Guerra della casa a Gerusalemme
di Ugo Tramballi
GERUSALEMME. Dal nostro inviato
È l'ora di andare a pregare al Muro del Pianto. I coloni di Ateret Cohanim salgono sui tetti delle loro case blindate e con la Torah in mano percorrono il camminamento a passo svelto. Si e no 400 metri protetti dalla presenza della polizia, fino alla Spianata e al sicuro quartiere ebraico. È come se il camminamento permettesse loro di volare all'altezza di minareti e campanili; al di sopra delle case, dei vicoli della città vecchia e soprattutto degli arabi in mezzo ai quali hanno deciso di vivere per affermare l'esclusività ebraica di Gerusalemme.
Inconsapevolmente riproducono il sogno yiddish del Luftmenshen, l'ebreo volante che viveva in aria e di aria per sfuggire all'incubo del ghetto. In realtà i rabbini e gli studenti che assieme alle mogli con i capelli nascosti, e ai figli che vestono già da rabbini adulti come i padri, sono le truppe scelte di una guerra. Sono più di mille e vivono in 70 edifici-insediamenti nel quartiere cristiano e in quello musulmano.
La grande battaglia per Gerusalemme a volte si combatte con pietre e gas lacrimogeni; a volte ci si uccide; ma le sue armi sono soprattutto carta bollata, ordini di sfratto, piani regolatori, leggi ottomane, perfino l'archeologia. E denaro, tanto denaro. Gli oltre 10 milioni di euro che lo stato d'Israele spende ogni anno per difendere gli avamposti ebraici solo nella Gerusalemme est araba, sono noccioline. La battaglia è incominciata anni prima che Barack Obama diventasse presidente, prosegue incurante delle minacce americane e continuerà anche dopo. «Per intensificare l'insediamento ebraico a Gerusalemme est non c'è momento migliore di questo, con Netanyahu primo ministro, Nir Barkat sindaco e un consiglio comunale che ne comprende l'importanza. Dobbiamo mettere paletti ovunque affinché Obama non sia più capace di rimuoverli». Elisha Peleg, colona lei stessa, consigliere comunale di Gerusalemme per il Likud e soprattutto uno dei generali della battaglia, diceva queste cose al giornale Ma'ariv già il 27 luglio dell'anno scorso.
«Interrompere» la continuità territoriale palestinese, «creare fatti sul campo per prevenire la spartizione della città» sono le parole d'ordine. In città vivono più di 700mila persone, a parte i villaggi palestinesi e le colonie ebraiche ormai parte della cintura metropolitana di Gerusalemme. Gli arabi sono un terzo. Elisha Peleg è il braccio politico che verifica tutte le decisioni del comune e del comitato distrettuale di Gerusalemme per la Pianificazione e la costruzione. Matti Dan Hacohen di Ateret Cohanim e David Beeri di Elad, sono i segugi che tengono sotto controllo i vicoli dei quartieri arabi della città vecchia e quelli della Gerusalemme est fuori dalle mura del "sacro bacino": Jabel Mukaber, Silwan, Abu Dis, a-Tur, il Monte degli Ulivi, Sheikh Jarrah, cioè la città orientale araba, formano un anfiteatro di colline e di case attorno alla Gerusalemme murata e ai suoi luoghi santi. Appena vengono a sapere che un arabo vuole vendere casa, che c'è una petizione o uno sfratto imminente, David Beeri e Matti Dan intervengono con l'ordine da eseguire quando c'è o con somme di denaro alle quali è difficile resistere. Ci pensa Elisha Peleg, in contatto con il comune e con Oran Ben Ezra, genero del miliardario ultra nazionalista Irving Moskowitz, che dal suo studio a Miami Beach controlla da lontano la battaglia e interviene con le donazioni.
Anche gli arabi hanno incominciato a organizzarsi. Munib al-Masri di Nablus, il più importante imprenditore privato palestinese, ha messo in piedi un'organizzazione no profit, uguale alle ebraiche Ateret Cohanim e Elad per comprare le case arabe in vendita e cederle ai palestinesi con mutui a tasso zero. Con l'aiuto vaticano anche il patriarcato latino sta cercando di acquisire tutti i terreni del quartiere cristiano sui quali avevano messo gli occhi gli ebrei. Le bandiere israeliane di un insediamento di Ateret Cohanim già sventolano all'ombra del Santo Sepolcro. Recentemente anche il governo turco è sceso in campo negando alle organizzazioni ebraiche no profit l'accesso agli archivi dell'impero ottomano che ha governato la Palestina fino al 1918. Il successivo mandato britannico durato fino al 1947 non ha mai modificato i regolamenti turchi.
Ma la legge israeliana è quasi sempre dalla parte degli israeliani. Le vecchie registrazioni delle proprietà terriere e degli immobili sono il punto di partenza dell'ebraicizzazione di Gerusalemme. Se risulta che una casa occupata dai palestinesi prima del 1948 apparteneva agli ebrei, si sfrattano gli occupanti o si rade al suolo l'edificio. Brutale ma è l'applicazione di una legge. Il problema è che la stessa legge non vale al contrario: nessuno palestinese ha mai avuto indietro una delle case di Baka, Talpiot e degli altri quartieri un tempo arabi della Gerusalemme occidentale ebraica, lasciate dai palestinesi nel 1948. In questo caso prevale la legge israeliana dell'"assenza": l'arabo che si allontana per un periodo determinato perde il diritto di cittadinanza e dunque di proprietà. È per un certificato di acquisto trovato nell'archivio ottomano che a novembre la famiglia al-Kurd è stata sfrattata dalla casa di Sheikh Jarrah dove viveva dal 1948. Il messo comunale e i coloni israeliani sono arrivati insieme quattro giorni dopo che Hillary Clinton aveva reso onore alla decisione di Netanyahu di "contenere" gli insediamenti. «La mia famiglia viene da Haifa», dice Maysaa, una delle donne degli al-Kurd. «Posso andare laggiù dalla gente che abita al posto nostro a dire che quella casa è mia e ho ancora le chiavi in tasca?».
1 commento:
Perché mai i palestinesi dovrebbero avere una capitale a Gerusalemme, o vantare diritti sulla capitale di Israele?
Gerusalemme (Est e Ovest) non è mai stata assegnata ai Palestinesi dall'Onu, ha una maggioranza ebraica documentata dai censimenti almeno da centocinquant'anni, e naturalmente una presenza ebraica altrettanto documentata che risale a un millennio e mezzo prima che nascesse due o tremila chilometri più a Est un tizio che oggi conosciamo come Maometto.
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