Recensione di “Macerie”, di Miriam Marino, ed. Città del Sole, 2014 Macerie.
Un romanzo doloroso e bello che riporta su carta la realtà palestinese. Un titolo pesante, proprio come le macerie di vite, di sentimenti, di diritti, di felicità e di bellezze violate che accompagnano quasi ogni pagina di questa storia dolorosa e bella. Una storia che ha per protagonista Tivka, adolescente israeliana che scopre di essere figlia di una donna palestinese. Inizia da questa scoperta sconcertante un percorso verso la verità fatto di decostruzioni e ricostruzioni che accompagnano la sua crescita fino a una consapevolezza che le renderà impossibile il ritorno nella famiglia israeliana di suo padre. Macerie che si sostituiscono alle certezze e che provocano disorientamento e dolore, ma anche entusiasmo e coraggio. Quel coraggio che è proprio dell’adolescenza, e che porta Tivka a riconoscersi con altri adolescenti che sanno lottare duramente come adulti, ma che sanno anche innamorarsi teneramente, nonostante il dolore che li avvolge. Come sempre nei suoi lavori letterari, Miriam afferra la realtà e la trasforma in una finzione narrativa che rende i personaggi - altrimenti schiacciati nel grigiore della cronaca - vivi nelle loro emozioni e capaci di coinvolgere il lettore fino a farlo soffrire d’indignazione o sorridere di tenerezza davanti alle espressioni di questa adolescenza che a dispetto di tutto ama la vita. Il volume si apre con l’agonia di un geco afferrato da una gatta. Un’agonia prolungata dalla pietà della protagonista, ancora bambina, che cerca di salvarlo. E’ casuale? O è forse una chiave di lettura? Certo, sapendo l’amore dell’autrice per gli animali e in particolare per gatti, resi addirittura protagonisti di alcuni suoi racconti struggenti, la domanda è pertinente, ma l’autrice non dà chiavi interpretative nello svolgersi del romanzo e quello del geco sembra soltanto un episodio che segnala la sensibilità di Tivka davanti al dolore dell’ altro. La stessa sensibilità che le farà fare una precisa scelta di campo, dapprima insieme al suo amico israeliano che si batte contro l’occupazione, poi del tutto interna alla società palestinese, reale vittima dello strapotere israeliano che nella famiglia paterna veniva esaltato come patriottismo. Il romanzo s’intreccia con circa dieci anni di eventi, segnati, quando più quando meno, dai drammi vissuti dal popolo palestinese e va a concludersi col massacro di Jenin del 2002. Anni che vedono nella vita privata di Tivka il fiorire di amicizie profonde e di inaspettati grandi amori e lo spegnersi di vite giovani e giovanissime per mano israeliana o per la disperazione di un dolore che non lascia scampo. Un romanzo doloroso e bello, fatto di storia vera, terribilmente amara, e di sentimenti delicati eppure forti come le piantine che i detenuti del carcere di Ansar 3, nel deserto, riescono incredibilmente a far crescere tra torture e privazioni imposte dai carcerieri israeliani. E come quelle piantine che sfidano il deserto e i carcerieri, riuscendo a crescere contro ogni perfida legge umana, così il romanzo si chiude con un’aspettativa di speranza nell’attesa che Jamal, il solo volto che ormai riesce a illuminare l’animo di Tivka, veda aprirsi le porte della prigione in cui è rinchiuso senz’altro motivo che quello di essere un palestinese che vuole la Palestina libera. Patrizia Cecconi – Marzo 2015 patriziacecconi2@gmail.com
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