PRESENTAZIONE DI “GABBIE”. Sabato 19 dicembre 2009. Sede AAMLRP.
E’ sempre con piacere che accolgo l’invito a presentare un lavoro di Miryam Marino, e in questo caso ancor di più per le caratteristiche di questo suo libro.
In questa sede siamo tutti amici del popolo palestinese e questo è un vero conforto e rende particolarmente piacevoli questi momenti. Sono contenta di sedere a fianco di Fabio Amato (che come responsabile esteri del PRC non si è mai dimenticato dei diritti del popolo palestinese e col quale condivido - e condividiamo sicuramente tutti - quella parte del testamento ideale del Che che ci ricorda di sentirci direttamente colpiti da ogni ingiustizia, in qualunque parte del mondo si verifichi).
Sono contenta di sedere accanto ai compagni del Forum Palestina, che svolgono un lavoro straordinario di solidarietà politica forte, affiancata “alla” solidarietà umana, come solo i compagni più autentici sanno fare.
Yousef Salman non ha certo bisogno di presentazioni trattandosi in qualche modo del padrone di casa e dello spirito animatore di ogni iniziativa della Mezza Luna Rossa nel nostro Paese.
Per chi non conoscesse Miryam, scrittrice e attivista ebrea della rete ECO, la presenterò a partire dalle sue stesse parole, parole tratte dall’introduzione di Handala.
Scrive Miryam: “..sapendo della mia militanza sia in un’associazione ebraica che in una palestinese, qualcuno mi domanda se non mi sento un po’ schizofrenica. Rispondo di no, UN ESSERE UMANO E’ COMPOSTO DA MOLTE REALTÀ....” e, ancora, “Mi chiedono spesso perché io, ebrea, mi ostini tanto ad occuparmi della Palestina: la ragione è semplice, il dolore della Palestina ricade su di me.”
Ma non solo il dolore della Palestina ricade su di lei, Miryam in “Gabbie” sa unire la parte della cultura e dell’etica ebraica che comanda: “rispetta lo straniero perché anche noi siamo stati stranieri in terra d’Egitto” col suo essere cittadina italiana, in un momento in cui la democrazia vacilla sotto il peso di leggi che troppo da vicino ricordano momenti neri e palesemente razzisti.
I versi con cui si apre il libro che presentiamo stasera, e da cui questa raccolta di racconti prende il titolo, ci mostrano l’impegno intellettuale con cui Miryam risponde al dolore dell’ingiustizia e dell’esclusione. Leggo, da Gabbie, “ ....... Gabbie/ di ferro/ gabbie di cemento./Il cielo spostato dall’incubo..... Dal mare/ si rovescia sulle coste /un’ondata di dolore (di troppe lacrime son gonfie le maree)..........Gabbie mentali/ bandiere d’odio/ l’essere svuotano da dentro....” .
Scrivere per Miryam è una necessità umana e politica oltre che un’espressione culturale, e non è MAI è un vuoto esercizio intellettuale. L’autrice è convinta che la letteratura abbia, comunque e sempre, una ricaduta nella sfera sociale, e per questo lo scrivere non può essere puro esercizio letterario.
Come nella poesia palestinese (anche la più alta) cogliamo l’eco dell’ingiustizia subita, così, nei racconti raccolti in questo libro, anche in quelli avvolti di umorismo, sentiamo la partecipazione intensa, che Miryam Marino esprime già nella sua premessa, quando scrive “E almeno potessi essere libera e non inchiodata a questo dolore. Libera...d’inventare la mia esistenza dentro la natura e la storia o in una nuvola di passaggio sopra il mare. ...ricordare che dentro di me c’è un universo, che non c’è un unico IO ma una molteplicità, un’infinità di esseri e di possibilità quante sono le stelle in cielo...” Lo stesso concetto che esprimeva nell’introduzione di Handala e che le farà ancora scrivere: “ E sono io quella donna lapidata, quell’uomo torturato, quel migrante ...che emerge dalle acque nere che hanno divorato i suoi fratelli e che fugge per i campi come un animale braccato e la polizia alle calcagna.”
Ecco perché questo volumetto (il diminutivo è riferito alla brevità e non all’intensità e allo spessore del lavoro) mi sembra particolarmente importante, perché quella molteplicità che forma l’umanità dolente viene a manifestarsi nei tanti racconti brevi che formano il libro. In esso è concentrato uno stile letterario giocato sulle contaminazioni tra il reale e il surreale, una scrittura sempre fluida, curata fino a farci sentire come uno schiaffone la fine inaspettata di Shams, affidata all’ultima riga del primo racconto, quello di una bambina inchiodata alla sua sedia a rotelle, che viaggia con la fantasia, attraverso la finestra e le parole di Shams, il cantastorie marocchino che finirà schiacciato da un’auto. O, ancora, la capacità di affidare a poche righe il dramma di Janet, la ragazza somala rapita, violentata e poi morta nel cortile di un pronto soccorso, in cui solo un allievo infermiere sembra vedere nell’immigrata una figura sofferente cui offrire almeno una sedia. In due righe l’autrice declina il paradigma del quotidiano disprezzo dei diritti umani. Leggo, da pag 73, ultimo capoverso: “...pronto soccorso? Né pronto né tardivo. Per lei non c’è mai stato soccorso.”
In alcuni racconti Miryam fa uso del periodo breve come un regista potrebbe farlo della cinepresa mobile per portarci in due sole pagine a scoprire l’ “Insolito evento” che costituisce il titolo di un altro racconto. Anche qui l’autrice mescola sapientemente reale e surreale: la notizia catturata da un soffio di vento che va a dare l’annuncio passando di casa in casa, finché una lunga, lunga fila di persone si troverà incolonnata per vedere con i propri occhi qualcosa che nella Palestina martoriata dagli occupanti sembrava non potesse più accadere: il vecchio Abu Sharif “morto di morte naturale”! E in queste due paginette l’autrice riesce a farci stare dentro al racconto, a farci vedere le case svuotate di vita dall’operato degli occupanti, mentre ci sembra di correre dietro al vento, parola per parola, nell’ansia di arrivare all’ultima riga per scoprire “l’insolito evento”.
Racconti brevi, efficaci, pennellate che compongono un quadro giocando su tante tonalità dello stesso colore. Penso, ad esempio, a Imad, lo studente di Gaza, clandestino in Cisgiordania, sì perché un palestinese di Gaza non può studiare all’università di Bir Zeit, nella sua terra, Israele lo vieta. E allora Imad vive come in una tana e ogni notte sogna di scavare, scavare... e con un’ironia amara come quella che gli ebrei nei campi di sterminio hanno affidato alle loro tremende barzellette, con la stessa amara ironia il racconto si conclude strappando un sorriso tra la pena e la rabbia.
Ecco, anche qui l’autrice sembra trarre dalle sue radici culturali di ebrea, l’energia intellettuale per denunciare il dramma della Palestina occupata e umiliata, col sostegno più o meno diretto dei governi di quella parte di mondo che si definisce “democratico”.
Insomma, ognuno dei 13 racconti che compongono il libro, porta con leggerezza di stile il pesante carico di drammatici contenuti. Dall’Italia alla Palestina all’Irak una denuncia e una richiesta non detta, ma espressa in ogni rigo, la richiesta che Miryam, senza penalizzare l’aspetto letterario, manda ai suoi lettori e alle sue lettrici: quella di sentire sulla propria pelle l’ingiustizia e il tormento dei potenti sui deboli, degli occupanti sugli occupati, degli sfruttatori sugli sfruttati.
Credo che questo libro, per le sue caratteristiche di stile e di contenuto, potrebbe essere adottato nelle scuole e diventare addirittura la base per un laboratorio di scrittura di pace, alias di scrittura di civiltà.
Concludo la mia presentazione con un’ultima breve lettura tratta dall’ultimo racconto: “Sette lettere dall’aldilà”. Quella che ho scelto viene da Falluja ed è indirizzata in modo particolare proprio a noi, a molti di noi “sensibili, ma...”.
Vado a leggere: “Questa lettera la scrivo per te, amico sconosciuto e lontano, affinché tu possa ricordare il fuoco. Non il fuoco buono che riscalda e illumina. (ma) Il fuoco che continua a bruciare...senza misericordia. .............. Per te, amica sconosciuta e lontana, che scendesti in piazza pensando a noi e mettesti una bandiera alla finestra, prima che la marea assassina ci trascinasse ad atroce morte, scrivo al mondo dei vivi. .............Il fuoco non si spegneva ....continuò a bruciare .....lentamente, implacabilmente, la coperta e poi la loro pelle, i muscoli, i nervi fino a che arrivò alle ossa........... i miei piccoli gridarono e arsero ........... Accadde questo e accadde innumerevoli volte, amico che alzasti in piazza la bandiera iridata, ma poi fosti troppo occupato con i politici di casa tua, per ricordarti di noi.”
Ecco, l’urlo che viene da Falluja, ed è lo stesso che viene da Gaza, c’interroga nel nostro essere “p o l i t i c a m e n t e umani”, e non solo “emotivamente umani”.
Quest’urlo lo facciamo nostro e lo passiamo ai nostri politici, ai “nostri” perché sappiamo che gli altri non hanno timpani per udirlo. E con questo passo la parola all’autrice.
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