venerdì 30 gennaio 2015
Il ricatto delle tasse
Con che diritto? Israele, le tasse palestinesi e un sistema fallimentare.
Philip Leech
Giovedì 15 gennaio 2015
MIDDLE EAST MONITOR
Appena i palestinesi hanno deciso di aderire alla Corte Penale Internazionale, la risposta di Israele è stata di punirli trattenendo 175 milioni di dollari al mese di tasse, che raccolgono per conto loro [dei palestinesi]. Questa punizione è stata condannata dall’alleato più stretto di Israele, il governo USA, ed ha portato a una frattura molto significativa tra il presidente israeliano e il primo ministro. Comunque, se analizziamo più da vicino i rapporti economici tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), diventa ancora più chiaro che queste ultime azioni sono solo la punta di un iceberg molto più grande.
L’impatto dell’occupazione israeliana sul benessere e sulle prospettive dell’economia palestinese è oggetto di numerosi studi ed analisi. Comunque i dettagli rimangono largamente ignoti all’opinione pubblica in generale. Questo è un problema, soprattutto per chi è interessato a comprendere gli ostacoli per una soluzione più giusta e sostenibile del conflitto israelo-palestinese.
In effetti, per comprendere anche solo quanto siano realmente profondi i problemi economici della Palestina in queste condizioni, è importante ammettere il fatto che l’attuale stato della questione non è solo un prodotto della lunga occupazione, dell’espulsione e della negazione dei diritti fondamentali dei palestinesi, ma è dovuto anche allo specifico insieme di norme e regolamenti stabiliti negli accordi tra l’OLP e Israele negli anni ’90.
Il quadro politico e normativo
Nell’aprile del 1994, come parte del “processo di pace di Oslo”, i negoziatori israeliani e palestinesi firmarono un documento chiamato “Allegato IV all’accordo di Gaza - Gerico” – meglio noto come “Il Protocollo di Parigi”-; nonostante dovesse rimanere in vigore per soli cinque anni, questo accordo ha definito il principale quadro delle relazioni economiche tra l’ANP e Israele che è tuttora vigente.
Il Protocollo ha riconosciuto una serie di diritti economici dei palestinesi che fino a quel momento erano stati ignorati. Con il riconoscimento di questi diritti, c’è stata una serie di significativi progressi nella vita dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, così come un certo margine di controllo palestinese sulla destinazione degli investimenti privati e del flusso di risorse per la neonata ANP.
Comunque i risultati complessivi del processo erano profondamente carenti. In particolare ciò era dovuto al fatto che si stabilivano le relazioni tra l’ANP e Israele come se si trattasse di una normale unione doganale senza prendere adeguatamente in considerazione la realtà politica. In altre parole, il Protocollo di Parigi ha creato relazioni economiche tra Israele e l’ANP basate sull’assunto che le due parti fossero pronte a lavorare insieme per raggiungere l’obiettivo condiviso di porre fine all’occupazione e fondare uno Stato palestinese indipendente. Come è risultato evidente, non c’era da fare affidamento su questa supposizione.
In effetti le critiche nei confronti del Protocollo sono molto estese e, in molti casi, molto pesanti. Secondo Sara Roy, una docente di Harvard, i tre risultati problematici del Protocollo di Parigi non riguardano nient’altro che gli aspetti economici del più ampio processo di subappalto dell’occupazione israeliana ai palestinesi. E invece di portare al più presto alla fine dell’occupazione, il Protocollo l’ha ulteriormente rafforzata ed ha anche favorito il “sottosviluppo” della Palestina.
I problemi del Protocollo e il loro impatto duraturo
Benché ci sia qualche disaccordo nelle analisi accademiche sul fatto che l’interpretazione di Roy delle intenzioni israeliane sia o meno corretta o dimostrabile (altri studiosi, per esempio suggeriscono che è poco probabile che il processo fosse pianificato fin dall’inizio ma che sia stato piuttosto il risultato della volontà da parte dei successivi governi israeliani di massimizzare la propria supremazia), c’è un accordo sul fatto che il Protocollo sia diventato estremamente favorevole ad una sola parte e sia caratterizzato da una serie di difetti.
Questi punti deboli sono evidenti sia nella messa in pratica del Protocollo che nella mancanza di opportunità concesse ai palestinesi per controbilanciare lo squilibrio di potere anche nel momento in cui Israele chiaramente è andato oltre i propri diritti o ha ignorato i propri obblighi. Un chiaro esempio di una simile prevaricazione consiste nelle azioni intraprese attualmente da Israele per negare l’accesso da parte dell’ANP alle tasse riscosse per conto suo.
L’articolo V del Protocollo stabilisce che “Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese definiranno e regoleranno in modo autonomo la propria politica fiscale in materia di tassazione diretta.” Quindi l’ANP è responsabile della riscossione delle tasse dei palestinesi che lavorano nei Territori occupati. Ma Israele dovrebbe riscuotere le tasse dei palestinesi che lavorano in Israele e nelle colonie (circa l’11% della forza lavoro, in base a statistiche ufficiali) e versare i soldi all’ANP.
Il Protocollo prosegue specificando che Israele deve trasferire il 100% delle tasse riscosse dai lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane e il 75% delle entrate riscosse dai lavoratori palestinesi in Israele. Ciò a causa del fatto che Israele opera anche delle trattenute per la previdenza sociale e per l’assicurazione sanitaria dei lavoratori palestinesi sul suo territorio, nonostante il fatto che in genere questi lavoratori non ricevano in cambio nessuna prestazione (inoltre, i dati ufficiali non prendono in considerazione il lavoro di circa 30.000 lavoratori palestinesi senza documenti in Israele, che contribuiscono al PIL di Israele ma che presumibilmente non pagano tasse a nessuno).
Perdite fiscali e instabilità politica
Israele naturalmente ha già messo in pratica questo giochetto altre volte. In effetti, nel 2011 e nel 2012 allo stesso modo Israele ha trattenuto le risorse fiscali raccolte per conto dell’ANP, per restituire questo denaro solo quando la crisi fiscale dell’ANP è diventata un fattore determinante nello scoppio di proteste popolari che avrebbero anche potuto provocare una maggiore instabilità. Comunque attualmente le tasse palestinesi sono diventate una partita di calcio politica nel mezzo di una polemica campagna elettorale israeliana, per cui sembra meno probabile che la riproposizione [del blocco della devoluzione delle tasse all’ANP] segua una procedura senza intoppi come in precedenza.
Ma anche se queste tasse sottratte fossero restituite domani, difficilmente ciò scalfirebbe un sistema che è profondamente svantaggioso per le casse dell’ANP e di conseguenza per le condizioni economiche e sociali complessive dei palestinesi. Infatti, dati della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (CNUCS) mostrano che la tassazione diretta, come le imposte sul reddito– (di cui le tasse riscosse dai lavoratori palestinesi in Israele e nelle colonie e attualmente trattenute da Israele rappresentano solo una piccola parte) – è molto meno significativa per le entrate fiscali palestinesi della tassazione indiretta. E inoltre, come nel caso del regime di tassazione diretta, il sistema di tassazione indiretta stabilita dal Protocollo è decisamente favorevole ad una sola parte e fonte di problemi.
In che misura le azioni di Israele abbiano effetti sulla cifra che l’ANP raccoglie dalle tasse indirette è più complesso e meno scontato che nel caso del rifiuto di devolvere le tasse dirette. Ciò non vuol dire che questi dati non siano ben documentati o meno onerosi [per l’ANP].
In effetti questa vasta gamma di complesse dinamiche coinvolte si riduce in realtà a una serie di questioni che riguardano l’unilateralismo israeliano nella regolamentazione di tasse sui beni importati, nonostante la prescrizione stabilita dal Protocollo di coordinarsi con i palestinesi. Esempi di come simili azioni hanno conseguenze significativamente negative per l’ANP e per lo sviluppo dei palestinesi sono facili da trovare.
Per esempio, quando nel 2000 Israele ha cancellato o ridotto senza preavviso la tassa sugli acquisti [l’IVA] su un’ampia gamma di beni essenziali, le società palestinesi hanno subito perdite stimate a 30 milioni di dollari per il valore dei beni in magazzino (in quanto il loro valore era sceso sotto il prezzo pagato quando erano stati acquistati). Israele ha preso la stessa iniziativa senza preavviso nel 2013, riducendo tutti i dazi doganali su scarpe e indumenti, disinteressandosi totalmente del fatto che [in conseguenza di ciò] sarebbe rimasta una scarsa capacità produttiva in questi settori in Palestina.
Overall, according to UNCTAD, the amount lost to the Palestinian treasury either through weaknesses in the system, or through deliberate evasion of the system's rules by Israel, "exceeded $310 million in 2011, equivalent to 3.6 per cent of total gross domestic product (GDP) and 18 per cent of the tax revenue of the Palestinian National Authority." Moreover, around 40 per cent of the money lost to the treasury "is related to direct and indirect imports from Israel, and the remaining 60 per cent is in the form of evasion of customs duties."
Oltretutto, sempre secondo il CNUCS, l’ammontare perso dal Tesoro palestinese a causa delle carenze del sistema o della deliberata elusione delle norme del sistema da parte di Israele, “ha superato i 310 milioni di dollari nel 2011, che equivalgono al 3,6% del totale del prodotto interno lordo (PIL) e al 18% delle entrate fiscali dell’Autorità Nazionale Palestinese.” Inoltre circa il 40% del denaro perso dal Tesoro [palestinese]“ è relativo a importazioni dirette o indirette da Israele, e il rimanente 60% è dovuto al mancato pagamento dei dazi doganali.”
Quindi, anche al culmine dei danni causati alle prospettive dell’economia palestinese dalle costrizioni direttamente dovute all’occupazione, dalle correlate questioni di rischi politici, dall’accesso negato a risorse di base, ecc. – anche nei momenti in cui entrambe le parti sono di fatto “in pace” –, il lascito del Protocollo di Parigi garantisce che lo status quo sia largamente determinato dagli interessi israeliani e ignori le prospettive di sviluppo economico palestinese sia a breve che a lungo termine.
Philip Leech è ricercatore presso il Council for British Research in the Levant. Si trova su twitter e il suo curriculum accademico è reperibile su academia.edu.
(traduzione di Amedeo Rossi)
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