martedì 18 agosto 2015
Quel diritto che si fa un po’ più in là...
C’è un’agenzia dell’Onu che riesce a stento - e forse quest’anno non riuscirà più - a rendere tutti i
servizi per cui venne creata con una Risoluzione ad hoc nel dicembre del 1949. Si parla di
mancanza di finanziamenti, ma forse a monte c’è dell’altro: c’è un diritto che, seppur sancito
dall’Onu, è così fastidioso per chi dell’Onu s’è regolarmente fatto beffe, che ora potrebbe essere
tranquillamente liquidato con la scusa dei finanziamenti mancanti.
Sto parlando dell’Unrwa, cioè l’agenzia per i rifugiati palestinesi che nel 1948 furono cacciati o
costretti a fuggire dalle loro case e che da allora aspettano di potervi tornare come, appunto,
stabilisce l’articolo 11 della Risoluzione Onu n. 194.
Da diversi mesi il Commissario generale Unrwa invia appelli preoccupati ed ha recentemente
scritto a Ban Ki Moon parole accorate affinché venga saldato il debito di 101 milioni di dollari che
permetterebbe di iniziare regolarmente l’anno scolastico. Questo consentirebbe a 500.000 bambini
dai 5 ai 14 anni di usufruire del diritto allo studio e ricorda che “l’educazione è riconosciuta a livello
globale come fattore primario di crescita e sviluppo umano” e che "Niente è più importante per questi
bambini in termini di dignità e identità dell'educazione che ricevono.”
Queste le parole del Commissario generale Unrwa Pierre Krähenbühl il quale aggiunge che in
questo “momento di crescente instabilità in tutto il Medio Oriente, il ruolo di UNRWA è sempre più
importante."
Ma nel suo rapporto-appello al Segretario generale dell’Onu conclude con quello che forse è visto
come il peccato originale che Unrwa deve espiare e cioè “la capacità dell’Agenzia di contare
pienamente sulla riconferma della volontà della comunità internazionale ... in attesa di una giusta soluzione
alla loro (dei rifugiati palestinesi) causa”.
“In attesa di una giusta soluzione alla loro causa”. Questo l’hanno ben capito alcuni dirigenti
scolastici dei 58 campi profughi diffusi in Palestina (sia Cisgiordania che Gaza) oltre che in
Libano, Siria e Giordania. La partita non si sta giocando solo sul diritto allo studio, per quanto
importante esso sia in termini di dignità e identità. È un altro il diritto che si vuole eliminare, e
basta leggere le tante dichiarazioni contro l’Unrwa reperibili su numerosi siti israeliani per capire il
perché profondo dell’angoscia di tanti palestinesi di fronte alla chiusura di 700 scuole e 8 centri di
formazione, privando 500.000 studenti e circa 29.000 docenti e ausiliari del diritto allo studio i
primi e del loro lavoro gli altri.
E’ l’enunciato dell’articolo 11 della Risoluzione 194 la vera posta in gioco. È quel “diritto al
ritorno” che Israele legge in funzione anti-israeliana e che rappresenta la memoria storica di
un’ingiustizia da sanare e l’intralcio al piano D (cioè l’occupazione dell’intera Palestina fino al
Giordano) che è nel progetto di fondazione di Israele e che scavalca totalmente la stessa
Risoluzione 181 relativa alla partizione della Palestina storica dopo il mandato britannico.
Del resto basta leggere, tra le tante, anche solo le sincere dichiarazioni rilasciate al Parlamento
europeo – e non contestate – dal leader dei coloni Gershom Mesika, ospite di un nostro
europarlamentare e capo del Consiglio regionale degli insediamenti nel nord della Cisgiordania, che
lo stesso si ostina a definire col nome biblico di Samaria, regione che rappresenterebbe “il cuore
stesso dello stato di Israele” e che, pertanto, deve farne parte in toto insieme alla “Giudea”.
Meglio ancora, per fugare ogni dubbio, sarebbe opportuna l’analisi della sostanza illegale della
recente nomina ad ambasciatrice di Israele in Italia di una cittadina ... italiana (!) occupante di una
casa in un insediamento dichiarato illegale dal Diritto internazionale e, quindi, in totale spregio
della legalità internazionale, per capire quali siano le mire israeliane e quali e quanti i suoi
supporter. Non va dimenticato che gran parte di questi supporter sono anche donatori Onu che non
stanno effettuando le loro donazioni all’Agenzia Unrwa nonostante il Segretario generale Ban Ki
Moon abbia definito “imperativo” che l’Agenzia riceva il denaro necessario ai suoi scopi ed abbia
esortato i paesi donatori a non indugiare oltre.
Fino ad ora i nostri media non hanno ancora dato notizia delle manifestazioni che si stanno
svolgendo da giorni sotto le sedi dell’Unrwa in Palestina e del clima di angoscia che si respira in
tutti i campi profughi. Solo il Manifesto ha pubblicato un articolo chiaro e circostanziato della
situazione, ma il Manifesto è un giornale indipendente, diciamo pure che i lunghi tentacoli che
inducono all’autocensura non raggiungono il suo inviato in Medio Oriente. Purtroppo però è un
quotidiano di nicchia e non arriva a quel pubblico abitualmente nutrito dal leit motif “Israele ha
diritto a difendersi”, frase magica che pone in ombra ogni altra verità e che, nonostante l’abuso
reso ormai grottesco dai fatti, ancora non conosce tramonto.
Detto con chiarezza: l’Unrwa deve sparire, perché la sua esistenza è un atto d’accusa, sebbene
poco efficace, contro Israele, contro i suoi crimini – commessi e tuttora registrati nel suo atto di
nascita e, prima ancora, nella sua gestazione – e contro i suoi sostenitori tout court che nella
fattispecie meglio si caratterizzano come complici.
I palestinesi che non hanno ceduto alla rassegnazione, dopo settant’anni di occupazione e d’inganni,
leggono quindi in quel che sembra un mero problema finanziario la volontà politica di eliminare
l’istituzione che concretizza questo atto d’accusa e che tiene vivo il diritto al ritorno, diritto in senso
proprio, come sancito dalla citata Risoluzione Onu. Essi sanno bene che la situazione in Medio
Oriente in questo periodo è talmente caotica, tra massacri e cambi di alleanze, terrorismo indotto e
terrorismo di regime che potrebbe essere il momento buono per raggiungere la soluzione finale
delle questione palestinese. Questo temono quei numerosi palestinesi che sanno leggere oltre il
contingente e che vedono nella mappa geografica ridisegnata dagli Usa nel 2003 un progetto in
corso di compimento. Non caso le tre forze politiche più significative (Fatah, Hamas e Fronte
popolare) pur nelle loro divisioni, concordano nel ritenere artificiale la crisi finanziaria dell’Unrwa.
Ma forse sbagliano, cittadini e istituzioni politiche, ad attribuire all’agenzia Onu la responsabilità di
tale situazione. Del resto, una delle forme più scaltre ed anche più diffuse per neutralizzare
l’avversario è quella di fornirgli un avversario-specchio. In tal modo l’opposizione si concentra su
chi viene trasformato in nemico invece che in possibile alleato e il processo cammina secondo il
disegno del suo ideatore.
Ma la realtà che si vive in questo momento nei campi profughi non è caratterizzata solo da
comprensibile grande agitazione, quanto dall’accavallarsi di posizioni lucide e coraggiose, come
quella di far iniziare lo stesso l’anno scolastico pur senza i fondi Unrwa, con quelle di chi preferisce
portare i propri figli altrove dichiarando così la propria rassegnazione insieme al proprio disprezzo
per l’ente che non riesce a offrire il servizio scolastico. Lo sforzo di chi ha capito che cedere in
questo momento significa lasciar liquidare la situazione dei profughi (come desidera Israele
appoggiato dai suoi sostenitori) è uno sforzo da sostenere come possibile. Liquidare la situazione
profughi significa in ultima analisi liquidare la causa palestinese e accreditare la vittoria
all’illegalità e all’illegittimità di uno Stato nato col pretesto della Risoluzione 181 (mai rispettata) e
col progetto di espandersi fino al Giordano utilizzando forme diverse di “pulizia etnica” della
popolazione autoctona. Le divisioni nel mondo arabo mai come ora renderebbero semplice questo
passo. E dietro la scelta di non finanziare l’Unrwa solo pochi nell’opinione pubblica mondiale
vedrebbero la lunga mano capace di artigliare perfino la Grecia di Syriza sporcandola con un
accordo militare che ne cancella l’etica su cui aveva ottenuto i consensi per esistere, o di
accarezzare intellettuali occidentali sempre attenti alla democrazia e ai diritti umani fino al
momento della micidiale carezza sionista, o di offrire ghiotte occasioni di successo politico capaci
di far chiudere gli occhi di fronte allo scadimento dei valori fondanti della democrazia, andando ben
oltre il conflitto più immorale e più ammantato di falsità narrative degli ultimi cento anni.
Ma dove sono i media mainstream? forse stanno aspettando i primi disordini seri per dare notizia
che “la violenta protesta” palestinese si è scagliata proprio contro un’agenzia Onu destinata a
proteggerli, concludendo secondo copione questo ennesimo capitolo di mortificazione di un popolo
che aspetta giustizia.
Per questo è importante che quanto sta succedendo - e che investe 193 paesi Onu - venga alla luce
in modo corretto e prima che l’inversione temporale tra azione e reazione confonda la cronaca e la
realtà dei fatti. Non è importante solo per il popolo palestinese e per chi ne sostiene i diritti, è
importante per chiunque creda nel rispetto del Diritto universale.
Patrizia Cecconi
12 agosto 2015
Patrizia Cecconi
Presidente Associazione “Oltre il Mare”, onlus
patriziacecconi2@gmail.com – associazioneoltreilmare@gmail.com
tel/fax +39.065880187 – mobile +39.3476090366
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