Lettera aperta
Al Sindaco di Roma, Gianni Alemanno
Al Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia
Signor Sindaco,
siamo venuti a conoscenza di una iniziativa della Sua amministrazione per chiedere la liberazione di Gilad Shalit, il militare israeliano catturato a Gaza da un gruppo palestinese, il 25 giugno del 2006, e del quale ricorre oggi il venticinquesimo compleanno.
Lo auspichiamo anche noi, perché avversiamo ogni privazione del diritto e ogni forma di abolizione o di limitazione della libertà personale di ogni singolo individuo. Nello stesso tempo però vorremmo che la Sua amministrazione chiedesse con forza la liberazione dei prigionieri palestinesi, eventualmente attraverso lo scambio con il soldato Shalit, scambio che fin’ora non è stato possibile per l’intransigenza del governo israeliano.
Vorremmo, infatti, vedere la Sua amministrazione sensibile al rispetto dei diritti umani ovunque questi siano calpestati. Sono migliaia e migliaia i civili palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane - tra loro minori e donne, molto spesso torturati, cui è negato il diritto alle visite familiari per anni - il più delle volte senza incriminazioni né processi, civili che trascorrono anni ed anni in detenzione amministrativa, attivisti della resistenza popolare nonviolenta, arrestati e condannati.
Ma può verificare Lei stesso sul sito di BetSelem : www.btselem.org, associazione israeliana per i diritti umani che documenta le permanenti violazioni del diritto internazionale compiuti dal governo israeliano e non da un gruppo estremista palestinese, oppure le denunce di Save the Children Internacional; non mancano certo le documentazioni al riguardo.
Vogliamo, peraltro, ricordare che Shalit, è un soldato di un esercito di occupazione, esposto quindi ai rischi connaturati al suo status, e catturato in un’azione di guerriglia condotta nel quadro della lotta di liberazione di un popolo oppresso; mentre i prigionieri palestinesi sono in maggioranza civili, prelevati il più delle volte dalle loro abitazioni ad opera di un esercito di occupazione nell’ambito di un’articolata e spietata azione repressiva tendente a fiaccare la capacità di resistenza di una popolazione vittima di un’occupazione militare illegale ed illegittima. Venga liberato Shalit, per cui si alzano petizioni e perorazioni, ma vengano liberate anche le migliaia di palestinesi, sui quali grava il più assoluto silenzio, e che giacciono in carcere senza aver commesso nessuna azione militare, tra loro anche 18 parlamentari eletti democraticamente.
Le consigliamo di vedere e leggere le testimonianze di soldati israeliani che hanno prestato servizio nei territori palestinesi occupati, nel sito di Breaking the silence: www.breakingthesilence.org, un movimento di soldati israeliani che mostrano le violazioni commesse dall’esercito nei confronti della popolazione civile palestinese, di come irrompono nella case, picchiando , arrestando, distruggendo, uccidendo.
Le chiediamo, Signor Sindaco, di adoperarsi con lo stesso impegno, pur nella asimmetria delle situazioni - vogliamo ripeterlo - da una parte un soldato sequestrato nelle sue funzioni di soldato occupante, dall’altro migliaia di civili palestinesi che rivendicano il loro diritto alla liberta. Per noi, tutti esseri umani che hanno diritto al rispetto, alla dignità ed alla libertà.
Vorremmo ancora chiederLe, Signor Sindaco, in nome di quale concezione del diritto e di quali criteri politici la Sua amministrazione può motivare la doppia posizione che ha assunto: da una parte iniziative e dichiarazioni, dall’altra il silenzio. Lei ritiene che ciò giovi alla causa della pace, contribuisca a porre fine al conflitto asimmetrico che vede uno degli eserciti più agguerriti ed organizzati del mondo contro una popolazione cui non viene riconosciuto il diritto ad avere uno stato, a vivere in libertà ed indipendenza nel proprio paese?
Oggi 28 agosto non è solo il soldato Gilad Shalit a trascorrere in carcere il proprio compleanno. Nelle carceri israeliane, compiono gli anni nello stesso giorno anche decine di cittadini palestinesi
Siamo fiduciosi, signor Sindaco, che non lascerà senza risposte le nostre domande e auspichiamo che la Sua amministrazione rettifichi secondo giustizia e verità la propria posizione.
La Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese
Comitato per il No all'Occupazione Israeliana di Milano
Roma, Milano 28 agosto 2011
mercoledì 31 agosto 2011
lunedì 22 agosto 2011
Gaza: dopo gli aerei, attacco finale di Israele con i carri armati
Gaza: dopo gli aerei, attacco finale di Israele con i carri armati
Oltre 100 palestinesi arrestati, ucciso anche un bambino
21/08/2011, ore 09:01 -
GAZA (PALESTINA) - E' una escalation continua nella striscia di Gaza. Nuovi attacchi aerei nella notte, che hanno causato diversi morti. In particolare, è stato ucciso un bambino di 5 anni appena uscito dall'ospedale, accompagnato da due uomini. Una raffica di razzi sparati probabilmente da un aereo o da un drone ha ucciso tutte e tre le persone.
Nella notte, gli israeliani hanno diffuso nelle città palestinesi anche un ultimatum a tutti i pacifisti delle varie Ong straniere presenti a Gaza: chi vuole, può scappare attraverso il valico di Heretz, tenuto appositamente aperto per loro. Ma molti di loro, attraverso Twitter, dopo aver dato notizia di questo ultimatum, hanno anche detto che resteranno a Gaza. Una scelta molto pericolosa, dato che Israele si prepara ad un attacco via terra, che in parte è già iniziato. Infatti, mentre i carri armati si ammassano nei pressi dei valichi tra Israele e Gaza, i soldati hanno già cominciato l'attacco ad Hebron, a Betlemme e a Nablus. Assaltate decine di case alle periferie delle città, coloro che ci abitano sono stati uccisi oppure legati e portati via. Si prevede che il grosso dell'esercito si muoverà entro le prossime 24 ore.
Intanto si muovono anche i coloni, che stanno aggredendo qualsiasi palestinese incontrino. In particolare ieri un episodio: un bambino di 10 anni aggredito da una decina di coloni palestinesi, alcuni dei quali armati di spranghe, nel villaggio di Makhmas, ad est di Ramallah. E' stato ricoverato in ospedale, ma le sue condizioni sono disperate. Ma sono stati ricoverati altri tre palestinesi per aggressioni similari. Ed un bambino di 13 anni è stato ricoverato per essere stato investito da una autovettura, guidata da un colono israeliano, che ha attraversato a tutta velocità le strade del villaggio di Kiryat Arba. Poichè i palestinesi non hanno accesso ai carburanti da anni, a causa del perdurante blocco totale imposto alla Striscia da Israele, per le strade dei villaggi palestinesi si cammina in mezzo alla strada, non ci sono marciapiedi. Per questo il bambino, che non è riuscito a scansare l'auto, è stato investito.
di Antonio Rispoli
Oltre 100 palestinesi arrestati, ucciso anche un bambino
21/08/2011, ore 09:01 -
GAZA (PALESTINA) - E' una escalation continua nella striscia di Gaza. Nuovi attacchi aerei nella notte, che hanno causato diversi morti. In particolare, è stato ucciso un bambino di 5 anni appena uscito dall'ospedale, accompagnato da due uomini. Una raffica di razzi sparati probabilmente da un aereo o da un drone ha ucciso tutte e tre le persone.
Nella notte, gli israeliani hanno diffuso nelle città palestinesi anche un ultimatum a tutti i pacifisti delle varie Ong straniere presenti a Gaza: chi vuole, può scappare attraverso il valico di Heretz, tenuto appositamente aperto per loro. Ma molti di loro, attraverso Twitter, dopo aver dato notizia di questo ultimatum, hanno anche detto che resteranno a Gaza. Una scelta molto pericolosa, dato che Israele si prepara ad un attacco via terra, che in parte è già iniziato. Infatti, mentre i carri armati si ammassano nei pressi dei valichi tra Israele e Gaza, i soldati hanno già cominciato l'attacco ad Hebron, a Betlemme e a Nablus. Assaltate decine di case alle periferie delle città, coloro che ci abitano sono stati uccisi oppure legati e portati via. Si prevede che il grosso dell'esercito si muoverà entro le prossime 24 ore.
Intanto si muovono anche i coloni, che stanno aggredendo qualsiasi palestinese incontrino. In particolare ieri un episodio: un bambino di 10 anni aggredito da una decina di coloni palestinesi, alcuni dei quali armati di spranghe, nel villaggio di Makhmas, ad est di Ramallah. E' stato ricoverato in ospedale, ma le sue condizioni sono disperate. Ma sono stati ricoverati altri tre palestinesi per aggressioni similari. Ed un bambino di 13 anni è stato ricoverato per essere stato investito da una autovettura, guidata da un colono israeliano, che ha attraversato a tutta velocità le strade del villaggio di Kiryat Arba. Poichè i palestinesi non hanno accesso ai carburanti da anni, a causa del perdurante blocco totale imposto alla Striscia da Israele, per le strade dei villaggi palestinesi si cammina in mezzo alla strada, non ci sono marciapiedi. Per questo il bambino, che non è riuscito a scansare l'auto, è stato investito.
di Antonio Rispoli
Le radici dell’odio e della convivenza
Slavoj Zizek
19 agosto 2011
Nell’autogiustificazione ideologica di Anders Behring Breivik e nelle reazioni ai suoi atti criminali ci sono cose che dovrebbero farci riflettere. Il manifesto di questo “cacciatore di marxisti” cristiano che in Norvegia ha ucciso più di 70 persone non è il vaneggiamento di un folle, è una lucida esposizione della “crisi europea” che (più o meno) implicitamente è alla radice del crescente movimento populista contro gli immigrati, e le sue stesse incoerenze sono sintomatiche delle contraddizioni interne di questo movimento.
La prima cosa che colpisce è come Breivik costruisce il suo nemico. Mescola tre elementi (marxismo, multiculturalismo e islamismo) che appartengono a spazi politici diversi: quello dell’estrema sinistra marxista, quello del liberalismo multiculturale e quello del fondamentalismo religioso islamico. È la vecchia abitudine fascista di attribuire al nemico caratteristiche che si escludono a vicenda (complotto bolscevico-plutocratico giudaico, estrema sinistra bolscevica, capitalismo plutocratico, identità etnico-religiosa) che ritorna in una nuova forma.
Ancora più indicativo è il modo in cui l’autodesignazione di Breivik mescola le carte dell’ideologia di estrema destra. Breivik si erige a paladino del cristianesimo ma è un agnostico laico: per lui il cristianesimo è solo un bastione culturale da contrapporre all’islam. È antifemminista e pensa che alle donne non dovrebbe essere consentito accedere all’istruzione superiore, ma è a favore di una società “laica” e non condanna né l’aborto né l’omosessualità. In questo il suo predecessore è Pim Fortuyn, il politico populista di destra olandese ucciso nel maggio del 2002, due settimane prima delle elezioni alle quali si prevedeva che avrebbe ottenuto il 20 per cento dei voti. Fortuyn era un personaggio paradossale e sintomatico. Un populista di destra le cui caratteristiche e perfino le cui idee erano quasi tutte “politicamente corrette”. Era gay, aveva un buon rapporto personale con molti immigrati, mostrava un senso innato dell’ironia, e via dicendo. In breve era un bravo liberale tollerante da tutti i punti di vista, tranne quello della sua posizione politica. Incarnava quindi l’intersezione tra il populismo di destra e la correttezza politica liberale Forse doveva morire proprio perché era la prova vivente del fatto che la contrapposizione tra populismo di destra e tolleranza liberale è falsa, che sono due facce della stessa medaglia.
Inoltre Breivik combina alcuni tratti del nazismo (anche nei dettagli, per esempio la sua simpatia per Saga, la cantante folk svedese filonazista) con l’odio per Hitler: uno dei suoi eroi è Max Manus, il leader della resistenza norvegese antinazista. E ultima cosa, ma non per questo meno importante, Breivik è apertamente razzista, ma filosemita e filoisraeliano, perché lo stato di Israele è la prima linea di difesa contro l’espansione musulmana. Vorrebbe perfino vedere riscostruito il tempio di Gerusalemme. Insomma, paradossalmente è un nazista razzista filosemita. Come è possibile?
Una spiegazione potremmo trovarla nelle reazioni della destra europea alla strage di cui si è reso responsabile. Il suo mantra è stato che, pur condannando i suoi atti delittuosi, non dobbiamo dimenticare che esprimono “una legittima preoccupazione per problemi reali”. La politica tradizionale non riesce a fermare il degrado dell’Europa causato dall’islamizzazione e dal multiculturalismo e quindi, per citare il Jerusalem Post, la tragedia di Oslo dovrebbe farci riflettere e “rivedere seriamente le politiche sull’integrazione degli immigrati in Norvegia e altrove”. (Editoriale del 24 luglio 2011).
Tra parentesi, sarebbe bello sentire una riflessione simile sul terrorismo palestinese, qualcosa come: “Questi atti di terrorismo dovrebbero farci riflettere e rivedere la politica israeliana”. Il riferimento a Israele, naturalmente, è implicito dato che secondo il suo governo un Israele “multiculturale” non ha alcuna possibilità di sopravvivere e l’apartheid è l’unica soluzione realistica. Il prezzo di questo perverso patto tra i sionisti e la destra è che, per giustificare la rivendicazione della Palestina, bisogna accettare retroattivamente la linea di ragionamento che nella storia europea passata veniva usata contro gli ebrei. L’accordo implicito è: “Siamo pronti ad accettare la vostra intolleranza alla presenza di altre culture al vostro interno se voi riconoscete il nostro diritto a non tollerare quella dei palestinesi al nostro interno”.
La tragica ironia di questo accordo implicito è che, nella storia europea degli ultimi secoli, gli stessi ebrei sono stati i primi “multiculturalisti”. Il loro problema era come preservare la loro cultura in paesi dove ne predominava un’altra. (Tra parentesi, sarebbe opportuno ricordare che, negli anni trenta, in risposta all’antisemitismo nazista, Ernest Jones, il principale responsabile dell’imborghesimento conformista della psicoanalisi, faceva strane riflessioni sulla percentuale di stranieri che uno stato nazionale è in grado di sopportare al suo interno senza rischiare di perdere la propria identità, giustificando quindi la posizione nazista).
L’Europa dell’esclusione
E se stessimo veramente entrando in una nuova era nella quale questo tipo di ragionamento finirà per imporsi? E se l’Europa dovesse accettare il paradosso che la sua apertura democratica si basa sull’esclusione? “Non c’è libertà per i nemici della libertà”, come diceva Robespierre. In linea di principio, questo naturalmente è vero, ma poi bisogna entrare nello specifico. In un certo senso Breivik ha scelto bene il suo bersaglio: non ha attaccato gli stranieri, ma quelli della sua comunità che erano troppo tolleranti nei confronti degli intrusi. Il problema non sono loro, è la nostra identità (europea).
Sebbene l’attuale crisi dell’Unione europea sembri solo di tipo economico e finanziario, nella sua dimensione fondamentale è una crisi politico-ideologica: il fallimento dei referendum sulla costituzione europea di un paio di anni fa è stato un chiaro segnale del fatto che gli elettori la percepivano come un’unione economica “tecnocratica”, senza alcuna visione che potesse coinvolgere le popolazioni. Fino alle recenti proteste, l’unica ideologia capace di mobilitarle è stata la difesa contro gli immigrati.
Gli episodi di omofobia che si sono verificati nei paesi ex comunisti dell’Europa dell’est dovrebbero farci riflettere. All’inizio del 2011, a Istanbul c’è stata una parata gay in cui migliaia di persone hanno sfilato pacificamente, senza alcuna violenza né incidenti. Durante manifestazioni simili che si sono svolte in Serbia e in Croazia (a Belgrado e a Spalato), la polizia non è riuscita a proteggere i partecipanti, che sono stati ferocemente attaccati da migliaia di fondamentalisti cristiani. Questi fondamentalisti, e non i turchi, costituiscono la vera minaccia per l’Europa, quindi quando l’Unione ha praticamente bloccato l’ingresso della Turchia, avremmo dovuto sollevare una questione ovvia: perché non applicare le stesse regole all’Europa orientale? (Per non parlare del fatto abbastanza curioso che la forza principale che si nasconde dietro il movimento antigay in Croazia è la chiesa cattolica, nonostante i tanti scandali sui preti pedofili).
Gli antisemiti filoisraeliani
È importante collocare l’antisemitismo in questo quadro, come una delle tante forme di razzismo, sessismo, omofobia eccetera. Per giustificare la sua politica sionista, lo stato di Israele sta commettendo un errore madornale: ha deciso di minimizzare, se non di ignorare del tutto, il cosiddetto “vecchio” antisemitismo (tradizionale europeo), concentrandosi piuttosto sul “nuovo”, presunto antisemitismo “progressista” mascherato da critica della politica sionista dello stato di Israele. Seguendo questa linea, qualche tempo fa Bernard Henri-Levy ha sostenuto (nel suo saggio La gauche en temps de crise) che l’antisemitismo del ventunesimo secolo sarà “progressista” o non esisterà. Portata alle sue estreme conseguenze, questa tesi ci costringe a ribaltare la vecchia interpretazione marxista dell’antisemitismo come una forma distorta di anticapitalismo (invece di dare la colpa al sistema capitalistico, la rabbia si concentra su un gruppo specifico accusandolo di corrompere il sistema): per Henri-Levy e quelli che la pensano come lui, l’anticapitalismo di oggi è una forma mascherata di antisemitismo.
Il divieto inespresso ma non per questo meno efficace di attaccarlo è emerso proprio nel momento in cui quel “vecchio” antisemitismo sta rinascendo in tutta l’Europa e in particolare negli ex paesi comunisti dell’est. Possiamo osservare questa strana alleanza anche negli Stati Uniti: come fanno i fondamentalisti cristiani americani, che sono per loro stessa natura antisemiti, ad appoggiare così entusiasticamente la politica espansionista dello stato di Israele? C’è una sola risposta a questa domanda: non è che i fondamentalisti cristiani siano cambiati, è che il sionismo stesso, con il suo odio per gli ebrei che non si identificano completamente con la politica israeliana, paradossalmente è diventato antisemita, vale a dire ha creato la figura dell’ebreo nemico della sua razza perché dubita del progetto sionista. Il gioco di Israele è pericoloso. Fox News, la principale voce dell’estrema destra americana e grande sostenitrice dell’espansionismo israeliano, qualche tempo fa ha dovuto rimuovere dalle sue funzioni Glen Beck, il suo conduttore più popolare, perché i suoi commenti stavano diventando apertamente antisemiti.
L’argomento standard dei sionisti nei confronti dei critici di Gerusalemme è che, naturalmente, come tutti gli altri stati, Israele può e deve essere giudicato e anche criticato, ma chi lo fa usa le giuste critiche alle sue politiche a scopi antisemitici. Quando i fondamentalisti cristiani che sostengono la politica israeliana respingono le critiche a quella politica, la loro linea di ragionamento è ben espressa da una vignetta pubblicata nel luglio del 2008 sul quotidiano viennese Die Presse dove si vedono due robusti viennesi con l’aria da nazisti. Uno di loro tiene in mano un giornale e commenta con il suo amico: “Qui si vede chiaramente come un antisemitismo assolutamente giustificato viene usato per criticare ingiustamente Israele!”. Questi sono oggi gli alleati di Israele. Come siamo arrivati a questo punto?
Un secolo fa, Gilbert Keith Chesterton denunciò chiaramente il difetto fondamentale dei critici della religione: “Uomini che cominciano combattendo la chiesa per amore della libertà e dell’umanità finiscono per rinunciare alla libertà e all’umanità pur di poter combattere la chiesa… I laici non hanno distrutto la spiritualità, ma la laicità, se questo può essere loro di qualche conforto”. Non potremmo dire la stessa cosa dei paladini della religione? Quanti fanatici difensori della fede hanno cominciato attaccando ferocemente la cultura laica contemporanea e poi hanno finito per rinunciare a qualsiasi esperienza religiosa significativa? Allo stesso modo, molti guerrieri del liberalismo sono così ansiosi di combattere il fondamentalismo antidemocratico da finire per rinunciare alla libertà e alla democrazia pur di sconfiggere il terrorismo. Se i “terroristi” sono pronti a distruggere questo mondo per amore dell’altro mondo, i nostri guerrieri sono pronti a distruggere la loro democrazia in nome dell’odio per l’altro musulmano.
Alcuni di loro hanno tanto rispetto per la dignità umana da essere pronti a legalizzare la tortura – la massima degradazione della dignità umana – pur di difenderla. E non potremmo dire la stessa cosa della recente insurrezione dei difensori dell’Europa contro la minaccia degli immigrati? Nella furia di difendere le sue radici giudaico-cristiane, i nuovi zeloti sono pronti a rinunciare all’essenza stessa della cristianità. La vera minaccia per le radici del continente sono le persone come Breivik, il sedicente difensore dell’Europa che ha ucciso “per amor suo”. Con amici così, il nostro continente non ha bisogno di nemici. Se Breivik l’amasse veramente, avrebbe seguito il consiglio di suo padre e si sarebbe suicidato.
L’Altro decaffeinato
La recente ondata di risentimento nei confronti degli immigrati va letta sullo sfondo di una riorganizzazione a lungo termine dello spazio politico nell’Europa occidentale e orientale. Fino a poco tempo fa, lo spazio politico dei paesi europei era dominato da due partiti principali che coprivano quasi tutto l’elettorato, un partito di centrodestra (democristiano, liberal-conservatore, popolare…) e uno di centrosinistra (socialista, socialdemocratico…) con l’aggiunta di piccoli partiti che si rivolgevano a un elettorato più ristretto (ecologisti, comunisti, e così via). Sia a est che a ovest, gli ultimi risultati elettorali hanno evidenziato il graduale emergere di una polarità diversa.
C’è un partito centrista predominante che rappresenta il capitalismo globale, di solito con un programma culturale liberale (tolleranza nei confronti dell’aborto, dei diritti dei gay, delle minoranze etniche e religiose, e così via). A contrastarlo c’è un partito populista antimmigrazione sempre più forte le cui frange estreme sono apertamente razziste e neofasciste. Un caso esemplare lo vediamo in Polonia: dopo la scomparsa degli ex comunisti, i partiti principali sono quello centrista liberale “anti-ideologico” del primo ministro Donald Dusk e il partito cristiano conservatore dei fratelli Kaczynski. Tendenze simili le troviamo anche nei Paesi Bassi, in Norvegia, Svezia e Ungheria. Per la terza e ultima volta, come siamo arrivati a questo punto?
Dopo il crollo dei regimi comunisti del 1990, siamo entrati in una nuova era nella quale la forma predominante di esercizio del potere statale è diventata l’amministrazione esperta depoliticizzata e il coordinamento degli interessi. L’unico modo per introdurre un po’ di passione in questo campo, per mobilitare i cittadini, è la paura: la paura degli immigrati, della criminalità, della depravazione sessuale dei senza dio, di un’eccessiva interferenza dello stato (che si esprime con il controllo e l’aumento delle tasse), la paura della catastrofe ecologica, ma anche delle vessazioni (la correttezza politica è la forma esemplare della strategia della paura).
Questo tipo di politica fa sempre affidamento sulla manipolazione di folle spaventate e paranoiche, quelle che i greci chiamavano ochlos. Di conseguenza, l’evento politico più importante dei primi dieci anni del nuovo millennio è stato l’ingresso dei movimenti antimmigrazione nell’area dei partiti convenzionali, dopo aver finalmente tagliato il cordone ombelicale con quelli di estrema destra ai quali prima erano legati. Dalla Francia alla Germania, dall’Austria all’Olanda, nel nuovo spirito dell’orgoglio per la propria identità storica e culturale, adesso i partiti trovano accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti che devono adattarsi ai valori culturali della società che li accoglie. “Questo è il nostro paese, prendere o lasciare”.
I progressisti, naturalmente, sono inorriditi da questo razzismo populista. Ma a guardare meglio scopriamo che il loro multiculturalismo tollerante e il loro rispetto per le differenze (etniche, religiose, sessuali) condivide con i movimenti antimmigrazione la necessità di tenere i diversi a debita distanza. Rispetto gli altri, ma loro non devono intromettersi troppo nel mio spazio. Nel momento in cui lo fanno, mi danno fastidio – con il loro odore, la loro lingua, i loro modi volgari, la loro musica, la loro cucina… Difendo i diritti dei neri, ma non sono disposto a sentire la loro musica rap a tutto volume. Sul mercato di oggi, troviamo tutta una serie di prodotti privi delle loro proprietà potenzialmente dannose: il caffè senza caffeina, la panna senza grassi, la birra senza alcol… E l’elenco potrebbe continuare: c’è anche il sesso virtuale senza sesso, la dottrina della guerra senza vittime (nostre, naturalmente) di Colin Powell, in pratica una guerra senza guerra, le ridefinizione contemporanea della politica come arte dell’amministrazione competente, cioè come politica senza politica, fino al liberalismo multiculturale tollerante come esperienza dell’Altro senza la sua Alterità. Vogliamo vedere un Altro decaffeinato che danza in modo affascinante e ha un rapporto olistico ed ecologico con la realtà, e ignorare che a casa picchia la moglie.
Il meccanismo di questa neutralizzazione è stato ben espresso nel 1938 da Robert Brasillach, l’intellettuale fascista francese giustiziato nel 1945, che si considerava un antisemita “moderato” e aveva inventato la formula dell’antisemitismo ragionevole. “Ci concediamo di applaudire i film di Charlie Chaplin, che è mezzo ebreo; di ammirare Proust, anche lui per metà ebreo; di osannare il violinista ebreo Yehudi Menuhin; e alla radio sentiamo la voce di Hitler grazie all’invenzione di un altro ebreo, Heinrich Hertz… Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare nessun pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore per evitare i comportamenti antisemiti istintivi che sono sempre imprevedibili sia incoraggiare un antisemitismo ragionevole”. Non è forse l’atteggiamento che hanno oggi i nostri governi nei confronti della “minaccia dell’immigrazione”?
Dopo aver giustamente respinto il razzismo populista “irragionevole” e inaccettabile per i nostri standard democratici, avallano misure di protezione “ragionevolmente” razziste o, come ci dicono i Brasillach di oggi, alcuni dei quali sono addirittura socialdemocratici: “Ci concediamo di applaudire gli sportivi africani o dell’est europeo, i medici asiatici, i programmatori di software indiani. Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare nessun pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore per evitare i comportamenti violenti contro gli immigrati che sono sempre imprevedibili sia introdurre misure di protezione ragionevoli”.
Questa disintossicazione del Prossimo è un chiaro passaggio dalla barbarie pura e semplice alla barbarie dal volto umano. È un ritorno indietro dall’amore cristiano per il prossimo al paganesimo della tribù (greci, romani…) che difende i propri privilegi rispetto ai barbari. Anche se mascherata da difesa dei valori cristiani, costituisce la più grande minaccia per l’identità cristiana.
Razzismo e multiculturalismo
Ma è necessario fare anche un altro passaggio: la critica del razzismo contro gli immigrati dovrebbe diventare un’autocritica e ammettere la complicità della forma predominante di multiculturalismo con quello che condanna. I critici di questa ondata di sentimenti contro gli immigrati di solito si limitano a celebrare l’infinito rituale di confessare i peccati dell’Europa, ad accettare umilmente i limiti della sua identità e ad esaltare la ricchezza di altre culture. I famosi versi di William Butler Yeats nella poesia Il secondo avvento, sembrano rendere perfettamente la situazione di oggi: “I migliori hanno perso ogni convinzione, e i peggiori si gonfiano d’ardore appassionato”. È un’ottima descrizione dell’attuale divisione tra liberali anemici e fondamentalisti appassionati, sia musulmani che cristiani. “I migliori” non sono più capaci di impegnarsi fino in fondo, mentre “i peggiori” sono impegnati nel loro fanatismo razzista, religioso e sessista. Come uscire da questo impasse?
Invece di recitare la parte delle anime belle che si lamentano di questa nuova Europa razzista che sta emergendo, dovremmo guardarci allo specchio e chiederci in che misura il nostro multiculturalismo astratto ha contribuito a creare questo triste stato di cose. Se tutte le parti non condividono e rispettano la stessa civiltà, il multiculturalismo diventa ignoranza reciproca regolata dalla legge, se non addirittura odio. Il conflitto sul multiculturalismo è un conflitto sulla Leitkultur: non tra culture ma tra visioni diverse di come le varie culture possono e dovrebbero coesistere, sulle regole e le pratiche che queste culture devono condividere se vogliono convivere.
Quindi dovremmo evitare di lasciarci prendere dal gioco di “quanta tolleranza possiamo permetterci”. Dobbiamo tollerare che non mandino a scuola i loro figli, che costringano le loro donne a vestirsi e comportarsi in un certo modo, che combinino i matrimoni, che brutalizzino i loro gay. A questo livello, naturalmente, non siamo mai abbastanza tolleranti, o lo siamo troppo, dimenticando i diritti delle donne, e così via. L’unico modo per uscire da questo impasse è proporre e lottare per la realizzazione di un progetto positivo condiviso da tutti. I terreni di lotta nei quali “non esistono né uomini né donne, né ebrei né greci” sono molti, dall’ecologia all’economia.
Nei suoi ultimi anni di vita, Sigmund Freud aveva cominciato a chiedersi: che cosa vuole una donna? Oggi la domanda che dovremmo porci è: che cosa vuole l’Europa? Per lo più si comporta come regolatrice dello sviluppo del capitalismo globale e a volte flirta con la difesa delle sue tradizioni. Entrambe queste strade portano all’oblio, alla sua emarginazione. L’unico modo che ha per uscire da questo debilitante impasse è recuperare la sua tradizione di emancipazione radicale e universale. Deve andare oltre la semplice tolleranza degli altri per arrivare a una Leitkultur positiva dell’emancipazione che può solo sostenere l’autentica coesistenza e la fusione delle diverse culture, e impegnarsi nella prossima battaglia per questa Leitkultur. Non solo rispettare gli altri, ma offrire loro una battaglia comune, dato che oggi i nostri problemi sono comuni.
Traduzione di Bruna Tortorella
19 agosto 2011
Nell’autogiustificazione ideologica di Anders Behring Breivik e nelle reazioni ai suoi atti criminali ci sono cose che dovrebbero farci riflettere. Il manifesto di questo “cacciatore di marxisti” cristiano che in Norvegia ha ucciso più di 70 persone non è il vaneggiamento di un folle, è una lucida esposizione della “crisi europea” che (più o meno) implicitamente è alla radice del crescente movimento populista contro gli immigrati, e le sue stesse incoerenze sono sintomatiche delle contraddizioni interne di questo movimento.
La prima cosa che colpisce è come Breivik costruisce il suo nemico. Mescola tre elementi (marxismo, multiculturalismo e islamismo) che appartengono a spazi politici diversi: quello dell’estrema sinistra marxista, quello del liberalismo multiculturale e quello del fondamentalismo religioso islamico. È la vecchia abitudine fascista di attribuire al nemico caratteristiche che si escludono a vicenda (complotto bolscevico-plutocratico giudaico, estrema sinistra bolscevica, capitalismo plutocratico, identità etnico-religiosa) che ritorna in una nuova forma.
Ancora più indicativo è il modo in cui l’autodesignazione di Breivik mescola le carte dell’ideologia di estrema destra. Breivik si erige a paladino del cristianesimo ma è un agnostico laico: per lui il cristianesimo è solo un bastione culturale da contrapporre all’islam. È antifemminista e pensa che alle donne non dovrebbe essere consentito accedere all’istruzione superiore, ma è a favore di una società “laica” e non condanna né l’aborto né l’omosessualità. In questo il suo predecessore è Pim Fortuyn, il politico populista di destra olandese ucciso nel maggio del 2002, due settimane prima delle elezioni alle quali si prevedeva che avrebbe ottenuto il 20 per cento dei voti. Fortuyn era un personaggio paradossale e sintomatico. Un populista di destra le cui caratteristiche e perfino le cui idee erano quasi tutte “politicamente corrette”. Era gay, aveva un buon rapporto personale con molti immigrati, mostrava un senso innato dell’ironia, e via dicendo. In breve era un bravo liberale tollerante da tutti i punti di vista, tranne quello della sua posizione politica. Incarnava quindi l’intersezione tra il populismo di destra e la correttezza politica liberale Forse doveva morire proprio perché era la prova vivente del fatto che la contrapposizione tra populismo di destra e tolleranza liberale è falsa, che sono due facce della stessa medaglia.
Inoltre Breivik combina alcuni tratti del nazismo (anche nei dettagli, per esempio la sua simpatia per Saga, la cantante folk svedese filonazista) con l’odio per Hitler: uno dei suoi eroi è Max Manus, il leader della resistenza norvegese antinazista. E ultima cosa, ma non per questo meno importante, Breivik è apertamente razzista, ma filosemita e filoisraeliano, perché lo stato di Israele è la prima linea di difesa contro l’espansione musulmana. Vorrebbe perfino vedere riscostruito il tempio di Gerusalemme. Insomma, paradossalmente è un nazista razzista filosemita. Come è possibile?
Una spiegazione potremmo trovarla nelle reazioni della destra europea alla strage di cui si è reso responsabile. Il suo mantra è stato che, pur condannando i suoi atti delittuosi, non dobbiamo dimenticare che esprimono “una legittima preoccupazione per problemi reali”. La politica tradizionale non riesce a fermare il degrado dell’Europa causato dall’islamizzazione e dal multiculturalismo e quindi, per citare il Jerusalem Post, la tragedia di Oslo dovrebbe farci riflettere e “rivedere seriamente le politiche sull’integrazione degli immigrati in Norvegia e altrove”. (Editoriale del 24 luglio 2011).
Tra parentesi, sarebbe bello sentire una riflessione simile sul terrorismo palestinese, qualcosa come: “Questi atti di terrorismo dovrebbero farci riflettere e rivedere la politica israeliana”. Il riferimento a Israele, naturalmente, è implicito dato che secondo il suo governo un Israele “multiculturale” non ha alcuna possibilità di sopravvivere e l’apartheid è l’unica soluzione realistica. Il prezzo di questo perverso patto tra i sionisti e la destra è che, per giustificare la rivendicazione della Palestina, bisogna accettare retroattivamente la linea di ragionamento che nella storia europea passata veniva usata contro gli ebrei. L’accordo implicito è: “Siamo pronti ad accettare la vostra intolleranza alla presenza di altre culture al vostro interno se voi riconoscete il nostro diritto a non tollerare quella dei palestinesi al nostro interno”.
La tragica ironia di questo accordo implicito è che, nella storia europea degli ultimi secoli, gli stessi ebrei sono stati i primi “multiculturalisti”. Il loro problema era come preservare la loro cultura in paesi dove ne predominava un’altra. (Tra parentesi, sarebbe opportuno ricordare che, negli anni trenta, in risposta all’antisemitismo nazista, Ernest Jones, il principale responsabile dell’imborghesimento conformista della psicoanalisi, faceva strane riflessioni sulla percentuale di stranieri che uno stato nazionale è in grado di sopportare al suo interno senza rischiare di perdere la propria identità, giustificando quindi la posizione nazista).
L’Europa dell’esclusione
E se stessimo veramente entrando in una nuova era nella quale questo tipo di ragionamento finirà per imporsi? E se l’Europa dovesse accettare il paradosso che la sua apertura democratica si basa sull’esclusione? “Non c’è libertà per i nemici della libertà”, come diceva Robespierre. In linea di principio, questo naturalmente è vero, ma poi bisogna entrare nello specifico. In un certo senso Breivik ha scelto bene il suo bersaglio: non ha attaccato gli stranieri, ma quelli della sua comunità che erano troppo tolleranti nei confronti degli intrusi. Il problema non sono loro, è la nostra identità (europea).
Sebbene l’attuale crisi dell’Unione europea sembri solo di tipo economico e finanziario, nella sua dimensione fondamentale è una crisi politico-ideologica: il fallimento dei referendum sulla costituzione europea di un paio di anni fa è stato un chiaro segnale del fatto che gli elettori la percepivano come un’unione economica “tecnocratica”, senza alcuna visione che potesse coinvolgere le popolazioni. Fino alle recenti proteste, l’unica ideologia capace di mobilitarle è stata la difesa contro gli immigrati.
Gli episodi di omofobia che si sono verificati nei paesi ex comunisti dell’Europa dell’est dovrebbero farci riflettere. All’inizio del 2011, a Istanbul c’è stata una parata gay in cui migliaia di persone hanno sfilato pacificamente, senza alcuna violenza né incidenti. Durante manifestazioni simili che si sono svolte in Serbia e in Croazia (a Belgrado e a Spalato), la polizia non è riuscita a proteggere i partecipanti, che sono stati ferocemente attaccati da migliaia di fondamentalisti cristiani. Questi fondamentalisti, e non i turchi, costituiscono la vera minaccia per l’Europa, quindi quando l’Unione ha praticamente bloccato l’ingresso della Turchia, avremmo dovuto sollevare una questione ovvia: perché non applicare le stesse regole all’Europa orientale? (Per non parlare del fatto abbastanza curioso che la forza principale che si nasconde dietro il movimento antigay in Croazia è la chiesa cattolica, nonostante i tanti scandali sui preti pedofili).
Gli antisemiti filoisraeliani
È importante collocare l’antisemitismo in questo quadro, come una delle tante forme di razzismo, sessismo, omofobia eccetera. Per giustificare la sua politica sionista, lo stato di Israele sta commettendo un errore madornale: ha deciso di minimizzare, se non di ignorare del tutto, il cosiddetto “vecchio” antisemitismo (tradizionale europeo), concentrandosi piuttosto sul “nuovo”, presunto antisemitismo “progressista” mascherato da critica della politica sionista dello stato di Israele. Seguendo questa linea, qualche tempo fa Bernard Henri-Levy ha sostenuto (nel suo saggio La gauche en temps de crise) che l’antisemitismo del ventunesimo secolo sarà “progressista” o non esisterà. Portata alle sue estreme conseguenze, questa tesi ci costringe a ribaltare la vecchia interpretazione marxista dell’antisemitismo come una forma distorta di anticapitalismo (invece di dare la colpa al sistema capitalistico, la rabbia si concentra su un gruppo specifico accusandolo di corrompere il sistema): per Henri-Levy e quelli che la pensano come lui, l’anticapitalismo di oggi è una forma mascherata di antisemitismo.
Il divieto inespresso ma non per questo meno efficace di attaccarlo è emerso proprio nel momento in cui quel “vecchio” antisemitismo sta rinascendo in tutta l’Europa e in particolare negli ex paesi comunisti dell’est. Possiamo osservare questa strana alleanza anche negli Stati Uniti: come fanno i fondamentalisti cristiani americani, che sono per loro stessa natura antisemiti, ad appoggiare così entusiasticamente la politica espansionista dello stato di Israele? C’è una sola risposta a questa domanda: non è che i fondamentalisti cristiani siano cambiati, è che il sionismo stesso, con il suo odio per gli ebrei che non si identificano completamente con la politica israeliana, paradossalmente è diventato antisemita, vale a dire ha creato la figura dell’ebreo nemico della sua razza perché dubita del progetto sionista. Il gioco di Israele è pericoloso. Fox News, la principale voce dell’estrema destra americana e grande sostenitrice dell’espansionismo israeliano, qualche tempo fa ha dovuto rimuovere dalle sue funzioni Glen Beck, il suo conduttore più popolare, perché i suoi commenti stavano diventando apertamente antisemiti.
L’argomento standard dei sionisti nei confronti dei critici di Gerusalemme è che, naturalmente, come tutti gli altri stati, Israele può e deve essere giudicato e anche criticato, ma chi lo fa usa le giuste critiche alle sue politiche a scopi antisemitici. Quando i fondamentalisti cristiani che sostengono la politica israeliana respingono le critiche a quella politica, la loro linea di ragionamento è ben espressa da una vignetta pubblicata nel luglio del 2008 sul quotidiano viennese Die Presse dove si vedono due robusti viennesi con l’aria da nazisti. Uno di loro tiene in mano un giornale e commenta con il suo amico: “Qui si vede chiaramente come un antisemitismo assolutamente giustificato viene usato per criticare ingiustamente Israele!”. Questi sono oggi gli alleati di Israele. Come siamo arrivati a questo punto?
Un secolo fa, Gilbert Keith Chesterton denunciò chiaramente il difetto fondamentale dei critici della religione: “Uomini che cominciano combattendo la chiesa per amore della libertà e dell’umanità finiscono per rinunciare alla libertà e all’umanità pur di poter combattere la chiesa… I laici non hanno distrutto la spiritualità, ma la laicità, se questo può essere loro di qualche conforto”. Non potremmo dire la stessa cosa dei paladini della religione? Quanti fanatici difensori della fede hanno cominciato attaccando ferocemente la cultura laica contemporanea e poi hanno finito per rinunciare a qualsiasi esperienza religiosa significativa? Allo stesso modo, molti guerrieri del liberalismo sono così ansiosi di combattere il fondamentalismo antidemocratico da finire per rinunciare alla libertà e alla democrazia pur di sconfiggere il terrorismo. Se i “terroristi” sono pronti a distruggere questo mondo per amore dell’altro mondo, i nostri guerrieri sono pronti a distruggere la loro democrazia in nome dell’odio per l’altro musulmano.
Alcuni di loro hanno tanto rispetto per la dignità umana da essere pronti a legalizzare la tortura – la massima degradazione della dignità umana – pur di difenderla. E non potremmo dire la stessa cosa della recente insurrezione dei difensori dell’Europa contro la minaccia degli immigrati? Nella furia di difendere le sue radici giudaico-cristiane, i nuovi zeloti sono pronti a rinunciare all’essenza stessa della cristianità. La vera minaccia per le radici del continente sono le persone come Breivik, il sedicente difensore dell’Europa che ha ucciso “per amor suo”. Con amici così, il nostro continente non ha bisogno di nemici. Se Breivik l’amasse veramente, avrebbe seguito il consiglio di suo padre e si sarebbe suicidato.
L’Altro decaffeinato
La recente ondata di risentimento nei confronti degli immigrati va letta sullo sfondo di una riorganizzazione a lungo termine dello spazio politico nell’Europa occidentale e orientale. Fino a poco tempo fa, lo spazio politico dei paesi europei era dominato da due partiti principali che coprivano quasi tutto l’elettorato, un partito di centrodestra (democristiano, liberal-conservatore, popolare…) e uno di centrosinistra (socialista, socialdemocratico…) con l’aggiunta di piccoli partiti che si rivolgevano a un elettorato più ristretto (ecologisti, comunisti, e così via). Sia a est che a ovest, gli ultimi risultati elettorali hanno evidenziato il graduale emergere di una polarità diversa.
C’è un partito centrista predominante che rappresenta il capitalismo globale, di solito con un programma culturale liberale (tolleranza nei confronti dell’aborto, dei diritti dei gay, delle minoranze etniche e religiose, e così via). A contrastarlo c’è un partito populista antimmigrazione sempre più forte le cui frange estreme sono apertamente razziste e neofasciste. Un caso esemplare lo vediamo in Polonia: dopo la scomparsa degli ex comunisti, i partiti principali sono quello centrista liberale “anti-ideologico” del primo ministro Donald Dusk e il partito cristiano conservatore dei fratelli Kaczynski. Tendenze simili le troviamo anche nei Paesi Bassi, in Norvegia, Svezia e Ungheria. Per la terza e ultima volta, come siamo arrivati a questo punto?
Dopo il crollo dei regimi comunisti del 1990, siamo entrati in una nuova era nella quale la forma predominante di esercizio del potere statale è diventata l’amministrazione esperta depoliticizzata e il coordinamento degli interessi. L’unico modo per introdurre un po’ di passione in questo campo, per mobilitare i cittadini, è la paura: la paura degli immigrati, della criminalità, della depravazione sessuale dei senza dio, di un’eccessiva interferenza dello stato (che si esprime con il controllo e l’aumento delle tasse), la paura della catastrofe ecologica, ma anche delle vessazioni (la correttezza politica è la forma esemplare della strategia della paura).
Questo tipo di politica fa sempre affidamento sulla manipolazione di folle spaventate e paranoiche, quelle che i greci chiamavano ochlos. Di conseguenza, l’evento politico più importante dei primi dieci anni del nuovo millennio è stato l’ingresso dei movimenti antimmigrazione nell’area dei partiti convenzionali, dopo aver finalmente tagliato il cordone ombelicale con quelli di estrema destra ai quali prima erano legati. Dalla Francia alla Germania, dall’Austria all’Olanda, nel nuovo spirito dell’orgoglio per la propria identità storica e culturale, adesso i partiti trovano accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti che devono adattarsi ai valori culturali della società che li accoglie. “Questo è il nostro paese, prendere o lasciare”.
I progressisti, naturalmente, sono inorriditi da questo razzismo populista. Ma a guardare meglio scopriamo che il loro multiculturalismo tollerante e il loro rispetto per le differenze (etniche, religiose, sessuali) condivide con i movimenti antimmigrazione la necessità di tenere i diversi a debita distanza. Rispetto gli altri, ma loro non devono intromettersi troppo nel mio spazio. Nel momento in cui lo fanno, mi danno fastidio – con il loro odore, la loro lingua, i loro modi volgari, la loro musica, la loro cucina… Difendo i diritti dei neri, ma non sono disposto a sentire la loro musica rap a tutto volume. Sul mercato di oggi, troviamo tutta una serie di prodotti privi delle loro proprietà potenzialmente dannose: il caffè senza caffeina, la panna senza grassi, la birra senza alcol… E l’elenco potrebbe continuare: c’è anche il sesso virtuale senza sesso, la dottrina della guerra senza vittime (nostre, naturalmente) di Colin Powell, in pratica una guerra senza guerra, le ridefinizione contemporanea della politica come arte dell’amministrazione competente, cioè come politica senza politica, fino al liberalismo multiculturale tollerante come esperienza dell’Altro senza la sua Alterità. Vogliamo vedere un Altro decaffeinato che danza in modo affascinante e ha un rapporto olistico ed ecologico con la realtà, e ignorare che a casa picchia la moglie.
Il meccanismo di questa neutralizzazione è stato ben espresso nel 1938 da Robert Brasillach, l’intellettuale fascista francese giustiziato nel 1945, che si considerava un antisemita “moderato” e aveva inventato la formula dell’antisemitismo ragionevole. “Ci concediamo di applaudire i film di Charlie Chaplin, che è mezzo ebreo; di ammirare Proust, anche lui per metà ebreo; di osannare il violinista ebreo Yehudi Menuhin; e alla radio sentiamo la voce di Hitler grazie all’invenzione di un altro ebreo, Heinrich Hertz… Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare nessun pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore per evitare i comportamenti antisemiti istintivi che sono sempre imprevedibili sia incoraggiare un antisemitismo ragionevole”. Non è forse l’atteggiamento che hanno oggi i nostri governi nei confronti della “minaccia dell’immigrazione”?
Dopo aver giustamente respinto il razzismo populista “irragionevole” e inaccettabile per i nostri standard democratici, avallano misure di protezione “ragionevolmente” razziste o, come ci dicono i Brasillach di oggi, alcuni dei quali sono addirittura socialdemocratici: “Ci concediamo di applaudire gli sportivi africani o dell’est europeo, i medici asiatici, i programmatori di software indiani. Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare nessun pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore per evitare i comportamenti violenti contro gli immigrati che sono sempre imprevedibili sia introdurre misure di protezione ragionevoli”.
Questa disintossicazione del Prossimo è un chiaro passaggio dalla barbarie pura e semplice alla barbarie dal volto umano. È un ritorno indietro dall’amore cristiano per il prossimo al paganesimo della tribù (greci, romani…) che difende i propri privilegi rispetto ai barbari. Anche se mascherata da difesa dei valori cristiani, costituisce la più grande minaccia per l’identità cristiana.
Razzismo e multiculturalismo
Ma è necessario fare anche un altro passaggio: la critica del razzismo contro gli immigrati dovrebbe diventare un’autocritica e ammettere la complicità della forma predominante di multiculturalismo con quello che condanna. I critici di questa ondata di sentimenti contro gli immigrati di solito si limitano a celebrare l’infinito rituale di confessare i peccati dell’Europa, ad accettare umilmente i limiti della sua identità e ad esaltare la ricchezza di altre culture. I famosi versi di William Butler Yeats nella poesia Il secondo avvento, sembrano rendere perfettamente la situazione di oggi: “I migliori hanno perso ogni convinzione, e i peggiori si gonfiano d’ardore appassionato”. È un’ottima descrizione dell’attuale divisione tra liberali anemici e fondamentalisti appassionati, sia musulmani che cristiani. “I migliori” non sono più capaci di impegnarsi fino in fondo, mentre “i peggiori” sono impegnati nel loro fanatismo razzista, religioso e sessista. Come uscire da questo impasse?
Invece di recitare la parte delle anime belle che si lamentano di questa nuova Europa razzista che sta emergendo, dovremmo guardarci allo specchio e chiederci in che misura il nostro multiculturalismo astratto ha contribuito a creare questo triste stato di cose. Se tutte le parti non condividono e rispettano la stessa civiltà, il multiculturalismo diventa ignoranza reciproca regolata dalla legge, se non addirittura odio. Il conflitto sul multiculturalismo è un conflitto sulla Leitkultur: non tra culture ma tra visioni diverse di come le varie culture possono e dovrebbero coesistere, sulle regole e le pratiche che queste culture devono condividere se vogliono convivere.
Quindi dovremmo evitare di lasciarci prendere dal gioco di “quanta tolleranza possiamo permetterci”. Dobbiamo tollerare che non mandino a scuola i loro figli, che costringano le loro donne a vestirsi e comportarsi in un certo modo, che combinino i matrimoni, che brutalizzino i loro gay. A questo livello, naturalmente, non siamo mai abbastanza tolleranti, o lo siamo troppo, dimenticando i diritti delle donne, e così via. L’unico modo per uscire da questo impasse è proporre e lottare per la realizzazione di un progetto positivo condiviso da tutti. I terreni di lotta nei quali “non esistono né uomini né donne, né ebrei né greci” sono molti, dall’ecologia all’economia.
Nei suoi ultimi anni di vita, Sigmund Freud aveva cominciato a chiedersi: che cosa vuole una donna? Oggi la domanda che dovremmo porci è: che cosa vuole l’Europa? Per lo più si comporta come regolatrice dello sviluppo del capitalismo globale e a volte flirta con la difesa delle sue tradizioni. Entrambe queste strade portano all’oblio, alla sua emarginazione. L’unico modo che ha per uscire da questo debilitante impasse è recuperare la sua tradizione di emancipazione radicale e universale. Deve andare oltre la semplice tolleranza degli altri per arrivare a una Leitkultur positiva dell’emancipazione che può solo sostenere l’autentica coesistenza e la fusione delle diverse culture, e impegnarsi nella prossima battaglia per questa Leitkultur. Non solo rispettare gli altri, ma offrire loro una battaglia comune, dato che oggi i nostri problemi sono comuni.
Traduzione di Bruna Tortorella
martedì 16 agosto 2011
L'"unica democrazia del Medio Oriente" va in pensione
La legge Dichter
di Uri Avnery
“IL POPOLO Chiede Giustizia Sociale!” cantavano in coro a Tel Aviv 250 mila manifestanti sabato scorso. Ma ciò di cui hanno bisogno – per citare un artista americano – è di “più politici disoccupati”.
Per fortuna, la Knesset si è presa una vacanza prolungata, tre mesi. Infatti, come Mark Twain diceva con arguzia: “Nessuna vita o proprietà è al sicuro finché è riunita l’assemblea legislativa.”
A riprova di questa asserzione, proprio l’ultimo giorno della sessione in atto, il parlamentare Avi Dichter ha presentato un disegno di legge talmente scandaloso da trionfare facilmente su tutte le numerose altre leggi razziste adottate ultimamente da questa Knesset.
“Dichter” è un nome tedesco: sta per “poeta”. Ma lui non è un poeta. E’ l’ex capo della polizia segreta, il “Servizio di sicurezza generale” (Shin-Bet o Shabak).
(“Dichter” vuol dire anche “più denso”, ma non perdiamoci altro tempo.)
Ha annunciato con orgoglio di aver trascorso un anno e mezzo di legislatura ad affinare e temperare questo particolare progetto, trasformandolo in un capolavoro legislativo.
E un capolavoro lo è. Nessun collega nella Germania di ieri o nell’Iran di oggi avrebbe potuto produrne uno più esimio. Gli altri membri della Knesset sembrano riconoscerlo, come pure non meno di 20 dei 28 membri del partito Kadima, così come tutti gli altri componenti irriducibilmente razzisti di questo augusto organo, dato che hanno apposto con orgoglio il loro nome, come coautori, a questo progetto .
Il nome stesso – “Legge fondamentale: Israele come Stato-nazione del popolo ebraico” – dimostra che questo Dichter non è un poeta né tanto meno un grande intellettuale. I capi della polizia segreta raramente lo sono.
“Nazione” e “Popolo” sono due concetti diversi. E’ universalmente accettato che un popolo è un’entità etnica, e una nazione è una comunità politica. Essi si pongono su due livelli diversi. Ma non importa.
E’ il contenuto del disegno di legge che conta.
Ciò che Dichter propone è di mettere fine alla definizione ufficiale di Israele come “Stato ebraico e democratico”.
Propone, invece, di fissare delle chiare priorità: Israele è in primo luogo lo Stato-nazione del popolo ebraico, e solo in un secondo, remoto, uno Stato democratico. Quando c’è uno scontro tra la democrazia e l’ebraicità dello stato, vince l'ebraicità e perde la democrazia.
Tra l’altro, questo lo rende il primo della destra sionista (a parte Meir Kahane) ad ammettere apertamente che vi è una contraddizione di base tra uno stato “ebraico” e uno stato “democratico”. Dal 1948, questo è stato negato strenuamente da tutte le fazioni sioniste, dalla loro falange di intellettuali e dalla Corte Suprema.
Ciò che sta a significare la nuova definizione è che lo Stato di Israele appartiene a tutti gli ebrei del mondo – compresi i senatori di Washington, gli spacciatori di droga in Messico, gli oligarchi di Mosca e i proprietari di casinò a Macao, ma non ai cittadini arabi di Israele che vivono qui da almeno 1300 anni, da quando i musulmani entrarono a Gerusalemme. I cristiani arabi fanno risalire le loro origini alla crocifissione, 1980 anni fa, i samaritani erano qui 2500 anni fa e molti abitanti dei villaggio probabilmente sono discendenti dei Cananei, che erano qui già circa 5000 anni fa.
Una volta che questo disegno di legge verrà trasformato in legge, tutti costoro diventeranno cittadini di seconda classe, non solo nella pratica, come ora, ma anche secondo la norma ufficiale. Ogni qual volta i loro diritti saranno in contrasto con ciò che la maggioranza degli ebrei ritiene necessario per la tutela degli interessi della “Stato-nazione del popolo ebraico” – che può comprendere tutto, dalla proprietà della terra alla legge penale, i loro diritti saranno ignorati.
La legge stessa non lascia molto spazio alle ipotesi. Spiega le cose con chiarezza.
La lingua araba perderà il suo status di “lingua ufficiale”, uno status di cui ha goduto nell’Impero Ottomano, sotto il mandato britannico e, fino ad ora, in Israele. L’unica lingua ufficiale dello Stato-nazione ecc.. sarà l’ebraico.
Non meno emblematico è il paragrafo nel quale si afferma che ogni qual volta c’è un buco nella legge israeliana (chiamato “lacuna” o laguna), si applica la legge ebraica.
“La legge ebraica” è il Talmud e la Halakha, l’equivalente ebraico della Sharia islamica. Il che significa che in pratica le norme giuridiche adottate 1500 anni fa ed oltre saranno vincenti su quelle che si sono evolute negli ultimi secoli in Gran Bretagna e negli altri paesi europei. Clausole analoghe esistono nella legislazione di paesi come il Pakistan e l’Egitto. La somiglianza tra diritto ebraico e islamico non è casuale – saggi ebrei di lingua araba, come Mosè Maimonide (“il Rambam”) e i loro contemporanei musulmani, esperti di diritto giuridico, si sono influenzati a vicenda.
La Halakha e la Sharia hanno molto in comune. Vietano entrambe il maiale, praticano la circoncisione, mantengono le donne in stato di servitù, condannano a morte gli omosessuali e i fornicatori e negano l’uguaglianza per gli infedeli. (In pratica, entrambe le religioni hanno modificato molte delle sanzioni più severe. Nella religione ebraica, per esempio, “occhio per occhio” ora significa un risarcimento: altrimenti, come ha detto giustamente Ghandi, saremmo ormai tutti ciechi.)
Dopo l’emanazione di questa legge, Israele sarà molto più vicino all’Iran che agli Stati Uniti. “L’unica democrazia del Medio Oriente” cesserà di essere una democrazia, per essere molto più simile per il suo carattere ad alcuni dei peggiori regimi di questa regione. “Finalmente, Israele si sta integrando nella regione”, si è fatto beffe uno scrittore arabo – alludendo a uno slogan che ho coniato 65 anni fa: “Integrazione nella regione semitica”.
La maggior parte dei membri della Knesset che hanno firmato questa proposta di legge credono con fervore nell’”Intera Terra di Israele” – che sta a significare l’annettere ufficialmente la West Bank e la Striscia di Gaza.
Non fanno riferimento alla “Soluzione per un solo stato”, sognata da molti idealisti in buona fede. In pratica, lo Stato Unico fattibile è quello governato dalla legge Dichter – lo “Stato-nazione del popolo ebraico” – con gli arabi relegati allo stato dei biblici “tagliatori di legna e portatori d’acqua”.
Certo, gli arabi saranno la maggioranza in questo stato – ma che importa? Dal momento che l’ebraicità dello stato avrà la precedenza sulla democrazia, il loro numero sarà irrilevante: all'incirca come il numero dei neri nel Sudafrica dell’apartheid.
Rivolgiamo lo sguardo alla parte a cui questo poeta del razzismo appartiene: Kadima.
Quando ero nell’esercito, ero sempre divertito dall’ordine: “La squadra andrà in retroguardia – avanti march”.
Questo può sembrare assurdo, ma è davvero molto logico. La prima parte dell’ordine si riferisce alla direzione, la seconda all'esecuzione.
“Kadima” significa “avanti, ma la sua direzione è all'indietro.
Dichter è un importante leader di Kadima. Dal momento che la sua unica pretesa di distinzione è data dal suo precedente ruolo di capo della polizia segreta, questo deve essere il motivo per cui è stato eletto. Ma a questo suo progetto razzista si è associato oltre l’80% del partito Kadima alla Knesset – il più grande nell’attuale parlamento.
Che cosa dire di Kadima?
Kadima è stato un triste fallimento praticamente sotto ogni aspetto. Come partito di opposizione in parlamento è un triste scherzo – anzi, oserei dire che quando alla Knesset facevo parte di un gruppo costituito da un solo uomo, ho creato molta più attività di opposizione di questo colosso a 28 teste. Non hanno elaborato alcuna posizione significativa sulla pace e l’occupazione, per non parlare della giustizia sociale.
Il suo leader, Tzipi Livni, si è rivelato un fallimento totale. L’unico suo successo è rappresentato dalla capacità di mantenere unito il partito – un’impresa non da poco, però, visto che si compone di rifugiati (qualcuno potrebbe chiamarli traditori) provenienti da altri partiti, che hanno attaccato il carro ai cavalli in rimonta di Sharon quando questi lasciò il Likud. La maggior parte dei leader di Kadima ha lasciato il Likud insieme a lui, e – come la stessa Livni – sono profondamente impregnati della sua ideologia. Diversi altri sono giunti dal partito Laburista, a braccetto con quella sgradevole prostituta politica qual’è Shimon Peres.
Questa congrega fortuita di politici frustrati ha tentato di aggirare più volte Benjamin Netanyahu da destra. I suoi membri hanno co-firmato quasi tutte le leggi razziste introdotte negli ultimi mesi, tra cui la famigerata “Legge boicottaggio” (anche se, quando l’opinione pubblica si è ribellata, hanno ritirato la loro firma, e alcuni di loro hanno addirittura votato contro.)
Come ha fatto questo partito ad arrivare a essere il più grande della Knesset, con un seggio in più rispetto al Likud? Per gli elettori di sinistra che erano disgustati dal partito laburista di Ehud Barak e scartavano il piccolo Meretz, sembrava essere l’unica possibilità per fermare Netanyahu e Lieberman. Ma tutto ciò può cambiare molto presto.
L’enorme manifestazione di protesta di sabato scorso è stata la più grande nella storia di Israele (compresa la leggendaria “manifestazione dei 400.000” dopo il massacro di Sabra e Shatilah, i cui numeri furono in realtà leggermente inferiori). Potrebbe essere l’inizio di una nuova era.
E’ difficile descrivere l’energia pura che emana da questa folla, composta prevalentemente da 20-30enni. Sopra si poteva sentire la storia, come una gigantesca aquila, battere le ali. Era una massa in festa conscia della propria immensa forza.
I manifestanti erano ansiosi di scansare la “politica” – mi vengono in mente le parole di Pericle, di circa 2500 anni fa, secondo le quali “solo perché non vi interessate di politica non vuol dire che la politica non si interesserà di voi!”
Ovviamente, la manifestazione era altamente politica – diretta contro Netanyahu, il governo e l’intero ordine sociale. Marciando tra la massa compatta, ho cercato intorno dimostranti che portassero la kippa e non ne ho individuato uno. Tutto il settore religioso, il gruppo dei coloni che sostengono i partiti di destra e la legge Dichter, erano vistosamente assenti, mentre era ampiamente rappresentato il settore degli Ebrei Orientali, che costituiscono la base tradizionale del Likud.
Questa protesta di massa sta cambiando l’ordine del giorno di Israele. Spero che, a tempo debito, il risultato sarà l’emergere di un nuovo partito, che cambierà il volto della Knesset in modo irriconoscibile. Neppure una nuova guerra o un’altra “emergenza di sicurezza” possono evitarlo.
Il che sarà certamente la fine di Kadima, e pochi lo rimpiangeranno. Potrebbe significare pure l’addio a Dichter, il poeta della polizia segreta.
(tradotto da mariano mingarelli)
di Uri Avnery
“IL POPOLO Chiede Giustizia Sociale!” cantavano in coro a Tel Aviv 250 mila manifestanti sabato scorso. Ma ciò di cui hanno bisogno – per citare un artista americano – è di “più politici disoccupati”.
Per fortuna, la Knesset si è presa una vacanza prolungata, tre mesi. Infatti, come Mark Twain diceva con arguzia: “Nessuna vita o proprietà è al sicuro finché è riunita l’assemblea legislativa.”
A riprova di questa asserzione, proprio l’ultimo giorno della sessione in atto, il parlamentare Avi Dichter ha presentato un disegno di legge talmente scandaloso da trionfare facilmente su tutte le numerose altre leggi razziste adottate ultimamente da questa Knesset.
“Dichter” è un nome tedesco: sta per “poeta”. Ma lui non è un poeta. E’ l’ex capo della polizia segreta, il “Servizio di sicurezza generale” (Shin-Bet o Shabak).
(“Dichter” vuol dire anche “più denso”, ma non perdiamoci altro tempo.)
Ha annunciato con orgoglio di aver trascorso un anno e mezzo di legislatura ad affinare e temperare questo particolare progetto, trasformandolo in un capolavoro legislativo.
E un capolavoro lo è. Nessun collega nella Germania di ieri o nell’Iran di oggi avrebbe potuto produrne uno più esimio. Gli altri membri della Knesset sembrano riconoscerlo, come pure non meno di 20 dei 28 membri del partito Kadima, così come tutti gli altri componenti irriducibilmente razzisti di questo augusto organo, dato che hanno apposto con orgoglio il loro nome, come coautori, a questo progetto .
Il nome stesso – “Legge fondamentale: Israele come Stato-nazione del popolo ebraico” – dimostra che questo Dichter non è un poeta né tanto meno un grande intellettuale. I capi della polizia segreta raramente lo sono.
“Nazione” e “Popolo” sono due concetti diversi. E’ universalmente accettato che un popolo è un’entità etnica, e una nazione è una comunità politica. Essi si pongono su due livelli diversi. Ma non importa.
E’ il contenuto del disegno di legge che conta.
Ciò che Dichter propone è di mettere fine alla definizione ufficiale di Israele come “Stato ebraico e democratico”.
Propone, invece, di fissare delle chiare priorità: Israele è in primo luogo lo Stato-nazione del popolo ebraico, e solo in un secondo, remoto, uno Stato democratico. Quando c’è uno scontro tra la democrazia e l’ebraicità dello stato, vince l'ebraicità e perde la democrazia.
Tra l’altro, questo lo rende il primo della destra sionista (a parte Meir Kahane) ad ammettere apertamente che vi è una contraddizione di base tra uno stato “ebraico” e uno stato “democratico”. Dal 1948, questo è stato negato strenuamente da tutte le fazioni sioniste, dalla loro falange di intellettuali e dalla Corte Suprema.
Ciò che sta a significare la nuova definizione è che lo Stato di Israele appartiene a tutti gli ebrei del mondo – compresi i senatori di Washington, gli spacciatori di droga in Messico, gli oligarchi di Mosca e i proprietari di casinò a Macao, ma non ai cittadini arabi di Israele che vivono qui da almeno 1300 anni, da quando i musulmani entrarono a Gerusalemme. I cristiani arabi fanno risalire le loro origini alla crocifissione, 1980 anni fa, i samaritani erano qui 2500 anni fa e molti abitanti dei villaggio probabilmente sono discendenti dei Cananei, che erano qui già circa 5000 anni fa.
Una volta che questo disegno di legge verrà trasformato in legge, tutti costoro diventeranno cittadini di seconda classe, non solo nella pratica, come ora, ma anche secondo la norma ufficiale. Ogni qual volta i loro diritti saranno in contrasto con ciò che la maggioranza degli ebrei ritiene necessario per la tutela degli interessi della “Stato-nazione del popolo ebraico” – che può comprendere tutto, dalla proprietà della terra alla legge penale, i loro diritti saranno ignorati.
La legge stessa non lascia molto spazio alle ipotesi. Spiega le cose con chiarezza.
La lingua araba perderà il suo status di “lingua ufficiale”, uno status di cui ha goduto nell’Impero Ottomano, sotto il mandato britannico e, fino ad ora, in Israele. L’unica lingua ufficiale dello Stato-nazione ecc.. sarà l’ebraico.
Non meno emblematico è il paragrafo nel quale si afferma che ogni qual volta c’è un buco nella legge israeliana (chiamato “lacuna” o laguna), si applica la legge ebraica.
“La legge ebraica” è il Talmud e la Halakha, l’equivalente ebraico della Sharia islamica. Il che significa che in pratica le norme giuridiche adottate 1500 anni fa ed oltre saranno vincenti su quelle che si sono evolute negli ultimi secoli in Gran Bretagna e negli altri paesi europei. Clausole analoghe esistono nella legislazione di paesi come il Pakistan e l’Egitto. La somiglianza tra diritto ebraico e islamico non è casuale – saggi ebrei di lingua araba, come Mosè Maimonide (“il Rambam”) e i loro contemporanei musulmani, esperti di diritto giuridico, si sono influenzati a vicenda.
La Halakha e la Sharia hanno molto in comune. Vietano entrambe il maiale, praticano la circoncisione, mantengono le donne in stato di servitù, condannano a morte gli omosessuali e i fornicatori e negano l’uguaglianza per gli infedeli. (In pratica, entrambe le religioni hanno modificato molte delle sanzioni più severe. Nella religione ebraica, per esempio, “occhio per occhio” ora significa un risarcimento: altrimenti, come ha detto giustamente Ghandi, saremmo ormai tutti ciechi.)
Dopo l’emanazione di questa legge, Israele sarà molto più vicino all’Iran che agli Stati Uniti. “L’unica democrazia del Medio Oriente” cesserà di essere una democrazia, per essere molto più simile per il suo carattere ad alcuni dei peggiori regimi di questa regione. “Finalmente, Israele si sta integrando nella regione”, si è fatto beffe uno scrittore arabo – alludendo a uno slogan che ho coniato 65 anni fa: “Integrazione nella regione semitica”.
La maggior parte dei membri della Knesset che hanno firmato questa proposta di legge credono con fervore nell’”Intera Terra di Israele” – che sta a significare l’annettere ufficialmente la West Bank e la Striscia di Gaza.
Non fanno riferimento alla “Soluzione per un solo stato”, sognata da molti idealisti in buona fede. In pratica, lo Stato Unico fattibile è quello governato dalla legge Dichter – lo “Stato-nazione del popolo ebraico” – con gli arabi relegati allo stato dei biblici “tagliatori di legna e portatori d’acqua”.
Certo, gli arabi saranno la maggioranza in questo stato – ma che importa? Dal momento che l’ebraicità dello stato avrà la precedenza sulla democrazia, il loro numero sarà irrilevante: all'incirca come il numero dei neri nel Sudafrica dell’apartheid.
Rivolgiamo lo sguardo alla parte a cui questo poeta del razzismo appartiene: Kadima.
Quando ero nell’esercito, ero sempre divertito dall’ordine: “La squadra andrà in retroguardia – avanti march”.
Questo può sembrare assurdo, ma è davvero molto logico. La prima parte dell’ordine si riferisce alla direzione, la seconda all'esecuzione.
“Kadima” significa “avanti, ma la sua direzione è all'indietro.
Dichter è un importante leader di Kadima. Dal momento che la sua unica pretesa di distinzione è data dal suo precedente ruolo di capo della polizia segreta, questo deve essere il motivo per cui è stato eletto. Ma a questo suo progetto razzista si è associato oltre l’80% del partito Kadima alla Knesset – il più grande nell’attuale parlamento.
Che cosa dire di Kadima?
Kadima è stato un triste fallimento praticamente sotto ogni aspetto. Come partito di opposizione in parlamento è un triste scherzo – anzi, oserei dire che quando alla Knesset facevo parte di un gruppo costituito da un solo uomo, ho creato molta più attività di opposizione di questo colosso a 28 teste. Non hanno elaborato alcuna posizione significativa sulla pace e l’occupazione, per non parlare della giustizia sociale.
Il suo leader, Tzipi Livni, si è rivelato un fallimento totale. L’unico suo successo è rappresentato dalla capacità di mantenere unito il partito – un’impresa non da poco, però, visto che si compone di rifugiati (qualcuno potrebbe chiamarli traditori) provenienti da altri partiti, che hanno attaccato il carro ai cavalli in rimonta di Sharon quando questi lasciò il Likud. La maggior parte dei leader di Kadima ha lasciato il Likud insieme a lui, e – come la stessa Livni – sono profondamente impregnati della sua ideologia. Diversi altri sono giunti dal partito Laburista, a braccetto con quella sgradevole prostituta politica qual’è Shimon Peres.
Questa congrega fortuita di politici frustrati ha tentato di aggirare più volte Benjamin Netanyahu da destra. I suoi membri hanno co-firmato quasi tutte le leggi razziste introdotte negli ultimi mesi, tra cui la famigerata “Legge boicottaggio” (anche se, quando l’opinione pubblica si è ribellata, hanno ritirato la loro firma, e alcuni di loro hanno addirittura votato contro.)
Come ha fatto questo partito ad arrivare a essere il più grande della Knesset, con un seggio in più rispetto al Likud? Per gli elettori di sinistra che erano disgustati dal partito laburista di Ehud Barak e scartavano il piccolo Meretz, sembrava essere l’unica possibilità per fermare Netanyahu e Lieberman. Ma tutto ciò può cambiare molto presto.
L’enorme manifestazione di protesta di sabato scorso è stata la più grande nella storia di Israele (compresa la leggendaria “manifestazione dei 400.000” dopo il massacro di Sabra e Shatilah, i cui numeri furono in realtà leggermente inferiori). Potrebbe essere l’inizio di una nuova era.
E’ difficile descrivere l’energia pura che emana da questa folla, composta prevalentemente da 20-30enni. Sopra si poteva sentire la storia, come una gigantesca aquila, battere le ali. Era una massa in festa conscia della propria immensa forza.
I manifestanti erano ansiosi di scansare la “politica” – mi vengono in mente le parole di Pericle, di circa 2500 anni fa, secondo le quali “solo perché non vi interessate di politica non vuol dire che la politica non si interesserà di voi!”
Ovviamente, la manifestazione era altamente politica – diretta contro Netanyahu, il governo e l’intero ordine sociale. Marciando tra la massa compatta, ho cercato intorno dimostranti che portassero la kippa e non ne ho individuato uno. Tutto il settore religioso, il gruppo dei coloni che sostengono i partiti di destra e la legge Dichter, erano vistosamente assenti, mentre era ampiamente rappresentato il settore degli Ebrei Orientali, che costituiscono la base tradizionale del Likud.
Questa protesta di massa sta cambiando l’ordine del giorno di Israele. Spero che, a tempo debito, il risultato sarà l’emergere di un nuovo partito, che cambierà il volto della Knesset in modo irriconoscibile. Neppure una nuova guerra o un’altra “emergenza di sicurezza” possono evitarlo.
Il che sarà certamente la fine di Kadima, e pochi lo rimpiangeranno. Potrebbe significare pure l’addio a Dichter, il poeta della polizia segreta.
(tradotto da mariano mingarelli)
Ai parlamentari italiani che sono contro il riconoscimento dello stato palestinese
Onorevoli Parlamentari della Repubblica Italiana, Illustrissimo Presidente della Repubblica,
Abbiamo appreso con disappunto e preoccupazione (vedano:
http://www.alternativenews.org/italiano/index.php/topics/news/3067-no-allo-stato-di-palestina-firmato-i-parlamentari-italiani) che più di 150 Parlamentari italiani hanno sottoscritto la petizione lanciata dall’Associazione parlamentare di amicizia Italia-Israele contro il riconoscimento dello Stato di Palestina, atteso per il prossimo settembre alle Nazioni Unite.
Vorremmo qui invitarvi ad esprimervi riguardo a questo drammatico problema, dopo aver compiutamente considerato la realtà della situazione dei rapporti tra Ebrei e Palestinesi Arabi nella terra tra il Giordano ed il Mediterraneo avendo come obbiettivo la pace, che è possibile solo con il render giustizia al popolo Palestinese. Sappiamo che in Israele-Palestina uno Stato moderno, potentemente armato e tecnologicamente avanzatissimo è stato fondato da Ebrei europei immigrati cacciando di casa gli abitanti autoctoni Arabi-Palestinesi. Parecchie migliaia di loro sono stati uccisi dalle armi israeliane o dagli stenti durante quella pulizia etnica; alcuni dei 750mila cacciati sopravvivono, con i loro discendenti (ormai alcuni milioni) in campi profughi nei Paesi circostanti, in condizioni spesso inumane. Quelli di loro rimasti in territorio israeliano, costituiscono oggi circa il 21% della popolazione di Israele, ma sono cittadini discriminati in modo inaccettabile in ogni paese civile. Come tutti ricordate, le Nazioni Unite avevano destinato il territorio dell’ex-Mandato Britannico a due stati, uno per gli Ebrei (il 56% della Terra) ed uno per gli Arabi Palestinesi (il 43%). Entro il 1949, lo stato di Israele ha conquistato con guerra vittoriosa contro gli stati Arabi circostanti (gli Arabi Palestinesi non avevano allora, né hanno oggi, uno stato) il 78% della Palestina. Dopo la conquista del 1967, Israele occupa militarmente anche quel 22%, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, che erano rimaste ai Palestinesi. Le deliberazioni delle Nazioni Unite che ingiungevano a Israele di consentire il ritorno dei profughi alle loro case e di ritirarsi dalle terre occupate nel 1967 sono sempre state, e sono tuttora, del tutto disattese. Anzi, Israele ha continuamente installato coloni Ebrei nelle terre occupate militarmente, fondandovi colonie permanenti e cacciandone manu militari gli abitanti Palestinesi: questo processo è continuato ininterrottamente, e continua tutt’oggi, intensamente, contro il diritto internazionale ed i principi enunciati nella dichiarazione di indipendenza di Israele. Come certo sapete, Israele non ha una Costituzione (per proclamarla dovrebbe definire il territorio nazionale su cui sia valida, e Israele non lo vuol fare, in attesa di attribuirsi tutta la Terra tra il Giordano ed il Mediterraneo), ma sostiene di avere come documento ispiratore quella dichiarazione. Questo documento è continuamente violato a danno degli Arabi Palestinesi, che non hanno i fondamentali diritti dei cittadini israeliani Ebrei: dal 2003, Israele vieta ai suoi cittadini di convivere con coniuge e figli se hanno sposato Palestinesi (e poiché a sposare Palestinesi, dei cittadini israeliani, sono in assoluta prevalenza non gli Ebrei ma i Palestinesi, la norma è gravemente discriminatoria). Per vivere sotto lo stesso tetto con i famigliari, se questi risiedono nei territori occupati militarmente, i Palestinesi israeliani devono ottenere il permesso delle autorità... israeliane. Neppure il governo fascista era arrivato a tanto con le leggi razziali italiane del 1938. Per non parlare delle quotidiane angherie e violenze che i Palestinesi sono costretti a subire, e che hanno lo scopo di costringerli ad andarsene (dove?), delle migliaia di Palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane, senza i diritti alla difesa d’obbligo nei paesi civili, e dell'iniqua distribuzione dell'acqua, fra Palestinesi e coloni, nei territori occupati.
Purtroppo, la Comunità Internazionale è gravemente colpevole per l’aver permesso ad Israele di violare gravemente tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite per il rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani in Palestina ed Israele, nonostante le conclusioni di numerose commissioni che hanno constatato la gravità dei fatti, compresa la strage di civili compiuta da Israele a Gaza nel 2008-2009. L’opinione pubblica italiana si è pronunziata, in molte circostanze, perché il nostro Paese prenda decisioni atte a instaurare Giustizia e Pace: ricordiamo anche le parole del Presidente Pertini: “Adesso sono partiti i Palestinesi. Ha avuto inizio la loro “diaspora”. Una volta furono gli Ebrei a conoscere la diaspora. Vennero dispersi, cacciati dal Medio Oriente e dispersi per il mondo; adesso sono invece i Palestinesi. Ebbene io affermo ancora una volta che i Palestinesi hanno diritto sacrosanto ad una patria ed a una terra come l’hanno avuta gli Israeliani.”
(dal discorso di fine anno del 31 dicembre 1983)
Vi chiediamo dunque, onorevoli parlamentari, di prendere in considerazione, con urgente priorità, il riconoscimento di uno Stato di Palestina da parte delle Nazioni Unite: molti problemi rimarranno ancora per stabilire giustizia e pace in quella Terra, ma il riconoscimento internazionale darà alcune garanzie ai Palestinesi, di cui oggi non fruiscono. L’Italia non può mancare a questo suo dovere, e ci aspettiamo che il nostro Parlamento si pronunci e si impegni in questo senso.
A nome di Rete-ECO (Rete degli Ebrei contro l'Occupazione), dott. Paola Canarutto
Abbiamo appreso con disappunto e preoccupazione (vedano:
http://www.alternativenews.org/italiano/index.php/topics/news/3067-no-allo-stato-di-palestina-firmato-i-parlamentari-italiani) che più di 150 Parlamentari italiani hanno sottoscritto la petizione lanciata dall’Associazione parlamentare di amicizia Italia-Israele contro il riconoscimento dello Stato di Palestina, atteso per il prossimo settembre alle Nazioni Unite.
Vorremmo qui invitarvi ad esprimervi riguardo a questo drammatico problema, dopo aver compiutamente considerato la realtà della situazione dei rapporti tra Ebrei e Palestinesi Arabi nella terra tra il Giordano ed il Mediterraneo avendo come obbiettivo la pace, che è possibile solo con il render giustizia al popolo Palestinese. Sappiamo che in Israele-Palestina uno Stato moderno, potentemente armato e tecnologicamente avanzatissimo è stato fondato da Ebrei europei immigrati cacciando di casa gli abitanti autoctoni Arabi-Palestinesi. Parecchie migliaia di loro sono stati uccisi dalle armi israeliane o dagli stenti durante quella pulizia etnica; alcuni dei 750mila cacciati sopravvivono, con i loro discendenti (ormai alcuni milioni) in campi profughi nei Paesi circostanti, in condizioni spesso inumane. Quelli di loro rimasti in territorio israeliano, costituiscono oggi circa il 21% della popolazione di Israele, ma sono cittadini discriminati in modo inaccettabile in ogni paese civile. Come tutti ricordate, le Nazioni Unite avevano destinato il territorio dell’ex-Mandato Britannico a due stati, uno per gli Ebrei (il 56% della Terra) ed uno per gli Arabi Palestinesi (il 43%). Entro il 1949, lo stato di Israele ha conquistato con guerra vittoriosa contro gli stati Arabi circostanti (gli Arabi Palestinesi non avevano allora, né hanno oggi, uno stato) il 78% della Palestina. Dopo la conquista del 1967, Israele occupa militarmente anche quel 22%, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, che erano rimaste ai Palestinesi. Le deliberazioni delle Nazioni Unite che ingiungevano a Israele di consentire il ritorno dei profughi alle loro case e di ritirarsi dalle terre occupate nel 1967 sono sempre state, e sono tuttora, del tutto disattese. Anzi, Israele ha continuamente installato coloni Ebrei nelle terre occupate militarmente, fondandovi colonie permanenti e cacciandone manu militari gli abitanti Palestinesi: questo processo è continuato ininterrottamente, e continua tutt’oggi, intensamente, contro il diritto internazionale ed i principi enunciati nella dichiarazione di indipendenza di Israele. Come certo sapete, Israele non ha una Costituzione (per proclamarla dovrebbe definire il territorio nazionale su cui sia valida, e Israele non lo vuol fare, in attesa di attribuirsi tutta la Terra tra il Giordano ed il Mediterraneo), ma sostiene di avere come documento ispiratore quella dichiarazione. Questo documento è continuamente violato a danno degli Arabi Palestinesi, che non hanno i fondamentali diritti dei cittadini israeliani Ebrei: dal 2003, Israele vieta ai suoi cittadini di convivere con coniuge e figli se hanno sposato Palestinesi (e poiché a sposare Palestinesi, dei cittadini israeliani, sono in assoluta prevalenza non gli Ebrei ma i Palestinesi, la norma è gravemente discriminatoria). Per vivere sotto lo stesso tetto con i famigliari, se questi risiedono nei territori occupati militarmente, i Palestinesi israeliani devono ottenere il permesso delle autorità... israeliane. Neppure il governo fascista era arrivato a tanto con le leggi razziali italiane del 1938. Per non parlare delle quotidiane angherie e violenze che i Palestinesi sono costretti a subire, e che hanno lo scopo di costringerli ad andarsene (dove?), delle migliaia di Palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane, senza i diritti alla difesa d’obbligo nei paesi civili, e dell'iniqua distribuzione dell'acqua, fra Palestinesi e coloni, nei territori occupati.
Purtroppo, la Comunità Internazionale è gravemente colpevole per l’aver permesso ad Israele di violare gravemente tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite per il rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani in Palestina ed Israele, nonostante le conclusioni di numerose commissioni che hanno constatato la gravità dei fatti, compresa la strage di civili compiuta da Israele a Gaza nel 2008-2009. L’opinione pubblica italiana si è pronunziata, in molte circostanze, perché il nostro Paese prenda decisioni atte a instaurare Giustizia e Pace: ricordiamo anche le parole del Presidente Pertini: “Adesso sono partiti i Palestinesi. Ha avuto inizio la loro “diaspora”. Una volta furono gli Ebrei a conoscere la diaspora. Vennero dispersi, cacciati dal Medio Oriente e dispersi per il mondo; adesso sono invece i Palestinesi. Ebbene io affermo ancora una volta che i Palestinesi hanno diritto sacrosanto ad una patria ed a una terra come l’hanno avuta gli Israeliani.”
(dal discorso di fine anno del 31 dicembre 1983)
Vi chiediamo dunque, onorevoli parlamentari, di prendere in considerazione, con urgente priorità, il riconoscimento di uno Stato di Palestina da parte delle Nazioni Unite: molti problemi rimarranno ancora per stabilire giustizia e pace in quella Terra, ma il riconoscimento internazionale darà alcune garanzie ai Palestinesi, di cui oggi non fruiscono. L’Italia non può mancare a questo suo dovere, e ci aspettiamo che il nostro Parlamento si pronunci e si impegni in questo senso.
A nome di Rete-ECO (Rete degli Ebrei contro l'Occupazione), dott. Paola Canarutto
venerdì 12 agosto 2011
AL-HAQ: COMUNICATO STAMPA
Domande e risposte sulla iniziativa di settembre presso le Nazioni Unite
27.07.2011
Ref:. 253/2011 In quanto organizzazione impegnata nella protezione e promozione dei diritti umani nei Territori Occupati Palestinesi, Al-Haq ribadisce la sua ferma convinzione che la promozione di una legge internazionale è il quadro essenziale per la tutela dei diritti del popolo palestinese, e l'unica base per una soluzione giusta e sostenibile del conflitto.
Alla luce delle questioni che sono sorte nel contesto delle possibili iniziative palestinese alle Nazioni Unite (ONU), Al-Haq ha redatto una breve valutazione giuridica, che, aderendo ad una rigorosa applicazione del diritto internazionale e alla prassi legale attuale, intende chiarire alcune delle questioni giuridiche in gioco. Il documento affronta quattro temi principali: (i) le iniziative di settembre della Palestina, (ii) lo status di sovranità della Palestina nel diritto internazionale, (iii) la procedura di ammissione alle Nazioni Unite in qualità di Stato membro, e (iv) le potenziali implicazioni di queste iniziative. leggere "Al-Haq Domande e risposte sullo Iniziative della Palestina settembre presso le Nazioni Unite" Per ulteriori informazioni potete contattarci al haq@alhaq.org o per telefono al 972 2 295 4646.
Testo originale: http://www.alhaq.org/pdfs/qa_July_2011.pdf
alhaq
Traduzione ridotta tratta da: BOCCHESCUCITE , Agosto 2011
Questo documento di AL-HAQ si propone di rispondere ad alcune delle domande più comuni in vista delle iniziative dei rappresentanti palestinesi presso le Nazioni Unite
I. Iniziative della Palestina per settembre.
1. Quali sono i piani della leadership palestinese per settembre?
I rappresentanti palestinesi avevano inizialmente manifestato l'intenzione di emettere una dichiarazione (unilaterale) di indipendenza nel settembre 2011, con riferimento ai confini del 1967. Questo avrebbe modificato la Dichiarazione d'Indipendenza rilasciata dalla Organizzazione per la Liberazione della Palestina(OLP)
nel 1988 che rimane la base più recente per la statualità della Palestina. (…)
Il progetto è diventato una serie di iniziative che consistono in domande di adesione alle organizzazioni internazionali, comprese le Nazioni Unite senza esclusiva, e la ratifica di diverse convenzioni e trattati internazionali, tra cui le Convenzioni di Ginevra e diversi strumenti legali sui diritti umani. In parallelo, la Palestina sta cercando di ottenere maggiori riconoscimenti della sua statualità da singoli Stati.
2. Che cosa ci si può aspettare dalle iniziative di settembre 2011 delle Nazioni Unite?
Le iniziative sono uno strumento importante per rafforzare le prospettive di adesione della Palestina ai trattati internazionali, in particolare agli strumenti legali sui diritti umani. (…) In pratica, il massimo che la Palestina potrebbe ottenere attraverso la procedura di ammissione delle Nazioni Unite, alla luce del probabile veto USA al Consiglio di sicurezza, sarebbe una risoluzione dell'Assemblea Generale che raccomanda il riconoscimento dello Stato di Palestina e / o la definizione di " Stato osservatore " presso le Nazioni Unite, come discusso più avanti.
II. Stato di Palestina: quale status nell'ambito del diritto internazionale
1. È la Palestina uno Stato secondo il diritto internazionale? Qual è la posizione della comunità internazionale per quanto riguarda la sovranità palestinese?
La Palestina è stata trattata come uno Stato dalla maggioranza degli Stati e delle organizzazioni internazionali negli anni. Nella sua qualità di osservatore presso l'ONU, alla Palestina sono stati accordati i diritti riservati agli Stati dal Consiglio di Sicurezza e dall'Assemblea Generale, tra gli altri organismi delle Nazioni Unite. (...)
Tuttavia, nel suo complesso, l’esistenza di uno Stato non è una questione legale, ma una questione puramente fattuale e politica. Le difficoltà inerenti alle domande riguardanti la Palestina, risultano dal fatto che la statualità è un concetto indeterminato ai sensi del diritto internazionale.(….) Ogni paese decide da solo se riconoscere il soggetto come uno Stato, esplicitamente o implicitamente, entrando in rapporti con esso.(….)
2. Il fatto che la Palestina è sotto occupazione modifica la sua condizione di statualità?
La statualità non è influenzata dalla occupazione bellica, e l'occupazione non può negare o trasferire la statualità sotto l'aspetto giuridico. (…) Durante l'occupazione, la sovranità sul territorio rimane in ogni momento alla popolazione locale. La sovranità e l'indipendenza del popolo palestinese, così come il suo diritto fondamentale all'autodeterminazione, sono stati affermati da numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, così come da dichiarazioni ufficiali rilasciate da singoli Stati.
3. Quali effetti può avere il riconoscimento sullo status di soggetto di diritto internazionale?
(…) Il riconoscimento è un atto dichiarativo e implica solo la presa d'atto del fatto legale che un ente è uno Stato. Il rifiuto di riconoscere la Palestina è un atto politico, che non ha nessuna implicazione legale sulla esistenza come Stato. Analogamente, una dichiarazione di indipendenza è solo un invito agli Stati per provocare il riconoscimento.
La maggior parte degli Stati, tra cui Israele, hanno riconosciuto la Palestina e la sovranità del popolo palestinese, esplicitamente o implicitamente, attraverso le relazioni con essa.
Finora, circa 117 Stati hanno esplicitamente riconosciuto la Palestina e i rappresentanti palestinesi prevedono di ottenere in totale oltre 130 riconoscimenti a partire da settembre 2011. (...)
4. La questione della sovranità della Palestina è rilevante per le iniziative di settembre?
(…) Come tale, né l’appartenenza delle Nazioni Unite, né un ulteriore riconoscimento della Palestina come Stato può legalmente determinare se si tratta di uno Stato; ogni Stato e Organizzazione internazionale avranno l'ultima parola sulla loro scelta di trattare la Palestina come Stato.
La posta in gioco nel contesto delle "iniziative settembre" non è la statualità della Palestina come tale, ma una strategia per rafforzare la posizione della Palestina nell'ordinamento giuridico internazionale. (...)
III - Procedura di ammissione delle Nazioni Unite
Qual è la procedura per l'ammissione di uno Stato membro delle Nazioni Unite?
La procedura per essere accettati come membro delle Nazioni Unite inizia quando uno Stato presenta una domanda al Segretario Generale dichiarando la sua adesione alla Carta delle Nazioni Unite. Successivamente, i 15 membri del Consiglio di Sicurezza devono emettere una raccomandazione che richiede almeno nove voti di approvazione e nessun veto da un membro permanente; solo allora l'Assemblea Generale può votare l'ammissione del nuovo membro. Il voto dell'Assemblea Generale deve essere approvato da una maggioranza dei due terzi.
Il Consiglio di Sicurezza è composto da cinque membri permanenti che hanno un potere di veto: Cina, Francia, Federazione Russa, Regno Unito e Stati Uniti, e dieci membri non permanenti (tra parentesi l’anno di fine periodo): Bosnia-Erzegovina (2011), Germania (2012), Portogallo (2012), Brasile (2011), India (2012), Sud Africa (2012), Colombia (2012), Libano (2011), Gabon (2011), Nigeria (2011) .
Il presidente americano Obama ha espresso l’intenzione degli Stati Uniti di porre il veto su una raccomandazione del Consiglio di Sicurezza sulla ammissione della Palestina come Stato membro delle Nazioni Unite.(….)
2. La procedura di ammissione delle Nazioni Unite sarà giunta al termine se il Consiglio di Sicurezza dell'Onu è in stallo a causa di un veto?
(….) Si prevede che una situazione di stallo al Consiglio di Sicurezza possa portare la procedura "classica" di ammissione delle Nazioni Unite ad uno stallo finale. Tuttavia alcune iniziative possono essere prese dall'Assemblea Generale per agire, a dispetto di una raccomandazione negativa del Consiglio di sicurezza, tra cui gli scambi di informazioni tra i due enti, che possono avvenire per chiarire le ragioni di una raccomandazione negativa del Consiglio di Sicurezza.(…)
3. Qual è l'opzione di “Stato osservatore” ? Quale significato ha, giuridico o politico?
Alla luce delle pressioni politiche in atto all'ONU, il massimo che si può realisticamente prevedere che risulterà dalla domanda di ammissione della Palestina alle Nazioni Unite potrà essere una risoluzione dell'Assemblea Generale in cui la maggioranza degli Stati raccomanda il riconoscimento della statualità della Palestina
e la concessione della condizione di "Stato osservatore
Tale status si basa esclusivamente sulla pratica, e non ci sono disposizioni per essa nella Carta delle Nazioni Unite. Questo potrebbe fornire alla Palestina una ulteriore leva politica, e confermare i suoi diritti in qualità di Stato all'interno del sistema delle Nazioni Unite. (...)
Quale potrebbe essere il valore di una ammissione come membro delle Nazioni Unite (o la condizione di “Stato osservatore”) per la Palestina?
Nonostante l’importante valore simbolico politico di appartenenza e la raccomandazione delle Nazioni Unite per il riconoscimento da parte dell'Assemblea Generale, tali condizioni non portano alcuna conseguenza giuridica in quanto tali. I palestinesi non rivendicano un loro diritto alla sovranità o all'indipendenza, ma piuttosto rivendicano i mezzi per esercitarle effettivamente.
IV - Implicazioni delle iniziative della Palestina settembre
1. Quali sono le implicazioni legali delle iniziative di settembre?
Alcuni effetti: ammissione della Palestina ad alcune organizzazioni internazionali e adesione a trattati; aumento in linea generale della legittimità politica e della personalità giuridica. Un certo numero di guadagni possono essere realizzati da tale strategia, riguardo all'accesso ai meccanismi di riconoscimento di
responsabilità per le violazioni del diritto internazionale compiute da Israele, che finora hanno beneficiato di un clima di impunità in cui la giustizia è stata tenuta in ostaggio dalla politica del "tavolo di negoziato" dal millantato "processo di pace".(….)
2. Quali sono le implicazioni politiche delle iniziative di settembre?
Le implicazioni politiche che possono sorgere da queste iniziative sono molteplici e sono state spesso confuse con quelle legali. Le implicazioni legali indirette, discusse in precedenza, supportano diverse implicazioni politiche nella posizione della Palestina nel sistema giuridico internazionale, portandola su un piano di
"parità formale" con gli altri Stati. Assumendo tale legittimità nell'ordine giuridico internazionale, la Palestina potrà avere una collocazione migliore per rivendicare i propri diritti presso la comunità internazionale, in particolare i mezzi per esercitare il diritto all'autodeterminazione.(…)
3. Quali sono i potenziali benefici delle iniziative di settembre?
Sulla sfondo c’è l'occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele in corso da più di quattro decadi, che equivale ad una continua negazione del diritto del
popolo palestinese all'autodeterminazione. (…) Gli Stati si trovano già nell'obbligo inequivocabile di non riconoscere la situazione come legale, di non prestare
aiuto o assistenza ad Israele, così come a collaborare attivamente per porre fine alle violazioni compiute da essa. (...)
Le iniziative di settembre potrebbero influenzare la protezione dei civili nei territori occupati in termini di applicazione del diritto internazionale umanitario
e dei diritti umani?
La legge applicabile ai Territori Occupati è la legge del conflitto armato internazionale, che si applica in virtù della occupazione da parte di Israele del territorio palestinese, vale a dire la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza. Le iniziative di settembre, a prescindere dalla loro risultati attesi, non porteranno alcun adeguamento del quadro normativo applicabile al TPO, in quanto il territorio palestinese resterà sotto il controllo effettivo e l'amministrazione
della Potenza occupante, Israele. (...)
Quali sono i rischi che comporta l'avvio delle iniziative di settembre? Possono pregiudicare il futuro esercizio dei diritti nazionali palestinesi e / o la determinazione di domande relative alle frontiere e rifugiati?
Nessuna delle prossime iniziative comporterà alcuna modificazione giuridica agi attuali diritti del popolo palestinese, e cioè il diritto all'autodeterminazione e il diritto al ritorno dei rifugiati, che è parte integrante del esercizio del diritto all'autodeterminazione. Questi sono diritti che sono riferiti al popolo ed esercitato da esso, non da uno Stato, e quindi non saranno compromessi o pregiudicati da decisioni sull'ammissione di uno Stato presso un'organizzazione internazionale o dal suo riconoscimento da parte di altri Stati.
Inoltre, una volta che la Palestina sarà in grado di esercitare pienamente i suoi diritti di sovranità e indipendenza, e cioè quando sarà posta fine all'occupazione, lo Stato palestinese dovrà definire e stabilire le basi legali della nazionalità palestinese.
Pertanto, le preoccupazioni del popolo palestinese sugli effetti della ammissione della Palestina alle Nazioni Unite per quanto riguarda la futura determinazione dei confini entro quelli del 1967 sono di natura politica e non devono essere confusi con gli effetti giuridici di questi processi . Le iniziative di settembre non si tradurranno
in una erosione dei diritti, o nel pregiudizio del loro esercizio futuro, perché in quanto tali non consistono nell'esercizio di qualsiasi diritto, né esse sono abilitate a realizzare qualsiasi cambiamento della situazione di occupazione. Quello che hanno lo scopo di raggiungere è la promozione delle pretese di fornire al popolo palestinese i mezzi per esercitare tali diritti.
Le iniziative settembre sono un esercizio del diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione?
La statualità in quanto tale, la determinazione dei confini e il governo di una entità sono due cose separate. Il primo, come discusso in precedenza, non è una questione legale in quanto tale, mentre i secondi sono materie che verranno determinate dal popolo nel corso dell'esercizio del suo diritto all'autodeterminazione.
In pratica, l'esercizio del diritto di autodeterminazione richiederebbe la partecipazione popolare del popolo palestinese nel suo complesso, cioè la popolazione locale dei Territori Occupati, i rifugiati palestinesi, la diaspora palestinese, così come i cittadini palestinesi di Israele. Un referendum è il comune mezzo più pratico per l'esercizio del diritto di autodeterminazione di un popolo, come nel caso del Sudan meridionale che è stato recentemente riconosciuto come uno Stato membro della UN. Lo svolgimento di un referendum potrà anche fornire ulteriore legittimità e leva per ogni iniziativa degli attuali rappresentanti palestinesi, se questi intendono includere le questioni che riguardano, ad esempio, la delineazione di confini territoriali.
È possibile che le iniziative Settembre siano viste come una violazione degli accordi tra Israele e l'OLP, in particolare degli accordi interinali del 1995 (accordi di Oslo) tra Israele e OLP ?
Gli accordi interinali (Accordi di Oslo) tra l'OLP e Israele non sono un trattato secondo il diritto internazionale e non possono compromettere o modificare uno qualsiasi dei diritti garantiti dalle Convenzioni di Ginevra alla popolazione palestinese occupata. In quanto tali, questi accordi conclusi tra la Potenza occupante e il rappresentante della popolazione occupata per l'amministrazione del territorio occupato, non negano i diritti e gli obblighi derivanti dal diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. (…)
(traduzione di Carlo Nizzero)
giovedì 11 agosto 2011
I testi scolastici israeliani pieni di pregiudizi e razzismo
di Harriet Sherwood - «The Observer».
GERUSALEMME - Nurit Peled-Elhanan, professoressa israeliana, madre e donna di idee politiche radicali, evoca l'immagine di una schiera di scolari ebrei che, chini sui loro libri, studiano i loro vicini, i palestinesi. Ma, dice, questi non sono mai chiamati palestinesi se non quando l'argomento è il terrorismo. Li chiamano arabi. “Arabi su cammelli, vestiti come Ali Baba. Li descrivono come spregevoli, devianti e criminali, gente che non paga le tasse, che vive a spese dello stato, che non vuole progredire” spiega. “Vengono rappresentati solo come rifugiati, agricoltori arretrati e terroristi. Non si vede mai un bambino palestinese, un dottore, un insegnante, un ingegnere o un agricoltore moderno.”
Peled-Elhanan, professoressa di lingue ed educazione all'Università Ebraica di Gerusalemme, ha passato gli ultimi cinque anni a studiare il contenuto dei testi scolastici israeliani, e i risultati delle sue ricerche, “La Palestina nei testi scolastici israeliani: ideologia e propaganda nell'istruzione”, saranno pubblicati nel Regno Unito questo mese. Vi si trovano descritte le forme di razzismo da lei rilevate e, peggio ancora, di un razzismo che prepara i giovani israeliani al servizio militare obbligatorio.
“Le persone non sono molto consapevoli di quel che leggono i loro figli nei libri di testo” ci dice. “Una domanda che tormenta tanta gente è come ci si può spiegare il comportamento brutale dei soldati israeliani verso i palestinesi, l'indifferenza alla sofferenza umana, le sofferenze che vengono inflitte. Ci si chiede come possano questi graziosi bambini e bambine ebrei diventare mostri una volta indossata l'uniforme. Io credo che la causa principale sia nell'educazione. Così ho voluto vedere come i testi scolastici rappresentano i palestinesi.”
Peled-Elhanan afferma di non aver trovato, in “centinaia e centinaia” di libri, una sola fotografia che mostrasse un arabo come una “persona normale”. La scoperta più importante, in tutti i testi analizzati – tutti autorizzati dal ministero dell'istruzione – riguarda la ricostruzione storica degli eventi del 1948, l'anno in cui Israele combatté una guerra per affermare la propria identità di stato indipendente, e centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono dal conseguente conflitto.
L'uccisione dei palestinesi è raccontata come qualcosa che fu necessario per la sopravvivenza del nascente stato ebraico, afferma. “Non è che i massacri vengano negati, ma nei testi scolastici israeliani vengono presentati come eventi che nel corso del tempo si sono rivelati positivi per lo stato ebraico. Per esempio, a Deir Yassin [villaggio palestinese vicino a Gerusalemme distrutto nel 1948] i soldati israeliani compirono una terribile strage. Nei libri di scuola ti dicono che questo massacro diede inizio alla fuga in massa degli arabi da Israele e permise la fondazione di uno stato ebraico a maggioranza ebraica. Quindi fu una cosa buona. Forse spiacevole, ma alla lunga le conseguenze per noi sono state favorevoli.”
I bambini, dice, crescono per servire nell'esercito e interiorizzare l'idea che i palestinesi siano “gente la cui vita può essere sacrificata impunemente. E non solo questo, ma gente il cui numero deve essere ridotto.”
L'approccio di Peled-Elhanan all'argomento risente della sua formazione politica radicale. È figlia di un famoso generale, Matti Peled, che si convinse che il futuro di Israele dipendeva da una pace dignitosa con i palestinesi. E che, dopo aver lasciato l'esercito, divenne un attivista del movimento pacifista.
La famiglia creò un manifesto che invitava a una composizione pacifica del conflitto, in cui era ritratta l'unica figlia di Peled-Elhanan, Smadar.. Il messaggio era che tutti i bambini meritano un futuro migliore.
Poi, nel 1997, Smadar fu uccisa da un attentatore suicida palestinese mentre faceva shopping a Gerusalemme. Aveva 13 anni. Peled-Elhanan si rifiuta di parlare della morte della figlia, a parte uno o due accenni a quella che chiama la “tragedia”.
All'epoca, dichiarò che ne usciva rafforzata la sua convinzione che senza una soluzione del conflitto e una pacifica coesistenza con i palestinesi altri bambini sarebbero morti. “Gli attacchi terroristici come questo sono la diretta conseguenza dell'oppressione, della schiavitù, dell'umiliazione e dello stato d'assedio imposti ai palestinesi” disse ai reporter televisivi dopo la morte di Smadar.
La sua professione ha risentito delle sue idee politiche radicali. “I professori universitari smisero di invitarmi alle conferenze. E quando io parlo, la risposta più comune è 'tu sei antisionista'.” Chiunque contraddica la versione israeliana dominante della storia è fatto oggetto della stessa accusa.
Lei spera che il suo libro sarà pubblicato in ebraico, ma è rassegnata al pensiero che molti tra i politici che contano lo rifiuteranno.
Alla domanda se anche i libri di testo palestinesi riflettano un qualche dogma, risponde che questi distinguono tra sionisti ed ebrei. “Ribadiscono tale distinzione continuamente. Sono contro i sionisti, non contro gli ebrei.”
Ma riconosce che insegnare l'Olocausto nelle scuole palestinesi è “una questione ancora controversa”. “Alcuni insegnanti [palestinesi] si rifiutano di insegnare l'Olocausto finché gli israeliani non insegnano la Nakba [la “catastrofe” palestinese del 1948].”
In modo forse non sorprendente per una persona di idee così radicali, Peled-Elhanan è profondamente pessimista sul futuro del suo paese. Il cambiamento, dice, arriverà soltanto “quando gli americani smetteranno di elargirci un milione di dollari al giorno per mantenere questo regime di occupazione, razzismo e supremazia”.
All'interno di Israele, dice, “vedo solo un avanzamento verso il fascismo. Ci sono 5,5 milioni di palestinesi controllati da Israele che vivono in un'orribile condizione di apartheid, senza diritti civili né umani. L'altra metà sono ebrei e stanno anch'essi perdendo i loro diritti, giorno dopo giorno” dice, riferendosi a una serie di tentativi di restringere il diritto degli israeliani a protestare e criticare il loro governo.
Peled-Elhanan non crede nella sinistra israeliana perché è sempre stata numericamente esigua e timida, ma oggi lo è ancora di più. “Non c'è mai stata una vera sinistra in questo paese.” È convinta che il sistema educativo aiuti a perpetuare uno stato ingiusto, non democratico e insostenibile.
“In ogni cosa che fanno, dalla scuola materna fino alle superiori, vengono imbottiti in tutti i modi possibili, attraverso le letture, le canzoni, le vacanze e i passatempi, di nozioni patriottiche scioviniste.”
Fonte: http://www.guardian.co.uk/world/2011/aug/07/israeli-school-racism-claim.
Traduzione a cura di Roberta Verde
GERUSALEMME - Nurit Peled-Elhanan, professoressa israeliana, madre e donna di idee politiche radicali, evoca l'immagine di una schiera di scolari ebrei che, chini sui loro libri, studiano i loro vicini, i palestinesi. Ma, dice, questi non sono mai chiamati palestinesi se non quando l'argomento è il terrorismo. Li chiamano arabi. “Arabi su cammelli, vestiti come Ali Baba. Li descrivono come spregevoli, devianti e criminali, gente che non paga le tasse, che vive a spese dello stato, che non vuole progredire” spiega. “Vengono rappresentati solo come rifugiati, agricoltori arretrati e terroristi. Non si vede mai un bambino palestinese, un dottore, un insegnante, un ingegnere o un agricoltore moderno.”
Peled-Elhanan, professoressa di lingue ed educazione all'Università Ebraica di Gerusalemme, ha passato gli ultimi cinque anni a studiare il contenuto dei testi scolastici israeliani, e i risultati delle sue ricerche, “La Palestina nei testi scolastici israeliani: ideologia e propaganda nell'istruzione”, saranno pubblicati nel Regno Unito questo mese. Vi si trovano descritte le forme di razzismo da lei rilevate e, peggio ancora, di un razzismo che prepara i giovani israeliani al servizio militare obbligatorio.
“Le persone non sono molto consapevoli di quel che leggono i loro figli nei libri di testo” ci dice. “Una domanda che tormenta tanta gente è come ci si può spiegare il comportamento brutale dei soldati israeliani verso i palestinesi, l'indifferenza alla sofferenza umana, le sofferenze che vengono inflitte. Ci si chiede come possano questi graziosi bambini e bambine ebrei diventare mostri una volta indossata l'uniforme. Io credo che la causa principale sia nell'educazione. Così ho voluto vedere come i testi scolastici rappresentano i palestinesi.”
Peled-Elhanan afferma di non aver trovato, in “centinaia e centinaia” di libri, una sola fotografia che mostrasse un arabo come una “persona normale”. La scoperta più importante, in tutti i testi analizzati – tutti autorizzati dal ministero dell'istruzione – riguarda la ricostruzione storica degli eventi del 1948, l'anno in cui Israele combatté una guerra per affermare la propria identità di stato indipendente, e centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono dal conseguente conflitto.
L'uccisione dei palestinesi è raccontata come qualcosa che fu necessario per la sopravvivenza del nascente stato ebraico, afferma. “Non è che i massacri vengano negati, ma nei testi scolastici israeliani vengono presentati come eventi che nel corso del tempo si sono rivelati positivi per lo stato ebraico. Per esempio, a Deir Yassin [villaggio palestinese vicino a Gerusalemme distrutto nel 1948] i soldati israeliani compirono una terribile strage. Nei libri di scuola ti dicono che questo massacro diede inizio alla fuga in massa degli arabi da Israele e permise la fondazione di uno stato ebraico a maggioranza ebraica. Quindi fu una cosa buona. Forse spiacevole, ma alla lunga le conseguenze per noi sono state favorevoli.”
I bambini, dice, crescono per servire nell'esercito e interiorizzare l'idea che i palestinesi siano “gente la cui vita può essere sacrificata impunemente. E non solo questo, ma gente il cui numero deve essere ridotto.”
L'approccio di Peled-Elhanan all'argomento risente della sua formazione politica radicale. È figlia di un famoso generale, Matti Peled, che si convinse che il futuro di Israele dipendeva da una pace dignitosa con i palestinesi. E che, dopo aver lasciato l'esercito, divenne un attivista del movimento pacifista.
La famiglia creò un manifesto che invitava a una composizione pacifica del conflitto, in cui era ritratta l'unica figlia di Peled-Elhanan, Smadar.. Il messaggio era che tutti i bambini meritano un futuro migliore.
Poi, nel 1997, Smadar fu uccisa da un attentatore suicida palestinese mentre faceva shopping a Gerusalemme. Aveva 13 anni. Peled-Elhanan si rifiuta di parlare della morte della figlia, a parte uno o due accenni a quella che chiama la “tragedia”.
All'epoca, dichiarò che ne usciva rafforzata la sua convinzione che senza una soluzione del conflitto e una pacifica coesistenza con i palestinesi altri bambini sarebbero morti. “Gli attacchi terroristici come questo sono la diretta conseguenza dell'oppressione, della schiavitù, dell'umiliazione e dello stato d'assedio imposti ai palestinesi” disse ai reporter televisivi dopo la morte di Smadar.
La sua professione ha risentito delle sue idee politiche radicali. “I professori universitari smisero di invitarmi alle conferenze. E quando io parlo, la risposta più comune è 'tu sei antisionista'.” Chiunque contraddica la versione israeliana dominante della storia è fatto oggetto della stessa accusa.
Lei spera che il suo libro sarà pubblicato in ebraico, ma è rassegnata al pensiero che molti tra i politici che contano lo rifiuteranno.
Alla domanda se anche i libri di testo palestinesi riflettano un qualche dogma, risponde che questi distinguono tra sionisti ed ebrei. “Ribadiscono tale distinzione continuamente. Sono contro i sionisti, non contro gli ebrei.”
Ma riconosce che insegnare l'Olocausto nelle scuole palestinesi è “una questione ancora controversa”. “Alcuni insegnanti [palestinesi] si rifiutano di insegnare l'Olocausto finché gli israeliani non insegnano la Nakba [la “catastrofe” palestinese del 1948].”
In modo forse non sorprendente per una persona di idee così radicali, Peled-Elhanan è profondamente pessimista sul futuro del suo paese. Il cambiamento, dice, arriverà soltanto “quando gli americani smetteranno di elargirci un milione di dollari al giorno per mantenere questo regime di occupazione, razzismo e supremazia”.
All'interno di Israele, dice, “vedo solo un avanzamento verso il fascismo. Ci sono 5,5 milioni di palestinesi controllati da Israele che vivono in un'orribile condizione di apartheid, senza diritti civili né umani. L'altra metà sono ebrei e stanno anch'essi perdendo i loro diritti, giorno dopo giorno” dice, riferendosi a una serie di tentativi di restringere il diritto degli israeliani a protestare e criticare il loro governo.
Peled-Elhanan non crede nella sinistra israeliana perché è sempre stata numericamente esigua e timida, ma oggi lo è ancora di più. “Non c'è mai stata una vera sinistra in questo paese.” È convinta che il sistema educativo aiuti a perpetuare uno stato ingiusto, non democratico e insostenibile.
“In ogni cosa che fanno, dalla scuola materna fino alle superiori, vengono imbottiti in tutti i modi possibili, attraverso le letture, le canzoni, le vacanze e i passatempi, di nozioni patriottiche scioviniste.”
Fonte: http://www.guardian.co.uk/world/2011/aug/07/israeli-school-racism-claim.
Traduzione a cura di Roberta Verde
venerdì 5 agosto 2011
Israele: incredibile faccia tosta
ISRAELE DEMOLISCE CASE BEDUINE, POI CHIEDE IL CONTO
L’Israel Land Administration intenta una causa contro 34 beduini del villaggio di Al-Araqib in Negev: Tel Aviv vuole indietro 360mila euro per coprire le spese sostenute per la distruzione delle loro abitazioni. Una nuova “tassa” annunciata lo scorso mese alla Knesset che arricchirebbe le casse israeliane.
DI MARTA FORTUNATO
Beit Sahour (Cisgiordania), 29 luglio 2011, Nena News (nella foto, una casa del villaggio beduino di Al-Araqib appena demolita, foto bedouinjewishjustice) – Prima la demolizione, poi la multa. La novità, annunciata il mese scorso da un disegno di legge presentato alla Knesset, si è concretizzata: Israele, attraverso l’Israel Land Administration (ILA) ha intentato una causa contro 34 beduini residenti nell’area di al-Araqib (Negev) chiedendo che gli vengano restituiti 1.8 milioni di NIS (l’equivalente di 360mila euro) come risarcimento per i costi che lo Stato ha dovuto sostenere per lo sfratto e la demolizione delle case beduine. Si tratta della prima causa di questo tipo, per terre statali.
“Gli abitanti abusivi contro cui abbiamo fatto causa, appartenenti alle famiglie di Abu Madigham e Abu Jaber, hanno già costruito delle case su un’area di terra che lo Stato ha concesso loro vicino a Rahat”, ha dichiarato l’ILA al tribunale della magistratura di Be’er Sheva. Secondo le autorità israeliane, i beduini sono già proprietari di case nell’area di Rahat e le demolizioni compiute dai bulldozer israeliani avrebbero interessato soltanto strutture abusive costruite su terre di proprietà dello Stato di Israele, che sarebbero state occupate dalle comunità beduine a partire dal 1998.
“Abbiamo appreso la notizia della causa intentata contro di noi dai media – ha dichiarato al quotidiano israeliano Ha’artez Sheikh Siyah Abu Madigham al-Turi, leader del villaggio di al-Araqib – Anche noi facciamo molti reclami per tutte le strutture che ci hanno distrutto ma nessuno ci ascolta, nemmeno lo Stato. Il villaggio è stato distrutto 27 volte, ed ogni volta la distruzione ci costa 150mila NIS (30mila euro)”.
La tormentata storia delle comunità beduine del Negev ha avuto inizio nel 1948 quando circa quasi 90mila abitanti di quest’area (dei 100mila presenti) sono stati scacciati. Successivamente, dagli anni ‘50 Israele ha deciso di sfrattare i beduini del Negev centrale ed occidentale per trasferirli nel Negev orientale, un’area arida senza precipitazioni.
Un uomo disperato di fronte alle rovine delle propria casa ad Hebron (foto anticap.wordpress.com)
Attraverso la legge sulla Proprietà degli Assenti, emanata nel 1950, Israele ha acquisito la proprietà sui beni e sulle terre lasciate dalle migliaia di palestinesi cacciati durante la Nakba dai propri villaggi. Le conseguenze di una simile norma si ripercuotono ancora oggi sui beduini del Negev: 45 villaggi dell’area sono legalmente “non riconosciuti”, ovvero ufficialmente inesistenti per Israele. Sono così costantemente vittima di violenti attacchi, di demolizioni di case e di confisca delle terre da parte dell’esercito israeliano.
Insomma, in Negev si sentono i primi effetti di una legge che impone a chi resta senza un tetto sulla testa di pagare per i costi di demolizione sostenuti da Israele. Pagamento diretto, senza alcuna possibilità di rivolgersi ad un tribunale per fare ricorso contro la demolizione e contro la nuova “tassa”. Una tassa che arricchirà le casse israeliane se è vero, come riportato nel sito dell’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, che nell’ultimo anno il numero delle demolizioni di case in Cisgiordania ha subito un improvviso e preoccupante incremento: secondo i dati forniti dalla stessa Amministrazione Civile israeliana, nei primi cinque mesi del 2011 sono state distrutte più abitazioni che nell’intero 2010. A restare senza un tetto sulla testa sono stati 706 residenti palestinesi, tra cui 341 minori.
L’associazione Israeli Committee Against House Demolitions (ICAHD), che dal 1997 si batte contro la demolizione arbitraria delle abitazioni palestinesi in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme Est, stima che dal 1967 sono stati rasi al suolo 24.813 edifici di proprietà palestinese. L’ultimo aggiornamento risale a luglio del 2010 e si basa sulle statistiche fornite dal Ministero dell’Interno israeliano, dalla Municipalità di Gerusalemme, dall’Amministrazione Civile e dalle Nazioni Unite. Nena News
http://www.alternativenews.org/italiano/index.php/topics/news/3043-israele-chiede-alle-comunita-beduine-risarcimento-costi-demolizione-case
L’Israel Land Administration intenta una causa contro 34 beduini del villaggio di Al-Araqib in Negev: Tel Aviv vuole indietro 360mila euro per coprire le spese sostenute per la distruzione delle loro abitazioni. Una nuova “tassa” annunciata lo scorso mese alla Knesset che arricchirebbe le casse israeliane.
DI MARTA FORTUNATO
Beit Sahour (Cisgiordania), 29 luglio 2011, Nena News (nella foto, una casa del villaggio beduino di Al-Araqib appena demolita, foto bedouinjewishjustice) – Prima la demolizione, poi la multa. La novità, annunciata il mese scorso da un disegno di legge presentato alla Knesset, si è concretizzata: Israele, attraverso l’Israel Land Administration (ILA) ha intentato una causa contro 34 beduini residenti nell’area di al-Araqib (Negev) chiedendo che gli vengano restituiti 1.8 milioni di NIS (l’equivalente di 360mila euro) come risarcimento per i costi che lo Stato ha dovuto sostenere per lo sfratto e la demolizione delle case beduine. Si tratta della prima causa di questo tipo, per terre statali.
“Gli abitanti abusivi contro cui abbiamo fatto causa, appartenenti alle famiglie di Abu Madigham e Abu Jaber, hanno già costruito delle case su un’area di terra che lo Stato ha concesso loro vicino a Rahat”, ha dichiarato l’ILA al tribunale della magistratura di Be’er Sheva. Secondo le autorità israeliane, i beduini sono già proprietari di case nell’area di Rahat e le demolizioni compiute dai bulldozer israeliani avrebbero interessato soltanto strutture abusive costruite su terre di proprietà dello Stato di Israele, che sarebbero state occupate dalle comunità beduine a partire dal 1998.
“Abbiamo appreso la notizia della causa intentata contro di noi dai media – ha dichiarato al quotidiano israeliano Ha’artez Sheikh Siyah Abu Madigham al-Turi, leader del villaggio di al-Araqib – Anche noi facciamo molti reclami per tutte le strutture che ci hanno distrutto ma nessuno ci ascolta, nemmeno lo Stato. Il villaggio è stato distrutto 27 volte, ed ogni volta la distruzione ci costa 150mila NIS (30mila euro)”.
La tormentata storia delle comunità beduine del Negev ha avuto inizio nel 1948 quando circa quasi 90mila abitanti di quest’area (dei 100mila presenti) sono stati scacciati. Successivamente, dagli anni ‘50 Israele ha deciso di sfrattare i beduini del Negev centrale ed occidentale per trasferirli nel Negev orientale, un’area arida senza precipitazioni.
Un uomo disperato di fronte alle rovine delle propria casa ad Hebron (foto anticap.wordpress.com)
Attraverso la legge sulla Proprietà degli Assenti, emanata nel 1950, Israele ha acquisito la proprietà sui beni e sulle terre lasciate dalle migliaia di palestinesi cacciati durante la Nakba dai propri villaggi. Le conseguenze di una simile norma si ripercuotono ancora oggi sui beduini del Negev: 45 villaggi dell’area sono legalmente “non riconosciuti”, ovvero ufficialmente inesistenti per Israele. Sono così costantemente vittima di violenti attacchi, di demolizioni di case e di confisca delle terre da parte dell’esercito israeliano.
Insomma, in Negev si sentono i primi effetti di una legge che impone a chi resta senza un tetto sulla testa di pagare per i costi di demolizione sostenuti da Israele. Pagamento diretto, senza alcuna possibilità di rivolgersi ad un tribunale per fare ricorso contro la demolizione e contro la nuova “tassa”. Una tassa che arricchirà le casse israeliane se è vero, come riportato nel sito dell’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, che nell’ultimo anno il numero delle demolizioni di case in Cisgiordania ha subito un improvviso e preoccupante incremento: secondo i dati forniti dalla stessa Amministrazione Civile israeliana, nei primi cinque mesi del 2011 sono state distrutte più abitazioni che nell’intero 2010. A restare senza un tetto sulla testa sono stati 706 residenti palestinesi, tra cui 341 minori.
L’associazione Israeli Committee Against House Demolitions (ICAHD), che dal 1997 si batte contro la demolizione arbitraria delle abitazioni palestinesi in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme Est, stima che dal 1967 sono stati rasi al suolo 24.813 edifici di proprietà palestinese. L’ultimo aggiornamento risale a luglio del 2010 e si basa sulle statistiche fornite dal Ministero dell’Interno israeliano, dalla Municipalità di Gerusalemme, dall’Amministrazione Civile e dalle Nazioni Unite. Nena News
http://www.alternativenews.org/italiano/index.php/topics/news/3043-israele-chiede-alle-comunita-beduine-risarcimento-costi-demolizione-case
martedì 2 agosto 2011
Israele vuole costruire il muro dell'apartheid anche sulle alture del Golan
Alture del Golan: un nuovo muro di separazione
di Marta Fortunato
Un altro muro, un'altra divisione. Nel Golan siriano occupato dal 1967, Israele ha intenzione di costruire un muro per separare la città di Majdal as-Shams dai sobborghi di al-Oude e Ain al-Tinah.
Una barriera di cemento alta 8 metri e lunga 4 chilometri, secondo quanto riportato dall'agenzia siriana SANA, una barriera che ancora una volta viola il diritto internazionale.
Forse una mossa in previsione di settembre quando Abu Mazen si rivolgerà all'ONU per chiedere il riconoscimento dello stato palestinese. Un modo per isolare ulteriormente quest'area e per scongiurare nuove possibili manifestazioni lungo il confine siriano da parte dei rifugiati palestinesi che vivono nei campi profughi della Siria. Un muro di sicurezza, secondo la versione israeliana.
Il Golan è stato occupato nel 1967 e annesso unilateralmente da Israele nel 1981, senza nessun riconoscimento da parte della comunità internazionale. Com'è avvenuto in Cisgiordania, gli israeliani hanno iniziato a colonizzare l'area e ora nel Golan vivono più di 20.000 coloni in 30 diversi insediamenti mentre la popolazione siriana é passata da 150.000 a 20.000 abitanti.
Molti di loro hanno rifiutato la cittadinanza israeliana e pertanto vengono considerati dei “residenti temporanei”.
Quest'anno 27 rifugiati palestinesi sono stati uccisi dall'esercito israeliano nel Golan occupato.
Il 15 maggio, durante le manifestazioni per il 63° anniversario della Nakba, più di 4000 persone hanno dato vita a proteste pacifiche nelle alture del Golan e hanno cercato di raggiungere Israele. La dura risposta dei soldati israeliani non si è fatta attendere e 4 persone sono state uccise dai lacrimogeni e dai proiettili sparati ad altezza d'uomo.
Qualche settimana dopo, in occasione della commemorazione della Naksa, l'occupazione israeliana della Cisgiordania, la reazione israeliana di fronte a migliaia di rifugiati palestinesi provenienti dalla Siria è stata ancora più cruenta: 23 palestinesi sono stati uccisi e più di 200 feriti. Ed ora, “per motivi di sicurezza”, un nuovo muro verrà costruito.
di Marta Fortunato
Un altro muro, un'altra divisione. Nel Golan siriano occupato dal 1967, Israele ha intenzione di costruire un muro per separare la città di Majdal as-Shams dai sobborghi di al-Oude e Ain al-Tinah.
Una barriera di cemento alta 8 metri e lunga 4 chilometri, secondo quanto riportato dall'agenzia siriana SANA, una barriera che ancora una volta viola il diritto internazionale.
Forse una mossa in previsione di settembre quando Abu Mazen si rivolgerà all'ONU per chiedere il riconoscimento dello stato palestinese. Un modo per isolare ulteriormente quest'area e per scongiurare nuove possibili manifestazioni lungo il confine siriano da parte dei rifugiati palestinesi che vivono nei campi profughi della Siria. Un muro di sicurezza, secondo la versione israeliana.
Il Golan è stato occupato nel 1967 e annesso unilateralmente da Israele nel 1981, senza nessun riconoscimento da parte della comunità internazionale. Com'è avvenuto in Cisgiordania, gli israeliani hanno iniziato a colonizzare l'area e ora nel Golan vivono più di 20.000 coloni in 30 diversi insediamenti mentre la popolazione siriana é passata da 150.000 a 20.000 abitanti.
Molti di loro hanno rifiutato la cittadinanza israeliana e pertanto vengono considerati dei “residenti temporanei”.
Quest'anno 27 rifugiati palestinesi sono stati uccisi dall'esercito israeliano nel Golan occupato.
Il 15 maggio, durante le manifestazioni per il 63° anniversario della Nakba, più di 4000 persone hanno dato vita a proteste pacifiche nelle alture del Golan e hanno cercato di raggiungere Israele. La dura risposta dei soldati israeliani non si è fatta attendere e 4 persone sono state uccise dai lacrimogeni e dai proiettili sparati ad altezza d'uomo.
Qualche settimana dopo, in occasione della commemorazione della Naksa, l'occupazione israeliana della Cisgiordania, la reazione israeliana di fronte a migliaia di rifugiati palestinesi provenienti dalla Siria è stata ancora più cruenta: 23 palestinesi sono stati uccisi e più di 200 feriti. Ed ora, “per motivi di sicurezza”, un nuovo muro verrà costruito.
E GRAZIE BAKRI!
In mezzo a tante bruttissime notizie per fortuna anche una buona, finalmente Mohamed Bakri, valente attore e regista palestinese è stato riconosciuto innocente dopo anni di incubo. Ho conosciuto Bakri qualche anno fa, è una persona splendida e conservo di lui un ricordo molto affettuoso, quindi questa notizia mi rende particolarmente felice.
Yousef Salman
Finalmente è stato assolto. Il grande attore-regista palestinese ha vinto la sua dura battaglia, contro la falsificazione e l'arroganza dei 6 soldati sionisti e la gigantesca macchina propagandistica israelo-sionista.
E' stato accusato dai 6 soldati, di aver falsificato e di aver dato una immagine brutale e distorta dell'esercito israeliano e dello stato di Israele durante il massacro del Campo di Jenin nel 2002, attraverso le scene del suo film-documentario JENIN JENIN. I 6 soldati avevano chiesto, per Bakri, il carcere e un risarcimento di quasi un milione di dollari pur non essendo mai stati filmati o ripresi nel documentario poiché costoro non avevano nemmeno partecipato all'invasione e alla battaglia del Campo di Jenin.
In questi lunghi anni, Bakri ha subito ogni tipo di terrorismo psicologico da parte dell'esercito e dello stato sionista, ha molto sofferto.
Grazie alla solidarietà internazionale, a molti uomini onesti israeliani e alla sua forte fede nella giustizia della sua causa, la corte suprema israeliana è stata costretta ad annunciare la sua ragione e la sua innocenza.
Noi palestinesi insieme a tutti le amiche e gli amici di Mohammad Bakri e della causa palestinese, gli esprimiamo la nostra gioia e la nostra piena solidarietà come da sempre, pregandolo di continuare la sua lotta per la pace, la giustizia e la libertà della sua Palestina e del suo popolo martoriato, contro l'occupazione e la repressione israeliana e per il riconoscimento dello Stato di Palestina libero, laico e democratico con Gerusalemme Est, sua capitale.
GRAZIE Bakri e un forte abbraccio.
Per chi vuole scrivere e esprimere solidarietà a Bakri, lo può fare al seguente indirizzo di posta elettronica: bakrimohammad@gmail.com
Dr. Yousef Salman
Delegato della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia
Yousef Salman
Finalmente è stato assolto. Il grande attore-regista palestinese ha vinto la sua dura battaglia, contro la falsificazione e l'arroganza dei 6 soldati sionisti e la gigantesca macchina propagandistica israelo-sionista.
E' stato accusato dai 6 soldati, di aver falsificato e di aver dato una immagine brutale e distorta dell'esercito israeliano e dello stato di Israele durante il massacro del Campo di Jenin nel 2002, attraverso le scene del suo film-documentario JENIN JENIN. I 6 soldati avevano chiesto, per Bakri, il carcere e un risarcimento di quasi un milione di dollari pur non essendo mai stati filmati o ripresi nel documentario poiché costoro non avevano nemmeno partecipato all'invasione e alla battaglia del Campo di Jenin.
In questi lunghi anni, Bakri ha subito ogni tipo di terrorismo psicologico da parte dell'esercito e dello stato sionista, ha molto sofferto.
Grazie alla solidarietà internazionale, a molti uomini onesti israeliani e alla sua forte fede nella giustizia della sua causa, la corte suprema israeliana è stata costretta ad annunciare la sua ragione e la sua innocenza.
Noi palestinesi insieme a tutti le amiche e gli amici di Mohammad Bakri e della causa palestinese, gli esprimiamo la nostra gioia e la nostra piena solidarietà come da sempre, pregandolo di continuare la sua lotta per la pace, la giustizia e la libertà della sua Palestina e del suo popolo martoriato, contro l'occupazione e la repressione israeliana e per il riconoscimento dello Stato di Palestina libero, laico e democratico con Gerusalemme Est, sua capitale.
GRAZIE Bakri e un forte abbraccio.
Per chi vuole scrivere e esprimere solidarietà a Bakri, lo può fare al seguente indirizzo di posta elettronica: bakrimohammad@gmail.com
Dr. Yousef Salman
Delegato della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia
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