Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 5
Manlio Dinucci
Il ruolo dell’Italia nella Nato
«Amore per il popolo italiano»: lo dichiara il presidente Obama nel febbraio 2013, ricevendo alla Casa Bianca il presidente Napolitano. Perché tanto amore? Il popolo italiano «accoglie e ospita le nostre truppe sul proprio suolo». Accoglienza molto apprezzata dal Pentagono, che possiede in Italia (secondo i dati ufficiali 2014) 1428 edifici, con una superficie di oltre un milione di metri quadri, cui se ne aggiungono oltre 800 in affitto o concessione. Sono distribuiti in oltre 30 siti principali (basi e altre strutture militari) e una ventina minori. Nel giro di un anno, i militari Usa di stanza in Italia sono aumentati di oltre 1500, superando i 10mila. Compresi i dipendenti civili, il personale del Pentagono in Italia ammonta a circa 14mila unità.
Alle strutture militari Usa si aggiungono quelle Nato, sempre sotto comando Usa: come il Comando interforze, col suo nuovo quartier generale di Lago Patria (Napoli). «Ospitando» alcune delle più importanti strutture militari, l’Italia svolge un ruolo cardine nella strategia Usa/Nato che, dopo la guerra alla Libia, non solo mira alla Siria e all’Iran ma va oltre, spostando il suo centro focale verso la regione Asia/Pacifico per fronteggiare la Cina in ascesa.
Il Comando della forza congiunta alleata a Napoli (Jfc Naples) è tenuto ufficialmente in «standby», ossia pronto in qualsiasi momento a entrare in guerra. Il nuovo quartier generale a Lago Patria, costruito per uno staff di oltre 2mila militari ed espandibile per «la futura crescita della Nato», è in piena attività. Avamposto delle operaziont militari del Jfc Naples è la Turchia, dove la Nato ha oltre venti basi aeree, navali e di spionaggio elettronico. A queste è stato aggiunto (come già detto) uno dei più importanti comandi Nato: il Landcom, responsabile di tutte le forze terrestri dei 28 paesi membri, attivato a Izmir (Smirne). Lo spostamento del comando delle forze terrestri dall’Europa alla Turchia – a ridosso del Medio Oriente (in particolare Siria e Iran) e del Caspio – indica che, nei piani Usa/Nato, si prevede l’impiego anche di forze terrestri, soprattutto europee, in quest’area di primaria importanza strategica.
Il Jfc Naples (come già detto) è agli ordini di un ammiraglio statunitense, che è allo stesso tempo comandante della Forza congiunta alleata a Napoli, delle Forze navali Usa in Europa e delle Forze navali del Comando Africa. Un gioco strategico delle tre carte, che permette al Pentagono di mantenere sempre il comando. E l’Europa? Essa è importante per gli Usa geograficamente, chiarisce il Comandante supremo alleato: le basi in Europa non sono residui «bastioni della guerra fredda», ma «basi operative avanzate» che permettono agli Usa di sostenere sia il Comando Africa che il Comando centrale nella cui area rientra il Medio Oriente. Sono quindi essenziali per «la sicurezza del 21° secolo», garantita da una «potente e capace alleanza» diretta dagli Usa, che possiede «24mila aerei da combattimento, 800 navi militari oceaniche, 50 aerei radar Awacs».
Quanto ci costa la Nato
L’Italia sta assumendo nella Nato crescenti impegni che portano a un inevitabile aumento della spesa militare, diretta e indiretta. La Nato non conosce crisi. Si sta costruendo un nuovo quartier generale a Bruxelles, il cui costo, previsto in 460 milioni di euro, è quasi triplicato salendo a 1,3 miliardi. Lo stesso è stato fatto in Italia, dove si sono spesi 200 milioni di euro per costruire a Lago Patria una nuova sede per il Jfc Naples. Tali spese sono solo la punta dell’iceberg di un colossale esborso di denaro pubblico, pagato dai cittadini dei paesi dell’Alleanza.
Vi è anzitutto la spesa iscritta nei bilanci della difesa dei 28 stati membri che, secondo i dati Nato del febbraio 2014, supera complessivamente i 1000 miliardi di dollari annui (circa 750 miliardi di euro), per oltre il 70% spesi dagli Stati uniti. La spesa militare Nato, equivalente a circa il 60% di quella mondiale, è aumentata in termini reali (al netto dell’inflazione) di oltre il 40% dal 2000 ad oggi. Sotto pressione degli Stati uniti, il cui budget della difesa (735 miliardi di dollari) è pari al 4,5% del prodotto interno lordo, gli alleati si sono impegnati nel 2006 a destinare al bilancio della difesa come minimo il 2% del loro pil. Finora, oltre agli Usa, lo hanno fatto solo Gran Bretagna, Grecia ed Estonia.
L’impegno dell’Italia a portare la spesa militare al 2% del pil è stato sottoscritto nel 2006 dal governo Prodi. Secondo i dati Nato, essa ammonta oggi in media a 52 milioni di euro al giorno. Tale cifra, si precisa nel budget, non comprende però diverse altre voci. In realtà, calcola il Sipri, la spesa militare italiana (all’undicesimo posto su scala mondiale) ammonta in media a 72 milioni al giorno. Adottando il principio del 2%, questi salirebbero a circa 100 milioni al giorno.
Agli oltre 1000 miliardi di dollari annui iscritti nei 28 bilanci della difesa, si aggiungono i «contributi» che gli alleati versano per il «funzionamento della Nato e lo sviluppo delle sue attività». Si tratta per la maggior parte di «contributi indiretti», tipo le spese per «le operazioni e missioni a guida Nato». Quindi i molti milioni di euro spesi per far partecipare le forze armate italiane alle guerre Nato nei Balcani, in Afghanistan e in Libia costituiscono un «contributo indiretto» al budget dell’Alleanza.
Vi sono poi i «contributi diretti», distribuiti in tre distinti bilanci. Quello «civile», che con fondi forniti dai ministeri degli esteri copre le spese per lo staff dei quartieri generali (4000 funzionari solo a Bruxelles). Quello «militare», composto da oltre 50 budget separati, che copre i costi operativi e di mantenimento della struttura militare internazionale. Quello di «investimento per la sicurezza», che serve a finanziare la costruzione dei quartieri generali, i sistemi satellitari di comunicazione e intelligence, la creazione di piste e approdi e la fornitura di carburante per le forze impegnate in operazioni belliche. Circa il 22% dei «contributi diretti» viene fornito dagli Stati uniti, il 14% dalla Germania, l’11% da Gran Bretagna e Francia. L’Italia vi contribuisce per circa l’8,7%: quota non trascurabile, nell’ordine di centinaia di milioni di euro annui.
Vi sono diverse altre voci nascoste nelle pieghe dei bilanci. Ad esempio l’Italia ha partecipato alla spesa per il nuovo quartier generale di Lago Patria sia con la quota parte del costo di costruzione, sia con il «fondo per le aree sottoutilizzate» e con uno erogato dalla Provincia, per un ammontare di circa 25 milioni di euro (mentre mancano i soldi per ricostruire L’Aquila).
Top secret resta l’attuale contributo italiano al mantenimento delle basi Usa in Italia, quantificato l’ultima volta nel 2002 nell’ordine del 41% per l’ammontare di 366 milioni di dollari annui. Sicuramente oggi tale cifra è di gran lunga superiore. Si continua così a gettare in un pozzo senza fondo enormi quantità di denaro pubblico, che sarebbero essenziali per interventi a favore dell’occupazione, dei servizi sociali, delle zone terremotate.
Il riposizionamento militare Usa in Europa
«Gli Stati uniti ridimensionano le forze militari in Europa e sotto la scure dei risparmi cade anche la base di Camp Darby», titola un giornale toscano, precisando che «mezzo Camp Darby tornerà all’Italia». Un vero e proprio bluff: l’area che verrà restituita dal Pentagono nell’arco di 5 anni è in reatlà quantificata in 5-6 ettari su un totale di oltre 800.
In realtà, quella annunciata dal Pentagono non è una riduzione ma un riposizionamento delle forze militari Usa, così da «massimizzare le nostre capacità militari in Europa e rafforzare le nostre importanti partnership europee, sostenendo nel miglior modo i nostri alleati Nato e partner nella regione». Risparmiando allo stesso tempo, secondo i calcoli di Washington, circa 500 milioni di dollari annui.
In tale quadro si inserisce Camp Darby, la base logistica dello U.S. Army che rifornisce le forze terrestri e aeree nell’area mediterranea, africana, mediorientale e oltre, l’unico sito dell’esercito Usa in cui il materiale preposizionato (carrarmati, ecc.) è collocato insieme alle munizioni. Nei suoi 125 bunker e in altri depositi vi è l’intero equipaggiamento di due battaglioni corazzati e due di fanteria meccanizzata, che può essere rapidamente inviato in zona di operazione attraverso il porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa. Da qui sono partire le bombe usate nelle due guerre contro l’Iraq e in quelle contro la Iugoslavia e la Libia.
Il collegamento di Camp Darby col porto di Livorno è stato potenziato dai lavori effettuati dagli enti locali (a guida Pd) sul Canale dei navicelli, allo scopo dichiarato di dare impulso ai cantieri che fabbricano yacht (in realtà in crisi e in attesa di qualche compratore straniero). Il vero scopo emerge da uno studio della Provincia di Livorno: «Il Canale dei navicelli riveste una notevole importanza strategica militare, per il fatto di attraversare la base militare di Camp Darby, costituendo una componente determinante per i traffici della base». Per di più nel limitrofo interporto di Guasticce, sullo Scolmatore dove sono in corso lavori per accrescerne la navigabilità, si può creare un indotto per lo stoccaggio di materiali logistici di Camp Darby. In tal modo si può liberare, nella base, spazio da destinare agli armamenti. Per di più, la limitata area che il comando Usa dovrebbe «restituire all’Italia» nei prossimi anni andrà al Ministero della difesa, che la potrà destinare a funzioni di supporto di Camp Darby e alla proiezione di forze: l’aeroporto militare di Pisa è stato trasformato in Hub aereo nazionale da cui transitano gli uomini e i materiali destinati ai vari teatri bellici, e sempre a Pisa si è appena costituito il Comando delle forze speciali dell’esercito.
Il «ridimensionamento» di Camp Darby è comunque compensato dal potenziamento della base Usa di Aviano. Qui, annuncia il Pentagono, sarà trasferito dalla base aerea di Spangladem (Germania) il 606th Air Control Squadron, addetto (con un personale di 200 militari) al comando, controllo e rifornimento di grandi operazioni di guerra aerea. Il suo spostamento ad Aviano conferma il ruolo «privilegiato» dell’Italia quale base della proiezione di forze Usa/Nato nell’area mediterranea, mediorientale e africana. Ruolo destinato a crescere poiché, annuncia il Pentagono, «la U.S. Air Force dislocherà permanentemente suoi caccia F-35 in Europa», a cominciare dalla base britannica di Lakenheath, e quindi anche in Italia.
Il riposizionamento di forze e basi, sottolinea il Pentagono, non indebolisce ma rafforza la presenza militare Usa in Europa. Esso permette di «potenziare la presenza a rotazione di forze Usa in Europa per esercitazioni e altre attività Nato; migliorare le infrastrutture per una accresciuta presenza militare Usa e alleata nell’Europa orientale; permettere agli Usa di accrescere la capacità dei nuovi alleati, come Ucraina, Georgia e Moldavia». In tal modo, partendo dall’Europa, gli Usa e gli alleati Nato saranno in grado di «rispondere rapidamente alle crisi su scala planetaria». Ossia di scatenare guerre ovunque nel mondo siano ostacolati i loro interessi.
(5 – fine)
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