Comunicato Stampa
ESERCITO ISRAELIANO ABBATTE E CONFISCA PILONI DELL'ELETTRICITA'
IMPEDENDO AI PALESTINESI DI MIGLIORARE LA PROPRIA QUALITA' DELLA VITA
25 novembre 2009 - At-Tuwani, South Hebron Hills
Mercoledì 25 novembre, esercito e polizia israeliani hanno rimosso e confiscato due piloni dell’elettricità dal villaggio di At-Tuwani. I piloni erano stati installati dagli abitanti del villaggio per connettersi alla linea elettrica di Yatta, una città palestinese situata poco più a nord.
L’esercito israeliano ha dichiarato l’area attorno ai piloni “Zona Militare Chiusa” per impedire ai palestinesi e ai volontari internazionali di ostacolare, o semplicemente documentare, tale confisca. Nonostante questo, dozzine di abitanti hanno protestato e hanno ostruito il passaggio di una jeep della polizia israeliana verso at-Tuwani.
Nonostante una recente visita di Tony Blair, inviato del Quartetto Speciale per il Medio Oriente, nella quale l'ex premier britannico aveva assicurato agli abitanti di At-Tuwani che le autorità israeliane avevano dato un permesso orale al proseguimento dei lavori per l’allacciamento dell’elettricità, la comunità locale in diverse occasioni è stata costretta a interrompere i lavori. (Vedi comunicato stampa: http://snipurl.com/tfwk7)
Venerdì 30 ottobre l’esercito israeliano aveva fermato con la forza i lavori per portare la linea elettrica nella zona. Ufficiali del Distretto (DCO) hanno detenuto Mohammed Awayesa, un operaio palestinese di Ad-Dhahiriya, e hanno confiscato diverso materiale tra cui un camion, un elevatore meccanico e un grosso rotolo di cavo elettrico. Nessun ordine scritto è stato emesso per la detenzione dell'uomo, per l’arresto dei lavori e la confisca dei beni. (Vedi comunicato: http://snipurl.com/tfwn5)
Il 28 luglio 2009, la DCO aveva emanato un ordine di demolizione per sei piloni dell’elettricità appena costruiti ad At-Tuwani. Il 25 maggio 2009, la DCO era entrata nel villaggio e ordinato ai residenti di fermare i lavori di costruzione dei piloni dell’elettricità. Anche in quell'occasione non era stato emanato alcun ordine scritto. (Vedi azione urgente: http://snipurl.com/tfkrp)
Vedi le foto del 25 novembre 2009 al seguente indirizzo: http://snipurl.com/tfw15
domenica 29 novembre 2009
ORDINARIA VIOLENZA DEI COLONI
Carissime e carissimi
come molti di voi hanno saputo, il 17 novembre scorso
5 coloni provenienti dall'avamposto di Havat Ma'on hanno aggredito
una famiglia palestinese che tornava a casa e che Sarah ed io stavamo
accompagnando.
Ora stiamo tutti fisicamente bene, sia la famiglia di Nasser e Fatima
che io e Sarah.
Ma credo sia importante capire che questo incidente non e' un episodio
isolato ma si colloca all'interno di un sistema di umiliazioni e ed
ingiustizie che opera tutti i giorni.
Questo e' il racconto di quello che e' accaduto quel giorno che ho
scritto per Bocchescucite, il settimanale di Pax Christi sulla
Palestina. Un quindicinale di controinformazione che vi consiglio di
cuore
Laura
----------
Colline a Sud di Hebron, Martedi 17 novembre, le 11 di mattina di una
giornata fredda. La pioggia, come una benedizione, lava le pietre
delle colline arse dal sole di una lunga estate mediorientale. Una
famiglia cammina verso casa.
Sono Fatima e Nasser, una giovane coppia con tre bambini. Ibrahim, 3
anni trotterella dietro ai genitori : gli altri due, troppo piccoli
per camminare, sono portati in braccio da mamma e papá. La coppia si
ferma in cima alla salita per prendere fiato e guarda sconsolata verso
Havat Ma’on, l’avamposto alla loro sinistra. Da quando i coloni
israeliani si sono installati su quella collina, piu’ di dieci anni
fa, non possono piu’ usare la strada diretta, quella che in un quarto
d‘ora di agevole cammino li avrebbe portati da At Tuwani a Tuba. Ora
sono obbligati ad un giro tortuoso su sentieri sassosi per almeno
quarantacinque minuti.
Improvvisamente due donne si avvicinano, gesticolando. Sono Sarah e
Laura, due attiviste internazionali. Una parla un po’ di arabo:
“Stamattina abbiamo visto dei coloni nell’area. Non prendete la strada
corta, fate quella lunga”. Fatima sospira. La strada lunga é molto
lunga e non é una strada. La aspettano due ore di cammino, con un
bimbo in braccio, su e giu’ per ripide colline sulle tracce di greggi
e pastori.
Le famiglia riparte, seguita dalle due volontarie, scende fra i campi
in attesa di essere arati e risale sulla collina successiva. Ibrahim é
stanco e si ferma. Nasser approfitta della pausa per chiedere dove
erano esattamente i coloni. Quasi a rispondergli quattro uomini
appaiono fra le rocce, ad una cinquantina di metri. La famiglia
ricomincia a camminare, correre é impossibile. Sarah e Laura si
fermano, iniziano a filmare. I coloni all’inizio esitano, sono
disorientati. Poi iniziano a scendere, corrono verso la famiglia. Un
quinto colono sale dalla valle e raggiunge il gruppo. I coloni
circondano la famiglia e le internazionali, poi spintonano Nasser, che
ancora stringe suo figlio in braccio. Ibrahim e’ terrorizzato, piange.
Laura e Sarah si mettono in mezzo. I coloni le gettano a terra,
vogliono le telecamere.
Piovono colpi, calci e spintoni. La famiglia, nella confusione riesce
ad allontanarsi. I coloni strappano le telecamere e finalmente se ne
vanno,dopo venti minuti li vediamo entrare nell’avamposto.
Questa e’ la storia di quello che ho visto e vissuto in un giorno di
ordinaria violenza nelle colline a Sud di Hebron.
Ovviamente la storia continua, anche dopo l’attacco. Nasser, Fatima,
Sarah e me abbiamo trascorso interminabili ore alla stazione di
polizia per presentare denuncia ed identificare nelle foto i nostri
aggressori. Finora nessuno e’ stato arrestato.
Nei giorni successivi una giornalista mi ha chiesto se senza la
presenza degli internazionali l’attacco sarebbe stato più brutale. Io
non lo so se senza di noi l’attacco sarebbe stato peggio, meglio o
uguale. Sicuramente i media non ne avrebbero parlato.
Ma il punto non é la presenza degli internazionali, il punto é la
presenza dei coloni.
Se le esercito israeliano avesse eseguito gli ordini di evacuazione
che da anni pendono sull’insediamento illegale di Havat Ma’on,
l’attacco non ci sarebbe stato. Se la polizia avesse seriamente
perseguito i responsabili delle decine di attacchi a Palestinesi
disarmati negli ultimi anni, l’attacco non ci sarebbe stato. E se
l’opinione pubblica internazionale invece di dibattere per quanti mesi
Israele dovrebbe congelare l’espansione delle colonie, si pronunciasse
in modo netto per un ritorno del diritto e della legalitá nei
Territori Palestinesi occupati , non ci sarebbero outpost illegali ad
occupare la strada che in quindici minuti da At Tuwani porta a Tuba.
----------------------
Background
Per anni, gli abitanti del villaggio di Tuba hanno utilizzato la
strada diretta per raggiungere il villaggio di At-Tuwani e da lì la
vicina città di Yatta, centro sociale ed economico di tutta l'area. La
costruzione lungo tale strada dell'insediamento israeliano di Ma'on
negli anni '80 e del vicino avamposto illegale di Havat Ma'on nel
2001, ha di fatto bloccato il movimento dei palestinesi,
costringendoli a percorrere sentieri più lunghi che richiedono fino a
due ore di cammino.
Volontarie e volontari dei Christian Peacemaker Teams e di Operazione
Colomba sono presenti nel villaggio di At-Tuwani dal 2004, con azioni
di sostegno alla libertà di movimento dei palestinesi minacciati dalla
violenza dei coloni israeliani che occupano illegalmente i territori
palestinesi. La libertà di movimento è un diritto sancito
dall'articolo 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e
Politici della Nazioni Unite, ratificata da Israele nel 1991.
Secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, la Corte Internazionale di
Giustizia e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, tutti gli
insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati sono
illegali. Gli avamposti sono considerati illegali anche
secondo la stessa legge israeliana.
come molti di voi hanno saputo, il 17 novembre scorso
5 coloni provenienti dall'avamposto di Havat Ma'on hanno aggredito
una famiglia palestinese che tornava a casa e che Sarah ed io stavamo
accompagnando.
Ora stiamo tutti fisicamente bene, sia la famiglia di Nasser e Fatima
che io e Sarah.
Ma credo sia importante capire che questo incidente non e' un episodio
isolato ma si colloca all'interno di un sistema di umiliazioni e ed
ingiustizie che opera tutti i giorni.
Questo e' il racconto di quello che e' accaduto quel giorno che ho
scritto per Bocchescucite, il settimanale di Pax Christi sulla
Palestina. Un quindicinale di controinformazione che vi consiglio di
cuore
Laura
----------
Colline a Sud di Hebron, Martedi 17 novembre, le 11 di mattina di una
giornata fredda. La pioggia, come una benedizione, lava le pietre
delle colline arse dal sole di una lunga estate mediorientale. Una
famiglia cammina verso casa.
Sono Fatima e Nasser, una giovane coppia con tre bambini. Ibrahim, 3
anni trotterella dietro ai genitori : gli altri due, troppo piccoli
per camminare, sono portati in braccio da mamma e papá. La coppia si
ferma in cima alla salita per prendere fiato e guarda sconsolata verso
Havat Ma’on, l’avamposto alla loro sinistra. Da quando i coloni
israeliani si sono installati su quella collina, piu’ di dieci anni
fa, non possono piu’ usare la strada diretta, quella che in un quarto
d‘ora di agevole cammino li avrebbe portati da At Tuwani a Tuba. Ora
sono obbligati ad un giro tortuoso su sentieri sassosi per almeno
quarantacinque minuti.
Improvvisamente due donne si avvicinano, gesticolando. Sono Sarah e
Laura, due attiviste internazionali. Una parla un po’ di arabo:
“Stamattina abbiamo visto dei coloni nell’area. Non prendete la strada
corta, fate quella lunga”. Fatima sospira. La strada lunga é molto
lunga e non é una strada. La aspettano due ore di cammino, con un
bimbo in braccio, su e giu’ per ripide colline sulle tracce di greggi
e pastori.
Le famiglia riparte, seguita dalle due volontarie, scende fra i campi
in attesa di essere arati e risale sulla collina successiva. Ibrahim é
stanco e si ferma. Nasser approfitta della pausa per chiedere dove
erano esattamente i coloni. Quasi a rispondergli quattro uomini
appaiono fra le rocce, ad una cinquantina di metri. La famiglia
ricomincia a camminare, correre é impossibile. Sarah e Laura si
fermano, iniziano a filmare. I coloni all’inizio esitano, sono
disorientati. Poi iniziano a scendere, corrono verso la famiglia. Un
quinto colono sale dalla valle e raggiunge il gruppo. I coloni
circondano la famiglia e le internazionali, poi spintonano Nasser, che
ancora stringe suo figlio in braccio. Ibrahim e’ terrorizzato, piange.
Laura e Sarah si mettono in mezzo. I coloni le gettano a terra,
vogliono le telecamere.
Piovono colpi, calci e spintoni. La famiglia, nella confusione riesce
ad allontanarsi. I coloni strappano le telecamere e finalmente se ne
vanno,dopo venti minuti li vediamo entrare nell’avamposto.
Questa e’ la storia di quello che ho visto e vissuto in un giorno di
ordinaria violenza nelle colline a Sud di Hebron.
Ovviamente la storia continua, anche dopo l’attacco. Nasser, Fatima,
Sarah e me abbiamo trascorso interminabili ore alla stazione di
polizia per presentare denuncia ed identificare nelle foto i nostri
aggressori. Finora nessuno e’ stato arrestato.
Nei giorni successivi una giornalista mi ha chiesto se senza la
presenza degli internazionali l’attacco sarebbe stato più brutale. Io
non lo so se senza di noi l’attacco sarebbe stato peggio, meglio o
uguale. Sicuramente i media non ne avrebbero parlato.
Ma il punto non é la presenza degli internazionali, il punto é la
presenza dei coloni.
Se le esercito israeliano avesse eseguito gli ordini di evacuazione
che da anni pendono sull’insediamento illegale di Havat Ma’on,
l’attacco non ci sarebbe stato. Se la polizia avesse seriamente
perseguito i responsabili delle decine di attacchi a Palestinesi
disarmati negli ultimi anni, l’attacco non ci sarebbe stato. E se
l’opinione pubblica internazionale invece di dibattere per quanti mesi
Israele dovrebbe congelare l’espansione delle colonie, si pronunciasse
in modo netto per un ritorno del diritto e della legalitá nei
Territori Palestinesi occupati , non ci sarebbero outpost illegali ad
occupare la strada che in quindici minuti da At Tuwani porta a Tuba.
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Background
Per anni, gli abitanti del villaggio di Tuba hanno utilizzato la
strada diretta per raggiungere il villaggio di At-Tuwani e da lì la
vicina città di Yatta, centro sociale ed economico di tutta l'area. La
costruzione lungo tale strada dell'insediamento israeliano di Ma'on
negli anni '80 e del vicino avamposto illegale di Havat Ma'on nel
2001, ha di fatto bloccato il movimento dei palestinesi,
costringendoli a percorrere sentieri più lunghi che richiedono fino a
due ore di cammino.
Volontarie e volontari dei Christian Peacemaker Teams e di Operazione
Colomba sono presenti nel villaggio di At-Tuwani dal 2004, con azioni
di sostegno alla libertà di movimento dei palestinesi minacciati dalla
violenza dei coloni israeliani che occupano illegalmente i territori
palestinesi. La libertà di movimento è un diritto sancito
dall'articolo 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e
Politici della Nazioni Unite, ratificata da Israele nel 1991.
Secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, la Corte Internazionale di
Giustizia e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, tutti gli
insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati sono
illegali. Gli avamposti sono considerati illegali anche
secondo la stessa legge israeliana.
giovedì 26 novembre 2009
ISRAELE BOICOTTA L'ISTRUZIONE E LA CULTURA PALESTINESE A GAZA TUTTI IN GALERA!
TAGLIO MEDIO | di Michele Giorgio - GERUSALEMME
ISRAELE Valichi chiusi agli studenti
Libertà di studio? No, se sei di Gaza
L'attesa della 21enne di Gaza Berlanty Azzam finirà oggi. Con una sentenza favorevole oppure con la chiusura definitiva di fronte a lei delle porte di Betlemme. A decidere sarà un tribunale dello Stato di Israele, quindi delle autorità di occupazione, chiamato ad esprimersi sulla richiesta di Berlanty, studentessa di economia aziendale, di poter completare gli studi in Cisgiordania. «Speravo di ottenere una risposta già domenica scorsa ma la lettura della sentenza è stata rinviata di due giorni», ci spiegava ieri Berlanty dalla sua abitazione di Gaza. «Sono angosciata», ha aggiunto «perchè se non mi permetteranno di tornare a Betlemme non solo avrò grosse difficoltà a completare gli studi ma vedrò anche spezzarsi i forti legami che avevo stabilito con tante persone in quella città».
Berlanty non ha commesso alcun reato. Semplicemente dal 2005 viveva e studiava a Betlemme dopo aver ottenuto, con grande sforzo, un permesso dell'esercito israeliano per raggiungere la Cisgiordania. Per un giovane di Gaza, anche benestante, è un sogno soltanto poter studiare in Cisgiordania, a poche decine di chilometri di distanza. Israele, per «motivi di sicurezza» non garantisce, se non in casi eccezionali, il diritto dei ragazzi di Gaza di poter liberamente frequentare le università cisgiordane. E ottenere un permesso delle autorità militari non mette i pochi fortunati al riparo da sorprese amare. Lo scorso 28 ottobre Berlanty Azzam stava tornando a Betlemme dopo aver sostenuto a Ramallah un colloquio di lavoro. Pensava al futuro, come fanno tutti i giovani vicini a completare gli studi. Ma i soldati israeliani di guardia ad un posto di blocco, accortisi del fatto che Berlanty aveva la residenza a Gaza, l'hanno presa, bendata, e sbattuta in cella. Non solo. Alla ragazza è stato impedito di presentare appello contro il provvedimento di espulsione ed è stata immediata portata a Gaza, in manette. «Non aveva fatto nulla, se non frequentare un' università in Cisgiordania. Ma i militari nemmeno mi guardavano in faccia quando provavo a spiegare i miei diritti», ha riferito la ragazza.
Berlanty Azzam forse otterrà una sentenza favorevole, in considerazione degli appoggi internazionali che sta ricevendo e delle pressioni su Israele dei vertici dell'Università di Betlemme, finanziata dal Vaticano. Ma se oggi i giudici confermeranno il provvedimento preso dai militari, la ragazza andrà a far parte del gruppo di quasi 900 studenti di Gaza ai quali Israele e l'Egitto (che tiene chiuso il valico di Rafah) negano di poter studiare.
Tel Aviv e il Cairo spiegano che le restrizioni sono frutto dalle difficoltà di rapporto con il movimento islamico Hamas (che controlla Gaza dal 2007), autorità che loro non riconoscono. In realtà il blocco degli studenti è una delle tante punizioni inflitte all'intera popolazione di Gaza. E le ripetute denunce dei centri per i diritti umani non servono a molto. Secondo un'inchiesta svolta dall'associazione israeliana Gisha, quest'anno 1.983 studenti di Gaza sono stati accettati in università straniere ma per motivi oscuri gli egiziani ne hanno fatti passare da Rafah 1.145. Gli israeliani da parte loro hanno consentito il transito al valico di Erez soltanto a 69 studenti diretti all'estero.
Un caso esemplare è quello di Mohammed Abu Hajar. Lo scorso luglio l'Information Technology and Communications Center di Atene aveva accettato la sua domanda di iscrizione e garantito anche una borsa di studio. Ma Mohammad non riesce ad uscire da Gaza. L'Egitto non considera la sua richiesta di transito per Rafah prioritaria (i permessi si garantiscono velocemente solo a chi è pronto a pagare 2mila dollari ai funzionari del terminal egiziano). Israele invece non riconosce l'istituto universitario greco scelto da Mohammed e neppure prende in considerazione la richiesta del giovane. Non è andata meglio a Ihab Naser, laureato in chimica biologica, atteso per un dottorato di ricerca in Malesia, perché questo paese non ha relazioni diplomatiche con Israele che quindi rifiuta il permesso. Resta un sogno anche il master in economia programmato da Wesam Kuhail negli Usa. Lo studente deve rinnovare i permessi al consolato Usa ma Israele finora non gli ha consentito di raggiungere Gerusalemme. «Ormai non ci credo più - dice Wesam. «A Gaza siamo tutti prigionieri di Israele e solo pochi detenuti ottengono il permesso per qualche giorno di libertà».
ISRAELE Valichi chiusi agli studenti
Libertà di studio? No, se sei di Gaza
L'attesa della 21enne di Gaza Berlanty Azzam finirà oggi. Con una sentenza favorevole oppure con la chiusura definitiva di fronte a lei delle porte di Betlemme. A decidere sarà un tribunale dello Stato di Israele, quindi delle autorità di occupazione, chiamato ad esprimersi sulla richiesta di Berlanty, studentessa di economia aziendale, di poter completare gli studi in Cisgiordania. «Speravo di ottenere una risposta già domenica scorsa ma la lettura della sentenza è stata rinviata di due giorni», ci spiegava ieri Berlanty dalla sua abitazione di Gaza. «Sono angosciata», ha aggiunto «perchè se non mi permetteranno di tornare a Betlemme non solo avrò grosse difficoltà a completare gli studi ma vedrò anche spezzarsi i forti legami che avevo stabilito con tante persone in quella città».
Berlanty non ha commesso alcun reato. Semplicemente dal 2005 viveva e studiava a Betlemme dopo aver ottenuto, con grande sforzo, un permesso dell'esercito israeliano per raggiungere la Cisgiordania. Per un giovane di Gaza, anche benestante, è un sogno soltanto poter studiare in Cisgiordania, a poche decine di chilometri di distanza. Israele, per «motivi di sicurezza» non garantisce, se non in casi eccezionali, il diritto dei ragazzi di Gaza di poter liberamente frequentare le università cisgiordane. E ottenere un permesso delle autorità militari non mette i pochi fortunati al riparo da sorprese amare. Lo scorso 28 ottobre Berlanty Azzam stava tornando a Betlemme dopo aver sostenuto a Ramallah un colloquio di lavoro. Pensava al futuro, come fanno tutti i giovani vicini a completare gli studi. Ma i soldati israeliani di guardia ad un posto di blocco, accortisi del fatto che Berlanty aveva la residenza a Gaza, l'hanno presa, bendata, e sbattuta in cella. Non solo. Alla ragazza è stato impedito di presentare appello contro il provvedimento di espulsione ed è stata immediata portata a Gaza, in manette. «Non aveva fatto nulla, se non frequentare un' università in Cisgiordania. Ma i militari nemmeno mi guardavano in faccia quando provavo a spiegare i miei diritti», ha riferito la ragazza.
Berlanty Azzam forse otterrà una sentenza favorevole, in considerazione degli appoggi internazionali che sta ricevendo e delle pressioni su Israele dei vertici dell'Università di Betlemme, finanziata dal Vaticano. Ma se oggi i giudici confermeranno il provvedimento preso dai militari, la ragazza andrà a far parte del gruppo di quasi 900 studenti di Gaza ai quali Israele e l'Egitto (che tiene chiuso il valico di Rafah) negano di poter studiare.
Tel Aviv e il Cairo spiegano che le restrizioni sono frutto dalle difficoltà di rapporto con il movimento islamico Hamas (che controlla Gaza dal 2007), autorità che loro non riconoscono. In realtà il blocco degli studenti è una delle tante punizioni inflitte all'intera popolazione di Gaza. E le ripetute denunce dei centri per i diritti umani non servono a molto. Secondo un'inchiesta svolta dall'associazione israeliana Gisha, quest'anno 1.983 studenti di Gaza sono stati accettati in università straniere ma per motivi oscuri gli egiziani ne hanno fatti passare da Rafah 1.145. Gli israeliani da parte loro hanno consentito il transito al valico di Erez soltanto a 69 studenti diretti all'estero.
Un caso esemplare è quello di Mohammed Abu Hajar. Lo scorso luglio l'Information Technology and Communications Center di Atene aveva accettato la sua domanda di iscrizione e garantito anche una borsa di studio. Ma Mohammad non riesce ad uscire da Gaza. L'Egitto non considera la sua richiesta di transito per Rafah prioritaria (i permessi si garantiscono velocemente solo a chi è pronto a pagare 2mila dollari ai funzionari del terminal egiziano). Israele invece non riconosce l'istituto universitario greco scelto da Mohammed e neppure prende in considerazione la richiesta del giovane. Non è andata meglio a Ihab Naser, laureato in chimica biologica, atteso per un dottorato di ricerca in Malesia, perché questo paese non ha relazioni diplomatiche con Israele che quindi rifiuta il permesso. Resta un sogno anche il master in economia programmato da Wesam Kuhail negli Usa. Lo studente deve rinnovare i permessi al consolato Usa ma Israele finora non gli ha consentito di raggiungere Gerusalemme. «Ormai non ci credo più - dice Wesam. «A Gaza siamo tutti prigionieri di Israele e solo pochi detenuti ottengono il permesso per qualche giorno di libertà».
giovedì 19 novembre 2009
PERFINO IL JERUSALEM POST SE N'E' ACCORTO
E’ ora di ammettere chi sono le vere vittime
Jerusalem Post - 4 novembre 2009
1 novembre 2009: il rapporto per il numero di morti è di 1 a 100, a nostro favore. Per quanto riguarda le distruzioni, è molto, molto di più. A tutto’oggi, migliaia di persone a Gaza vivono in tenda perché non permettiamo di far arrivare il cemento per ricostruire le case che abbiamo demolito. Abbiamo fatto della Striscia di Gaza una zona sinistrata, una questione umanitaria, e la manteniamo in questo stato con il nostro blocco. Durante questo tempo, qui, dal lato israeliano della frontiera, non riusciamo a ricordare quando la vita sia stata così tranquilla e sicura.
Allora decidiamo: quali sono state le vittime dell’operazione Piombo fuso, loro o noi?
La questione non si pone, siamo noi. Noi, gli Israeliani, siamo stati le vittime e noi lo siamo sempre. In realtà, la nostra condizione di vittime peggiora di giorno in giorno. Il rapporto Goldstone è il vero crimine di guerra. Il rapporto Goldstone, i dibattiti all’ONU, Amnesty International, Human Rights Watch, la Croce Rossa, B’Tselem, i soldati traditori di Rompere il Silenzio e l’Accademia dei Rabbini – tutti questi sono i veri crimini contro l’umanità. Questo s’intende con «la guerra è un inferno». Siamo noi che abbiamo attraversato l’inferno della guerra a Gaza. Siamo noi che abbiamo sofferto. Gli abitanti di Gaza? Soffrono? Ma di cosa parlate? Non permettiamo loro di mangiare, no?
Questo monologo immaginario mostra in realtà come noi ci vediamo oggi. Abbiamo lanciato la guerra a Gaza, abbiamo scatenato una delle campagne militari più sproprozionate che si conoscano, ma noi siamo le vittime. Noi ci battiamo contro il mondo con l’Olocausto; lo provano le affermazioni del Primo ministro Binyamin Netanyahu all’ONU su Auschwitz. E il suo protetto, il ministro delle Finanze, Yuval Steinitz, che promette: «Non andremo al macello come agnelli un’altra volta» durante un dibattito a proposito del rapporto Goldstone. Auschwitz, gli agnelli che vanno al macello, l’operazione Piombo fuso. Per gli Israeliani oggi tutto ciò forma un tutto, un’unica storia, l’eredità ininterrotta di una virtuosa posizione di vittima.
La verità è che lo Stato d’Israele non è mai stato una vittima, e il fatto di assimilarci ai 6 milioni è stato imbarazzante sin dall’inizio – ma ora? Dopo quel che abbiamo fatto a Gaza? Con la presa di possesso che abbiamo su questa società, mentre noi viviamo qui liberi e tranquilli? Vittime? Agnelli al macello? Noi?
No, e questo è diventato molto più che imbarazzante, è assolutamente vergognoso.
E malgrado le nostre scuse, non è vero che siamo «traumatizzati» dal passato nella convinzione di essere sempre ebrei deboli, impauriti, impotenti, sul punto di essere condotti alle camere a gas. Molti sopravvissuti dell’Olocausto ne sono ancora convinti e, in una proporzione molto limitata, questo resto di paura occupa ancora l’animo israeliano. Ma ora, 64 anni dopo l’Olocausto, 42 anni dopo aver vinto con la guerra dei Sei Giorni, da quel punto noi siamo diventati forti, noi sappiamo - che lo ammettiamo o no - di non essere più le vittime. Sappiamo di non essere la continuità dei 6 milioni, anzi ce ne allontaniamo deliberatamente, puramente e semplicemente.
La ragione per cui ci diciamo e diciamo al mondo di essere le vittime, è perché sappiamo - che ne conveniamo o no - che la condizione di vittima rappresenta un potere. La condizione di vittima è la libertà. Non si può chiedere ad una vittima di contenersi. Una vittima che si batte per la sua sopravvivenza non può essere accusata di abusare del suo potere perché, dopo tutto, essa è con le spalle al muro, è disperata.
Guardando i fatti, è molto difficile convincere noi stessi, e a fortiori convincere gli altri, che Gaza e i suoi Qassam avessero messo la fortezza Israele con le spalle al muro, che fossimo disperati, che combattessimo per sopravvivere. Per convincerci e per convincere il mondo che era davvero così, facciamo due cose.
Primo: rifiutiamo di riconoscere il minimo fatto che contraddica quest’immagine che ci presenta come vittime, anzi ripetiamo continuamente tutto ciò che è conforme a quest’immagine. Noi parliamo unicamente delle migliaia di Qassam lanciati su Sderot; non menzioniamo mai le migliaia di abitanti di Gaza che abbiamo assassinato nello stesso tempo. Noi parliamo unicamente di Gilad Shalit; non menzioniamo mai gli 8 000 Palestinesi che teniamo in prigione. Non parliamo mai del blocco che manteniamo su Gaza, né della devastazione che provoca sulla sua popolazione.
La seconda cosa che facciamo per convincerci e per convincere il mondo che noi siamo sempre le vittime, è di non uscire mai, ma proprio mai, dall’Olocausto – perché è là che noi siamo stati veramente vittime. Vittime come nessuno ne ha mai avute, vittime un milione di volte peggio degli abitanti di Gaza. Auschwitz, gli agnelli che vanno al macello. Vi ricordate di noi, il popolo dell’Olocausto? Non la superpotenza del Medio Oriente che avete visto combattere a Gaza. Erano i 6 milioni. Allora, non potete biasimarci. Siamo immunizzati contro le vostre critiche. Noi siamo le più grandi vittime che il mondo abbia mai conosciuto. Siamo disperati, allora non parlateci di calcoli sul numero degli uccisi, né di uso sproporzionato della forza, né di punizione collettiva. Noi combattiamo per la nostra sopravvivenza.
E’ questo che diciamo a noi stessi e al mondo, e, visto quel che abbiamo fatto e che facciamo sempre a Gaza, ciò è diventato intollerabile. No, noi non siamo i 6 milioni. I 6 milioni erano degli ebrei impotenti, tre generazioni fa; non possiamo mascherare il nostro abuso di potere con la loro tragedia.
Invece, diamo uno sguardo, un vero sguardo critico su quel che abbiamo fatto e facciamo sempre a Gaza. Diamoci un vero sguardo critico alla specchio. E riconosciamo allora chi è la vera vittima, qui ed ora.
E, ancora più importante, chi non lo è.
http://www.paltelegraph.com/opinions/editorials/2770-time-to-admit-who-the-real-victims-are
Jerusalem Post - 4 novembre 2009
1 novembre 2009: il rapporto per il numero di morti è di 1 a 100, a nostro favore. Per quanto riguarda le distruzioni, è molto, molto di più. A tutto’oggi, migliaia di persone a Gaza vivono in tenda perché non permettiamo di far arrivare il cemento per ricostruire le case che abbiamo demolito. Abbiamo fatto della Striscia di Gaza una zona sinistrata, una questione umanitaria, e la manteniamo in questo stato con il nostro blocco. Durante questo tempo, qui, dal lato israeliano della frontiera, non riusciamo a ricordare quando la vita sia stata così tranquilla e sicura.
Allora decidiamo: quali sono state le vittime dell’operazione Piombo fuso, loro o noi?
La questione non si pone, siamo noi. Noi, gli Israeliani, siamo stati le vittime e noi lo siamo sempre. In realtà, la nostra condizione di vittime peggiora di giorno in giorno. Il rapporto Goldstone è il vero crimine di guerra. Il rapporto Goldstone, i dibattiti all’ONU, Amnesty International, Human Rights Watch, la Croce Rossa, B’Tselem, i soldati traditori di Rompere il Silenzio e l’Accademia dei Rabbini – tutti questi sono i veri crimini contro l’umanità. Questo s’intende con «la guerra è un inferno». Siamo noi che abbiamo attraversato l’inferno della guerra a Gaza. Siamo noi che abbiamo sofferto. Gli abitanti di Gaza? Soffrono? Ma di cosa parlate? Non permettiamo loro di mangiare, no?
Questo monologo immaginario mostra in realtà come noi ci vediamo oggi. Abbiamo lanciato la guerra a Gaza, abbiamo scatenato una delle campagne militari più sproprozionate che si conoscano, ma noi siamo le vittime. Noi ci battiamo contro il mondo con l’Olocausto; lo provano le affermazioni del Primo ministro Binyamin Netanyahu all’ONU su Auschwitz. E il suo protetto, il ministro delle Finanze, Yuval Steinitz, che promette: «Non andremo al macello come agnelli un’altra volta» durante un dibattito a proposito del rapporto Goldstone. Auschwitz, gli agnelli che vanno al macello, l’operazione Piombo fuso. Per gli Israeliani oggi tutto ciò forma un tutto, un’unica storia, l’eredità ininterrotta di una virtuosa posizione di vittima.
La verità è che lo Stato d’Israele non è mai stato una vittima, e il fatto di assimilarci ai 6 milioni è stato imbarazzante sin dall’inizio – ma ora? Dopo quel che abbiamo fatto a Gaza? Con la presa di possesso che abbiamo su questa società, mentre noi viviamo qui liberi e tranquilli? Vittime? Agnelli al macello? Noi?
No, e questo è diventato molto più che imbarazzante, è assolutamente vergognoso.
E malgrado le nostre scuse, non è vero che siamo «traumatizzati» dal passato nella convinzione di essere sempre ebrei deboli, impauriti, impotenti, sul punto di essere condotti alle camere a gas. Molti sopravvissuti dell’Olocausto ne sono ancora convinti e, in una proporzione molto limitata, questo resto di paura occupa ancora l’animo israeliano. Ma ora, 64 anni dopo l’Olocausto, 42 anni dopo aver vinto con la guerra dei Sei Giorni, da quel punto noi siamo diventati forti, noi sappiamo - che lo ammettiamo o no - di non essere più le vittime. Sappiamo di non essere la continuità dei 6 milioni, anzi ce ne allontaniamo deliberatamente, puramente e semplicemente.
La ragione per cui ci diciamo e diciamo al mondo di essere le vittime, è perché sappiamo - che ne conveniamo o no - che la condizione di vittima rappresenta un potere. La condizione di vittima è la libertà. Non si può chiedere ad una vittima di contenersi. Una vittima che si batte per la sua sopravvivenza non può essere accusata di abusare del suo potere perché, dopo tutto, essa è con le spalle al muro, è disperata.
Guardando i fatti, è molto difficile convincere noi stessi, e a fortiori convincere gli altri, che Gaza e i suoi Qassam avessero messo la fortezza Israele con le spalle al muro, che fossimo disperati, che combattessimo per sopravvivere. Per convincerci e per convincere il mondo che era davvero così, facciamo due cose.
Primo: rifiutiamo di riconoscere il minimo fatto che contraddica quest’immagine che ci presenta come vittime, anzi ripetiamo continuamente tutto ciò che è conforme a quest’immagine. Noi parliamo unicamente delle migliaia di Qassam lanciati su Sderot; non menzioniamo mai le migliaia di abitanti di Gaza che abbiamo assassinato nello stesso tempo. Noi parliamo unicamente di Gilad Shalit; non menzioniamo mai gli 8 000 Palestinesi che teniamo in prigione. Non parliamo mai del blocco che manteniamo su Gaza, né della devastazione che provoca sulla sua popolazione.
La seconda cosa che facciamo per convincerci e per convincere il mondo che noi siamo sempre le vittime, è di non uscire mai, ma proprio mai, dall’Olocausto – perché è là che noi siamo stati veramente vittime. Vittime come nessuno ne ha mai avute, vittime un milione di volte peggio degli abitanti di Gaza. Auschwitz, gli agnelli che vanno al macello. Vi ricordate di noi, il popolo dell’Olocausto? Non la superpotenza del Medio Oriente che avete visto combattere a Gaza. Erano i 6 milioni. Allora, non potete biasimarci. Siamo immunizzati contro le vostre critiche. Noi siamo le più grandi vittime che il mondo abbia mai conosciuto. Siamo disperati, allora non parlateci di calcoli sul numero degli uccisi, né di uso sproporzionato della forza, né di punizione collettiva. Noi combattiamo per la nostra sopravvivenza.
E’ questo che diciamo a noi stessi e al mondo, e, visto quel che abbiamo fatto e che facciamo sempre a Gaza, ciò è diventato intollerabile. No, noi non siamo i 6 milioni. I 6 milioni erano degli ebrei impotenti, tre generazioni fa; non possiamo mascherare il nostro abuso di potere con la loro tragedia.
Invece, diamo uno sguardo, un vero sguardo critico su quel che abbiamo fatto e facciamo sempre a Gaza. Diamoci un vero sguardo critico alla specchio. E riconosciamo allora chi è la vera vittima, qui ed ora.
E, ancora più importante, chi non lo è.
http://www.paltelegraph.com/opinions/editorials/2770-time-to-admit-who-the-real-victims-are
mercoledì 18 novembre 2009
DOPO GLI EPISODI DEI COLONI CHE PROTETTI DALL'ESERCITO HANNO OCCUPATO E COLTIVATO CAMPI DI PROPRIETA' DI PALESTINESI, UNA NUOVA AGGRESSIONE
COMUNICATO STAMPA
Nuova aggressione di coloni israeliani contro palestinesi e volontari internazionali
Due membri dei Christian Peacemaker Teams picchiati e derubati
18 novembre 2009
Nella giornata di martedì 17 novembre, nell'area delle colline a sud di Hebron, cinque coloni israeliani hanno aggredito alcuni palestinesi che rientravano a casa e picchiato e derubato due internazionali che li accompagnavano.
La famiglia palestinese, due giovani genitori e tre bambini, stava rientrando nel villaggio di Tuba dalla vicina città di Yatta. Alle ore 11 circa, ha incontrato, nei pressi del villaggio di At-Tuwani, due membri dei Christian Peacemaker Teams che la avvertiva della presenza di alcuni coloni nell'area. I palestinesi hanno quindi proseguito il cammino, accompagnati dagli internazionali, lungo un sentiero più distante dal vicino avamposto israeliano di Havat Ma'on.
Appena dopo aver oltrepassato la collina di Mashakha, il gruppo è stato raggiunto da quattro coloni che lo ha subito circondato. Un quinto colono, mascherato e incappucciato, è sopraggiunto dalla valle sottostante. Dopo aver cercato di spiegare che stava solo camminando verso casa con la propria famiglia, il palestinese è stato spintonato da uno dei coloni.
I membri del CPT hanno quindi tentato di interporsi tra i palestinesi e i coloni ma questi ultimi li hanno buttati a terra, colpiti, presi a calci e derubati delle loro videocamere. I coloni si sono quindi diretti verso l'avamposto illegale di Havat Ma'on (Hill 833), dileguandosi tra gli alberi. La famiglia palestinese ha invece raggiunto la propria casa senza altri problemi.
Per anni, gli abitanti del villaggio di Tuba hanno utilizzato la strada diretta per raggiungere il villaggio di At-Tuwani e da lì la vicina città di Yatta, centro economico di tutta l'area. La costruzione lungo tale strada dell'insediamento israeliano di Ma'on negli anni '80 e del vicino avamposto illegale di Havat Ma'on nel 2001, ha di fatto bloccato il movimento dei palestinesi, costringendoli a percorrere sentieri più lunghi che richiedono circa due ore di cammino.
I membri dei CPT e di Operazione Colomba sono presenti nel villaggio di At-Tuwani dal 2005, con azioni di sostegno alla libertà di movimento dei palestinesi minacciati dalla violenza dei coloni israeliani che occupano illegalmente i territori palestinesi. La libertà di movimento è un diritto sancito dall'articolo 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici della Nazioni Unite, ratificata da Israele nel 1991.
Nota: secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, la Corte Internazionale di Giustizia e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, tutti gli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati sono illegali. Gli avamposti sono considerati illegali anche secondo la stessa legge israeliana.
Comunicato CPT in inglese: http://snipurl.com/tacey
--
Operazione Colomba
Corpo Nonviolento di Pace dell'Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
www.operazionecolomba.it
Nuova aggressione di coloni israeliani contro palestinesi e volontari internazionali
Due membri dei Christian Peacemaker Teams picchiati e derubati
18 novembre 2009
Nella giornata di martedì 17 novembre, nell'area delle colline a sud di Hebron, cinque coloni israeliani hanno aggredito alcuni palestinesi che rientravano a casa e picchiato e derubato due internazionali che li accompagnavano.
La famiglia palestinese, due giovani genitori e tre bambini, stava rientrando nel villaggio di Tuba dalla vicina città di Yatta. Alle ore 11 circa, ha incontrato, nei pressi del villaggio di At-Tuwani, due membri dei Christian Peacemaker Teams che la avvertiva della presenza di alcuni coloni nell'area. I palestinesi hanno quindi proseguito il cammino, accompagnati dagli internazionali, lungo un sentiero più distante dal vicino avamposto israeliano di Havat Ma'on.
Appena dopo aver oltrepassato la collina di Mashakha, il gruppo è stato raggiunto da quattro coloni che lo ha subito circondato. Un quinto colono, mascherato e incappucciato, è sopraggiunto dalla valle sottostante. Dopo aver cercato di spiegare che stava solo camminando verso casa con la propria famiglia, il palestinese è stato spintonato da uno dei coloni.
I membri del CPT hanno quindi tentato di interporsi tra i palestinesi e i coloni ma questi ultimi li hanno buttati a terra, colpiti, presi a calci e derubati delle loro videocamere. I coloni si sono quindi diretti verso l'avamposto illegale di Havat Ma'on (Hill 833), dileguandosi tra gli alberi. La famiglia palestinese ha invece raggiunto la propria casa senza altri problemi.
Per anni, gli abitanti del villaggio di Tuba hanno utilizzato la strada diretta per raggiungere il villaggio di At-Tuwani e da lì la vicina città di Yatta, centro economico di tutta l'area. La costruzione lungo tale strada dell'insediamento israeliano di Ma'on negli anni '80 e del vicino avamposto illegale di Havat Ma'on nel 2001, ha di fatto bloccato il movimento dei palestinesi, costringendoli a percorrere sentieri più lunghi che richiedono circa due ore di cammino.
I membri dei CPT e di Operazione Colomba sono presenti nel villaggio di At-Tuwani dal 2005, con azioni di sostegno alla libertà di movimento dei palestinesi minacciati dalla violenza dei coloni israeliani che occupano illegalmente i territori palestinesi. La libertà di movimento è un diritto sancito dall'articolo 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici della Nazioni Unite, ratificata da Israele nel 1991.
Nota: secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, la Corte Internazionale di Giustizia e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, tutti gli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati sono illegali. Gli avamposti sono considerati illegali anche secondo la stessa legge israeliana.
Comunicato CPT in inglese: http://snipurl.com/tacey
--
Operazione Colomba
Corpo Nonviolento di Pace dell'Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
www.operazionecolomba.it
venerdì 13 novembre 2009
UNA VERGOGNA ITALIANA
Casilino 700: un'altra purga etnica a Roma. Continua nell'indifferenza la tragedia umanitaria dei Rom in Italia
Roma, 12 novembre. Non traggano in inganno le dichiarazioni pubbliche, l'uso di un linguaggio rispettoso dei diritti umani (dove di continuo il dichiarante si premura di affermare che "lavoriamo per la legalità e l'integrazione", i paraventi - in forma di anelli di polizia - che tengono lontani attivisti e giornalisti nei momenti cruciali, gli interventi sul campo di onlus finanziate dal governo italiano. Non tragga in inganno la proposta di forme ad hoc di assistenza; "cavallo di battaglia" delle autorità intolleranti è la formula: donne e bambini in dormitori, mariti e padri in mezzo alla strada, oppure: daremo accoglienza agli "aventi diritto", come se esistessero esseri umani non aventi diritto alla vita e alla dignità. Non tragga in inganno l'apparenza "perbene" dei mandanti delle evacuazioni, che troppo spesso alimenta il pregiudizio del Rom sporco e dunque cattivo, in antitesi al politico o al poliziotto lindo, curato, in abito classico o in divisa e di conseguenza... buono, amico della legalità e della collettività. Non traggano in inganno i proclami e le invettive della "folla inferocita" di cittadini: "Ma voi che siete così bravi, perché non portate gli zingari a casa vostra? Perché non venite a vedere come vivono, cosa bruciano nei loro roghi, come costringono a vivere i loro bambini, come si ubriacano e perdono la testa?"
Sono le solite ragioni del lupo, che abbiamo ascoltato persino durante i processi per crimini contro l'umanità, nei confronti di mandanti ed esecutori di genocidi ("Noi non perseguitavamo ebrei e 'zingari', noi obbedivamo agli ordini"). Quello che è accaduto ieri a Roma, nel campo denominato "Casilino 700" ha un solo nome: purga etnica. Purga etnica, come ognuna delle centinaia i operazioni di sgombero etnico avvenute negli ultimi anni. La giurisprudenza definisce la purga etnica, che è uno dei più efferati crimini contro l'umanità, come una serie di azioni mirate a rimuovere da un territorio la popolazione di un dato gruppo o sottogruppo etnico-culturale. Nelle sue manifestazioni meno violente, è simile all'assimilazione forzata e alla deportazione di massa, mentre nelle sue forme più gravi conduce a lutti, abbassamento della speranza di vita media, tragedie umanitarie.
Le operazioni di "purga etnica" dipendono sempre da precise scelte politiche di governi e autorità, sulla base di discriminazioni etnico-linguistiche, religiose e ideologiche e su considerazioni di ordine politico e strategico, in particolar modo riguardo a un concetto distorto di sicurezza. Le più gravi forme di pulizia etnica avvengono quando i governi fanno dipendere le loro politiche dai comparti di maggioranza delle popolazioni, ovvero alla percentuale di cittadini sufficiente a ottenere il successo alle elezioni politiche o amministrative. Ci si può opporre alle politiche di pulizia etnica solo rispettando le Carte dei Diritti Umani, che tutelano le minoranze. Senza tale rispetto, che dovrebbe essere obbligatorio, la democrazia si trasforma in un regime persecutorio e spesso gli eventi di pulizia etnica non vengono avvertiti fuori dai confini dello Stato divenuto regime razziale. Il caso dell'Italia è oggi emblematico, perché in nome di una maggioranza dell'elettorato definita dai politici italiani "popolo sovrano" si sono via via cancellati i diritti fondamentali di persone e popoli e le conquiste civili. Chi governa, a livello nazionale o locale, decide che si possono deportare impunemente i profughi, che distruggere insediamenti di Rom in crisi umanitaria - mettendo famiglie inermi in mezzo alla strada - diventa lecito, che nei Cie e nelle carceri sia tollerabile torturare, umiliare e a volte uccidere i detenuti, che una legge italiana può equiparare il rifugiato a un criminale (soggetto a persecuzione, arresto, trattamenti inumani e deportazione), che gli attivisti possono essere intimiditi o minacciati, che gli assassini etnici hanno diritto a una protezione di fatto, che stampa e tv sono libere di diffondere odio e calunnie razziali, che personalità politiche o comunque pubbliche possono lanciare invettive contro etnie di minoranza. Come nel Terzo Reich. Se si considerano poi i legami strettissimi e ormai fuori controllo fra criminalità organizzata e politica (per comprenderne la portata è sufficiente effettuare su google una ricerca, associando nome e cognome di deputati, senatori, ministri e alte cariche istituzionali alle parole "mafia", "pentiti", "collusione", "favoreggiamento"), se si considera tale inquietante realtà, si comprenderà come faccia comodo a chi gestisce affari illeciti per miliardi di euro concentrare il lavoro delle forze dell'ordine contro 'zingarelli' scalzi, senzatetto e poveracci rifugiatisi in Italia dall'Africa o dall'Afghanistan. E adesso torniamo al Casilino 700. Le operazioni di sgombero, iniziate all'alba di ieri, sono state metodiche e spietate. Donne, bambini e malati (con casi di gravi patologie oncologiche e cardiache) si sono trovati sulla strada, mentre le ruspe distruggevano le baracche e i beni dei Rom colpiti dalla purga. Oltre 500 Rom sono stati evacuati. Decine sono stati caricati su pullman e condotti nell'inferno dei Cie. Decine espulsi e costretti a tornare in Romania, dove nessuna speranza di sussistenza li attende. Moltissimi malati che ricevevano cure mediche essenziali si troveranno presto in grave pericolo di vita.
Grazie all'aiuto dei Blocchi precari metropolitani e all'intervento della Croce Rossa presso le autorità, è stato occupato l'ex deposito Heineken di via dei Gordiani. Cento bambini andranno ancora a scuola, perché i genitori vogliono che sia riconosciuto questo loro diritto basilare, ma non si sa per quanto potranno continuare a sedersi ai banchi, accanto ai "fortunati" bambini italiani. Quasi duecento persone, con giovani donne incinte, in preda al panico si sono allontanate, facendo perdere le tracce. Vi è notizia, da confermare, di un aborto spontaneo e diversi casi di malori causati al freddo e dal disagio di vivere senza riparo. Il Gruppo EveryOne sta cercando di rintracciare le famiglie che hanno intrapreso l'ennesimo calvario per i quartieri romani. Verso le dieci del mattino, abbiamo inviato un messaggio urgente a Istituzioni, associazioni, attivisti e autorità, chiedendo assistenza umanitaria immediata per le famiglie ridotte sul lastrico. Dopo un contatto con il Gruppo EveryOne, che gli descriveva la situazione sul campo, interveniva, contemporaneamente ad alcuni gruppi di attivismo, il dottor Marco Squicciarini, Responsabile Nazionale della Croce Rossa Italiana per le attività di accoglienza e assistenza Rom e soggetti senza fissa dimora. Il dottor Squicciarini attivava un'azione di sostegno alle famiglie, identificando alcuni dei soggetti in cattive condizioni di salute e fornendo loro assistenza. Contemporaneamente, avvalendosi di una piccola rete virtuosa, riusciva a fornire coperte e generi di prima necessità a una parte degli sfollati, nonché a collaborare alla creazione di condizioni di vita minime presso la ex Heinken. Con un intervento "disperato", siamo riusciti a evitare che il dramma umanitario colpisse tutti e 500 i Rom, ma il futuro delle famiglie ricoverate in via Gordiani è quanto mai incerto. Il sindaco Alemanno ha annunciato la consueta procedura: accoglienza nei quattro campi-ghetto che esisteranno a Roma per gli "aventi diritto" e condanna a una "marcia della morte" oltre i confini di Roma per gli altri. Intanto, i movimenti neonazisti esultano e nei loro luoghi di ritrovo, virtuali e non, annunciano nuove manifestazioni per avere una Roma "zigeunerfrei", libera da "zingari". Roberto Fiore, capo di Forza Nuova, coglie questo momento di catastrofe umanitaria per tentare di colpire al cuore i Rom di Roma. Il 27 il suo movimento anti-stranieri ha annunciato una manifestazione presso il campo del Casilino 900. Atto assolutamente irresponsabile, che acuirà l'odio razziale già ben vivo nella capitale verso il popolo Rom e che si è espresso attraverso innumerevoli episodi di violenza razziale. Il Gruppo EveryOne invierà nei prossimi giorni una lettera aperta alle Istituzioni e alle autorità romane - per conoscenza all'Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, alla Commissione e al Consigli d'Europa - chiedendo che tale manifestazione non venga autorizzata e che invece siano attivati interventi di desegregazione e solidarietà per le comunità Rom fino ad oggi perseguitate in modo barbaro e iniquo.
Sottoscriviamo le dichiarazioni del dottor Marco Squicciarini: "Con i nostri interventi umanitari stiamo curando superficialmente le piaghe, mentre la patologia procede inarrestabile". Attendiamo un programma di intervento nazionale (cui forniremo volentieri un contributo), elaborato dal Responsabile Nazionale della Croce Rossa, necessario per definire efficacemente le politiche di intervento che occorrono per superare l'emergenza riguardante i Rom in Italia ed evitare che la crisi dei Diritti Umani nel nostro Paese si aggravi ulteriormente, con conseguenze sempre più catastrofiche. Ma è ormai impensabile che il solo dialogo con le Istituzioni, ormai malate incurabilmente di razzismo e xenofobia, possa limitare le politiche persecutorie, l'orgia di crudeltà e odio che inebria le autorità italiane. E' necessario sollecitare interventi da fuori, da parte di Istituzioni che ancora servono i valori della democrazia e le leggi che nei Paesi civili proteggono le minoranze e i poveri.
Gruppo EveryOne
info@everyonegroup.com
www.everyonegroup.com
: +39 334 8429527 :: +39 331 3585406 :: +39 334 3449180
Roma, 12 novembre. Non traggano in inganno le dichiarazioni pubbliche, l'uso di un linguaggio rispettoso dei diritti umani (dove di continuo il dichiarante si premura di affermare che "lavoriamo per la legalità e l'integrazione", i paraventi - in forma di anelli di polizia - che tengono lontani attivisti e giornalisti nei momenti cruciali, gli interventi sul campo di onlus finanziate dal governo italiano. Non tragga in inganno la proposta di forme ad hoc di assistenza; "cavallo di battaglia" delle autorità intolleranti è la formula: donne e bambini in dormitori, mariti e padri in mezzo alla strada, oppure: daremo accoglienza agli "aventi diritto", come se esistessero esseri umani non aventi diritto alla vita e alla dignità. Non tragga in inganno l'apparenza "perbene" dei mandanti delle evacuazioni, che troppo spesso alimenta il pregiudizio del Rom sporco e dunque cattivo, in antitesi al politico o al poliziotto lindo, curato, in abito classico o in divisa e di conseguenza... buono, amico della legalità e della collettività. Non traggano in inganno i proclami e le invettive della "folla inferocita" di cittadini: "Ma voi che siete così bravi, perché non portate gli zingari a casa vostra? Perché non venite a vedere come vivono, cosa bruciano nei loro roghi, come costringono a vivere i loro bambini, come si ubriacano e perdono la testa?"
Sono le solite ragioni del lupo, che abbiamo ascoltato persino durante i processi per crimini contro l'umanità, nei confronti di mandanti ed esecutori di genocidi ("Noi non perseguitavamo ebrei e 'zingari', noi obbedivamo agli ordini"). Quello che è accaduto ieri a Roma, nel campo denominato "Casilino 700" ha un solo nome: purga etnica. Purga etnica, come ognuna delle centinaia i operazioni di sgombero etnico avvenute negli ultimi anni. La giurisprudenza definisce la purga etnica, che è uno dei più efferati crimini contro l'umanità, come una serie di azioni mirate a rimuovere da un territorio la popolazione di un dato gruppo o sottogruppo etnico-culturale. Nelle sue manifestazioni meno violente, è simile all'assimilazione forzata e alla deportazione di massa, mentre nelle sue forme più gravi conduce a lutti, abbassamento della speranza di vita media, tragedie umanitarie.
Le operazioni di "purga etnica" dipendono sempre da precise scelte politiche di governi e autorità, sulla base di discriminazioni etnico-linguistiche, religiose e ideologiche e su considerazioni di ordine politico e strategico, in particolar modo riguardo a un concetto distorto di sicurezza. Le più gravi forme di pulizia etnica avvengono quando i governi fanno dipendere le loro politiche dai comparti di maggioranza delle popolazioni, ovvero alla percentuale di cittadini sufficiente a ottenere il successo alle elezioni politiche o amministrative. Ci si può opporre alle politiche di pulizia etnica solo rispettando le Carte dei Diritti Umani, che tutelano le minoranze. Senza tale rispetto, che dovrebbe essere obbligatorio, la democrazia si trasforma in un regime persecutorio e spesso gli eventi di pulizia etnica non vengono avvertiti fuori dai confini dello Stato divenuto regime razziale. Il caso dell'Italia è oggi emblematico, perché in nome di una maggioranza dell'elettorato definita dai politici italiani "popolo sovrano" si sono via via cancellati i diritti fondamentali di persone e popoli e le conquiste civili. Chi governa, a livello nazionale o locale, decide che si possono deportare impunemente i profughi, che distruggere insediamenti di Rom in crisi umanitaria - mettendo famiglie inermi in mezzo alla strada - diventa lecito, che nei Cie e nelle carceri sia tollerabile torturare, umiliare e a volte uccidere i detenuti, che una legge italiana può equiparare il rifugiato a un criminale (soggetto a persecuzione, arresto, trattamenti inumani e deportazione), che gli attivisti possono essere intimiditi o minacciati, che gli assassini etnici hanno diritto a una protezione di fatto, che stampa e tv sono libere di diffondere odio e calunnie razziali, che personalità politiche o comunque pubbliche possono lanciare invettive contro etnie di minoranza. Come nel Terzo Reich. Se si considerano poi i legami strettissimi e ormai fuori controllo fra criminalità organizzata e politica (per comprenderne la portata è sufficiente effettuare su google una ricerca, associando nome e cognome di deputati, senatori, ministri e alte cariche istituzionali alle parole "mafia", "pentiti", "collusione", "favoreggiamento"), se si considera tale inquietante realtà, si comprenderà come faccia comodo a chi gestisce affari illeciti per miliardi di euro concentrare il lavoro delle forze dell'ordine contro 'zingarelli' scalzi, senzatetto e poveracci rifugiatisi in Italia dall'Africa o dall'Afghanistan. E adesso torniamo al Casilino 700. Le operazioni di sgombero, iniziate all'alba di ieri, sono state metodiche e spietate. Donne, bambini e malati (con casi di gravi patologie oncologiche e cardiache) si sono trovati sulla strada, mentre le ruspe distruggevano le baracche e i beni dei Rom colpiti dalla purga. Oltre 500 Rom sono stati evacuati. Decine sono stati caricati su pullman e condotti nell'inferno dei Cie. Decine espulsi e costretti a tornare in Romania, dove nessuna speranza di sussistenza li attende. Moltissimi malati che ricevevano cure mediche essenziali si troveranno presto in grave pericolo di vita.
Grazie all'aiuto dei Blocchi precari metropolitani e all'intervento della Croce Rossa presso le autorità, è stato occupato l'ex deposito Heineken di via dei Gordiani. Cento bambini andranno ancora a scuola, perché i genitori vogliono che sia riconosciuto questo loro diritto basilare, ma non si sa per quanto potranno continuare a sedersi ai banchi, accanto ai "fortunati" bambini italiani. Quasi duecento persone, con giovani donne incinte, in preda al panico si sono allontanate, facendo perdere le tracce. Vi è notizia, da confermare, di un aborto spontaneo e diversi casi di malori causati al freddo e dal disagio di vivere senza riparo. Il Gruppo EveryOne sta cercando di rintracciare le famiglie che hanno intrapreso l'ennesimo calvario per i quartieri romani. Verso le dieci del mattino, abbiamo inviato un messaggio urgente a Istituzioni, associazioni, attivisti e autorità, chiedendo assistenza umanitaria immediata per le famiglie ridotte sul lastrico. Dopo un contatto con il Gruppo EveryOne, che gli descriveva la situazione sul campo, interveniva, contemporaneamente ad alcuni gruppi di attivismo, il dottor Marco Squicciarini, Responsabile Nazionale della Croce Rossa Italiana per le attività di accoglienza e assistenza Rom e soggetti senza fissa dimora. Il dottor Squicciarini attivava un'azione di sostegno alle famiglie, identificando alcuni dei soggetti in cattive condizioni di salute e fornendo loro assistenza. Contemporaneamente, avvalendosi di una piccola rete virtuosa, riusciva a fornire coperte e generi di prima necessità a una parte degli sfollati, nonché a collaborare alla creazione di condizioni di vita minime presso la ex Heinken. Con un intervento "disperato", siamo riusciti a evitare che il dramma umanitario colpisse tutti e 500 i Rom, ma il futuro delle famiglie ricoverate in via Gordiani è quanto mai incerto. Il sindaco Alemanno ha annunciato la consueta procedura: accoglienza nei quattro campi-ghetto che esisteranno a Roma per gli "aventi diritto" e condanna a una "marcia della morte" oltre i confini di Roma per gli altri. Intanto, i movimenti neonazisti esultano e nei loro luoghi di ritrovo, virtuali e non, annunciano nuove manifestazioni per avere una Roma "zigeunerfrei", libera da "zingari". Roberto Fiore, capo di Forza Nuova, coglie questo momento di catastrofe umanitaria per tentare di colpire al cuore i Rom di Roma. Il 27 il suo movimento anti-stranieri ha annunciato una manifestazione presso il campo del Casilino 900. Atto assolutamente irresponsabile, che acuirà l'odio razziale già ben vivo nella capitale verso il popolo Rom e che si è espresso attraverso innumerevoli episodi di violenza razziale. Il Gruppo EveryOne invierà nei prossimi giorni una lettera aperta alle Istituzioni e alle autorità romane - per conoscenza all'Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, alla Commissione e al Consigli d'Europa - chiedendo che tale manifestazione non venga autorizzata e che invece siano attivati interventi di desegregazione e solidarietà per le comunità Rom fino ad oggi perseguitate in modo barbaro e iniquo.
Sottoscriviamo le dichiarazioni del dottor Marco Squicciarini: "Con i nostri interventi umanitari stiamo curando superficialmente le piaghe, mentre la patologia procede inarrestabile". Attendiamo un programma di intervento nazionale (cui forniremo volentieri un contributo), elaborato dal Responsabile Nazionale della Croce Rossa, necessario per definire efficacemente le politiche di intervento che occorrono per superare l'emergenza riguardante i Rom in Italia ed evitare che la crisi dei Diritti Umani nel nostro Paese si aggravi ulteriormente, con conseguenze sempre più catastrofiche. Ma è ormai impensabile che il solo dialogo con le Istituzioni, ormai malate incurabilmente di razzismo e xenofobia, possa limitare le politiche persecutorie, l'orgia di crudeltà e odio che inebria le autorità italiane. E' necessario sollecitare interventi da fuori, da parte di Istituzioni che ancora servono i valori della democrazia e le leggi che nei Paesi civili proteggono le minoranze e i poveri.
Gruppo EveryOne
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mercoledì 11 novembre 2009
IL MURO DELL'APARTHEID
E’ una barriera di cemento armato di 8-9 metri d’altezza.
Ogni panello costa 5,000 dollari, ed è largo 1 metro e mezzo.
È finanziato dagli Stati Uniti
E’ dotato di una recinzione elettronica con torrette, soldati armati e campi minati.
La sua costruzione è cominciata nel giugno 2002
Quando sarà ultimato avrà una lunghezza di 709 km
Israele lo chiama “recinzione di sicurezza”
o “barriera di separazione”
I Palestinesi lo chiamano “Muro dell’Aparthied”
….comunque lo si voglia chiamare
è UNA VERGOGNA.
Nell’estate del 2002, a seguito di una campagna di attentati suicidi Palestinesi, il governo Israeliano ha approvato la costruzione di una barriera con lo scopo dichiarato di impedire agli attentatori suicidi Palestinesi di entrare in Israele. Il 9 luglio con circa 200 Km di barriera già costruita, la Corte Internazionale di Giustizia, il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, ha emesso un Parere Consultivo sulle conseguenze legali della costruzione di un Muro nei territori Palestinesi occupati. Il parere riconosceva che Israele “ha il diritto e il dovere di rispondere allo scopo di proteggere la vita dei suoi cittadini (ma) le misure prese sono nondimeno obbligate a rimanere conformi all’applicazione della legge internazionale”.
Come è fatto il MURO:
La barriera è composta di recinzioni, fossati, filo spinato, barriere di sabbia, un sistema di controllo elettronico, strade per il pattugliamento e una zona cuscinetto. Circa 45 km della barriera già costruita sono costituiti da segmenti di cemento armato prefabbricati dell’altezza di 8-9 metri, che sono stati montati in modo da formare un Muro, questo in particolare nelle aree urbane di Gerusalemme, Betlemme, Qalqiliya e Tulkarm.
La lunghezza totale della Barriera è di 709 Km, più del doppio dei 320 km della Linea di Confine dell’Armistizio del 1949, tra la Cisgiordania e Israele, denominata comunemente LINEA VERDE
A che punto siamo con la costruzione:
Ne è già stato completato il 58,3%, un ulteriore 10,2% è attualmente in costruzione, e il restante 31,5% è stato progettato e approvato ma non ancora costruito.
Come è stata ottenuta la terra per costruire il MURO:
La terra ottenuta per la costruzione del Muro è stata requisita i proprietari Palestinesi dal Ministero della Difesa Israeliano attraverso provvedimenti militari. In genere gli ordini diventano esecutivi nel momento in cui vengono firmati e sono validi persino se non vengono notificati ai padroni delle proprietà. La maggior parte degli ordini hanno validità di 3 anni e sono rinnovabili. Il possesso della terra requisita dalla parte “Israeliana” della Barriera resta proprietà legale del padrone.
Conseguenze della costruzione del Muro, sui Territori Occupati Palestinesi:
La costruzione della Barriera isolerà più o meno il 9,5% dei Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est e la Terra di Nessuno.
Distanza tra il Muro e la LINEA VERDE (come sono comunemente chiamati i 320 km della Linea di Confine dell’Armistizio del 1949 tra la Cisgiordania e Israele)
Quando sarà finito circa il 15% della Barriera sarà stato costruito sulla Linea Verde o in Israele, il restante 85% all’interno dei Territori Palestinesi Occupati.
Come la costruzione del Muro ha influito sulla vita dei Palestinesi.
L’impatto della barriera è stato particolarmente duro sulla vita delle comunità rurali Palestinesi.
Ciò è dovuto, in parte alla distruzione di alberi, raccolti e sistemi di irrigazione causata dal sistema di barriere controllate elettronicamente, di strade per il pattugliamento, fossati e zone cuscinetto collocati sulla terra coltivabile Palestinese. Più significativamente il devastante cammino della Barriera attraverso 8 degli 11 governatorati dei Territori Occupati, isola le fattorie, le serre e distrugge terre e risorse idriche di decine di migliaia di Palestinesi. Il settore agricolo rappresenta l’11-20% dell’economia Palestinese, impiegando approssimativamente il 15% della forza lavoro ufficiale e fino al 39% della forza lavoro irregolare.
Si stima che l’80% dei Palestinesi possiede terra coltivabile, che viene lavorata collettivamente da famiglie allargate. Negli ultimi anni, il mancato accesso al mercato del lavoro in Israele e le crescenti restrizioni nella possibilità di movimento all’interno dei Territori Occupati hanno condotto ad una maggiore dipendenza dall’agricoltura come “ammortizzatore” di sopravvivenza.
Secondo la Banca Mondiale “circa 170.000 dunam di terra agricola fertile vengono colpite dalla costruzione della Barriera, esse rappresentano circa il 10,2% della terra coltivabile complessiva dei Territori Occupati con un valore economico medio di circa 38 milioni di Dollari – equivalente più o meno all’8% della produzione agricola Palestinese”.
Gerusalemme
La maggioranza dei circa 225.000 Palestinesi che detengono la Carta di Identità di Gerusalemme Est risiedono tra il Muro e la Linea Verde. Tuttavia il Muro separa da Gerusalemme Est le comunità palestinesi, Kafr Aqab e il Campo di Shu'fat, oggi all’interno degli attuali confini municipali.
Così come ne restano separate località come Ar Ram and Abu Dis che in precedenza erano quartieri periferici di Gerusalemme Est.
E gli Insediamenti e le Colonie?
80 insediamenti si troveranno collocati tra il Muro e la Linea Verde, quindi all’interno dei Territori Palestinesi Occupati.
Quanto costa il Muro
Secondo il Comitato per la revisione del bilancio dello stato Israeliano del 2007, il costo stimato per la costruzione dell’intera barriera era 13 -15 miliardi di NIS. Facendo riferimento agli impedimenti legali e alle carenze di budget il Ministero della Difesa ha dichiarato che nel 2008 ne sono stati completati solo altri 12 Km.
Come fanno i Palestinesi a passare da una parte all’altra?
I Palestinesi che vivono o devono arrivare alle loro terre che si trovano nella zona chiusa tra il Muro e la Linea Verde hanno bisogno di un permesso. Il Passaggio attraverso la Barriera avviene attraverso una serie di cancelli, e chek-point definiti, anche molto distanti tra di loro, che sono aperti secondo diversi calendari. Alcuni sono aperti su base quotidiana, altri settimanale altri stagionale.
Ogni panello costa 5,000 dollari, ed è largo 1 metro e mezzo.
È finanziato dagli Stati Uniti
E’ dotato di una recinzione elettronica con torrette, soldati armati e campi minati.
La sua costruzione è cominciata nel giugno 2002
Quando sarà ultimato avrà una lunghezza di 709 km
Israele lo chiama “recinzione di sicurezza”
o “barriera di separazione”
I Palestinesi lo chiamano “Muro dell’Aparthied”
….comunque lo si voglia chiamare
è UNA VERGOGNA.
Nell’estate del 2002, a seguito di una campagna di attentati suicidi Palestinesi, il governo Israeliano ha approvato la costruzione di una barriera con lo scopo dichiarato di impedire agli attentatori suicidi Palestinesi di entrare in Israele. Il 9 luglio con circa 200 Km di barriera già costruita, la Corte Internazionale di Giustizia, il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, ha emesso un Parere Consultivo sulle conseguenze legali della costruzione di un Muro nei territori Palestinesi occupati. Il parere riconosceva che Israele “ha il diritto e il dovere di rispondere allo scopo di proteggere la vita dei suoi cittadini (ma) le misure prese sono nondimeno obbligate a rimanere conformi all’applicazione della legge internazionale”.
Come è fatto il MURO:
La barriera è composta di recinzioni, fossati, filo spinato, barriere di sabbia, un sistema di controllo elettronico, strade per il pattugliamento e una zona cuscinetto. Circa 45 km della barriera già costruita sono costituiti da segmenti di cemento armato prefabbricati dell’altezza di 8-9 metri, che sono stati montati in modo da formare un Muro, questo in particolare nelle aree urbane di Gerusalemme, Betlemme, Qalqiliya e Tulkarm.
La lunghezza totale della Barriera è di 709 Km, più del doppio dei 320 km della Linea di Confine dell’Armistizio del 1949, tra la Cisgiordania e Israele, denominata comunemente LINEA VERDE
A che punto siamo con la costruzione:
Ne è già stato completato il 58,3%, un ulteriore 10,2% è attualmente in costruzione, e il restante 31,5% è stato progettato e approvato ma non ancora costruito.
Come è stata ottenuta la terra per costruire il MURO:
La terra ottenuta per la costruzione del Muro è stata requisita i proprietari Palestinesi dal Ministero della Difesa Israeliano attraverso provvedimenti militari. In genere gli ordini diventano esecutivi nel momento in cui vengono firmati e sono validi persino se non vengono notificati ai padroni delle proprietà. La maggior parte degli ordini hanno validità di 3 anni e sono rinnovabili. Il possesso della terra requisita dalla parte “Israeliana” della Barriera resta proprietà legale del padrone.
Conseguenze della costruzione del Muro, sui Territori Occupati Palestinesi:
La costruzione della Barriera isolerà più o meno il 9,5% dei Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est e la Terra di Nessuno.
Distanza tra il Muro e la LINEA VERDE (come sono comunemente chiamati i 320 km della Linea di Confine dell’Armistizio del 1949 tra la Cisgiordania e Israele)
Quando sarà finito circa il 15% della Barriera sarà stato costruito sulla Linea Verde o in Israele, il restante 85% all’interno dei Territori Palestinesi Occupati.
Come la costruzione del Muro ha influito sulla vita dei Palestinesi.
L’impatto della barriera è stato particolarmente duro sulla vita delle comunità rurali Palestinesi.
Ciò è dovuto, in parte alla distruzione di alberi, raccolti e sistemi di irrigazione causata dal sistema di barriere controllate elettronicamente, di strade per il pattugliamento, fossati e zone cuscinetto collocati sulla terra coltivabile Palestinese. Più significativamente il devastante cammino della Barriera attraverso 8 degli 11 governatorati dei Territori Occupati, isola le fattorie, le serre e distrugge terre e risorse idriche di decine di migliaia di Palestinesi. Il settore agricolo rappresenta l’11-20% dell’economia Palestinese, impiegando approssimativamente il 15% della forza lavoro ufficiale e fino al 39% della forza lavoro irregolare.
Si stima che l’80% dei Palestinesi possiede terra coltivabile, che viene lavorata collettivamente da famiglie allargate. Negli ultimi anni, il mancato accesso al mercato del lavoro in Israele e le crescenti restrizioni nella possibilità di movimento all’interno dei Territori Occupati hanno condotto ad una maggiore dipendenza dall’agricoltura come “ammortizzatore” di sopravvivenza.
Secondo la Banca Mondiale “circa 170.000 dunam di terra agricola fertile vengono colpite dalla costruzione della Barriera, esse rappresentano circa il 10,2% della terra coltivabile complessiva dei Territori Occupati con un valore economico medio di circa 38 milioni di Dollari – equivalente più o meno all’8% della produzione agricola Palestinese”.
Gerusalemme
La maggioranza dei circa 225.000 Palestinesi che detengono la Carta di Identità di Gerusalemme Est risiedono tra il Muro e la Linea Verde. Tuttavia il Muro separa da Gerusalemme Est le comunità palestinesi, Kafr Aqab e il Campo di Shu'fat, oggi all’interno degli attuali confini municipali.
Così come ne restano separate località come Ar Ram and Abu Dis che in precedenza erano quartieri periferici di Gerusalemme Est.
E gli Insediamenti e le Colonie?
80 insediamenti si troveranno collocati tra il Muro e la Linea Verde, quindi all’interno dei Territori Palestinesi Occupati.
Quanto costa il Muro
Secondo il Comitato per la revisione del bilancio dello stato Israeliano del 2007, il costo stimato per la costruzione dell’intera barriera era 13 -15 miliardi di NIS. Facendo riferimento agli impedimenti legali e alle carenze di budget il Ministero della Difesa ha dichiarato che nel 2008 ne sono stati completati solo altri 12 Km.
Come fanno i Palestinesi a passare da una parte all’altra?
I Palestinesi che vivono o devono arrivare alle loro terre che si trovano nella zona chiusa tra il Muro e la Linea Verde hanno bisogno di un permesso. Il Passaggio attraverso la Barriera avviene attraverso una serie di cancelli, e chek-point definiti, anche molto distanti tra di loro, che sono aperti secondo diversi calendari. Alcuni sono aperti su base quotidiana, altri settimanale altri stagionale.
Nell'anniversario della caduta del muro di Berlino I palestinesi aprono un varco nel muro a Kalandia
a uno dei siti del Comitato Popolare di Bil'in:
Un gruppo di palestinesi dei Comitati popolari hanno abbattuto una parte del Muro dell'Apartheid che separa Gerusalemme Est dalla Cisgiordania. Il 9 novembre un centinaio di palestinesi,sventolando bandiere palestinesi e indossando giubbotti fluorescenti con la scritta "ANDIAMO A GERUSALEMME" hanno tirato giù un pezzo del Muro vicino all'aeroporto di Kalandia. Ecco il seguente testo del volantino distribuito da quelli che hanno tirato giù il Muro vicino a Gerusalemme:
"Il 9 novembre del 1989 il mondo è stato testimone della demolizione del Muro di Berlino. Analogamente, in questo momento, vent'anni dopo, un gruppo di palestinesi ha demolito una parte del Muro dell'Apartheid intorno a Gerusalemme. Gerusalemme che sanguina ogni giorno... Gerusalemme i cui bambini sono senza casa sotto la pioggia. Questi giovani, ragazzi e ragazze, a cui è stato promesso dal presidente martire Yasser Arafat che avrebbero issato la bandiera palestinese sulle chiese e sulle moschee di Gerusalemme. Moschee e chiese , i cui luoghi sacri sono state profanati mentre noi aspettavamo passivamente la salvezza incosapevoli della responsabilità che incombeva su ognuno di noi.
Per Gerusalemme e per la Palestina è fondamentale ricostruire la resistenza popolare. Con questa iniziativa ci appelliamo a ritornare alle conquiste della sollevazione popolare che cominciò il 9 dicembre del 1987. Quest'anno, il 9 dicembre, chiamiamo la popolazione ad andare in massa verso Gerusalemme. Ci appelliamo che si formi una leadership nazionale unitaria e che guidi una sollevazione popolare di massa di cui tutto il popolo palestinese, i gruppi e le fazioni politiche sono parte. Questa sollevazione popolare sarà innovativa e produrrà altre iniziative insieme a una strategia di mobilitare il sostegno internazionale per la giustizia della nostra causa, come un modo per uscire dall'attuale impasse politica. Noi useremo questo sostegno per creare una pressione internazionale per porre fine all'occupazione, creare uno Stato indipendente palestinese con Gerusalemme come capitale e restaurare l'unità nel nostro popolo, dalla Cisgiordania a Gaza.
Un gruppo di palestinesi dei Comitati popolari hanno abbattuto una parte del Muro dell'Apartheid che separa Gerusalemme Est dalla Cisgiordania. Il 9 novembre un centinaio di palestinesi,sventolando bandiere palestinesi e indossando giubbotti fluorescenti con la scritta "ANDIAMO A GERUSALEMME" hanno tirato giù un pezzo del Muro vicino all'aeroporto di Kalandia. Ecco il seguente testo del volantino distribuito da quelli che hanno tirato giù il Muro vicino a Gerusalemme:
"Il 9 novembre del 1989 il mondo è stato testimone della demolizione del Muro di Berlino. Analogamente, in questo momento, vent'anni dopo, un gruppo di palestinesi ha demolito una parte del Muro dell'Apartheid intorno a Gerusalemme. Gerusalemme che sanguina ogni giorno... Gerusalemme i cui bambini sono senza casa sotto la pioggia. Questi giovani, ragazzi e ragazze, a cui è stato promesso dal presidente martire Yasser Arafat che avrebbero issato la bandiera palestinese sulle chiese e sulle moschee di Gerusalemme. Moschee e chiese , i cui luoghi sacri sono state profanati mentre noi aspettavamo passivamente la salvezza incosapevoli della responsabilità che incombeva su ognuno di noi.
Per Gerusalemme e per la Palestina è fondamentale ricostruire la resistenza popolare. Con questa iniziativa ci appelliamo a ritornare alle conquiste della sollevazione popolare che cominciò il 9 dicembre del 1987. Quest'anno, il 9 dicembre, chiamiamo la popolazione ad andare in massa verso Gerusalemme. Ci appelliamo che si formi una leadership nazionale unitaria e che guidi una sollevazione popolare di massa di cui tutto il popolo palestinese, i gruppi e le fazioni politiche sono parte. Questa sollevazione popolare sarà innovativa e produrrà altre iniziative insieme a una strategia di mobilitare il sostegno internazionale per la giustizia della nostra causa, come un modo per uscire dall'attuale impasse politica. Noi useremo questo sostegno per creare una pressione internazionale per porre fine all'occupazione, creare uno Stato indipendente palestinese con Gerusalemme come capitale e restaurare l'unità nel nostro popolo, dalla Cisgiordania a Gaza.
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