e vi assicuro che ce ne sono e sono eccellenti poeti e romanzieri) avrebbero potuto essere visti come un segno positivo e di pace e si sarebbe potuto svolgere un dibattito costruttivo. Una versione letteraria dell’orchestra Diwan di Daniel Barenboim, metà israeliani, metà palestinesi. Una tale iniziativa avrebbe messo le persone insieme, ma no. I commissari culturali sanno che cosa è meglio. Io ho discusso con vigore con alcuni scrittori israeliani in visita alla fiera in altre occasioni e avrei fatto volentieri lo stesso di nuovo se le condizioni fossero state differenti.
Quello che hanno deciso di fare è una brutta provocazione.
Apparirà che la cultura è sempre di più legata alle priorità politiche di USA/EU. L’occidente è cieco alle sofferenze dei palestinesi. La guerra israeliana in Libano, i rapporti giornalieri dal ghetto di Gaza non smuovono l’Europa ufficiale. In Francia, sappiamo, è praticamente impossibile criticare Israele. Anche in Germania, per ragioni particolari. Sarebbe triste se l’Italia scegliesse la stessa strada. Quante volte dobbiamo sottolineare che criticare le politiche coloniali di Israele non è anti-semitismo? Accettare questo significa diventare vittime spontanee del ricatto che l’establishment israeliano usa per mettere a tacere i suoi critici. Ci sono critici israeliani coraggiosi come Aharon Shabtai, Amira Hass, Yitzhak Laor e altri che non permettono che le loro voci siano soffocate in questo modo. Shabtai ha rifiutato di partecipare a questa fiera. Come potrei io fare diversamente?
Una cosa è sostenere il diritto di Israele a esistere, che io faccio e ho sempre fatto. Ma da questo estrapolare che questo diritto a esistere significhi che Israele ha un assegno in bianco per fare ciò che vuole a coloro che ha espulso e a coloro che tratta come Untermenschen (subumani) è inaccettabile. Personalmente io sono in favore di un unico stato Israele/Palestina nel quale tutti i cittadini siano uguali. Mi si dice che è una utopia. Può essere, ma è la sola soluzione a lungo termine. A causa del contenuto dei miei romanzi mi si chiede spesso (più recentemente in Madison, Wisconsin) se sia possibile ricreare i bei tempi della Andalusia e della Sicilia dove tre culture hanno coesistito per lungo tempo . La mia risposta è la stessa: l’unico posto in cui oggi si potrebbero ricreare quei tempi è Israele/Palestina.
Noi viviamo in un mondo di double standards (doppi standard), ma non è necessario accettarli. Capita alcune volte che individui e gruppi ai quali è stato fatto del male, lo infliggano a loro volta. Ma il primo non giustifica il secondo. E’ stato l’anti-semitismo europeo che ha tollerato il genocidio ebraico della seconda guerra mondiale del quale i palestinesi sono ora diventati le vittime indirette. Molti israeliani sono consci di questo fatto, ma preferiscono non pensarci. Molti europei considerano i palestinesi e i mussulmani come una volta hanno considerato gli ebrei. Questa è l’evidente ironia nei commenti della stampa e nelle trasmissioni televisive praticamente in ogni paese europeo
E’ un peccato che la burocrazia della Fiera del Libro di Torino abbia deciso di fare da mezzano ai nuovi pregiudizi che spazzano il continente.
Speriamo che il loro esempio non sia seguito altrove.
traduzione a cura di ISM-Italia
Quando ho accettato di partecipare alla Fiera del Libro di Torino, come ho fatto altre volte, io non sapevo che ‘l’ospite d’onore’ sarebbe stato Israele nel 60° anno della sua costituzione. Ma questo è anche il 60° anniversario di quello che i palestinesi chiamano la ‘nakba’…il disastro che accadde loro quell’anno, quando furono espulsi dai loro villaggi, uccisi in molti, e alcune donne stuprate dai colonizzatori. Questi fatti non sono più in discussione. Allora perché la fiera del libro di Torino non invita i palestinesi in ugual numero? 30 scrittori israeliani e 30 palestinesi (e vi assicuro che ce ne sono e sono eccellenti poeti e romanzieri) avrebbero potuto essere visti come un segno positivo e di pace e si sarebbe potuto svolgere un dibattito costruttivo. Una versione letteraria dell’orchestra Diwan di Daniel Barenboim, metà israeliani, metà palestinesi. Una tale iniziativa avrebbe messo le persone insieme, ma no. I commissari culturali sanno che cosa è meglio. Io ho discusso con vigore con alcuni scrittori israeliani in visita alla fiera in altre occasioni e avrei fatto volentieri lo stesso di nuovo se le condizioni fossero state differenti.
Quello che hanno deciso di fare è una brutta provocazione.
Apparirà che la cultura è sempre di più legata alle priorità politiche di USA/EU. L’occidente è cieco alle sofferenze dei palestinesi. La guerra israeliana in Libano, i rapporti giornalieri dal ghetto di Gaza non smuovono l’Europa ufficiale. In Francia, sappiamo, è praticamente impossibile criticare Israele. Anche in Germania, per ragioni particolari. Sarebbe triste se l’Italia scegliesse la stessa strada. Quante volte dobbiamo sottolineare che criticare le politiche coloniali di Israele non è anti-semitismo? Accettare questo significa diventare vittime spontanee del ricatto che l’establishment israeliano usa per mettere a tacere i suoi critici. Ci sono critici israeliani coraggiosi come Aharon Shabtai, Amira Hass, Yitzhak Laor e altri che non permettono che le loro voci siano soffocate in questo modo. Shabtai ha rifiutato di partecipare a questa fiera. Come potrei io fare diversamente?
Una cosa è sostenere il diritto di Israele a esistere, che io faccio e ho sempre fatto. Ma da questo estrapolare che questo diritto a esistere significhi che Israele ha un assegno in bianco per fare ciò che vuole a coloro che ha espulso e a coloro che tratta come Untermenschen (subumani) è inaccettabile. Personalmente io sono in favore di un unico stato Israele/Palestina nel quale tutti i cittadini siano uguali. Mi si dice che è una utopia. Può essere, ma è la sola soluzione a lungo termine. A causa del contenuto dei miei romanzi mi si chiede spesso (più recentemente in Madison, Wisconsin) se sia possibile ricreare i bei tempi della Andalusia e della Sicilia dove tre culture hanno coesistito per lungo tempo . La mia risposta è la stessa: l’unico posto in cui oggi si potrebbero ricreare quei tempi è Israele/Palestina.
Noi viviamo in un mondo di double standards (doppi standard), ma non è necessario accettarli. Capita alcune volte che individui e gruppi ai quali è stato fatto del male, lo infliggano a loro volta. Ma il primo non giustifica il secondo. E’ stato l’anti-semitismo europeo che ha tollerato il genocidio ebraico della seconda guerra mondiale del quale i palestinesi sono ora diventati le vittime indirette. Molti israeliani sono consci di questo fatto, ma preferiscono non pensarci. Molti europei considerano i palestinesi e i mussulmani come una volta hanno considerato gli ebrei. Questa è l’evidente ironia nei commenti della stampa e nelle trasmissioni televisive praticamente in ogni paese europeo
E’ un peccato che la burocrazia della Fiera del Libro di Torino abbia deciso di fare da mezzano ai nuovi pregiudizi che spazzano il continente.
Speriamo che il loro esempio non sia seguito altrove.
martedì 5 febbraio 2008
ANCORA SULL'EMBARGO A GAZA CHE STA DECIMANDO LA POPOLAZIONE
Il 2 febbraio, il giornale on-line Arab News ha pubblicato un articolo di Karen Koning AbuZayd, Presidente dell'UNRWA (l'agenzia ONU per l'assistenza ai profughi palestinesi).
http://www.arabnews.com/?page=7§ion=0&article=106391&d=3&m=2&y=2008
"Ridurre la popolazione di Gaza all'indigenza non porterà la pace
La Striscia di Gaza è sulla soglia di diventare il primo territorio intenzionalmente ridotto allo stato di indigenza abietta, con la consapevolezza, l'acquiescenza e - alcuni direbbero - l'incoraggiamento dell'intera comunità internazionale. Una comunità internazionale che proclama di se di volere difendere la dignità inerente di ogni essere umano non deve permettere che una cosa del genere possa succedere.
Su questo minuscolo territorio, lungo di 40 km e largo non più di 13-14 km, un buio pesto discese alle 8 di sera il 21 gennaio, quando le luci si spensero in tutte le case dei suoi 1,5 milioni di residenti. Il regime di sofferenza inflitto ai palestinesi aveva varcato una nuova soglia.
Ci sono stati tre giri di vite sulla popolazione di Gaza, innescati dall'esito delle elezioni (parlamentari) nel gennaio 2006, dall'assunzione da parte di Hamas del controllo (nella Striscia di Gaza) lo scorso giugno e dalla decisione di Israele, presa in settembre, di proclamare Gaza un "territorio ostile". Ognuna di queste istanze finì per innescare restringimenti sempre più duri delle condizioni di mobilità per le persone e per i beni ai confini della Striscia di Gaza. Ogni giro di vite finì per infliggere umiliazioni sempre più profonde sul palestinese normale, generando risentimenti sempre più profondi nei confronti del mondo esterno.
La chiusura dei confini di Gaza è senza precedenti. I palestinesi vi sono effettivamente incarcerati. La stragrande maggioranza non può lasciare ne entrare la Striscia di Gaza. Senza combustibili e senza pezzi di ricambio, le condizioni nel settore della sanità stanno precipitando mentre l'erogazione di acqua potabile ed i servizi pubblici arrancano. L'erogazione di corrente elettrica è sporadica ed è stata ridotta ulteriormente, in proporzione alla riduzione del combustibile di questi giorni. UNICEF comunica che il funzionamento solo parziale della principale stazione di pompaggio di Gaza sta compromettendo l'erogazione di acqua potabile a circa 600.000 palestinesi.
L'assistenza medica è a rischio, gli ospedali sono paralizzati da interruzioni di corrente elettrica e dalla penuria di combustibile per i generatori. Le infrastrutture ospedaliere, inclusi i macchinari essenziali stanno smettendo di funzionare ad un passo allarmante, con limitate possibilità di riparazioni o manutenzioni a causa della mancanza di pezzi di ricambio.
E' struggente vedere l'impatto del boicottaggio (della Striscia di Gaza) su pazienti che avrebbero bisogno di accedere a cure mediche fuori dalla Striscia di Gaza. La domanda per cure mediche fuori Gaza è in aumento, man mano che il livello delle cure mediche disponibili scenda all'interno di Gaza. Ma il regime di permesso per trasferimenti per motivi di cure mediche è stato reso più duro. Molti hanno visto le loro cure rimandate o negate, con aggravio delle loro condizioni mediche e perfino, con un esito letale che sarebbe stato prevenibile.
Le condizioni di vita a Gaza sono scese a livelli inaccettabili per un mondo dedicato all'eliminazione della povertà ed alla promozione di diritti umani come principi centrali. Il 35 percento della popolazione di Gaza vive con meno di due dollari per giorno, la disoccupazione ha raggiunto il 50 percento e l' 80 percento percepisce una qualche forma di assistenza umanitaria. C'è una tale penuria di cemento che la gente non riesce più a costruire tombe per i morti. Gli ospedali stanno erogando lenzuola per usarle nei funerali.
Come responsabile di un'agenzia ONU per lo sviluppo umanitario ed umano dei profughi palestinesi, sono profondamente preoccupata dalla palese inumanità della chiusura di Gaza. Sono turbata dall'apparente indifferenza di gran' parte del mondo mentre centinaia e migliaia di palestinesi vengono duramente flagellati per atti in cui non hanno alcuna parte.
Nell'espletamento del suo mandato, la UNRWA (UN Relief and Works Agency for Palestinian Refugees in Near East) estende una serie di servizi per migliorare le condizioni di vita e promuovere le condizioni di autosufficienza (dei profughi palestinesi). E' impossibile compiere le nostre operazioni sulla base di un diktat israeliano che apre e chiude arbitrariamente l'accesso (agli assistiti), come viene praticato ai confini con la Striscia di Gaza. Per dare un esempio: la settimana scorsa fummo sul punto di sospendere il nostro programma di distribuzione di viveri. Il motivo, apparentemente, era di quelli arbitrari: buste di plastica. Le autorità israeliane avevano bloccato il passaggio delle buste di plastica che utilizziamo per imballare le nostre razioni di cibo.
Come possiamo, nella Gaza di oggi, promuovere uno spirito di moderazione e di compromesso tra i palestinesi, o nutrire fiducia nella risoluzione pacifica delle contese ? Vi sono già indizi che la severità della chiusura dei confini sta facendo il gioco di coloro che non abbiano alcun desiderio di pace. Stiamo trascurando questo rischio a nostre spese.
Ciò che dovremmo fare oggi, è promuovere la moderazione e rincuorare coloro che credono che le giuste prospettive di Gaza stiano in una pacifica convivenza con i suoi vicini. Diamo il benvenuto alle nuove iniziative di resuscitare il processo di pace, di revitalizzare l'economia palestinese e di costruire istituzioni. Queste colonne, sulle quale una soluzione del conflitto andrebbe eretta, sono proprio quelle che stanno per essere erose.
La scorsa settimana, la popolazione di Gaza ha potuto godere di una sospensione temporanea (del blocco), quando il potere occupante ha permesso la fornitura di 2.2 milioni di litri di combustibile per settimana per la stazione elettrica di Gaza e di 0.5 milioni di litri per uso industriale, per gli ospedali e le cliniche. Siamo stati informati che i passaggi verso la Striscia di Gaza saranno parzialmente riaperti per permettere all'UNRWA e ad altre organizzazioni di portare circa 50 camion per giorno. Nessuno sa per quanto tempo la sospensione del blocco durerà considerando che la ripresa del lancio di missili Qassam, che noi stessi condanniamo fermamente, comporterà nuove chiusure.
Alla popolazione di Gaza è stato risparmiato di precipitare in nuovi abissi - ma solo per il momento.
Non vi è mai stato un bisogno più urgente che non adesso, per la comunità internazionale di agire per riportare la normalità a Gaza. "
.
— Karen Koning AbuZayd is commissioner general for UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA).
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http://www.arabnews.com/?page=7§ion=0&article=106391&d=3&m=2&y=2008
"Ridurre la popolazione di Gaza all'indigenza non porterà la pace
La Striscia di Gaza è sulla soglia di diventare il primo territorio intenzionalmente ridotto allo stato di indigenza abietta, con la consapevolezza, l'acquiescenza e - alcuni direbbero - l'incoraggiamento dell'intera comunità internazionale. Una comunità internazionale che proclama di se di volere difendere la dignità inerente di ogni essere umano non deve permettere che una cosa del genere possa succedere.
Su questo minuscolo territorio, lungo di 40 km e largo non più di 13-14 km, un buio pesto discese alle 8 di sera il 21 gennaio, quando le luci si spensero in tutte le case dei suoi 1,5 milioni di residenti. Il regime di sofferenza inflitto ai palestinesi aveva varcato una nuova soglia.
Ci sono stati tre giri di vite sulla popolazione di Gaza, innescati dall'esito delle elezioni (parlamentari) nel gennaio 2006, dall'assunzione da parte di Hamas del controllo (nella Striscia di Gaza) lo scorso giugno e dalla decisione di Israele, presa in settembre, di proclamare Gaza un "territorio ostile". Ognuna di queste istanze finì per innescare restringimenti sempre più duri delle condizioni di mobilità per le persone e per i beni ai confini della Striscia di Gaza. Ogni giro di vite finì per infliggere umiliazioni sempre più profonde sul palestinese normale, generando risentimenti sempre più profondi nei confronti del mondo esterno.
La chiusura dei confini di Gaza è senza precedenti. I palestinesi vi sono effettivamente incarcerati. La stragrande maggioranza non può lasciare ne entrare la Striscia di Gaza. Senza combustibili e senza pezzi di ricambio, le condizioni nel settore della sanità stanno precipitando mentre l'erogazione di acqua potabile ed i servizi pubblici arrancano. L'erogazione di corrente elettrica è sporadica ed è stata ridotta ulteriormente, in proporzione alla riduzione del combustibile di questi giorni. UNICEF comunica che il funzionamento solo parziale della principale stazione di pompaggio di Gaza sta compromettendo l'erogazione di acqua potabile a circa 600.000 palestinesi.
L'assistenza medica è a rischio, gli ospedali sono paralizzati da interruzioni di corrente elettrica e dalla penuria di combustibile per i generatori. Le infrastrutture ospedaliere, inclusi i macchinari essenziali stanno smettendo di funzionare ad un passo allarmante, con limitate possibilità di riparazioni o manutenzioni a causa della mancanza di pezzi di ricambio.
E' struggente vedere l'impatto del boicottaggio (della Striscia di Gaza) su pazienti che avrebbero bisogno di accedere a cure mediche fuori dalla Striscia di Gaza. La domanda per cure mediche fuori Gaza è in aumento, man mano che il livello delle cure mediche disponibili scenda all'interno di Gaza. Ma il regime di permesso per trasferimenti per motivi di cure mediche è stato reso più duro. Molti hanno visto le loro cure rimandate o negate, con aggravio delle loro condizioni mediche e perfino, con un esito letale che sarebbe stato prevenibile.
Le condizioni di vita a Gaza sono scese a livelli inaccettabili per un mondo dedicato all'eliminazione della povertà ed alla promozione di diritti umani come principi centrali. Il 35 percento della popolazione di Gaza vive con meno di due dollari per giorno, la disoccupazione ha raggiunto il 50 percento e l' 80 percento percepisce una qualche forma di assistenza umanitaria. C'è una tale penuria di cemento che la gente non riesce più a costruire tombe per i morti. Gli ospedali stanno erogando lenzuola per usarle nei funerali.
Come responsabile di un'agenzia ONU per lo sviluppo umanitario ed umano dei profughi palestinesi, sono profondamente preoccupata dalla palese inumanità della chiusura di Gaza. Sono turbata dall'apparente indifferenza di gran' parte del mondo mentre centinaia e migliaia di palestinesi vengono duramente flagellati per atti in cui non hanno alcuna parte.
Nell'espletamento del suo mandato, la UNRWA (UN Relief and Works Agency for Palestinian Refugees in Near East) estende una serie di servizi per migliorare le condizioni di vita e promuovere le condizioni di autosufficienza (dei profughi palestinesi). E' impossibile compiere le nostre operazioni sulla base di un diktat israeliano che apre e chiude arbitrariamente l'accesso (agli assistiti), come viene praticato ai confini con la Striscia di Gaza. Per dare un esempio: la settimana scorsa fummo sul punto di sospendere il nostro programma di distribuzione di viveri. Il motivo, apparentemente, era di quelli arbitrari: buste di plastica. Le autorità israeliane avevano bloccato il passaggio delle buste di plastica che utilizziamo per imballare le nostre razioni di cibo.
Come possiamo, nella Gaza di oggi, promuovere uno spirito di moderazione e di compromesso tra i palestinesi, o nutrire fiducia nella risoluzione pacifica delle contese ? Vi sono già indizi che la severità della chiusura dei confini sta facendo il gioco di coloro che non abbiano alcun desiderio di pace. Stiamo trascurando questo rischio a nostre spese.
Ciò che dovremmo fare oggi, è promuovere la moderazione e rincuorare coloro che credono che le giuste prospettive di Gaza stiano in una pacifica convivenza con i suoi vicini. Diamo il benvenuto alle nuove iniziative di resuscitare il processo di pace, di revitalizzare l'economia palestinese e di costruire istituzioni. Queste colonne, sulle quale una soluzione del conflitto andrebbe eretta, sono proprio quelle che stanno per essere erose.
La scorsa settimana, la popolazione di Gaza ha potuto godere di una sospensione temporanea (del blocco), quando il potere occupante ha permesso la fornitura di 2.2 milioni di litri di combustibile per settimana per la stazione elettrica di Gaza e di 0.5 milioni di litri per uso industriale, per gli ospedali e le cliniche. Siamo stati informati che i passaggi verso la Striscia di Gaza saranno parzialmente riaperti per permettere all'UNRWA e ad altre organizzazioni di portare circa 50 camion per giorno. Nessuno sa per quanto tempo la sospensione del blocco durerà considerando che la ripresa del lancio di missili Qassam, che noi stessi condanniamo fermamente, comporterà nuove chiusure.
Alla popolazione di Gaza è stato risparmiato di precipitare in nuovi abissi - ma solo per il momento.
Non vi è mai stato un bisogno più urgente che non adesso, per la comunità internazionale di agire per riportare la normalità a Gaza. "
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— Karen Koning AbuZayd is commissioner general for UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA).
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