*Disintossicarsi dall’ interventismo *
Se si dovessero trasformare in un azione concreta i discorsi di un intervento in Libia, questa sarebbe illegale, immorale e ipocrita.
di Richard Falk
Ciò che a prima vista sorprende nella richiesta bi-partisan fatta a Washington di una no-fly zone e di attacchi aerei designati ad aiutare le forze ribelli in Libia, è l’assenza di qualsiasi preoccupazione per l’importanza della legge internazionale o dell’autorità delle Nazioni Unite.
Nessuno che abbia una qualche autorità si prende la pena di elaborare qualche tipo di razionalizzazione legale. I “realisti” al potere le cui parole riecheggiano dai media tradizionali, non sentono alcun bisogno di fornire neanche una foglia di fico legale prima di imbarcarsi in una guerra di aggressione.
Dovrebbe essere ovvio che una no-fly zone nello spazio aereo libico è un atto di guerra, come lo sarebbero, naturalmente attacchi aerei sulle fortificazioni delle forze di Gheddafi già presi in considerazione.
L’obbligo legale fondamentale della carta delle Nazioni Unite richiede che gli stati membri si astengano dall’uso della forza di qualsiasi tipo, a meno che non venga giustificato come auto-difesa dopo un attacco armato al di là del confine oppure avendo un mandato avuto su deliberazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Nessuna di queste due condizioni che autorizzano l’uso legale della forza è neanche lontanamente presente, e tuttavia la discussione sui media e nei circoli politici di Washington va avanti come se gli unici problemi degni di discussione fossero quelli riguardanti la fattibilità, i costi, i rischi, e possibili conseguenze nel mondo arabo.
La mentalità imperiale non è incline a discutere la questione della legalità, e non dimostra neanche un comportamento rispettoso dei vincoli insiti nella legge internazionale.
Casi difficili
Non si potrebbe sostenere che in situazioni di emergenza umanitaria esiste uno “stato di eccezionalità che permette a una coalizione di volenterosi di effettuare un intervento che però non peggiori la situazione? Non è stato questo la spiegazione morale e politica per la guerra della NATO in Kosovo nel 1999 che probabilmente risparmiò alla maggior parte della popolazione albanese che viveva in quel paese un sanguinoso episodio di pulizia etnica per mano degli occupanti serbi assediati?
Come è noto, i casi difficili possono avere brutti precedenti. Perfino i brutti precedenti, però, devono trovare una giustificazione nelle circostanze di una nuova situazione dichiarata di eccezionalità dichiarata o altrimenti ci sarebbe un forte incentivo per l’opinione pubblica pensare che i potenti agiscono come vogliono senza neanche fermarsi a fare una discussione onesta s u come allontanarsi dal normale regime legale di moderazione.
Per quanto riguarda la Libia, dobbiamo tener conto del fatto che il governo di Gheddafi, per quanto ripugnante dal punto di vista dei diritti umani, rimane il rappresentante diplomatico legale di uno stato sovrano, e qualsiasi uso della forza da parte di altri paesi e perfino dall’ONU, ancora meno da parte di un solo stato o da gruppi di stati, costruirebbe in intervento illegale negli affari interni di uno stato sovrano, il che è proibito dall’’Articolo 2 (7) della Carta dell’ONU a meno che non sia stato espressamente autorizzato dal Consiglio di sicurezza come essenziale per il bene della pace e della sicurezza internazionale.
Oltre a ciò, non c’è nessuna assicurazione che una volta intrapreso, l’intervento diminuirebbe le sofferenze del popolo libico o porterebbe al potere un regime più rispettoso dei diritti umani e votato alla partecipazione democratica.
L’archivio degli interventi militari degli ultimi decenni è una lista quasi ininterrotta di fallimenti se si prendono in dovuto conto sia i costi umani che i risultati politici.
Questa esperienza di interventi nel mondo islamico durante gli ultimi 50 anni rende impossibile sostenere il peso della persuasione che sarebbe necessaria per giustificare un intervento contro il regime in Libia in modo eticamente e legalmente persuasivo.
Un problema di credibilità
Ci sono anche preoccupazioni per la credibilità. Come si è ampiamente osservato nelle recenti settimane, gli Stati Uniti da decenni non hanno avuto alcun ripensamento per quanto riguarda l’appoggio ai regimi oppressivi in quelle zone, e c’è molto risentimento nei loro confronti da parte dai vari movimenti anti-regime per questo loro ruolo.
I crimini di Gheddafi contro l’umanità non sono mai stati un segreto e sono certo largamente noti dei servizi segreti di Europa e Stati Uniti. Anche gli intellettuali liberali di grande rilievo, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti hanno accolto volentieri molti inviti a Tripoli in negli scorsi anni, apparentemente senza un barlume di coscienza, hanno accettato compensi per consulenze e hanno scritto senza vergognarsene valutazioni positive che lodavano l’autoritarismo libico che si stava diventando meno rigido.
Forse Joseph Nye, uno dei più importanti tra questi visitatori di buona volontà che sono andati di recente a Tripoli, chiamerebbe questo atteggiamento un uso privato di “potere intraprendente” e loderebbe Gheddafi per aver rinunciato al suo atteggiamento anti-occidentale, per aver fatto affari con il petrolio e le armi, e soprattutto per aver abbandonato quello che alcuni ora dicono fosse un programma fantasma di armi nucleari.
I sapientoni della Beltway (la tangenziale di Washington) insistono durante i talk show che gli “interventisti” dopo aver vacillato quelle zone, vogliono scegliere il lato giusto della storia prima che sia troppo tardi. Ma quello che sembra il lato giusto della storia in Libia appare molto diverso da quello che è considerato giusto in Bahrain o in Giordania e anche in tutto il resto del Medio Oriente. La storia sembra scorrere seguendo le correnti dei fiumi, proprio come fa il petrolio!
Altrove, lo sforzo è inteso a ripristinare la stabilità con minime concessioni alle richieste riformiste, sperando di riuscire ad allontanarsi con un ritocco politico destinato a trasformare gli insorti di ieri nei burocrati di domani.
Mahmoud Mamdani ci ha insegnato a distinguere i “musulmani buoni” dai “musulmani cattivi”, ora ci si insegna a fare distinzione tra “despoti buoni” e “despoti cattivi”.
Secondo questa definizione, soltanto gli elementi favorevoli al regime in Libia e in Iran si qualificano come despoti cattivi, e le loro strutture devono essere almeno scosse se non si possono sfasciare.
Che cosa distingue questi regimi? Non sembra che quello che li distingue sia il loro grado di oppressività più diffuso e grave rispetto a quello osservato in altri casi.. Altre considerazioni danno un’idea più chiara: l’accesso al petrolio e fissarne i prezzi, le vendite di armi, la sicurezza di Israele, il rapporto con l’economia neoliberale mondiale.
Ciò che trovo più inquietante, è che malgrado i fallimenti della teoria e della pratica della controinsurrezione, i guru della politica estera americana continuano a prendere in considerazione l’intervento nelle società post-coloniali senza farsi scrupoli o senza far mostra della minima sensibilità per l’esperienza storica, e senza neanche riconoscere che la resistenza nazionale nel mondo post-coloniale ha neutralizzato costantemente i vantaggi della forza materiale superiore dispiegati dalla potenza che interviene.
Si è soltanto udita un’espressione di preoccupazione sussurrata dal segretario alla difesa Robert Gates, che è relativamente circospetto: “potrebbe non essere prudente in questo momento che gli Stati Uniti intervengano in un’altra nazione islamica.”
Il passato ignorato
E’ sorprende quanto sia ignorata la lezione del Vietnam, dell’Afghanistan, dell’Iraq, sottolineata dalla glorificazione del generale Petraeus che è diventato una celebrità militare dopo che gli si è riconosciuto di aver trovato un nuovo approccio dell’esercito alla controinsurrezione, che, nel gergo del Pentagono significa intervento a favore del regime.
Altre situazioni importanti attuali che illustrino quanto detto sono l’Afghanistan, l’Iraq, e molti altri luoghi in Medio Oriente. Parlando da un punto di vista tecnico, il proposto intervento in Libia non è un esempio di controinsurrezione, ma è piuttosto un intervento a favore dell’ insurrezione, come lo sono stati anche gli sforzi segreti di destabilizzazione In Iran che continuano ancora.
E’ più facile comprendere la resistenza professionale ad imparare la lezione dei fallimenti passati da parte dei comandanti militari, fa parte della loro vita quotidiana, ma i civili che fanno politica non meritano neanche la minima comprensione.
Tra i più ardenti sostenitori dell’intervento in Libia ci sono: l’ultimo candidato repubblicano alla presidenza, John McCain, Joe Liebermann, apparentemente indipendente, e il democratico e pro-Obama John Kerry.
Sembra che a molti dei repubblicani che si siano concentrati sul deficit sebbene i tagli alla spesa pubblica puniscano i poveri in un periodo di disoccupazione diffusa e di sfratti dalle case, non importerebbe pagare innumerevoli miliardi per finanziare azioni militari in Libia.
Esiste una preoccupante prontezza a buttare soldi e armi per un conflitto oltremare, apparentemente per dimostrare che le geopolitica imperiale non è ancora morta malgrado le prove sempre più numerose del declino americano.
Infine, suppongo che dobbiamo sperare che quelle voci imperiali più caute che basano la loro opposizione all’intervento sulle preoccupazioni per la sua fattibilità, vincano la loro battaglia!
Ciò che qui voglio soprattutto denigrare nel dibattito sulla Libia sono i tre tipi di fallimento delle politiche.
° Il non considerare la legge internazionale e l’ONU argomenti pertinenti nei dibattiti nazionali sugli usi internazionali della forza;
° La mancanza di rispetto per le dinamiche di auto-determinazione nelle società del sud del mondo;
° Il rifiuto di prestare attenzione all’etica e alla politica appropriate a un ordine mondiale post-coloniale che si sta de-occidentalizzando e che sta diventando sempre più multi-polare.
Richard Falk è Professor Emeritus di Legge Internazionale alla cattedra intitolata ad Albert G. Milbank all’Università di Princeton, e Visiting Distinguished Professor di Studi Globali e Internazionali all’Università della California, a Santa Barbara. Ha scritto e curato numerose pubblicazioni nell’arco di 50 anni. Il più recente volume da lui curato è : International Law and the Third World:Reshaping Justice (Routledge, 2008). (La legge internazionale e il terzo mondo: ridisegnare la giustizia. N.d:T.)
Attualmente sta svolgendo il terzo anno di in periodo di sei anni come Relatore Speciale dell’ONU per i diritti umani dei Palestinesi.
* to kick the habit: termine del gergo usato chi assume droghe; sta per disintossicarsi
giovedì 31 marzo 2011
martedì 29 marzo 2011
Il forum dei diritti economici e sociali in Tunisia
Tunisi, 25 marzo 2011
Abbiamo saputo che due ministri italiani, il ministro degli esteri Frattini e quello dell'interno Maroni, intendono fare una visita a Tunisi. L'obiettivo di questa visita è fare pressioni sul governo provvisorio tunisino affinché, da una parte, sia efficiente e rigoroso nel fermare le partenze di persone che vogliono emigrare verso i paesi dell'Unione europea e, dall'altra, accetti il rientro di massa degli immigrati clandestini tunisini o di altre nazionalità che al momento si trovano a Lampedusa.
Sappiamo che la Tunisia sta vivendo un momento difficile della sua storia e si sta avviando verso un regime democratico, affrontando molte difficoltà per farla finita con un sistema dittatoriale e corrotto. In più, malgrado le difficoltà del nostro paese, la Tunisia ha accolto a partire del 20 febbraio 2011 oltre 160.000 persone provenienti dalla Libia attraverso la frontiera di Ras Ejdir. La Tunisia ha affrontato questa emergenza, basandosi sui propri mezzi e attraverso una campagna di solidarietà attivata soprattutto dai cittadini tunisini senza nessuna lamentela e senza chiedere alcun aiuto alla comunità internazionale, ai cittadini, agli Stati o agli organismi internazionali.
Per tutto quello che è stato fin qui detto, il Forum dei diritti economici e sociali della Tunisia si rivolge al governo tunisino con le seguenti richieste :
1.
La Tunisia deve essere ferma e decisa nel rifiutare la richiesta delle autorità italiane riguardo al rimpatrio di massa e obbligatorio degli immigrati.
2.
La Tunisia deve interrompere l'attuazione degli accordi sulle questioni migratorie, accordi stipulati con l'ex regime dittatoriale che non prendevano in considerazione i diritti dei cittadini tunisini.
Inoltre il Forum sociale tunisino chiede al governo italiano quanto segue:
1.
Di prendere in considerazione la delicata situazione nella quale si trova attualmente la Tunisia dopo la rivoluzione, di prendersi le proprie responsabilità verso un paese partner della comunità europea e di attivare le conseguenti forme di protezione provvisoria per i cittadini tunisini espatriati.
2.
Di trasferire immediatamente gli immigrati che si trovano attualmente a Lampedusa verso altri località e posti più sicuri, dove si possano offrire loro condizioni di vita che rispettino la dignità umana, e di proteggerli secondo quanto stabilito dalle leggi internazionali.
3.
Di combattere le manifestazioni a carattere razzista contro gli immigrati, nei confronti delle quali esprimiamo il nostro sdegno e rifiuto.
4.
Di offrire tutte le agevolazioni necessarie ai componenti della società civile tunisina affinché possano dare il loro contributo per occuparsi degli immigrati nei posti in cui si trovano.
Infine, il Forum chiede a tutta la comunità europea di prendere atto delle proprie responsabilità nei confronti della Tunisia, un paese partner dell'Europa che sta vivendo un periodo difficile e che, nonostante questo, si sta facendo carico, con i suoi pochi mezzi, di un'altra emergenza migratoria che proviene dalla Libia.
Per il Forum dei diritti sociali e economici, il Presidente
Abd el Gialil el Bedui
Abbiamo saputo che due ministri italiani, il ministro degli esteri Frattini e quello dell'interno Maroni, intendono fare una visita a Tunisi. L'obiettivo di questa visita è fare pressioni sul governo provvisorio tunisino affinché, da una parte, sia efficiente e rigoroso nel fermare le partenze di persone che vogliono emigrare verso i paesi dell'Unione europea e, dall'altra, accetti il rientro di massa degli immigrati clandestini tunisini o di altre nazionalità che al momento si trovano a Lampedusa.
Sappiamo che la Tunisia sta vivendo un momento difficile della sua storia e si sta avviando verso un regime democratico, affrontando molte difficoltà per farla finita con un sistema dittatoriale e corrotto. In più, malgrado le difficoltà del nostro paese, la Tunisia ha accolto a partire del 20 febbraio 2011 oltre 160.000 persone provenienti dalla Libia attraverso la frontiera di Ras Ejdir. La Tunisia ha affrontato questa emergenza, basandosi sui propri mezzi e attraverso una campagna di solidarietà attivata soprattutto dai cittadini tunisini senza nessuna lamentela e senza chiedere alcun aiuto alla comunità internazionale, ai cittadini, agli Stati o agli organismi internazionali.
Per tutto quello che è stato fin qui detto, il Forum dei diritti economici e sociali della Tunisia si rivolge al governo tunisino con le seguenti richieste :
1.
La Tunisia deve essere ferma e decisa nel rifiutare la richiesta delle autorità italiane riguardo al rimpatrio di massa e obbligatorio degli immigrati.
2.
La Tunisia deve interrompere l'attuazione degli accordi sulle questioni migratorie, accordi stipulati con l'ex regime dittatoriale che non prendevano in considerazione i diritti dei cittadini tunisini.
Inoltre il Forum sociale tunisino chiede al governo italiano quanto segue:
1.
Di prendere in considerazione la delicata situazione nella quale si trova attualmente la Tunisia dopo la rivoluzione, di prendersi le proprie responsabilità verso un paese partner della comunità europea e di attivare le conseguenti forme di protezione provvisoria per i cittadini tunisini espatriati.
2.
Di trasferire immediatamente gli immigrati che si trovano attualmente a Lampedusa verso altri località e posti più sicuri, dove si possano offrire loro condizioni di vita che rispettino la dignità umana, e di proteggerli secondo quanto stabilito dalle leggi internazionali.
3.
Di combattere le manifestazioni a carattere razzista contro gli immigrati, nei confronti delle quali esprimiamo il nostro sdegno e rifiuto.
4.
Di offrire tutte le agevolazioni necessarie ai componenti della società civile tunisina affinché possano dare il loro contributo per occuparsi degli immigrati nei posti in cui si trovano.
Infine, il Forum chiede a tutta la comunità europea di prendere atto delle proprie responsabilità nei confronti della Tunisia, un paese partner dell'Europa che sta vivendo un periodo difficile e che, nonostante questo, si sta facendo carico, con i suoi pochi mezzi, di un'altra emergenza migratoria che proviene dalla Libia.
Per il Forum dei diritti sociali e economici, il Presidente
Abd el Gialil el Bedui
Israele:leggi razziste
GUSH SHALOM: E’ ALLARME LEGGI RAZZISTE
L’organizzazione ebraica denuncia le leggi approvate dalla Knesset che colpiscono la minoranza palestinese in Israele
Roma, 28 marzo 2011, Nena News – Pubblichiamo il comunicato diffuso da Gush Shalom, una storica organizzazione pacifista israeliana, riguardo le leggi approvate nei giorni scorsi dalla Knesset (Parlamento) che colpiscono duramente la minoranza palestinese (arabo-israeliana).
La tirannica maggioranza della destra nella Knesset ha lavorato duro fino a notte fonda per macchiare le nostre leggi di vile razzismo.
Questo e’ un giorno (il 23 marzo, ndr) di infamia nella storia della nostra legislatura, un passo in avanti nel processo di rendere il nostro paese oscuro e razzista. Proprio oggi i nostri tribunali hanno rivelato la forza della democrazia e mostrato come nemmeno un ex presidente della repubblica sia al di sopra della legge, condannando Moshe Katzav a sette anni di carcere per violenza carnale. Tuttavia nello stesso giorno la Knesset ha promulgato leggi che violano i principi basilari della uguaglianza e della democrazia su cui lo Stato di Israele dovrebbe fondarsi.
La Admissions Committees Law (Legge sui Comitati di Ammissione) mira a creare “comunita’ esclusivamente ebraiche” da cui gli arabi dovrebbero essere esclusi con la scusa che “non sono in grado di inserirsi nel tessuto sociale della comunita’”. Andrebbe ricordato che queste non sono soltanto semplici “comunita’”, bensi’ entita’ giuridiche a cui vengono affidate terre statali. La nuova legge quindi fornisce una ratifica legale alla esclusione degli arabi da terre che dovrebbero essere di proprieta’ comune dell’intera popolazione. Cinquant’anni dopo che Martin Luther King ha messo fine alla segregazione razziale in America, questa legge conduce Israele nella direzione opposta, in diretta continuazione della legge razzista sulla Lealta’ allo Stato Ebraico (“Loyalty Laws’) del ministro Lieberman.
Riguardo alla Legge sulla Nakba (che taglia i fondi statali alle organizzazioni che rifiutano il carattere ebraico dello Stato di Israele), il suo unico scopo e’ di limitare la liberta’ di espressione. Simile alla legge (ancora in discussione) che vorrebbe criminalizzare i movimenti di boicottaggio di istituzioni israeliane, in pratica mira a ridurre al silenzio l’opposizione al regime di destra attraverso penalizzazioni economiche. Questa legge non impedisce ai cittadini arabi di Israele di ricordarsi che la creazione dello Stato di Israele ha provocato una grave ingiustizia al loro popolo. Ne’ impedira’ ai cittadini ebrei critici del loro governo di esplorare e mettere in luce gli angoli oscuri del passato del loro Paese. Avra’ invece l’effetto di rendere l’espressione di una opinione critica un’offesa punibile con una pesante multa pecuniaria, oltre a pregiudicare ulteriormente la posizione di Israele nell’arena internazionale.
http://zope.gush-shalom.org/home/en/channels/press_releases/1301121533/ 23-3-2011
L’organizzazione ebraica denuncia le leggi approvate dalla Knesset che colpiscono la minoranza palestinese in Israele
Roma, 28 marzo 2011, Nena News – Pubblichiamo il comunicato diffuso da Gush Shalom, una storica organizzazione pacifista israeliana, riguardo le leggi approvate nei giorni scorsi dalla Knesset (Parlamento) che colpiscono duramente la minoranza palestinese (arabo-israeliana).
La tirannica maggioranza della destra nella Knesset ha lavorato duro fino a notte fonda per macchiare le nostre leggi di vile razzismo.
Questo e’ un giorno (il 23 marzo, ndr) di infamia nella storia della nostra legislatura, un passo in avanti nel processo di rendere il nostro paese oscuro e razzista. Proprio oggi i nostri tribunali hanno rivelato la forza della democrazia e mostrato come nemmeno un ex presidente della repubblica sia al di sopra della legge, condannando Moshe Katzav a sette anni di carcere per violenza carnale. Tuttavia nello stesso giorno la Knesset ha promulgato leggi che violano i principi basilari della uguaglianza e della democrazia su cui lo Stato di Israele dovrebbe fondarsi.
La Admissions Committees Law (Legge sui Comitati di Ammissione) mira a creare “comunita’ esclusivamente ebraiche” da cui gli arabi dovrebbero essere esclusi con la scusa che “non sono in grado di inserirsi nel tessuto sociale della comunita’”. Andrebbe ricordato che queste non sono soltanto semplici “comunita’”, bensi’ entita’ giuridiche a cui vengono affidate terre statali. La nuova legge quindi fornisce una ratifica legale alla esclusione degli arabi da terre che dovrebbero essere di proprieta’ comune dell’intera popolazione. Cinquant’anni dopo che Martin Luther King ha messo fine alla segregazione razziale in America, questa legge conduce Israele nella direzione opposta, in diretta continuazione della legge razzista sulla Lealta’ allo Stato Ebraico (“Loyalty Laws’) del ministro Lieberman.
Riguardo alla Legge sulla Nakba (che taglia i fondi statali alle organizzazioni che rifiutano il carattere ebraico dello Stato di Israele), il suo unico scopo e’ di limitare la liberta’ di espressione. Simile alla legge (ancora in discussione) che vorrebbe criminalizzare i movimenti di boicottaggio di istituzioni israeliane, in pratica mira a ridurre al silenzio l’opposizione al regime di destra attraverso penalizzazioni economiche. Questa legge non impedisce ai cittadini arabi di Israele di ricordarsi che la creazione dello Stato di Israele ha provocato una grave ingiustizia al loro popolo. Ne’ impedira’ ai cittadini ebrei critici del loro governo di esplorare e mettere in luce gli angoli oscuri del passato del loro Paese. Avra’ invece l’effetto di rendere l’espressione di una opinione critica un’offesa punibile con una pesante multa pecuniaria, oltre a pregiudicare ulteriormente la posizione di Israele nell’arena internazionale.
http://zope.gush-shalom.org/home/en/channels/press_releases/1301121533/ 23-3-2011
lunedì 28 marzo 2011
BDS in Israele
Boicottare Israele ... dall'interno
Israeliani spiegano perché hanno aderito al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni
È stato l'Egitto a farmi cominciare a pensare al movimento Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni (BDS) in modo serio. Stavo già conducendo un boicottaggio mirato sotto tono dei prodotti provenienti dagli insediamenti – leggendo in silenzio le etichette al supermercato per essere sicuro di non comprare nulla che proveniva da oltre la linea verde.
L'avevo fatto da tempo. Ma, a un certo punto, ho capito che il mio personale boicottaggio mirato era un po' ingenuo. E ho capito che non bastava.
Non sono solo gli insediamenti e l'occupazione, le due facce della stessa medaglia, che rappresentano un grave ostacolo alla pace e violano i diritti umani dei palestinesi. È anche tutto ciò che li sostiene - il governo e le sue istituzioni. È la bolla dentro la quale molti israeliani vivono, l'illusione della normalità. È l'idea che lo status quo è sostenibile.
E gli insediamenti sono un diversivo, un bersaglio conveniente per la rabbia. Gli israeliani devono anche affrontare una delle maggiori ingiustizie che ha avuto come risultato la creazione del loro stato - la Nakba, l'espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi.
Anche se la campagna BDS affronta ciò, oltre ad altre questioni - i tre principi del movimento sono il rispetto per il diritto di ritorno dei palestinesi, come indicato nella risoluzione ONU 194, la fine dell'occupazione e la parità di diritti per i cittadini palestinesi di Israele - sono rimasta riluttante a farmi coinvolgere.
Devo ammettere che il movimento mi spaventava. Non pensavo che sarebbe stato di aiuto. Ero sicura che avrebbe solo spinto Israele ad impuntarsi ancora più forte. Farà peggiorare le cose per tutti, ho pensato.
L'Egitto era il punto di svolta per me. Sono stata euforica a vedere le immagini di persone scendere in piazza per chiedere un cambiamento. E mentre i Palestine Papers dimostrano che il governo israeliano sembra intenzionato a mantenere lo status quo, conosco tanti israeliani che sono stufi di questo.
Ci sono madri che non vogliono mandare i loro figli nell'esercito; soldati che risentono di dover proteggere i coloni. Recentemente ho parlato con un uomo di 44 anni – una persona normale, un padre di due figli - che mi ha detto che è così frustrato con il governo e così preoccupato per il futuro che vuole bruciare qualcosa.
E l'Egitto è sulle labbra di molti israeliani in questo momento. Allora, che cosa si può fare per contribuire a portarlo dalle labbra ai piedi degli israeliani? Cosa si può fare per spingere gli israeliani a lottare per il cambiamento, lottare per la pace, per liberarsi da un conflitto che mina la loro auto- determinazione, la loro libertà?
Il BDS ha incassato una serie di successi, e questo è uno dei motivi per il quale il Knesset israeliano sta cercando di far passare una legge, nota come "legge Boicottaggio", che potrebbe effettivamente criminalizzare gli israeliani che si uniscono al movimento, sottoponendoli a pesanti multe.
E alcuni di coloro che sono impegnati nella campagna BDS sono già sottoposti ad una immensa pressione da parte dello Stato.
'La maschera della democrazia di Israele'
Leehee Rothschild, 26 anni, è una delle decine di israeliani che hanno risposto all'appello palestinese del 2005 per il BDS. Recentemente il suo appartamento di Tel Aviv è stato perquisito. La polizia lo faceva con il pretesto della ricerca di droghe, ma è stata portata alla stazione di polizia per un breve interrogatorio che è stato concentrato interamente sulla politica.
"La persona che è venuta a liberarmi [dall'interrogatorio] è stato un ufficiale dei servizi segreti che ha detto che è incaricato a monitorare l'attività politica dell'area di Tel Aviv ", ha detto Rothschild. A chiedere il mandato di perquisizione è stato questo ufficiale.
A seguito dell'Operazione Piombo Fuso, attivisti israeliani hanno riferito di pressioni sempre maggiori da parte della polizia così come i General Security Services - conosciuti con il loro acronimo ebraico, Shabak.
Il mandato di quest'ultimo include, tra le altre cose, l'obiettivo di mantenere Israele come Stato ebraico, pertanto coloro che auspicano la democrazia diventano degli obiettivi.
Le perquisizioni, come quella subita da Rothschild, non sono rare, né sono le telefonate da parte di Shabak.
"Ovviamente [la pressione] non è niente in confronto a quello che i palestinesi devono affrontare", ha detto Rothschild. "Ma penso che stiamo toccando un nervo scoperto".
Alla domanda sulla proposta di legge sul boicottaggio, Rothschild, commenta: "Se la legge viene approvata, si strapperà, un po' di più, la maschera della democrazia di Israele".
Amore duro
Per quanto riguarda il suo coinvolgimento nella campagna BDS, Rothschild commenta che non era a conoscenza del movimento fino a quando non è diventato un argomento serio di discussione all'interno della sinistra radicale israeliana, in cui era già attiva, e anche dopo aver sentito parlare del BDS, non ha aderito alla campagna subito.
"Ho avuto delle riserve in merito [al BDS]," Rothschild ricorda. "Ci ho pensato per molto tempo e ne ho discusso con me stessa e i miei amici.
"La riserva principale che avevo era che gli apetti economici avrebbero danneggiato per prima i più deboli della società - la gente povera – coloro che hanno il minimo effetto su quello che sta succedendo. Ma ora penso che l'occupazione sta danneggiando queste persone molto più di quanto il boicottaggio".
Rothschild rileva che i fondi statali che vengono versati in "sicurezza e difesa e nell'oppressione del popolo palestinese" potrebbero essere meglio utilizzati in Israele per aiutare gli strati socioeconomici più deboli.
"Un'altra riserva che avevo era che si potrebbe rendere l'opinione pubblica israeliana più estremista, più fondamentalista", aggiunge Rothschild. "Ma devo dire che per diventare più estremista la strada non è ora molto lunga".
Come israeliana, Rothschild, ritiene che aderire al movimento BDS sia un atto premuroso. È un atto di amore duro per il paese in cui è nata e cresciuta.
"Spero che, per alcune persone, sarà uno schiaffo in faccia e loro si sveglieranno e vedranno cosa sta succedendo ", Rothschild, dice, aggiungendo che gli oppressori sono pure oppressi.
"Il popolo israeliano è oppresso dall'occupazione - vivono all'interno di un società che è militarizzata, violenta e razzista".
'Rinnegare i miei privilegi'
Ronnie Barkan, 34 anni, spiega che ha fatto il primo passo verso il boicottaggio 15 anni fa, quando ha rifiutato di completare il servizio militare obbligatorio.
"Ci sono tante pressioni sociali [in Israele]", Barkan dice. "Siamo cresciuti sin dalla scuola materna per essere soldati. Ci insegnano che è nostro dovere [servire nell'esercito] e se non lo vuoi fare, sei un parassita o un traditore".
"La cosa peggiore è che siamo cresciuti ad essere profondamente razzisti", aggiunge. "Tutto è mirato a sostenere i privilegi [ebraici] come i padroni della terra. Sostenere la campagna BDS significa rinunciare ai miei privilegi in questa terra e insistere sull'uguaglianza per tutti".
Barkan paragona la sua adesione al movimento di boicottaggio ai "bianchi che hanno rinunciato ai loro privilegi nel Sud Africa dell'apartheid e si sono uniti alla lotta dei neri".
Quando ho rabbrividito sentendo la parola 'apartheid', Barkan ha subito risposto: "Israele è chiaramente conforme alla definizione giuridica del 'crimine di apartheid' come definito nello Statuto di Roma".
'Mai più per nessuno'
Alcuni si oppongono al BDS perché fra le richieste c'è il riconoscimento del diritto di ritorno dei palestinesi. Questi critici dicono che l'evoluzione demografica intaccherebbe l'auto-determinazione ebraica. Ma Barkan sostiene che "il fondamento di base [del movimento] sono i diritti umani e il diritto internazionale universalmente riconosciuti".
Sottolinea che il BDS rispetta i diritti umani sia per i palestinesi che per gli ebrei e comprende fautori di uno stato democratico bi-nazionale così come quelli che credono che una soluzione a due stati sia la migliore risposta al conflitto.
Sottolinea inoltre che il BDS non è anti-semita. Né è anti-israeliano.
"La campagna di boicottaggio non prende di mira gli israeliani, ma le politiche criminali di Israele e le istituzioni che ne sono complici, non gli individui", ha detto.
"Quindi mettiamo che un musicista o accademico israeliano va all'estero e si è allontanato da una conferenza o un evento solo perché è israeliano..." comincio a chiedere.
"No, no, questo non rientra nelle linea guida del boicottaggio", Barkan dice.
"Perché questo non è un boicottaggio. Si tratta di razzismo," dico io.
"Esattamente", risponde Barkan, aggiungendo che l'appello palestinese per il BDS è "un appello molto responsabile" che "fa una differenziazione tra le istituzioni e gli individui ed è chiaramente un boicottaggio delle istituzioni criminali e le loro rappresentanti".
"Ogni volta che c'è una zona grigia", aggiunge, "noi prendiamo l'approccio più soft".
Eppure, Barkan è stato criticato per il suo ruolo nel movimento di boicottaggio.
"Mia nonna che è stata ad Auschwitz mi dice, 'Puoi pensare quello che vuoi ma non esprimere le tue politiche perché non sono belle', e io le dico: 'Tu sai chi non si è espresso 70 anni fa'".
Barkan aggiunge: "Penso che la lezione principale da trarre dall'Olocausto è 'Mai più per nessuno' e non 'mai più per gli ebrei'".
Fonte: http://english.aljazeera.net/indepth/features/2011/03/2011318171822514245.html
Traduzione a cura di Stop Agrexco Italia
Israeliani spiegano perché hanno aderito al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni
È stato l'Egitto a farmi cominciare a pensare al movimento Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni (BDS) in modo serio. Stavo già conducendo un boicottaggio mirato sotto tono dei prodotti provenienti dagli insediamenti – leggendo in silenzio le etichette al supermercato per essere sicuro di non comprare nulla che proveniva da oltre la linea verde.
L'avevo fatto da tempo. Ma, a un certo punto, ho capito che il mio personale boicottaggio mirato era un po' ingenuo. E ho capito che non bastava.
Non sono solo gli insediamenti e l'occupazione, le due facce della stessa medaglia, che rappresentano un grave ostacolo alla pace e violano i diritti umani dei palestinesi. È anche tutto ciò che li sostiene - il governo e le sue istituzioni. È la bolla dentro la quale molti israeliani vivono, l'illusione della normalità. È l'idea che lo status quo è sostenibile.
E gli insediamenti sono un diversivo, un bersaglio conveniente per la rabbia. Gli israeliani devono anche affrontare una delle maggiori ingiustizie che ha avuto come risultato la creazione del loro stato - la Nakba, l'espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi.
Anche se la campagna BDS affronta ciò, oltre ad altre questioni - i tre principi del movimento sono il rispetto per il diritto di ritorno dei palestinesi, come indicato nella risoluzione ONU 194, la fine dell'occupazione e la parità di diritti per i cittadini palestinesi di Israele - sono rimasta riluttante a farmi coinvolgere.
Devo ammettere che il movimento mi spaventava. Non pensavo che sarebbe stato di aiuto. Ero sicura che avrebbe solo spinto Israele ad impuntarsi ancora più forte. Farà peggiorare le cose per tutti, ho pensato.
L'Egitto era il punto di svolta per me. Sono stata euforica a vedere le immagini di persone scendere in piazza per chiedere un cambiamento. E mentre i Palestine Papers dimostrano che il governo israeliano sembra intenzionato a mantenere lo status quo, conosco tanti israeliani che sono stufi di questo.
Ci sono madri che non vogliono mandare i loro figli nell'esercito; soldati che risentono di dover proteggere i coloni. Recentemente ho parlato con un uomo di 44 anni – una persona normale, un padre di due figli - che mi ha detto che è così frustrato con il governo e così preoccupato per il futuro che vuole bruciare qualcosa.
E l'Egitto è sulle labbra di molti israeliani in questo momento. Allora, che cosa si può fare per contribuire a portarlo dalle labbra ai piedi degli israeliani? Cosa si può fare per spingere gli israeliani a lottare per il cambiamento, lottare per la pace, per liberarsi da un conflitto che mina la loro auto- determinazione, la loro libertà?
Il BDS ha incassato una serie di successi, e questo è uno dei motivi per il quale il Knesset israeliano sta cercando di far passare una legge, nota come "legge Boicottaggio", che potrebbe effettivamente criminalizzare gli israeliani che si uniscono al movimento, sottoponendoli a pesanti multe.
E alcuni di coloro che sono impegnati nella campagna BDS sono già sottoposti ad una immensa pressione da parte dello Stato.
'La maschera della democrazia di Israele'
Leehee Rothschild, 26 anni, è una delle decine di israeliani che hanno risposto all'appello palestinese del 2005 per il BDS. Recentemente il suo appartamento di Tel Aviv è stato perquisito. La polizia lo faceva con il pretesto della ricerca di droghe, ma è stata portata alla stazione di polizia per un breve interrogatorio che è stato concentrato interamente sulla politica.
"La persona che è venuta a liberarmi [dall'interrogatorio] è stato un ufficiale dei servizi segreti che ha detto che è incaricato a monitorare l'attività politica dell'area di Tel Aviv ", ha detto Rothschild. A chiedere il mandato di perquisizione è stato questo ufficiale.
A seguito dell'Operazione Piombo Fuso, attivisti israeliani hanno riferito di pressioni sempre maggiori da parte della polizia così come i General Security Services - conosciuti con il loro acronimo ebraico, Shabak.
Il mandato di quest'ultimo include, tra le altre cose, l'obiettivo di mantenere Israele come Stato ebraico, pertanto coloro che auspicano la democrazia diventano degli obiettivi.
Le perquisizioni, come quella subita da Rothschild, non sono rare, né sono le telefonate da parte di Shabak.
"Ovviamente [la pressione] non è niente in confronto a quello che i palestinesi devono affrontare", ha detto Rothschild. "Ma penso che stiamo toccando un nervo scoperto".
Alla domanda sulla proposta di legge sul boicottaggio, Rothschild, commenta: "Se la legge viene approvata, si strapperà, un po' di più, la maschera della democrazia di Israele".
Amore duro
Per quanto riguarda il suo coinvolgimento nella campagna BDS, Rothschild commenta che non era a conoscenza del movimento fino a quando non è diventato un argomento serio di discussione all'interno della sinistra radicale israeliana, in cui era già attiva, e anche dopo aver sentito parlare del BDS, non ha aderito alla campagna subito.
"Ho avuto delle riserve in merito [al BDS]," Rothschild ricorda. "Ci ho pensato per molto tempo e ne ho discusso con me stessa e i miei amici.
"La riserva principale che avevo era che gli apetti economici avrebbero danneggiato per prima i più deboli della società - la gente povera – coloro che hanno il minimo effetto su quello che sta succedendo. Ma ora penso che l'occupazione sta danneggiando queste persone molto più di quanto il boicottaggio".
Rothschild rileva che i fondi statali che vengono versati in "sicurezza e difesa e nell'oppressione del popolo palestinese" potrebbero essere meglio utilizzati in Israele per aiutare gli strati socioeconomici più deboli.
"Un'altra riserva che avevo era che si potrebbe rendere l'opinione pubblica israeliana più estremista, più fondamentalista", aggiunge Rothschild. "Ma devo dire che per diventare più estremista la strada non è ora molto lunga".
Come israeliana, Rothschild, ritiene che aderire al movimento BDS sia un atto premuroso. È un atto di amore duro per il paese in cui è nata e cresciuta.
"Spero che, per alcune persone, sarà uno schiaffo in faccia e loro si sveglieranno e vedranno cosa sta succedendo ", Rothschild, dice, aggiungendo che gli oppressori sono pure oppressi.
"Il popolo israeliano è oppresso dall'occupazione - vivono all'interno di un società che è militarizzata, violenta e razzista".
'Rinnegare i miei privilegi'
Ronnie Barkan, 34 anni, spiega che ha fatto il primo passo verso il boicottaggio 15 anni fa, quando ha rifiutato di completare il servizio militare obbligatorio.
"Ci sono tante pressioni sociali [in Israele]", Barkan dice. "Siamo cresciuti sin dalla scuola materna per essere soldati. Ci insegnano che è nostro dovere [servire nell'esercito] e se non lo vuoi fare, sei un parassita o un traditore".
"La cosa peggiore è che siamo cresciuti ad essere profondamente razzisti", aggiunge. "Tutto è mirato a sostenere i privilegi [ebraici] come i padroni della terra. Sostenere la campagna BDS significa rinunciare ai miei privilegi in questa terra e insistere sull'uguaglianza per tutti".
Barkan paragona la sua adesione al movimento di boicottaggio ai "bianchi che hanno rinunciato ai loro privilegi nel Sud Africa dell'apartheid e si sono uniti alla lotta dei neri".
Quando ho rabbrividito sentendo la parola 'apartheid', Barkan ha subito risposto: "Israele è chiaramente conforme alla definizione giuridica del 'crimine di apartheid' come definito nello Statuto di Roma".
'Mai più per nessuno'
Alcuni si oppongono al BDS perché fra le richieste c'è il riconoscimento del diritto di ritorno dei palestinesi. Questi critici dicono che l'evoluzione demografica intaccherebbe l'auto-determinazione ebraica. Ma Barkan sostiene che "il fondamento di base [del movimento] sono i diritti umani e il diritto internazionale universalmente riconosciuti".
Sottolinea che il BDS rispetta i diritti umani sia per i palestinesi che per gli ebrei e comprende fautori di uno stato democratico bi-nazionale così come quelli che credono che una soluzione a due stati sia la migliore risposta al conflitto.
Sottolinea inoltre che il BDS non è anti-semita. Né è anti-israeliano.
"La campagna di boicottaggio non prende di mira gli israeliani, ma le politiche criminali di Israele e le istituzioni che ne sono complici, non gli individui", ha detto.
"Quindi mettiamo che un musicista o accademico israeliano va all'estero e si è allontanato da una conferenza o un evento solo perché è israeliano..." comincio a chiedere.
"No, no, questo non rientra nelle linea guida del boicottaggio", Barkan dice.
"Perché questo non è un boicottaggio. Si tratta di razzismo," dico io.
"Esattamente", risponde Barkan, aggiungendo che l'appello palestinese per il BDS è "un appello molto responsabile" che "fa una differenziazione tra le istituzioni e gli individui ed è chiaramente un boicottaggio delle istituzioni criminali e le loro rappresentanti".
"Ogni volta che c'è una zona grigia", aggiunge, "noi prendiamo l'approccio più soft".
Eppure, Barkan è stato criticato per il suo ruolo nel movimento di boicottaggio.
"Mia nonna che è stata ad Auschwitz mi dice, 'Puoi pensare quello che vuoi ma non esprimere le tue politiche perché non sono belle', e io le dico: 'Tu sai chi non si è espresso 70 anni fa'".
Barkan aggiunge: "Penso che la lezione principale da trarre dall'Olocausto è 'Mai più per nessuno' e non 'mai più per gli ebrei'".
Fonte: http://english.aljazeera.net/indepth/features/2011/03/2011318171822514245.html
Traduzione a cura di Stop Agrexco Italia
venerdì 25 marzo 2011
Gravissima offesa alle donne di piazza Taharir: non è per questa barbarie che hanno lottato
EGITTO:COSTRETTE AL TEST DI VERGINITA’
La denuncia di Amnesty International contro i militari egiziani: 18 donne arrestate in Piazza Tahrir lo scorso 9 marzo sono state picchiate, umiliate, sottoposte a scariche elettriche e costrette a subire un "test di verginità".
Cairo, 24 Marzo 2011, Nena News (foto CSMonitor) – Non erano bastate le aggressioni subite in Piazza Tahrir, la piazza egiziana simbolo della rivoluzione del 25 gennaio; le donne egiziane arrivate nella piazza della Liberazione dell’8 Marzo, in occasione della Giornata Internazionale delle donne, erano state assalite al grido di “Tornatevene a casa, andate a lavare i panni!”, da alcuni di quegli stessi uomini accanto ai quali avevano urlato il desiderio che Mubarak se ne andasse. Il 9 marzo, 18 di loro, arrestate dai militari che avevano disperso una manifestazione, hanno dovuto subire torture e abusi di vario genere. Compreso l’obbligo a sottoporsi a un “test di verginità”. La denuncia è arrivata ieri da Amnesty International: L’organizzazione internazionale in difesa dei diritti umani, punta il dito contro i militari, che secondo quanto riferito dalle donne a Amnesty le hanno picchiate, sottoposte a scariche elettriche e obbligate a denudarsi mentre i soldati le fotografavano.
Infine costrette a subire un “test di verginità”, sotto la minaccia di essere incriminate per prostituzione. “Costringere le donne a sottoporsi al ‘test di verginità’ è profondamente inaccettabile. Il suo obiettivo è degradare le donne in quanto tali. Tutto il personale medico dovrebbe rifiutarsi di prendere parte a questi cosiddetti ‘test’” – ha dichiarato Amnesty International mercoledì in un comunicato stampa.
Tra le testimonianze, c’è quella di Salwa Husseini, di 20 anni: la ragazza ha raccontato agli operatori di Amnesty International di essere stata arrestata e portata al carcere militare di El Heikstep, a nord-est della capitale. Poi costretta a togliersi tutti i vestiti, è stata perquisita da una guardiana, in una stanza con due porte e una finestra aperte. Nel frattempo, i soldati entravano nella stanza per scattare foto alla detenuta completamente nuda.
I “test di verginità” sono stati eseguiti in un’altra stanza da un uomo che indossava una giacca bianca. “Quelle trovate non vergini”, secondo la sua espressione, sarebbero state incriminate per prostituzione. Un’altra donna ha raccontato ad Amnesty International di aver detto che era vergine. Poiché il test avrebbe provato il contrario, è stata picchiata e sottoposta a scariche elettriche.
Un’altra testimonianza diffusa dall’organizzazione è quella di Rasha Azeb, una giornalista a sua volta arrestata a piazza Tahrir; secondo quanto da lei raccontato, le 18 manifestanti arrestate sono state inizialmente portate in un locale del Museo del Cairo, dove sono state ammanettate, picchiate con bastoni e tubi di gomma, colpite con l’elettricità al petto e alle gambe e chiamate “prostitute”.
“Le autorità egiziane devono porre fine a questi trattamenti scioccanti e degradanti nei confronti delle manifestanti. Le donne hanno preso parte in pieno al cambiamento in Egitto e non devono essere punite per il loro attivismo. Alle forze armate e a quelle di sicurezza vanno impartite istruzioni chiare che la tortura e i maltrattamenti, compresi i “test di verginità” obbligatori, non saranno più tollerati e saranno oggetto di indagini approfondite. I responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia e le donne coraggiose che hanno sporto denuncia devono essere protette dalle rappresaglie” – ha concluso Amnesty International.
Le 17 donne detenute a El Heikstep sono comparse di fronte a un tribunale militare l’11 marzo e rilasciate due giorni dopo. Diverse di esse sono state condannate a un anno di carcere, con la sospensione della pena.
“Le autorità egiziane devono porre fine a questi trattamenti scioccanti e degradanti nei confronti delle manifestanti. Le donne hanno preso parte in pieno al cambiamento in Egitto e non devono essere punite per il loro attivismo. Alle forze armate e a quelle di sicurezza vanno impartite istruzioni chiare che la tortura e i maltrattamenti, compresi i “test di verginità” obbligatori, non saranno più tollerati e saranno oggetto di indagini approfondite. I responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia e le donne coraggiose che hanno sporto denuncia devono essere protette dalle rappresaglie” – ha concluso Amnesty International.
Le donne egiziane, hanno preso parte in pieno al cambiamento in Egitto e oggi chiedono con forza parità di diritti, la fine di ogni forma di discriminazione, leggi contro la violenza, dentro e fuori le pareti domestiche. Chiedono di far parte da subito di quello che sarà il futuro Egitto. Per ora però le loro aspettative sono state deluse; l’Alto Consiglio delle Forze Armate, a guida del paese fino alle elezioni parlamentari e presidenziali, non ha eletto nemmeno una donna nel comitato incaricato di stendere una bozza degli emendamenti costituzionali. Nena News
La denuncia di Amnesty International contro i militari egiziani: 18 donne arrestate in Piazza Tahrir lo scorso 9 marzo sono state picchiate, umiliate, sottoposte a scariche elettriche e costrette a subire un "test di verginità".
Cairo, 24 Marzo 2011, Nena News (foto CSMonitor) – Non erano bastate le aggressioni subite in Piazza Tahrir, la piazza egiziana simbolo della rivoluzione del 25 gennaio; le donne egiziane arrivate nella piazza della Liberazione dell’8 Marzo, in occasione della Giornata Internazionale delle donne, erano state assalite al grido di “Tornatevene a casa, andate a lavare i panni!”, da alcuni di quegli stessi uomini accanto ai quali avevano urlato il desiderio che Mubarak se ne andasse. Il 9 marzo, 18 di loro, arrestate dai militari che avevano disperso una manifestazione, hanno dovuto subire torture e abusi di vario genere. Compreso l’obbligo a sottoporsi a un “test di verginità”. La denuncia è arrivata ieri da Amnesty International: L’organizzazione internazionale in difesa dei diritti umani, punta il dito contro i militari, che secondo quanto riferito dalle donne a Amnesty le hanno picchiate, sottoposte a scariche elettriche e obbligate a denudarsi mentre i soldati le fotografavano.
Infine costrette a subire un “test di verginità”, sotto la minaccia di essere incriminate per prostituzione. “Costringere le donne a sottoporsi al ‘test di verginità’ è profondamente inaccettabile. Il suo obiettivo è degradare le donne in quanto tali. Tutto il personale medico dovrebbe rifiutarsi di prendere parte a questi cosiddetti ‘test’” – ha dichiarato Amnesty International mercoledì in un comunicato stampa.
Tra le testimonianze, c’è quella di Salwa Husseini, di 20 anni: la ragazza ha raccontato agli operatori di Amnesty International di essere stata arrestata e portata al carcere militare di El Heikstep, a nord-est della capitale. Poi costretta a togliersi tutti i vestiti, è stata perquisita da una guardiana, in una stanza con due porte e una finestra aperte. Nel frattempo, i soldati entravano nella stanza per scattare foto alla detenuta completamente nuda.
I “test di verginità” sono stati eseguiti in un’altra stanza da un uomo che indossava una giacca bianca. “Quelle trovate non vergini”, secondo la sua espressione, sarebbero state incriminate per prostituzione. Un’altra donna ha raccontato ad Amnesty International di aver detto che era vergine. Poiché il test avrebbe provato il contrario, è stata picchiata e sottoposta a scariche elettriche.
Un’altra testimonianza diffusa dall’organizzazione è quella di Rasha Azeb, una giornalista a sua volta arrestata a piazza Tahrir; secondo quanto da lei raccontato, le 18 manifestanti arrestate sono state inizialmente portate in un locale del Museo del Cairo, dove sono state ammanettate, picchiate con bastoni e tubi di gomma, colpite con l’elettricità al petto e alle gambe e chiamate “prostitute”.
“Le autorità egiziane devono porre fine a questi trattamenti scioccanti e degradanti nei confronti delle manifestanti. Le donne hanno preso parte in pieno al cambiamento in Egitto e non devono essere punite per il loro attivismo. Alle forze armate e a quelle di sicurezza vanno impartite istruzioni chiare che la tortura e i maltrattamenti, compresi i “test di verginità” obbligatori, non saranno più tollerati e saranno oggetto di indagini approfondite. I responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia e le donne coraggiose che hanno sporto denuncia devono essere protette dalle rappresaglie” – ha concluso Amnesty International.
Le 17 donne detenute a El Heikstep sono comparse di fronte a un tribunale militare l’11 marzo e rilasciate due giorni dopo. Diverse di esse sono state condannate a un anno di carcere, con la sospensione della pena.
“Le autorità egiziane devono porre fine a questi trattamenti scioccanti e degradanti nei confronti delle manifestanti. Le donne hanno preso parte in pieno al cambiamento in Egitto e non devono essere punite per il loro attivismo. Alle forze armate e a quelle di sicurezza vanno impartite istruzioni chiare che la tortura e i maltrattamenti, compresi i “test di verginità” obbligatori, non saranno più tollerati e saranno oggetto di indagini approfondite. I responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia e le donne coraggiose che hanno sporto denuncia devono essere protette dalle rappresaglie” – ha concluso Amnesty International.
Le donne egiziane, hanno preso parte in pieno al cambiamento in Egitto e oggi chiedono con forza parità di diritti, la fine di ogni forma di discriminazione, leggi contro la violenza, dentro e fuori le pareti domestiche. Chiedono di far parte da subito di quello che sarà il futuro Egitto. Per ora però le loro aspettative sono state deluse; l’Alto Consiglio delle Forze Armate, a guida del paese fino alle elezioni parlamentari e presidenziali, non ha eletto nemmeno una donna nel comitato incaricato di stendere una bozza degli emendamenti costituzionali. Nena News
giovedì 24 marzo 2011
Osservatorio Iraq
in Iraq.
Circa 10mila persone sono scese in piazza nei giorni scorsi a Baghdad, in quella che è stata la più grande manifestazione tenuta finora in Iraq.
A protestare sono stati gli sciiti che hanno manifestato la propria solidarietà ai loro correligionari del Bahrain, vittime della repressione di un governo guidato da sunniti.
Teatro della protesta Sadr City, l'enorme slum di Baghdad in cui vivono oltre due milioni di persone, in maggioranza sciiti, considerato una roccaforte del movimento di Muqtada al Sadr. E manifestazioni importanti si sono tenute anche nella città santa di Najaf e a Bassora, nel sud del Paese.
Gli slogan: "Sì, sì al Bahrain. No, no alla famiglia dei Saud", con riferimento all'Arabia Saudita, che ha inviato truppe proprio in Bahrain a sostegno delle forze governative contro i dimostranti.
Condanne per la repressione governativa e per lo schieramento delle truppe saudite nello Stato del Golfo Persico sono arrivate anche dal premier iracheno Nuri al Maliki, mentre il Grande Ayatollah Ali al Sistani, il leader religioso più influente fra gli sciiti iracheni, è uscito dal suo tradizionale riserbo per chiedere alle autorità del Bahrain di "smettere di usare la violenza contro cittadini inermi".
2. Iraq e Libia
(http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=10244)
E il mondo politico iracheno si divide invece sull'attacco lanciato dalle potenze occidentali contro la Libia di Gheddafi e a sostegno dei ribelli che hanno preso il controllo della parte est del Paese.
L’operazione ha avuto il sostegno ufficiale del governo di Baghdad, ma è stata duramente contestata dai sadristi, che pure fanno parte dell’esecutivo.
"Il governo iracheno appoggia gli sforzi internazionali per proteggere il popolo libico", si legge nella dichiarazione attribuita al portavoce governativo, Ali al Dabbagh, e diffusa dal suo ufficio.
Contrari all'attacco in corso invece si sono detti i sadristi e in particolare il loro leader Muqtada al Sadr, intervenuto per condannato l'intervento militare in Libia così come quello precedente dell’Arabia saudita in Bahrein.
"Sua Eminenza – si legge sul sito dell'ufficio comunicazione del movimento - ha respinto e condannato l'interferenza straniera negli affari interni della Libia e del Bahrain, dicendo che sono i popoli a dover decidere, e che i governi devono farsi da parte se il popolo lo chiede"
Lo stesso Sadr avrebbe poi invitato "coloro che vogliono rovesciare il regime di Gheddafi coi loro aerei” a “evitare di uccidere civili, ed evitare le calamità dei bombardamenti".
3. Siria
(http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=10242)
Intanto qualcosa sembra muoversi anche in Siria.
Martedì 15 marzo dopo la preghiera di mezzogiorno centinaia di manifestanti anti-governativi hanno riempito le strade centrali di Damasco ed Aleppo. Mercoledì 16 si è replicata la protesta, con ancora più persone in strada.
L'iniziativa sarebbe stata convocata dal gruppo Facebook “The Syrian revolution against Bashar al-Assad 2011”. Altri due appelli, lanciati sempre su Facebook tra gennaio e febbraio, non avevano avuto risposta, probabilmente a causa della massiccia presenza delle forze di sicurezza, in allerta nei giorni chiave della rivoluzione egiziana.
Le richieste dei manifestanti riguardano riforme democratiche ed il rilascio dei prigionieri politici. La Siria, come l'Egitto, vive in uno stato d'emergenza in vigore dal 1963, anno dell'ascesa al potere della minoranza sciita alawita per mano di Hafez al-Assad, padre dell'attuale premier, Bashar al-Assad, succeduto al padre nel 2000.
L'agenzia di stampa Associated Press riporta la notizia di scontri fra i manifestanti ed i sostenitori del presidente Bashar al-Assad.
Più determinato è stato l'intervento delle forze di polizia nella giornata di mercoledì: con l'impiego di manganelli hanno cercato di disperdere la folla, procedendo in seguito ad altri quattro arresti. Gli oppositori, stimati dalla Bbc in circa 150 individui, si sono concentrati nei pressi del ministero dell'Interno.
Proprio la dura repressione delle autorità siriane preoccupa particolarmente i manifestanti. “Dopo una lunga attesa e la speranza di un'imminente rilascio dei prigionieri politici siriani, le nostre speranza sono svanite”, riporta un comunicato del Syrian Observatory for Human Rights.
4. Palestina
(http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=10234)
E migliaia di persone hanno manifestato nelle città della Cisgiordania e della striscia di Gaza lo scorso 15 marzo in risposta all’appello lanciato da varie associazioni giovanili che chiedono la riconciliazione tra le forze politiche della Palestina e l’unità del suo popolo.
Nel documento gli organizzatori hanno chiesto una riconciliazione basata sulla condivisione di valori comuni e sul rispetto delle opinioni politiche altrui, ma anche il rilascio di tutti i prigionieri politici detenuti da Hamas a Gaza e dall’Autorità Palestinese in Cisgiordania.
Nel lanciare il proprio appello le stesse organizzazioni hanno poi tenuto a ribadire la propria indipendenza da ogni formazione politica “tradizionale” e hanno denunciato il tentativo, da parte del governo Fayyad in Cisgiordania e di quello di Hamas a Gaza, di “cooptare il movimento per servire i propri interessi ed auto-legittimarsi”.
E i timori della vigilia si sono concretizzati in particolar modo a Ramallah, dove Fatah ha di fatto preso il controllo della dimostrazione monopolizzando la piazza centrale di al-Manara.
Circa 10mila persone sono scese in piazza nei giorni scorsi a Baghdad, in quella che è stata la più grande manifestazione tenuta finora in Iraq.
A protestare sono stati gli sciiti che hanno manifestato la propria solidarietà ai loro correligionari del Bahrain, vittime della repressione di un governo guidato da sunniti.
Teatro della protesta Sadr City, l'enorme slum di Baghdad in cui vivono oltre due milioni di persone, in maggioranza sciiti, considerato una roccaforte del movimento di Muqtada al Sadr. E manifestazioni importanti si sono tenute anche nella città santa di Najaf e a Bassora, nel sud del Paese.
Gli slogan: "Sì, sì al Bahrain. No, no alla famiglia dei Saud", con riferimento all'Arabia Saudita, che ha inviato truppe proprio in Bahrain a sostegno delle forze governative contro i dimostranti.
Condanne per la repressione governativa e per lo schieramento delle truppe saudite nello Stato del Golfo Persico sono arrivate anche dal premier iracheno Nuri al Maliki, mentre il Grande Ayatollah Ali al Sistani, il leader religioso più influente fra gli sciiti iracheni, è uscito dal suo tradizionale riserbo per chiedere alle autorità del Bahrain di "smettere di usare la violenza contro cittadini inermi".
2. Iraq e Libia
(http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=10244)
E il mondo politico iracheno si divide invece sull'attacco lanciato dalle potenze occidentali contro la Libia di Gheddafi e a sostegno dei ribelli che hanno preso il controllo della parte est del Paese.
L’operazione ha avuto il sostegno ufficiale del governo di Baghdad, ma è stata duramente contestata dai sadristi, che pure fanno parte dell’esecutivo.
"Il governo iracheno appoggia gli sforzi internazionali per proteggere il popolo libico", si legge nella dichiarazione attribuita al portavoce governativo, Ali al Dabbagh, e diffusa dal suo ufficio.
Contrari all'attacco in corso invece si sono detti i sadristi e in particolare il loro leader Muqtada al Sadr, intervenuto per condannato l'intervento militare in Libia così come quello precedente dell’Arabia saudita in Bahrein.
"Sua Eminenza – si legge sul sito dell'ufficio comunicazione del movimento - ha respinto e condannato l'interferenza straniera negli affari interni della Libia e del Bahrain, dicendo che sono i popoli a dover decidere, e che i governi devono farsi da parte se il popolo lo chiede"
Lo stesso Sadr avrebbe poi invitato "coloro che vogliono rovesciare il regime di Gheddafi coi loro aerei” a “evitare di uccidere civili, ed evitare le calamità dei bombardamenti".
3. Siria
(http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=10242)
Intanto qualcosa sembra muoversi anche in Siria.
Martedì 15 marzo dopo la preghiera di mezzogiorno centinaia di manifestanti anti-governativi hanno riempito le strade centrali di Damasco ed Aleppo. Mercoledì 16 si è replicata la protesta, con ancora più persone in strada.
L'iniziativa sarebbe stata convocata dal gruppo Facebook “The Syrian revolution against Bashar al-Assad 2011”. Altri due appelli, lanciati sempre su Facebook tra gennaio e febbraio, non avevano avuto risposta, probabilmente a causa della massiccia presenza delle forze di sicurezza, in allerta nei giorni chiave della rivoluzione egiziana.
Le richieste dei manifestanti riguardano riforme democratiche ed il rilascio dei prigionieri politici. La Siria, come l'Egitto, vive in uno stato d'emergenza in vigore dal 1963, anno dell'ascesa al potere della minoranza sciita alawita per mano di Hafez al-Assad, padre dell'attuale premier, Bashar al-Assad, succeduto al padre nel 2000.
L'agenzia di stampa Associated Press riporta la notizia di scontri fra i manifestanti ed i sostenitori del presidente Bashar al-Assad.
Più determinato è stato l'intervento delle forze di polizia nella giornata di mercoledì: con l'impiego di manganelli hanno cercato di disperdere la folla, procedendo in seguito ad altri quattro arresti. Gli oppositori, stimati dalla Bbc in circa 150 individui, si sono concentrati nei pressi del ministero dell'Interno.
Proprio la dura repressione delle autorità siriane preoccupa particolarmente i manifestanti. “Dopo una lunga attesa e la speranza di un'imminente rilascio dei prigionieri politici siriani, le nostre speranza sono svanite”, riporta un comunicato del Syrian Observatory for Human Rights.
4. Palestina
(http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=10234)
E migliaia di persone hanno manifestato nelle città della Cisgiordania e della striscia di Gaza lo scorso 15 marzo in risposta all’appello lanciato da varie associazioni giovanili che chiedono la riconciliazione tra le forze politiche della Palestina e l’unità del suo popolo.
Nel documento gli organizzatori hanno chiesto una riconciliazione basata sulla condivisione di valori comuni e sul rispetto delle opinioni politiche altrui, ma anche il rilascio di tutti i prigionieri politici detenuti da Hamas a Gaza e dall’Autorità Palestinese in Cisgiordania.
Nel lanciare il proprio appello le stesse organizzazioni hanno poi tenuto a ribadire la propria indipendenza da ogni formazione politica “tradizionale” e hanno denunciato il tentativo, da parte del governo Fayyad in Cisgiordania e di quello di Hamas a Gaza, di “cooptare il movimento per servire i propri interessi ed auto-legittimarsi”.
E i timori della vigilia si sono concretizzati in particolar modo a Ramallah, dove Fatah ha di fatto preso il controllo della dimostrazione monopolizzando la piazza centrale di al-Manara.
Assemblea a Napoli
Ricevo e trasmetto da Napoli
Lunedi all'università orientale di Napoli si è tenuta una prima assemblea contro la guerra. Il report
Dopo i primi bombardamenti di sabato pomeriggio, dopo essere diventato palese che l'Italia si imbarcava in una nuova aggressione militare, a cento anni dall'avventura colonialista libica e ad otto precisi dal vergognoso attacco all'Irak, Napoli si è subito mobilitata.
Domenica mattina a Piazza Dante si è tenuto un primo presidio contro la guerra e in solidarietà con il popolo libico, un presidio che ha visto la partecipazione di un centinaio circa di persone, fra militanti di collettivi e centri sociali, pacifisti, cittadini. Quindi il giorno dopo, a Palazzo Giusso, si è tenuta alle 17 un'assemblea pubblica per condividere riflessioni ed organizzare una mobilitazione, che proprio a Napoli deve essere forte, visto che qui è situato il comando dell'operazione.
Circa 200 sono stati i partecipanti, una quindicina gli interventi, di differenti realtà politiche, e di singoli cittadini. Più o meno in tutti gli interventi si è cercato di denunciare le menzogne dei media, i quali ci ripetono ossessivamente che si deve scendere in campo per una missione “umanitaria”, per difendere i “ribelli” di Bengasi, e quelle di “sinistri” come Napolitano che addirittura negano che siamo in guerra, sostenendo che stiamo solo ottemperando ad una risoluzione ONU. Proprio dell'ONU invece sono state denunciate le responsabilità, ed il suo strutturale asservimento alle nazioni imperialiste che la dirigono e la usano per legittimare i propri interventi in tutto il mondo, proprio mentre assolvono Israele che, violando ben 73 risoluzioni, continua a massacrare il popolo palestinese. D'altronde si interviene in Libia mentre si è avuta la mano morbida con Mubarak, che aveva represso le manifestazioni causando quasi 400 morti, mentre non si interviene ad esempio in Yemen, dove la repressione del regime “amico dell'Occidente” causa centinaia di morti, ed in Bahrein, dove addirittura l'esercito saudita si permette di entrare nel paese ed aiutare il regime soffocando nel sangue la mobilitazione popolare...
Proprio per questo motivo in tutti gli interventi è stato sottolineato che, mai questa volta, sono chiarissimi e d anche affermati spudoratamente i reali intenti della “missione”: è una guerra per il petrolio e per accaparrarsi risorse naturali, per salvaguardare gli interessi delle multinazionali italiane ed i ricchi contratti economici stipulati tre anni fa. È per questo che l'Italia è intervenuta: per cercare di salvare il salvabile mentre la Francia e la Gran Bretagna provavano, attraverso gli insorti, a sostituirsi a lei nella spoliazione di quei territori. È una guerra che, come ben capito dai compagni che si sono mobilitati in Tunisia ed Egitto, segna anche un tentativo di insediare nell'area un avamposto occidentale per “controllare” gli esiti dei processi rivoluzionari che stanno attraversando il mondo arabo, tagliando le gambe ad altre rivolte ed evitando che vadano ai danni della potenze americana e di quelle europee.
Si è anche denunciato come il diritto internazionale non sia nei fatti che la legge del più forte: una coalizione di sei “volenterosi”, nonostante le perplessità di altri stati che rappresentano la maggior parte dell'umanità, dalla Russia alla Cina, dall'India al Brasile, dall'Unione Africana alla Lega Araba, ha arbitrariamente violato la sovranità di uno Stato, ne ha bombardato la popolazione con l'uranio impoverito, causando solo il primo giorno più di 60 morti, e lasciando dietro di sé una scia di sangue. Si è ricordato che vigeva un “cessate il fuoco” al momento dell'attacco, che erano possibili tante altre strade per evitare quest'ennesimo conflitto.
Tutti gli interventi hanno poi denunciato le responsabilità di tutte le forze politiche istituzionali, dalla Lega che non vuole l'intervento solo perché teme l'“invasione” dei migranti a Berlusconi che fino a pochi mesi fa baciava le mani del “tiranno”, dal fascista La Russa che sognava da tempo di mettersi l'elmetto alla “sinistra” tutta, dall'interventista PD fino a Vendola e Di Pietro, che si nascondono dietro l'ambigua risoluzione ONU per sostenere i nostri interessi “nazionali”. Anche in polemica con le celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia, con l'esposizione dei tricolori, gli inni ed il militarismo dilagante nei media, gli interventi hanno infatti ricordato che non esistono interessi “nazionali”, ma solo gli interessi degli sfruttati e dei dominati contro quelli dei dominanti, e che i nostri interessi sono proprio quelli dei lavoratori e dei popoli di tutto il mondo, contro tutti i regimi, quello di Gheddafi compreso.
Si è infine ricordato che la responsabilità è anche quella dei vertici della CGIL che si sono schierati a favore dell'intervento, e di tutti i pacifisti incoerenti. Da questo punto di vista, ci si è provocatoriamente domandati perché erano in migliaia a difendere la Costituzione dagli attacchi di Berlusconi mentre quando con accordo bipartisan si viola l'articolo 11 (“L'Italia ripudia la guerra”) molte di meno sono le voci scandalizzate. E ci si è detti che la nostra opposizione deve essere ferma, e deve cercare di bloccare davvero la macchina da guerra, la produzione di armi etc.
In sintesi l'assemblea:
* Si schiera a fianco del popolo libico, e di tutte le popolazioni in rivolta dell'area, contro dittatori, eserciti e ingerenze occidentali;
* Chiede la fine immediata dei bombardamenti e dell'aggressione militare;
* Chiede il diritto d'asilo per tutti i profughi ed i migranti in fuga;
* Propone di caratterizzare la manifestazione nazionale sull'acqua di sabato 26 marzo con una chiara presa di posizione contro la guerra, anche contestando i politici che la useranno come passerella mentre favoriscono l'azione militare;
Assemblea contro la guerra di Napoli
Lunedi all'università orientale di Napoli si è tenuta una prima assemblea contro la guerra. Il report
Dopo i primi bombardamenti di sabato pomeriggio, dopo essere diventato palese che l'Italia si imbarcava in una nuova aggressione militare, a cento anni dall'avventura colonialista libica e ad otto precisi dal vergognoso attacco all'Irak, Napoli si è subito mobilitata.
Domenica mattina a Piazza Dante si è tenuto un primo presidio contro la guerra e in solidarietà con il popolo libico, un presidio che ha visto la partecipazione di un centinaio circa di persone, fra militanti di collettivi e centri sociali, pacifisti, cittadini. Quindi il giorno dopo, a Palazzo Giusso, si è tenuta alle 17 un'assemblea pubblica per condividere riflessioni ed organizzare una mobilitazione, che proprio a Napoli deve essere forte, visto che qui è situato il comando dell'operazione.
Circa 200 sono stati i partecipanti, una quindicina gli interventi, di differenti realtà politiche, e di singoli cittadini. Più o meno in tutti gli interventi si è cercato di denunciare le menzogne dei media, i quali ci ripetono ossessivamente che si deve scendere in campo per una missione “umanitaria”, per difendere i “ribelli” di Bengasi, e quelle di “sinistri” come Napolitano che addirittura negano che siamo in guerra, sostenendo che stiamo solo ottemperando ad una risoluzione ONU. Proprio dell'ONU invece sono state denunciate le responsabilità, ed il suo strutturale asservimento alle nazioni imperialiste che la dirigono e la usano per legittimare i propri interventi in tutto il mondo, proprio mentre assolvono Israele che, violando ben 73 risoluzioni, continua a massacrare il popolo palestinese. D'altronde si interviene in Libia mentre si è avuta la mano morbida con Mubarak, che aveva represso le manifestazioni causando quasi 400 morti, mentre non si interviene ad esempio in Yemen, dove la repressione del regime “amico dell'Occidente” causa centinaia di morti, ed in Bahrein, dove addirittura l'esercito saudita si permette di entrare nel paese ed aiutare il regime soffocando nel sangue la mobilitazione popolare...
Proprio per questo motivo in tutti gli interventi è stato sottolineato che, mai questa volta, sono chiarissimi e d anche affermati spudoratamente i reali intenti della “missione”: è una guerra per il petrolio e per accaparrarsi risorse naturali, per salvaguardare gli interessi delle multinazionali italiane ed i ricchi contratti economici stipulati tre anni fa. È per questo che l'Italia è intervenuta: per cercare di salvare il salvabile mentre la Francia e la Gran Bretagna provavano, attraverso gli insorti, a sostituirsi a lei nella spoliazione di quei territori. È una guerra che, come ben capito dai compagni che si sono mobilitati in Tunisia ed Egitto, segna anche un tentativo di insediare nell'area un avamposto occidentale per “controllare” gli esiti dei processi rivoluzionari che stanno attraversando il mondo arabo, tagliando le gambe ad altre rivolte ed evitando che vadano ai danni della potenze americana e di quelle europee.
Si è anche denunciato come il diritto internazionale non sia nei fatti che la legge del più forte: una coalizione di sei “volenterosi”, nonostante le perplessità di altri stati che rappresentano la maggior parte dell'umanità, dalla Russia alla Cina, dall'India al Brasile, dall'Unione Africana alla Lega Araba, ha arbitrariamente violato la sovranità di uno Stato, ne ha bombardato la popolazione con l'uranio impoverito, causando solo il primo giorno più di 60 morti, e lasciando dietro di sé una scia di sangue. Si è ricordato che vigeva un “cessate il fuoco” al momento dell'attacco, che erano possibili tante altre strade per evitare quest'ennesimo conflitto.
Tutti gli interventi hanno poi denunciato le responsabilità di tutte le forze politiche istituzionali, dalla Lega che non vuole l'intervento solo perché teme l'“invasione” dei migranti a Berlusconi che fino a pochi mesi fa baciava le mani del “tiranno”, dal fascista La Russa che sognava da tempo di mettersi l'elmetto alla “sinistra” tutta, dall'interventista PD fino a Vendola e Di Pietro, che si nascondono dietro l'ambigua risoluzione ONU per sostenere i nostri interessi “nazionali”. Anche in polemica con le celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia, con l'esposizione dei tricolori, gli inni ed il militarismo dilagante nei media, gli interventi hanno infatti ricordato che non esistono interessi “nazionali”, ma solo gli interessi degli sfruttati e dei dominati contro quelli dei dominanti, e che i nostri interessi sono proprio quelli dei lavoratori e dei popoli di tutto il mondo, contro tutti i regimi, quello di Gheddafi compreso.
Si è infine ricordato che la responsabilità è anche quella dei vertici della CGIL che si sono schierati a favore dell'intervento, e di tutti i pacifisti incoerenti. Da questo punto di vista, ci si è provocatoriamente domandati perché erano in migliaia a difendere la Costituzione dagli attacchi di Berlusconi mentre quando con accordo bipartisan si viola l'articolo 11 (“L'Italia ripudia la guerra”) molte di meno sono le voci scandalizzate. E ci si è detti che la nostra opposizione deve essere ferma, e deve cercare di bloccare davvero la macchina da guerra, la produzione di armi etc.
In sintesi l'assemblea:
* Si schiera a fianco del popolo libico, e di tutte le popolazioni in rivolta dell'area, contro dittatori, eserciti e ingerenze occidentali;
* Chiede la fine immediata dei bombardamenti e dell'aggressione militare;
* Chiede il diritto d'asilo per tutti i profughi ed i migranti in fuga;
* Propone di caratterizzare la manifestazione nazionale sull'acqua di sabato 26 marzo con una chiara presa di posizione contro la guerra, anche contestando i politici che la useranno come passerella mentre favoriscono l'azione militare;
Assemblea contro la guerra di Napoli
mercoledì 23 marzo 2011
Rieccomi
Dopo un lungo periodo di silenzio dovuto a una broncopolmonite, sono in grado di nuovo di scrivere e leggere la posta anche se non ancora di uscire. Le cose accadute durante la mia malattia sono state molte e quasi nessuna bella.
La strage di Itamar:
al contrario della maggior parte dei compagni che hanno addirittura diramato comunicati, compresa una delle mie associazioni, non ho creduto nè darne notizia nè importanza. Pensavo infatti che non era il caso di amplificare un fatto di cronaca nera per dare addosso ai palestinesi. In più mi ero fatta la convinzione che l'autore del delitto non poteva essere un palestinese, per molte ragioni, ma soprattutto perchè trovavo esilarante l'idea che un palestinese o addirittura due entrassero in questa colonia fortificata senza essere visti da nessuno, poi compivano il delitto e uscivano fischiettando sempre senza essere visti. Ciò era contrario a ogni logica. La mia idea di come si erano svolti i fatti era più cattiva, forse perchè conosco i miei polli, pare invece che le indagini si siano rivolte verso lavoratori tailandesi che non erano stati pagati dal colono ammazzato. Questo però non ha minimamente alleggerito il danno ai palestinesi, non solo di immagine, visto che come al solito i media raccontano solo una parte delle storie e nessuno si è scomodato a scagionare i palestinesi dopo averli accusati, ma anche per quello che hanno dovuto subirre da parte prima dell'esercito e poi dei coloni. Awarta è stata sotto coprifuoco per 4 giorni, i soldati hanno prodotto danni considerevoli tra l'altro buttando olio e sabbia nei contenitori dell'acqua e distruggendo il municipio, hanno arrestato, picchiato, terrorizzato, distrutto, lasciando dietro di se enormi danni economici e psicologici. Poi sono venuti i coloni che si potrebbero definire bestie feroci e hanno fatto il resto.
La manifestazione del 15 marzo
Mentre a Ramallah i giovani si sono svegliati circondati da militanti di Fatah con le loro bandiere che hanno fatto di tutto per snaturare il vero spirito della manifestazione e vanificare le richieste, a Gaza sono stati addirittura aggrediti brutalmente da uomini di Hamas che hanno picchiato, arrestato, bruciato le tende e il presidio medico che i ragazzi avevano eretto sullo spiazzo dell'università Al Azhar, addirittura una giovane giornalista, Samah Ahmed, è stata accoltellata, e gli aggressori si sono accaniti soprattutto sulle donne.
Bahrein
La repressione alle manifestazioni che chiedono democrazia e l'eliminazione dello stato di emergenza e della feroce polizia si è fatta sempre più criminale, 5 manifestanti sono stati uccisi a piazza della Perla, luogo d'incontro dei manifestanti, la polizia spara e arresta, nessuno però si preoccupa dei diritti umani di queste persone. La reazione degli USA che hanno in Barhein l'importante base navale della v flotta, è stata tiepida. Come se non bastasse L'Arabia saudita ha mandato truppe a sostegno del regime. Nessuna not fly zone naturalmente.
Libia
la Nato e i soliti americani si sono scatenati in Libia in difesa dei loro interessi e nella speranza di predare il più possibile. La guerra, come da copione, è umanitaria, serve per difendere il cavallo di Troia. Qui abbiamo sentito un vergognoso Napolitano che in dispregio della nostra costituzione che nell'art. 11 ripudia la guerra, sostiene che la guerra è buona e giusta, ma da che cazzo di attrezzi dobbiamo continuare ad essere governati? Insieme all'unità d'Italia ricorre anche l'anniversario della colonizzazione italiana della Libia. E' una vergogna immensa. Intanto gli assassini americani esperti di macelli stanno riempiendo il suolo libico di uranio impoverito, il disegno è quello di avvelenare il Medio Oriente rendendolo invivibile come l'Irak. Questi assassini non si accontentano di distruggere e predare, vogliono anche martirizzare le generazioni future, assicurarsi che nascono malformate, ammalate di cancro e chissà cosa altro, intanto loro testano le armi per stragi e genocidii futuri.
Gaza
Le incursioni andavano avanti da giorni, l'ultima la più feroce di tutte ha massacrato almeno 18 persone compresi dei ragazzi che giocavano a pallone nel cortile di casa. Dice Amira Hass, che i suoi compaesani li conosce bene, "Hamas deve tener conto che i suoi vicini occupanti sono pazzi".
Pazzi si e anche criminali, ma a Gaza la not fly zone non la fanno.
La strage di Itamar:
al contrario della maggior parte dei compagni che hanno addirittura diramato comunicati, compresa una delle mie associazioni, non ho creduto nè darne notizia nè importanza. Pensavo infatti che non era il caso di amplificare un fatto di cronaca nera per dare addosso ai palestinesi. In più mi ero fatta la convinzione che l'autore del delitto non poteva essere un palestinese, per molte ragioni, ma soprattutto perchè trovavo esilarante l'idea che un palestinese o addirittura due entrassero in questa colonia fortificata senza essere visti da nessuno, poi compivano il delitto e uscivano fischiettando sempre senza essere visti. Ciò era contrario a ogni logica. La mia idea di come si erano svolti i fatti era più cattiva, forse perchè conosco i miei polli, pare invece che le indagini si siano rivolte verso lavoratori tailandesi che non erano stati pagati dal colono ammazzato. Questo però non ha minimamente alleggerito il danno ai palestinesi, non solo di immagine, visto che come al solito i media raccontano solo una parte delle storie e nessuno si è scomodato a scagionare i palestinesi dopo averli accusati, ma anche per quello che hanno dovuto subirre da parte prima dell'esercito e poi dei coloni. Awarta è stata sotto coprifuoco per 4 giorni, i soldati hanno prodotto danni considerevoli tra l'altro buttando olio e sabbia nei contenitori dell'acqua e distruggendo il municipio, hanno arrestato, picchiato, terrorizzato, distrutto, lasciando dietro di se enormi danni economici e psicologici. Poi sono venuti i coloni che si potrebbero definire bestie feroci e hanno fatto il resto.
La manifestazione del 15 marzo
Mentre a Ramallah i giovani si sono svegliati circondati da militanti di Fatah con le loro bandiere che hanno fatto di tutto per snaturare il vero spirito della manifestazione e vanificare le richieste, a Gaza sono stati addirittura aggrediti brutalmente da uomini di Hamas che hanno picchiato, arrestato, bruciato le tende e il presidio medico che i ragazzi avevano eretto sullo spiazzo dell'università Al Azhar, addirittura una giovane giornalista, Samah Ahmed, è stata accoltellata, e gli aggressori si sono accaniti soprattutto sulle donne.
Bahrein
La repressione alle manifestazioni che chiedono democrazia e l'eliminazione dello stato di emergenza e della feroce polizia si è fatta sempre più criminale, 5 manifestanti sono stati uccisi a piazza della Perla, luogo d'incontro dei manifestanti, la polizia spara e arresta, nessuno però si preoccupa dei diritti umani di queste persone. La reazione degli USA che hanno in Barhein l'importante base navale della v flotta, è stata tiepida. Come se non bastasse L'Arabia saudita ha mandato truppe a sostegno del regime. Nessuna not fly zone naturalmente.
Libia
la Nato e i soliti americani si sono scatenati in Libia in difesa dei loro interessi e nella speranza di predare il più possibile. La guerra, come da copione, è umanitaria, serve per difendere il cavallo di Troia. Qui abbiamo sentito un vergognoso Napolitano che in dispregio della nostra costituzione che nell'art. 11 ripudia la guerra, sostiene che la guerra è buona e giusta, ma da che cazzo di attrezzi dobbiamo continuare ad essere governati? Insieme all'unità d'Italia ricorre anche l'anniversario della colonizzazione italiana della Libia. E' una vergogna immensa. Intanto gli assassini americani esperti di macelli stanno riempiendo il suolo libico di uranio impoverito, il disegno è quello di avvelenare il Medio Oriente rendendolo invivibile come l'Irak. Questi assassini non si accontentano di distruggere e predare, vogliono anche martirizzare le generazioni future, assicurarsi che nascono malformate, ammalate di cancro e chissà cosa altro, intanto loro testano le armi per stragi e genocidii futuri.
Gaza
Le incursioni andavano avanti da giorni, l'ultima la più feroce di tutte ha massacrato almeno 18 persone compresi dei ragazzi che giocavano a pallone nel cortile di casa. Dice Amira Hass, che i suoi compaesani li conosce bene, "Hamas deve tener conto che i suoi vicini occupanti sono pazzi".
Pazzi si e anche criminali, ma a Gaza la not fly zone non la fanno.
sabato 12 marzo 2011
Mobilitazione del 15 marzo
Ieri pomeriggio, quasi per caso, ho ascoltato una conferenza stampa negli USA con tre palestinesi sull'iniziativa del 15 marzo. Di seguito i miei appunti
Stephanie
La conferenza era organizzata dall'Institute for Middle East Understanding (organizzazione che, in poche parole, cerca di facilitare l'accesso dei media a voci palestinesi), con tre ospiti dalla Palestina:
Fadi Quran dalla Cisgiordania, coordinatore di vari movimenti di giovani. Laureato in fisica e relazioni internazionali a Stanford, attualmente sta facendo un Master in diritti umani e diritto costituzionale.
Lina Al-Sharif da Gaza, studia letteratura inglese all'Islamic University a Gaza, è una blogger e scrittrice.
Fajr Harb dalla Cisgordania, vice direttore del Carter Center Field Office a Ramallah e membro di al Shabaka: The Palestinian Policy Network.
Raccontateci come è nata l'iniziativa del 15 marzo
Fadi: da un po' di tempo ci sono tanti gruppi di giovani palestinesi, dalla Cisgiordania, Gaza, Israele e la diaspora, che hanno lavorato su appelli vari con diverse richieste volte ad un cambiamento. 270 gruppi si sono uniti su delle richieste specifiche che ha portato all'appello per il 15 marzo. Tra le principali richieste sono: una rappresentanza democratica per tutti i palestinesi a prescindere da dove risiedono, elezioni, la fine della divisione fra Fatah e Hamas.
Fajr: Quello che abbiamo capito è che c'era un sentimento comune in tutta la Palestine che lo status quo non era più accettabile. Sta nascendo un movimento forte, portato avanti dai giovani, ispirato chiaramente dagli eventi in Egitto e Tunisia.
Lina: A Gaza, ovviamente abbiamo le stesse richieste. Tanti gruppi si stanno mobilitando. Gaza Youth Breaks Out è tra gli organizzatori. Per quanto riguarda la partecipazione, non so se sarà uguale a quella della Cisgiordania e Gerusalemme, comunque stiamo cercando di mobilitare la gente. Utiliziamo gli stessi metodi come in Cisgiordania. Facebook e Twitter sono gli strumenti più importanti. È tutto comminciato come una piccola idea, ma ora la maggior parte della gente qua sa dell'iniziativa. Generalmente, la gente qua non si fida molto di Facebook, dato che è facile mascherarsi, ma in questo caso è diverso. La gente qua sa che è in programma una mobilitazzione e che ci si aspetta che anche a Gaza si manifesta.
Fadi: Facebook e Twitter sono degli strumenti importanti, specialmente per collegarci fra la Cisgiordania e Gaza, ma anche con il resto del mondo. Però, sono solo degli strumenti. Questa rivoluzione nel mondo araba stava arrivando, e sarebbe arrivata anche senza facebook. Quello che succede negli altri paesi ci aiuto ad alzarci dalla disperazione e trovare la speranza. La gente qua ora sa che le cose possono cambiare, e sono pronti a fare sacrifici perché avvenga.
Quale sono le lezioni che avete imparato dalle mobilitazionin Egitto e Tunisia?
Fadi: Abbiamo imparato tanto dai manuali degli egiziani, per esempio come trattare con infiltrati, come pianificare una permanenza (sit-in) ad oltranza, dove mettere le tende, ecc. Però la Tunisia per noi è un esempio più vicino, è un paese piccolo, simile alla Palestina.
C'erano poi degli aspetti della rivoluzione egiziana che non possiamo usare. Per esempio, per noi non è possibile, date le restrizioni sul movimento, far convergere tutti in una città. A non parlare dell'occupazione israeliana. Dobbiamo prepararci per la reazione alle proteste contro Israele.
Fajr: Non possiamo dire più di tanto sulle tattiche che utilizzaremo, ma siamo consapevoli degli ostacoli e ci stiamp preparando.
Fadi: conosciamo la potenza della popolazione palestinese. Ultimamente, con alcune persone, che stanno marginalmente meglio per via della "pace economica", opporsi all'occupazione non era più tra le priorità. Ora questo è cambiato. La gente ha visto che invece il cambiamento è possibile.
Lina: Una cosa importante da ricordare è che questa non è una protesta contro Hamas. È una manifestazione per l'unità. Tutti insieme contro l'occupazione. Chiaramente, a Israele non fa piacere sentir parlare di unità. E Hamas deve capire che queste proteste sono per il bene di tutti, per porre fine all'occupazione e l'assedio di Gaza, per aiutare tutti i palestinesi. E questo non può succedere se non siamo uniti. Può essere che all'inizio non piace a chi ha il potere, ma devono capire che per la maggior parte della gente, l'unità è una priorità.
Cosa chiedete della comunità internazionale?
Fadi: Ci sono tre richieste, rivolte a tre tipi di pubblico:
In primo luogo, chiediamo a tutti i palestinesi della diaspora di organizzare sit-in di lungo termine presso la delegazione palestinese nel proprio paese.
Invece per i cittadini del mondo (n.b. in realtà si rivolge sopratutto al pubblico statunitense), ho in mente una citazione di Henry David Thoreau, "non prestarsi all'ingiustizia contro la quale protesti". Quindi, per esempio negli Stati Uniti, più che chiedere un sostegno diretto alla nostra iniziativa chiediamo che si fa di tutto per bloccare gli aiuti militari che gli USA regala a Israele. E chiediamo a tutti di sostenere la campagna BDS.
In fine, per i giornalisti, chiediamo una mano nel far sapere dell'iniziativa e di dare spazio a quello che succede in Palestina e Israele.
Quale è stata la reazione fin'ora dalla stampa e che previsioni ci sono per quanto riguarda la partecipazione?
Fadi: Per la stampa, c'e sicuramente interesse. Sulla partecipazione, non vogliamo parlare di numeri, ma speriamo migliaia o decine di migliaia. Hanno assicurato la presenza le associazioni dei giovani, le ONG e alcuni partiti.
Lina: Per quanto riguarda la stampa, ho paura che qua a Gaza a differenza della Cisgiordania, i media la presenteranno come una protesta contro Hamas invece di una manifestazione per l'unità. Quindi chiediamo che il contesto vero dell'iniziativa venga raccontato.
Fadi/Fajr: Chiaramente, anche in Cisgiordania dobbiamo combattere contro la parzialità dei media. È facile per i media occidentali fare servizi sulle rivolte contro leader arabi autocratici, sarà una cosa diversa quando si tratta di proteste contro Israele. Stiamo parlando di coinvolgere tutti i palestinesi (WB, 48, Gaza, diaspora) nelle decisioni politici, siamo sicuri che l'idea di una persona, un voto attirirà l'attenzione dei media. Una volta che rivolgiamo la protesta verso Israele, invece sarà assai più difficile avere servizi positivi sulla mobilitazione. Ma non impossibile. Abbiamo già visto alcuni giornalisti occidentali cominciare a dare notizie accurate sulla Palestina.
Il più grande errore che hanno commeso i nostri leader è stato quello di non sapere far conoscere la vera natura delle nostre richieste di libertà al mondo, in modo che nel mondo spesso non c'è simpatia per i palestinesi. È moralmente giusto sostenere chi lotta per la giustizia ma non abbiamo avuto questo sostegno dal mondo.
Ci sono state tentative di co-optare l'iniziativa?
Lina: ci sono state delle azioni "preventive" da parte di chi ha il potere, sopratutto cercando di evitare qualsiasi responsabilità per la situazione attuale.
Fajr: sì, si tratta sopratutto del istinto di "sopravivenza politica".
Come vi sentite alla vigilia della mobilitazione?
Lina: Sento una cosa che non pensavo di sentirmi mai, la speranza. Che le cose possono cambiare. È la prima volta nella mia vita. Non pensavo mai di avere questi pensieri.
Fadi: Siamo ispirati dai nostri fratelli in Egitto e Tunisia. L'Egitto è importanto per il mondo arabo, la cultura, I programmi televisivi egiziani permeano la Palestina. Ora ho speranza. Vorrei vedere unità nel mondo arabo, una specie di Unione europea per i paesi arabi, l'Unione Araba, che può competere con il resto del mondo. Sono 20enne. Spero di vedere una cosa del genere quando sarò 40enne.
Fajr: Mi ricordo la prima intifada. Guardando le immagini di Tahrir Square e le donne egiziane in piazza, ho pensato al ruole forte che avevano le donne durante la prima intifada. Ho sentito le donne egiziane repetere i canti che usavano le donne palestinesi. Le donne possono essere un forza per il bene.
Lina: Io ho in mente tante immagini dell'Egitto e della Palestina che si sovrapongono e diventano una, tutti insieme, fratelli e sorelli arabi uniti.
Una della realtà palestinesi di cui parlano i media sono i comitati popolari per la resistenza nonviolenta. Sono coinvolti nell'iniziativa del 15 marzo?
Fadi: Certo. Sono coinvolti direttamente. Non dovevamo neanche chiamarli, erano integrati naturalmente sin dall'inizio. Noi abbiamo partecipato alle loro manifestazioni, abbiamo visto e rivisto i video delle loro mobilitazioni per vedere quello che funziona e quello no. Ci è stato utile per pianificare per l'oppressione israeliana e quella eventuale di Hamas e Fatah. Hanno 6 anni di esperienza, seguire quello che hanno fatto è un vero e proprio corso di formazione per un cambiamento.
--
Stephanie
La conferenza era organizzata dall'Institute for Middle East Understanding (organizzazione che, in poche parole, cerca di facilitare l'accesso dei media a voci palestinesi), con tre ospiti dalla Palestina:
Fadi Quran dalla Cisgiordania, coordinatore di vari movimenti di giovani. Laureato in fisica e relazioni internazionali a Stanford, attualmente sta facendo un Master in diritti umani e diritto costituzionale.
Lina Al-Sharif da Gaza, studia letteratura inglese all'Islamic University a Gaza, è una blogger e scrittrice.
Fajr Harb dalla Cisgordania, vice direttore del Carter Center Field Office a Ramallah e membro di al Shabaka: The Palestinian Policy Network.
Raccontateci come è nata l'iniziativa del 15 marzo
Fadi: da un po' di tempo ci sono tanti gruppi di giovani palestinesi, dalla Cisgiordania, Gaza, Israele e la diaspora, che hanno lavorato su appelli vari con diverse richieste volte ad un cambiamento. 270 gruppi si sono uniti su delle richieste specifiche che ha portato all'appello per il 15 marzo. Tra le principali richieste sono: una rappresentanza democratica per tutti i palestinesi a prescindere da dove risiedono, elezioni, la fine della divisione fra Fatah e Hamas.
Fajr: Quello che abbiamo capito è che c'era un sentimento comune in tutta la Palestine che lo status quo non era più accettabile. Sta nascendo un movimento forte, portato avanti dai giovani, ispirato chiaramente dagli eventi in Egitto e Tunisia.
Lina: A Gaza, ovviamente abbiamo le stesse richieste. Tanti gruppi si stanno mobilitando. Gaza Youth Breaks Out è tra gli organizzatori. Per quanto riguarda la partecipazione, non so se sarà uguale a quella della Cisgiordania e Gerusalemme, comunque stiamo cercando di mobilitare la gente. Utiliziamo gli stessi metodi come in Cisgiordania. Facebook e Twitter sono gli strumenti più importanti. È tutto comminciato come una piccola idea, ma ora la maggior parte della gente qua sa dell'iniziativa. Generalmente, la gente qua non si fida molto di Facebook, dato che è facile mascherarsi, ma in questo caso è diverso. La gente qua sa che è in programma una mobilitazzione e che ci si aspetta che anche a Gaza si manifesta.
Fadi: Facebook e Twitter sono degli strumenti importanti, specialmente per collegarci fra la Cisgiordania e Gaza, ma anche con il resto del mondo. Però, sono solo degli strumenti. Questa rivoluzione nel mondo araba stava arrivando, e sarebbe arrivata anche senza facebook. Quello che succede negli altri paesi ci aiuto ad alzarci dalla disperazione e trovare la speranza. La gente qua ora sa che le cose possono cambiare, e sono pronti a fare sacrifici perché avvenga.
Quale sono le lezioni che avete imparato dalle mobilitazionin Egitto e Tunisia?
Fadi: Abbiamo imparato tanto dai manuali degli egiziani, per esempio come trattare con infiltrati, come pianificare una permanenza (sit-in) ad oltranza, dove mettere le tende, ecc. Però la Tunisia per noi è un esempio più vicino, è un paese piccolo, simile alla Palestina.
C'erano poi degli aspetti della rivoluzione egiziana che non possiamo usare. Per esempio, per noi non è possibile, date le restrizioni sul movimento, far convergere tutti in una città. A non parlare dell'occupazione israeliana. Dobbiamo prepararci per la reazione alle proteste contro Israele.
Fajr: Non possiamo dire più di tanto sulle tattiche che utilizzaremo, ma siamo consapevoli degli ostacoli e ci stiamp preparando.
Fadi: conosciamo la potenza della popolazione palestinese. Ultimamente, con alcune persone, che stanno marginalmente meglio per via della "pace economica", opporsi all'occupazione non era più tra le priorità. Ora questo è cambiato. La gente ha visto che invece il cambiamento è possibile.
Lina: Una cosa importante da ricordare è che questa non è una protesta contro Hamas. È una manifestazione per l'unità. Tutti insieme contro l'occupazione. Chiaramente, a Israele non fa piacere sentir parlare di unità. E Hamas deve capire che queste proteste sono per il bene di tutti, per porre fine all'occupazione e l'assedio di Gaza, per aiutare tutti i palestinesi. E questo non può succedere se non siamo uniti. Può essere che all'inizio non piace a chi ha il potere, ma devono capire che per la maggior parte della gente, l'unità è una priorità.
Cosa chiedete della comunità internazionale?
Fadi: Ci sono tre richieste, rivolte a tre tipi di pubblico:
In primo luogo, chiediamo a tutti i palestinesi della diaspora di organizzare sit-in di lungo termine presso la delegazione palestinese nel proprio paese.
Invece per i cittadini del mondo (n.b. in realtà si rivolge sopratutto al pubblico statunitense), ho in mente una citazione di Henry David Thoreau, "non prestarsi all'ingiustizia contro la quale protesti". Quindi, per esempio negli Stati Uniti, più che chiedere un sostegno diretto alla nostra iniziativa chiediamo che si fa di tutto per bloccare gli aiuti militari che gli USA regala a Israele. E chiediamo a tutti di sostenere la campagna BDS.
In fine, per i giornalisti, chiediamo una mano nel far sapere dell'iniziativa e di dare spazio a quello che succede in Palestina e Israele.
Quale è stata la reazione fin'ora dalla stampa e che previsioni ci sono per quanto riguarda la partecipazione?
Fadi: Per la stampa, c'e sicuramente interesse. Sulla partecipazione, non vogliamo parlare di numeri, ma speriamo migliaia o decine di migliaia. Hanno assicurato la presenza le associazioni dei giovani, le ONG e alcuni partiti.
Lina: Per quanto riguarda la stampa, ho paura che qua a Gaza a differenza della Cisgiordania, i media la presenteranno come una protesta contro Hamas invece di una manifestazione per l'unità. Quindi chiediamo che il contesto vero dell'iniziativa venga raccontato.
Fadi/Fajr: Chiaramente, anche in Cisgiordania dobbiamo combattere contro la parzialità dei media. È facile per i media occidentali fare servizi sulle rivolte contro leader arabi autocratici, sarà una cosa diversa quando si tratta di proteste contro Israele. Stiamo parlando di coinvolgere tutti i palestinesi (WB, 48, Gaza, diaspora) nelle decisioni politici, siamo sicuri che l'idea di una persona, un voto attirirà l'attenzione dei media. Una volta che rivolgiamo la protesta verso Israele, invece sarà assai più difficile avere servizi positivi sulla mobilitazione. Ma non impossibile. Abbiamo già visto alcuni giornalisti occidentali cominciare a dare notizie accurate sulla Palestina.
Il più grande errore che hanno commeso i nostri leader è stato quello di non sapere far conoscere la vera natura delle nostre richieste di libertà al mondo, in modo che nel mondo spesso non c'è simpatia per i palestinesi. È moralmente giusto sostenere chi lotta per la giustizia ma non abbiamo avuto questo sostegno dal mondo.
Ci sono state tentative di co-optare l'iniziativa?
Lina: ci sono state delle azioni "preventive" da parte di chi ha il potere, sopratutto cercando di evitare qualsiasi responsabilità per la situazione attuale.
Fajr: sì, si tratta sopratutto del istinto di "sopravivenza politica".
Come vi sentite alla vigilia della mobilitazione?
Lina: Sento una cosa che non pensavo di sentirmi mai, la speranza. Che le cose possono cambiare. È la prima volta nella mia vita. Non pensavo mai di avere questi pensieri.
Fadi: Siamo ispirati dai nostri fratelli in Egitto e Tunisia. L'Egitto è importanto per il mondo arabo, la cultura, I programmi televisivi egiziani permeano la Palestina. Ora ho speranza. Vorrei vedere unità nel mondo arabo, una specie di Unione europea per i paesi arabi, l'Unione Araba, che può competere con il resto del mondo. Sono 20enne. Spero di vedere una cosa del genere quando sarò 40enne.
Fajr: Mi ricordo la prima intifada. Guardando le immagini di Tahrir Square e le donne egiziane in piazza, ho pensato al ruole forte che avevano le donne durante la prima intifada. Ho sentito le donne egiziane repetere i canti che usavano le donne palestinesi. Le donne possono essere un forza per il bene.
Lina: Io ho in mente tante immagini dell'Egitto e della Palestina che si sovrapongono e diventano una, tutti insieme, fratelli e sorelli arabi uniti.
Una della realtà palestinesi di cui parlano i media sono i comitati popolari per la resistenza nonviolenta. Sono coinvolti nell'iniziativa del 15 marzo?
Fadi: Certo. Sono coinvolti direttamente. Non dovevamo neanche chiamarli, erano integrati naturalmente sin dall'inizio. Noi abbiamo partecipato alle loro manifestazioni, abbiamo visto e rivisto i video delle loro mobilitazioni per vedere quello che funziona e quello no. Ci è stato utile per pianificare per l'oppressione israeliana e quella eventuale di Hamas e Fatah. Hanno 6 anni di esperienza, seguire quello che hanno fatto è un vero e proprio corso di formazione per un cambiamento.
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venerdì 11 marzo 2011
La persistenza dell'occupazione
Perché l'occupazione di Israele non ha fine
di Omar H. Rahman
I leader politici di tutto il mondo credono di poter convincere i politici di Israele a porre fine all'occupazione del territorio palestinese, con scenari apocalittici e con argomenti intelligenti, nonostante decenni di esperienza dimostrino che non è possibile. E' più prudente pensare, tuttavia, che la determinazione a porre fine all'occupazione israeliana sarà basata sugli stessi fattori che tutti i politici considerano quando si arriva a una decisione. Cosa provoca lo status quo su di me? Quanto sarà duro da un punto di vista politico effettuare cambiamenti a lungo termine? La triste realtà è che i leader israeliani oggi hanno pochi incentivi immediati per affrontare la sfida di porre fine all'occupazione, nonostante le terribili conseguenze a lungo termine del non farlo. Pertanto, invece di aspettare il giorno dell’arrivo di uno statista israeliano visionario, il mondo deve prendere posizione e cambiare l'attuale analisi costi-benefici dell'occupazione che, secondo i politici israeliani, finora è favorevole.
E' importante capire che l'occupazione del territorio palestinese dopo la guerra del 1967, costituì un dilemma immediato e inconciliabile per i leader israeliani. Più di qualsiasi altro territorio, Israele ha cercato di annettersi la Cisgiordania; tuttavia, non ha voluto inglobare la numerosa popolazione palestinese che vi viveva già. E' stata una chiara dimostrazione di come Israele vuole la dote, ma non la sposa, e la situazione di oggi è una diretta espressione di tale dilemma.
Nel corso dei decenni successivi, l'occupazione del territorio palestinese è stata un'impresa a costo sufficientemente basso. I militari israeliani hanno gestito direttamente tutti gli aspetti della vita quotidiana della popolazione palestinese e hanno fornito servizi minimi come parte della loro responsabilità in quanto potenza occupante. Poi, durante la prima rivolta palestinese alla fine del 1980, il costo politico e militare del controllo di una popolazione palestinese civilmente disobbediente è diventato troppo alto per Israele. Per la prima volta, Israele è stato costretto a trattare con le aspirazioni nazionali del popolo palestinese, il cui esito finale è stato quello degli Accordi di Oslo firmati nel 1993 sul prato della Casa Bianca.
Tale accordo disegnava un graduale ritrarsi dell'occupazione e la sua sostituzione con istituzioni palestinesi, che si sarebbe concluso con il riconoscimento dello stato palestinese da parte di Israele. Il risultato reale, tuttavia, è stato quasi l'opposto: la nuova Autorità Nazionale Palestinese ha acquisito all’apparenza il controllo diretto dei centri abitati, mentre l'esercito israeliano ha intensificato l'occupazione di tutto il resto. In sostanza, Israele ha ceduto la responsabilità diretta sulla gente, pur continuando ad avanzare pretese sui vantaggi provenienti dalla terra. La fase intermedia di Oslo ha dato ai leader israeliani quello status quo che hanno sempre desiderato e l'illusione di una risposta al permanente dilemma della loro occupazione. Oggi, non solo Israele non paga per le conseguenze dell'occupazione, ma il paese in realtà si è trasformato in una fonte di profitto e l'interesse a porre fine all'occupazione è in gran parte scomparso dalla coscienza pubblica israeliana.
Infatti, la speculazione commerciale si estende dall’impresa dell’insediamento israeliano a tutti i settori dell'economia ed è diventata – quello che molti definirebbero - un grande affare. Ad esempio, Israele mantiene il completo controllo militare e amministrativo sulla Valle del Giordano, il tratto di terra immediatamente ad ovest del fiume Giordano, che rappresenta circa il 30 per cento della Cisgiordania. La Valle del Giordano, non solo possiede notevoli risorse naturali, ma è anche la riserva agricola della West Bank e include il Mar Morto, un'altra grande fonte di reddito. Israele gestisce l'intero settore agro-alimentare della Valle del Giordano, i cui prodotti si dirigono verso i mercati di tutto il mondo.
Israele mantiene anche il completo controllo, e il libero accesso alle risorse naturali della Palestina, compreso il campo elettromagnetico e le falde acquifere, per non parlare della decennale dipendenza di Israele dalla manodopera palestinese a basso costo. In realtà, degli 800 milioni di metri cubi di acqua attinta annualmente dalle falde acquifere nei territori occupati della Cisgiordania, Israele ne prende 688 milioni di metri cubi e che rivende in gran parte ai palestinesi per tornaconto economico.
Inoltre, Israele si serve attualmente di alcune importanti cave di pietra che si trovano in terreni occupati e le utilizza per la produzione di pietra da taglio e di cemento. Mentre nega ai palestinesi il diritto di costruire proprie fabbriche di cemento, Israele esporta 2 milioni di tonnellate di cemento all'anno ai palestinesi. Inoltre, Israele ha proibito ai palestinesi di costruire i propri impianti di energia elettrica, malgrado siano in grado di farlo e sia stata offerta loro per anni assistenza in tale campo da parte di terzi. Di conseguenza, i palestinesi acquistano 97,7 per cento della loro elettricità da Israele. In sostanza, Israele sta impedendo ai palestinesi lo sviluppo delle proprie capacità in modo che, non in grado di provvedere a se stessi, loro possano continuare a sfruttarne i mercati.
Il reato più eclatante e risaputo, tuttavia, è il regime di restrizioni imposte da Israele ai movimenti dei palestinesi nei territori occupati. Questo regime fa lievitare per i palestinesi il costo degli affari, dando alle società israeliane un netto vantaggio competitivo sul mercato palestinese. Andate in qualsiasi negozio di alimentari palestinese, e lo troverete pieno di prodotti israeliani perché i palestinesi hanno poche alternative. E questa è solo la punta dell'iceberg. L'elenco dello sciacallaggio commerciale si allunga sempre di più, dal turismo alla costruzione di opere di difesa, Israele sta facendo soldi con l'occupazione.
Tutto ciò distoglie i leader israeliani dalla realtà che l'occupazione della Palestina sta diventando una nuova forma di apartheid. Nel momento in cui Israele ha iniziato a trasferire la sua popolazione civile nei territori occupati è iniziato questo tragico processo. In tal modo, Israele ha creato un intero sistema che facilita il processo di separazione a vantaggio di un popolo rispetto a un altro. Leggi separate, strade, infrastrutture e gli insediamenti sono la realtà viva, profonda del territorio palestinese occupato. A meno che tutto questo non venga smantellato, il compromesso dei due-stati resterà un vuoto slogan senza futuro, e come molti stanno cominciando a supporre, potrebbe contribuire a determinare un risultato più brutto per i drammatici cambiamenti regionali in corso in questo momento. Ma resta a Israele il beneficio di prendere l'iniziativa per evitare che questo esito non si verifichi in assenza di incoraggiamento a causa dei costi e dei vantaggi a breve termine.
Purtroppo, il processo diplomatico che, a metà degli anni 1990, si proponeva di raggiungere un accordo permanente entro cinque anni si è protratto per oltre 15, con i palestinesi ai quali è stato detto che non hanno altra strada per la libertà al di fuori dei negoziati. Basta leggere i documenti rilasciati da Al Jazeera e The Guardian per verificare di persona che, anche nei negoziati, Israele non è interessato a raggiungere una soluzione definitiva che non soddisfi l'obiettivo di mantenere la propria presenza nel territorio occupato. Gli Stati Uniti sono stati complici di questo sforzo, bloccando ogni iniziativa per risolvere la questione palestinese al di fuori di interminabili negoziati bilaterali. La decisione degli Stati Uniti di bloccare una Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ribadiva l'illegalità degli insediamenti israeliani è l'esempio più recente e illuminante di questa politica.
D'altra parte, molti leader israeliani, tra cui il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman - che attualmente vive in un insediamento illegale in Cisgiordania - hanno sostenuto che una soluzione a due-Stati non può essere raggiunta in un prossimo futuro. Lieberman ha proposto piuttosto una soluzione con confini provvisori. Allo stesso modo, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sta promuovendo l'iniziativa di una cosiddetta "pace economica". Entrambe sono forme per mantenere lo status quo, che servono solo a distruggere la possibilità di due-Stati, consentendo all’attività di colonizzazione di rafforzarsi ulteriormente. Tuttavia, il tempo per le mezze misure e gli accordi provvisori è finito. La risposta all'immobilità politica deve incidere sul processo decisionale, sostanzialmente, alterando l'equilibrio costi-benefici dell'occupazione.
Ci sono diversi modi per produrre questo risultato. In primo luogo, la comunità internazionale deve far capire ad Israele che ci sarà un costo politico ed economico dato dal protrarsi della sua occupazione. Rimproverare semplicemente gli israeliani non è sufficiente a farli agire - la comunità internazionale deve rispondere con la pressione economica e politica. Gli Stati terzi dovrebbero agire secondo i loro obblighi, come definito dalla Corte Internazionale di Giustizia e bandire dai propri mercati i beni prodotti nelle colonie israeliane. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe rafforzare questi divieti con misure pratiche per individuare e impedire a terzi di fare affari con, o nelle colonie. Il governo palestinese ha già adottato questo approccio e ha preso l'iniziativa di fare una distinzione e di boicottare i prodotti provenienti dalle colonie. Questa politica non si discosta dal consenso internazionale relativo agli insediamenti, ma fornisce piuttosto un modo pratico per gli Stati di dare attuazione alle posizioni da loro dichiarate tanto da aumentare i costi politici e finanziari dell'occupazione.
Un occasione d'oro si è presentata ai palestinesi ed essi devono cogliere questo momento, o rischiano di perdere per sempre. Lungi dal danneggiare o limitare le loro capacità, la fine delle trattative ha liberato i palestinesi in modo tale che ora possono agire nel modo migliore per i propri interessi. I due pilastri della liberazione nazionale palestinese, la lotta armata e i negoziati bilaterali, sono stati entrambi screditati per l'incapacità di produrre risultati positivi. Eppure, intorno a loro, in tutta la regione il cambiamento è radicale, grazie alla forza del "potere del popolo" che sta vincendo col duro lavoro e il sacrificio dei loro vicini arabi. Anche se i palestinesi non sono stati oppressi per decenni sotto il pugno di ferro di un dittatore “fatto in casa”, sono stati oppressi e continuamente espropriati dal braccio forte dell'occupazione. L'esercizio della lotta popolare non violenta contro gli strumenti dell’occupazione e delle colonie deve diventare il modus operandi di un movimento di liberazione neo-palestinese. Allo stesso modo in cui i palestinesi hanno già iniziato a manifestare pacificamente contro il muro di Israele in posti come Budrus e Bil'in, in tutti i territori i palestinesi , sempre e ovunque essi vivano, devono confrontarsi con tali strumenti con manifestazioni vaste, organizzate e pacifiche. Questo coinvolge anche i confini, oltre i quali grandi comunità di profughi hanno atteso invano per 62 anni una soluzione alla loro terribile situazione.
Finché Israele beneficerà dello stato attuale delle cose, è irragionevole aspettarsi che i politici israeliani modifichino drasticamente l'attuale situazione in vista di quello che potrebbe essere un probabile sconvolgimento su vasta scala. Inoltre, la natura della struttura politica frammentata di Israele, dove i piccoli partiti esercitano un'influenza sproporzionata, non facilita i cambiamenti. Il modo migliore per superare tutto ciò sta nell’esercitare una pressione sul centro di Israele, rendendo politicamente ed economicamente scomodo sostenere lo status quo. Tale azione avrà un impatto drammatico sul modo in cui i politici israeliani percepiscono l'impresa degli insediamenti e il futuro dell'occupazione. L'era in cui l'occupazione di Israele produce dividendi deve finire. Solo allora potremo vedere un cambiamento.
Omar H. Rahman è un giornalista che si occupa di questioni socio-politiche nella regione del Medio Oriente. È un ex consulente della squadra dei negoziatori palestinesi ed attualmente vive a Ramallah.
(tradotto da barbara gagliardi)
di Omar H. Rahman
I leader politici di tutto il mondo credono di poter convincere i politici di Israele a porre fine all'occupazione del territorio palestinese, con scenari apocalittici e con argomenti intelligenti, nonostante decenni di esperienza dimostrino che non è possibile. E' più prudente pensare, tuttavia, che la determinazione a porre fine all'occupazione israeliana sarà basata sugli stessi fattori che tutti i politici considerano quando si arriva a una decisione. Cosa provoca lo status quo su di me? Quanto sarà duro da un punto di vista politico effettuare cambiamenti a lungo termine? La triste realtà è che i leader israeliani oggi hanno pochi incentivi immediati per affrontare la sfida di porre fine all'occupazione, nonostante le terribili conseguenze a lungo termine del non farlo. Pertanto, invece di aspettare il giorno dell’arrivo di uno statista israeliano visionario, il mondo deve prendere posizione e cambiare l'attuale analisi costi-benefici dell'occupazione che, secondo i politici israeliani, finora è favorevole.
E' importante capire che l'occupazione del territorio palestinese dopo la guerra del 1967, costituì un dilemma immediato e inconciliabile per i leader israeliani. Più di qualsiasi altro territorio, Israele ha cercato di annettersi la Cisgiordania; tuttavia, non ha voluto inglobare la numerosa popolazione palestinese che vi viveva già. E' stata una chiara dimostrazione di come Israele vuole la dote, ma non la sposa, e la situazione di oggi è una diretta espressione di tale dilemma.
Nel corso dei decenni successivi, l'occupazione del territorio palestinese è stata un'impresa a costo sufficientemente basso. I militari israeliani hanno gestito direttamente tutti gli aspetti della vita quotidiana della popolazione palestinese e hanno fornito servizi minimi come parte della loro responsabilità in quanto potenza occupante. Poi, durante la prima rivolta palestinese alla fine del 1980, il costo politico e militare del controllo di una popolazione palestinese civilmente disobbediente è diventato troppo alto per Israele. Per la prima volta, Israele è stato costretto a trattare con le aspirazioni nazionali del popolo palestinese, il cui esito finale è stato quello degli Accordi di Oslo firmati nel 1993 sul prato della Casa Bianca.
Tale accordo disegnava un graduale ritrarsi dell'occupazione e la sua sostituzione con istituzioni palestinesi, che si sarebbe concluso con il riconoscimento dello stato palestinese da parte di Israele. Il risultato reale, tuttavia, è stato quasi l'opposto: la nuova Autorità Nazionale Palestinese ha acquisito all’apparenza il controllo diretto dei centri abitati, mentre l'esercito israeliano ha intensificato l'occupazione di tutto il resto. In sostanza, Israele ha ceduto la responsabilità diretta sulla gente, pur continuando ad avanzare pretese sui vantaggi provenienti dalla terra. La fase intermedia di Oslo ha dato ai leader israeliani quello status quo che hanno sempre desiderato e l'illusione di una risposta al permanente dilemma della loro occupazione. Oggi, non solo Israele non paga per le conseguenze dell'occupazione, ma il paese in realtà si è trasformato in una fonte di profitto e l'interesse a porre fine all'occupazione è in gran parte scomparso dalla coscienza pubblica israeliana.
Infatti, la speculazione commerciale si estende dall’impresa dell’insediamento israeliano a tutti i settori dell'economia ed è diventata – quello che molti definirebbero - un grande affare. Ad esempio, Israele mantiene il completo controllo militare e amministrativo sulla Valle del Giordano, il tratto di terra immediatamente ad ovest del fiume Giordano, che rappresenta circa il 30 per cento della Cisgiordania. La Valle del Giordano, non solo possiede notevoli risorse naturali, ma è anche la riserva agricola della West Bank e include il Mar Morto, un'altra grande fonte di reddito. Israele gestisce l'intero settore agro-alimentare della Valle del Giordano, i cui prodotti si dirigono verso i mercati di tutto il mondo.
Israele mantiene anche il completo controllo, e il libero accesso alle risorse naturali della Palestina, compreso il campo elettromagnetico e le falde acquifere, per non parlare della decennale dipendenza di Israele dalla manodopera palestinese a basso costo. In realtà, degli 800 milioni di metri cubi di acqua attinta annualmente dalle falde acquifere nei territori occupati della Cisgiordania, Israele ne prende 688 milioni di metri cubi e che rivende in gran parte ai palestinesi per tornaconto economico.
Inoltre, Israele si serve attualmente di alcune importanti cave di pietra che si trovano in terreni occupati e le utilizza per la produzione di pietra da taglio e di cemento. Mentre nega ai palestinesi il diritto di costruire proprie fabbriche di cemento, Israele esporta 2 milioni di tonnellate di cemento all'anno ai palestinesi. Inoltre, Israele ha proibito ai palestinesi di costruire i propri impianti di energia elettrica, malgrado siano in grado di farlo e sia stata offerta loro per anni assistenza in tale campo da parte di terzi. Di conseguenza, i palestinesi acquistano 97,7 per cento della loro elettricità da Israele. In sostanza, Israele sta impedendo ai palestinesi lo sviluppo delle proprie capacità in modo che, non in grado di provvedere a se stessi, loro possano continuare a sfruttarne i mercati.
Il reato più eclatante e risaputo, tuttavia, è il regime di restrizioni imposte da Israele ai movimenti dei palestinesi nei territori occupati. Questo regime fa lievitare per i palestinesi il costo degli affari, dando alle società israeliane un netto vantaggio competitivo sul mercato palestinese. Andate in qualsiasi negozio di alimentari palestinese, e lo troverete pieno di prodotti israeliani perché i palestinesi hanno poche alternative. E questa è solo la punta dell'iceberg. L'elenco dello sciacallaggio commerciale si allunga sempre di più, dal turismo alla costruzione di opere di difesa, Israele sta facendo soldi con l'occupazione.
Tutto ciò distoglie i leader israeliani dalla realtà che l'occupazione della Palestina sta diventando una nuova forma di apartheid. Nel momento in cui Israele ha iniziato a trasferire la sua popolazione civile nei territori occupati è iniziato questo tragico processo. In tal modo, Israele ha creato un intero sistema che facilita il processo di separazione a vantaggio di un popolo rispetto a un altro. Leggi separate, strade, infrastrutture e gli insediamenti sono la realtà viva, profonda del territorio palestinese occupato. A meno che tutto questo non venga smantellato, il compromesso dei due-stati resterà un vuoto slogan senza futuro, e come molti stanno cominciando a supporre, potrebbe contribuire a determinare un risultato più brutto per i drammatici cambiamenti regionali in corso in questo momento. Ma resta a Israele il beneficio di prendere l'iniziativa per evitare che questo esito non si verifichi in assenza di incoraggiamento a causa dei costi e dei vantaggi a breve termine.
Purtroppo, il processo diplomatico che, a metà degli anni 1990, si proponeva di raggiungere un accordo permanente entro cinque anni si è protratto per oltre 15, con i palestinesi ai quali è stato detto che non hanno altra strada per la libertà al di fuori dei negoziati. Basta leggere i documenti rilasciati da Al Jazeera e The Guardian per verificare di persona che, anche nei negoziati, Israele non è interessato a raggiungere una soluzione definitiva che non soddisfi l'obiettivo di mantenere la propria presenza nel territorio occupato. Gli Stati Uniti sono stati complici di questo sforzo, bloccando ogni iniziativa per risolvere la questione palestinese al di fuori di interminabili negoziati bilaterali. La decisione degli Stati Uniti di bloccare una Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ribadiva l'illegalità degli insediamenti israeliani è l'esempio più recente e illuminante di questa politica.
D'altra parte, molti leader israeliani, tra cui il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman - che attualmente vive in un insediamento illegale in Cisgiordania - hanno sostenuto che una soluzione a due-Stati non può essere raggiunta in un prossimo futuro. Lieberman ha proposto piuttosto una soluzione con confini provvisori. Allo stesso modo, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sta promuovendo l'iniziativa di una cosiddetta "pace economica". Entrambe sono forme per mantenere lo status quo, che servono solo a distruggere la possibilità di due-Stati, consentendo all’attività di colonizzazione di rafforzarsi ulteriormente. Tuttavia, il tempo per le mezze misure e gli accordi provvisori è finito. La risposta all'immobilità politica deve incidere sul processo decisionale, sostanzialmente, alterando l'equilibrio costi-benefici dell'occupazione.
Ci sono diversi modi per produrre questo risultato. In primo luogo, la comunità internazionale deve far capire ad Israele che ci sarà un costo politico ed economico dato dal protrarsi della sua occupazione. Rimproverare semplicemente gli israeliani non è sufficiente a farli agire - la comunità internazionale deve rispondere con la pressione economica e politica. Gli Stati terzi dovrebbero agire secondo i loro obblighi, come definito dalla Corte Internazionale di Giustizia e bandire dai propri mercati i beni prodotti nelle colonie israeliane. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe rafforzare questi divieti con misure pratiche per individuare e impedire a terzi di fare affari con, o nelle colonie. Il governo palestinese ha già adottato questo approccio e ha preso l'iniziativa di fare una distinzione e di boicottare i prodotti provenienti dalle colonie. Questa politica non si discosta dal consenso internazionale relativo agli insediamenti, ma fornisce piuttosto un modo pratico per gli Stati di dare attuazione alle posizioni da loro dichiarate tanto da aumentare i costi politici e finanziari dell'occupazione.
Un occasione d'oro si è presentata ai palestinesi ed essi devono cogliere questo momento, o rischiano di perdere per sempre. Lungi dal danneggiare o limitare le loro capacità, la fine delle trattative ha liberato i palestinesi in modo tale che ora possono agire nel modo migliore per i propri interessi. I due pilastri della liberazione nazionale palestinese, la lotta armata e i negoziati bilaterali, sono stati entrambi screditati per l'incapacità di produrre risultati positivi. Eppure, intorno a loro, in tutta la regione il cambiamento è radicale, grazie alla forza del "potere del popolo" che sta vincendo col duro lavoro e il sacrificio dei loro vicini arabi. Anche se i palestinesi non sono stati oppressi per decenni sotto il pugno di ferro di un dittatore “fatto in casa”, sono stati oppressi e continuamente espropriati dal braccio forte dell'occupazione. L'esercizio della lotta popolare non violenta contro gli strumenti dell’occupazione e delle colonie deve diventare il modus operandi di un movimento di liberazione neo-palestinese. Allo stesso modo in cui i palestinesi hanno già iniziato a manifestare pacificamente contro il muro di Israele in posti come Budrus e Bil'in, in tutti i territori i palestinesi , sempre e ovunque essi vivano, devono confrontarsi con tali strumenti con manifestazioni vaste, organizzate e pacifiche. Questo coinvolge anche i confini, oltre i quali grandi comunità di profughi hanno atteso invano per 62 anni una soluzione alla loro terribile situazione.
Finché Israele beneficerà dello stato attuale delle cose, è irragionevole aspettarsi che i politici israeliani modifichino drasticamente l'attuale situazione in vista di quello che potrebbe essere un probabile sconvolgimento su vasta scala. Inoltre, la natura della struttura politica frammentata di Israele, dove i piccoli partiti esercitano un'influenza sproporzionata, non facilita i cambiamenti. Il modo migliore per superare tutto ciò sta nell’esercitare una pressione sul centro di Israele, rendendo politicamente ed economicamente scomodo sostenere lo status quo. Tale azione avrà un impatto drammatico sul modo in cui i politici israeliani percepiscono l'impresa degli insediamenti e il futuro dell'occupazione. L'era in cui l'occupazione di Israele produce dividendi deve finire. Solo allora potremo vedere un cambiamento.
Omar H. Rahman è un giornalista che si occupa di questioni socio-politiche nella regione del Medio Oriente. È un ex consulente della squadra dei negoziatori palestinesi ed attualmente vive a Ramallah.
(tradotto da barbara gagliardi)
giovedì 10 marzo 2011
LIBIA: PACIFISTI CONTRO L’INGERENZA ARMATA OCCIDENTALE
In tutto il mondo cresce la mobilitazione contro un attacco militare, e non solo, da parte degli Stati Uniti, dell'Europa e della Nato contro la Libia
DI MARINELLA CORREGGIA
La redazione dell’appello, drastica nella presa di posizione (niente intervento, di nessun tipo) e chiara anche nella condanna della natura dei regimi che sono sotto attacco, è stata affidata all’attivista per la nonviolenza Kathy Kelly, che dopo molti anni di opposizione all’embargo all’Iraq, nella primavera 2003 era a Baghdad durante l’invasione e l’occupazione, con diversi pacifisti internazionali membri dell’Iraq Peace Team. Allora c’era Bush, ora Obama. Ma la guerra è guerra. L’Unac si è così posto al centro del dibattito, e sta preparando per il 9 aprile a New York e per il 10 a San Francisco due grandi manifestazioni contro tutte le guerre Usa.
2. In Francia è stato diffuso un appello franco-arabo – «Non à l’intervention étrangère en Libye» – contro l’intervento militare. L’appello (ne circolano altri due analoghi in Francia) sostiene “la lotta per i processi in corso nei paesi arabi” e denuncia “le forze esterne che intendono interferire per sabotare il processo. I popoli della Tunisia e dell’Egitto con i loro movimenti rivoluzionari sono riusciti a rovesciare dittatori legati e sostenuti da potenze imperialiste. Come nel caso di altri popoli, adesso spetta al popolo libico decidere del proprio avvenire e senza ingerenze, che violerebbero la Carta delle Nazioni Unite” (non è infatti in ballo alcuna aggressione ad altri paesi, unica possibile legittimazione a interventi militari Onu). L’appello cita anche il caso dei crimini di guerra su Gaza, lasciati cadere nel vuoto dalla comunità internazionale; e denuncia il “battage mediatico unilaterale”.
3. In Italia è la rete Disarmiamoli a parlare allo stesso modo: “Il movimento contro la guerra nei giorni scorsi si è mobilitato al fianco delle comunità magrebine, scese in piazza per sostenere le salutari rivolte che stanno sconvolgendo il Maghreb e molti altri paesi africani. La solidarietà nostra va ai popoli in lotta contro tutti i regimi messi in discussione dai moti popolari, senza cadere nei tranelli costruiti ad arte per giustificare nuove ingerenze o invasioni imperialiste, così come sta avvenendo nel caso libico. Siamo per l’autodeterminazione del popolo libico e di tutti i popoli in lotta in Nord Africa, non certo per assecondare la tristemente nota pax occidentale”.
4. Queste motivazioni a favore delle rivolte arabe e perciò contro l’interventismo di stati esteri si ritrovano nell’accurata analisi storica e attuale dell’esperto di mondo arabo e musulmano Mohamed Hassan, etiope, ex diplomatico per il suo paese, autore nel 2003 del libro “L’Iraq sous occupation”, nell’intervista rilasciata al media online Investig’Action. Secondo Hassan, “intervenire in Libia permetterebbe a Washington di spezzare il movimento rivoluzionario nell’intera area ed evitare che si estenda a tutto il mondo arabo e all’Africa”: Gli Usa e l’Occidente, presi in contropiede dalle rivoluzioni tunisina e ancor più egiziana, stanno cercando di “recuperare” quei movimenti popolari, che però sfuggono loro di mano (nello stesso Egitto dove gli Usa contano sull’esercito per mantenere un “sistema accettabile”, ci sarebbero in tante caserme giovani ufficiali che si organizzano in comitati rivoluzionari per lavorare con il popolo).
Il pericolo che con un intervento gli Usa vorrebbero scongiurare è di veder emergere governi antimperialisti in Tunisia ed Egitto (in un momento già di crisi anche di fronte alla prepotente avanzata cinese); in questo caso Gheddafi potrebbe rinunciare agli accordi conclusi con l’Occidente, “non sarebbe la prima volta che cambia cavallo”. Hassan sottolinea che il rigetto della proposta di mediazione avanzata dal presidente venezuelano Hugo Chavez e da diversi paesi latinoamericani (e appoggiata da diversi movimenti popolari e da Fidel Castro nel suo ormai noto articolo del 3 marzo “La guerra inevitabile della Nato”) è segno che non si vuole una via d’uscita pacifica al conflitto in Libia. Il popolo libico, prosegue Hassan, “non merita un’aggressione militare”. E “merita di meglio di questo movimento di opposizione che sta precipitando la Libia nel caos”. La sua impressione è che i sentimenti di quella parte della popolazione che è stufa del regime (e di tutti i suoi numerosissimi errori e della corruzione) siano strumentalizzati dall’opposizione dell’est del paese che vuole la parte della torta: “Chi sono del resto i ribelli? E se volessero davvero condurre una rivoluzione democratica, perché hanno come insegna la bandiera del re Idriss, di quando la Pirenaica dominava tutto il paese? Hanno chiesto il parere agli altri libici?”. Hassan si chiede infine come si può considerare democratico un movimento che “massacra i neri” considerati mercenari di Gheddafi, cerca una guerra civile e chiede un intervento militare straniero.
5. Intanto chi si fa domande cerca di ricostruire i percorsi di disinformazione che alimentano l’appello all’intervento, non solo da parte dei rivoltosi dell’Est libico. Non ci sono prove di alcun tipo dei “massacri di civili” e dei “bombardamenti sulle città”. Le cifre apocalittiche delle prime ore, 10mila morti e 50mila feriti avanzate dall’emittente saudita Al Arabyia che citava un falso rappresentante del Tribunale penale internazionale si sono rivelate campate in aria. Il 22 febbraio la Bbc e Al Jazeera inoltre riportavano di bombardamenti su quartieri di Bengasi e Tripoli, ma come riporta la tivù russa Rt, i satelliti dell’esercito russo fin dall’inizio dalla crisi “non hanno registrato alcun bombardamento” e del resto non ci sono foto né video che attestino distruzioni.
DI MARINELLA CORREGGIA
La redazione dell’appello, drastica nella presa di posizione (niente intervento, di nessun tipo) e chiara anche nella condanna della natura dei regimi che sono sotto attacco, è stata affidata all’attivista per la nonviolenza Kathy Kelly, che dopo molti anni di opposizione all’embargo all’Iraq, nella primavera 2003 era a Baghdad durante l’invasione e l’occupazione, con diversi pacifisti internazionali membri dell’Iraq Peace Team. Allora c’era Bush, ora Obama. Ma la guerra è guerra. L’Unac si è così posto al centro del dibattito, e sta preparando per il 9 aprile a New York e per il 10 a San Francisco due grandi manifestazioni contro tutte le guerre Usa.
2. In Francia è stato diffuso un appello franco-arabo – «Non à l’intervention étrangère en Libye» – contro l’intervento militare. L’appello (ne circolano altri due analoghi in Francia) sostiene “la lotta per i processi in corso nei paesi arabi” e denuncia “le forze esterne che intendono interferire per sabotare il processo. I popoli della Tunisia e dell’Egitto con i loro movimenti rivoluzionari sono riusciti a rovesciare dittatori legati e sostenuti da potenze imperialiste. Come nel caso di altri popoli, adesso spetta al popolo libico decidere del proprio avvenire e senza ingerenze, che violerebbero la Carta delle Nazioni Unite” (non è infatti in ballo alcuna aggressione ad altri paesi, unica possibile legittimazione a interventi militari Onu). L’appello cita anche il caso dei crimini di guerra su Gaza, lasciati cadere nel vuoto dalla comunità internazionale; e denuncia il “battage mediatico unilaterale”.
3. In Italia è la rete Disarmiamoli a parlare allo stesso modo: “Il movimento contro la guerra nei giorni scorsi si è mobilitato al fianco delle comunità magrebine, scese in piazza per sostenere le salutari rivolte che stanno sconvolgendo il Maghreb e molti altri paesi africani. La solidarietà nostra va ai popoli in lotta contro tutti i regimi messi in discussione dai moti popolari, senza cadere nei tranelli costruiti ad arte per giustificare nuove ingerenze o invasioni imperialiste, così come sta avvenendo nel caso libico. Siamo per l’autodeterminazione del popolo libico e di tutti i popoli in lotta in Nord Africa, non certo per assecondare la tristemente nota pax occidentale”.
4. Queste motivazioni a favore delle rivolte arabe e perciò contro l’interventismo di stati esteri si ritrovano nell’accurata analisi storica e attuale dell’esperto di mondo arabo e musulmano Mohamed Hassan, etiope, ex diplomatico per il suo paese, autore nel 2003 del libro “L’Iraq sous occupation”, nell’intervista rilasciata al media online Investig’Action. Secondo Hassan, “intervenire in Libia permetterebbe a Washington di spezzare il movimento rivoluzionario nell’intera area ed evitare che si estenda a tutto il mondo arabo e all’Africa”: Gli Usa e l’Occidente, presi in contropiede dalle rivoluzioni tunisina e ancor più egiziana, stanno cercando di “recuperare” quei movimenti popolari, che però sfuggono loro di mano (nello stesso Egitto dove gli Usa contano sull’esercito per mantenere un “sistema accettabile”, ci sarebbero in tante caserme giovani ufficiali che si organizzano in comitati rivoluzionari per lavorare con il popolo).
Il pericolo che con un intervento gli Usa vorrebbero scongiurare è di veder emergere governi antimperialisti in Tunisia ed Egitto (in un momento già di crisi anche di fronte alla prepotente avanzata cinese); in questo caso Gheddafi potrebbe rinunciare agli accordi conclusi con l’Occidente, “non sarebbe la prima volta che cambia cavallo”. Hassan sottolinea che il rigetto della proposta di mediazione avanzata dal presidente venezuelano Hugo Chavez e da diversi paesi latinoamericani (e appoggiata da diversi movimenti popolari e da Fidel Castro nel suo ormai noto articolo del 3 marzo “La guerra inevitabile della Nato”) è segno che non si vuole una via d’uscita pacifica al conflitto in Libia. Il popolo libico, prosegue Hassan, “non merita un’aggressione militare”. E “merita di meglio di questo movimento di opposizione che sta precipitando la Libia nel caos”. La sua impressione è che i sentimenti di quella parte della popolazione che è stufa del regime (e di tutti i suoi numerosissimi errori e della corruzione) siano strumentalizzati dall’opposizione dell’est del paese che vuole la parte della torta: “Chi sono del resto i ribelli? E se volessero davvero condurre una rivoluzione democratica, perché hanno come insegna la bandiera del re Idriss, di quando la Pirenaica dominava tutto il paese? Hanno chiesto il parere agli altri libici?”. Hassan si chiede infine come si può considerare democratico un movimento che “massacra i neri” considerati mercenari di Gheddafi, cerca una guerra civile e chiede un intervento militare straniero.
5. Intanto chi si fa domande cerca di ricostruire i percorsi di disinformazione che alimentano l’appello all’intervento, non solo da parte dei rivoltosi dell’Est libico. Non ci sono prove di alcun tipo dei “massacri di civili” e dei “bombardamenti sulle città”. Le cifre apocalittiche delle prime ore, 10mila morti e 50mila feriti avanzate dall’emittente saudita Al Arabyia che citava un falso rappresentante del Tribunale penale internazionale si sono rivelate campate in aria. Il 22 febbraio la Bbc e Al Jazeera inoltre riportavano di bombardamenti su quartieri di Bengasi e Tripoli, ma come riporta la tivù russa Rt, i satelliti dell’esercito russo fin dall’inizio dalla crisi “non hanno registrato alcun bombardamento” e del resto non ci sono foto né video che attestino distruzioni.
Appello dei giovani palestinesi all'unità
15 Marzo "End the Division" - Giornata della riconciliazione
In nome del popolo arabo palestinese, dei martiri, delle vedove, degli orfani e dei familiari di quanti sono morti, delle migliaia di prigionieri nelle carceri israeliane e di tutti i palestinesi della diaspora, chiediamo a tutte le fazioni politiche di unirsi sotto la bandiera della Palestina per una riforma del sistema politico palestinese che si basi sugli interessi e le aspirazioni del popolo palestinese tutto, sia quello che vive in terra di Palestina che i profughi.
Il grave momento attuale che vede le continue incursioni di coloni israeliani, la sottrazione continua di terra palestinese nella città sacra di Gerusalemme e il perdurare del feroce assedio di Gaza ci obbliga ad essere ancora più uniti contro la brutale occupazione israeliana.
Abbiamo sentito il popolo palestinese chiedere elezioni legislative e presidenziali per porre fine alle divisioni. Certo, noi tutti vogliamo la riconciliazione di tutte le forze politiche ma desideriamo anche una ricostruzione completa dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), che comprenda tutte le fazioni, inclusa Hamas, e in questo nuovo assetto torni a lottare per la liberazione della Palestina, così come stabilito sin dalla sua fondazione.
Noi popolo palestinese (sia coloro che vivono in terra di Palestina che i profughi) da sempre ascoltiamo ripetere che le azioni pacifiche basteranno a farci guadagnare la vittoria e a restituirci la terra, ma finora 20 anni di negoziati non sono serviti a farci ottenere la benché minima richiesta. La nostra gente vive sotto una occupazione brutale ed oppressiva, che sottrae la terra, viola i luoghi sacri, uccide i nostri figli. E tutto questo avviene mentre il mondo che ascolta e vede continua a ripetere che la democrazia è al sicuro e i diritti umani rispettati! D’altro canto la Resistenza non fa passi avanti, mentre più di un milione e mezzo di palestinesi vive sotto un un'occupazione così feroce che ai malati (compresi i figli dei leader della resistenza) sono precluse le cure mediche.
E' necessario trovare un accordo: una riconciliazione è indispensabile per tutti i palestinesi di qui e per i sei milioni di profughi palestinesi che ancora sognano di tornare alle loro case sottratte loro dall'esercito occupante, che comprende soltanto il linguaggio della forza! Dobbiamo essere determinati, fare dell'unità il nostro punto di forza e concordare su una dirigenza indivisa che ci guidi sulla strada della liberazione, con orgoglio e dignità!
Ci appelliamo a coloro che governano in Cisgiordania e Gaza affinchè rispondano alle legittime richieste del popolo che sono:
1 – rilascio di tutti i detenuti politici nelle prigioni dell’Autorità Palestinese e di Hamas
2 – fine delle campagne mediatiche contro le altre fazioni
3 – dimissioni dei governi di Haniyeh e Fayyad per dare vita ad un governo palestinese di unità nazionale che sia l'espressione di ogni fazione politica e rappresenti il popolo palestinese tutto
4 – ristrutturazione dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) in modo da renderla inclusiva di tutti i partiti affinchè torni a battersi per lo scopo originario: la liberazione della Palestina
5 – annuncio del congelamento dei negoziati finchè non si raggiungerà un accordo tra le varie fazioni su un programma politico comune
6 – fine di ogni forma di collaborazione con il nemico sionista per quanto riguarda la sicurezza
7 – organizzazione in contemporanea di elezioni presidenziali e parlamentari nei tempi stabiliti da tutte le fazioni insieme
Ci mobiliteremo a partire da martedì 15/03/2011 alle 11:30 e andremo avanti finchè non saranno accolte tutte le nostre richieste. Raduni previsti nei seguenti luoghi (possibili variazioni):
Gaza: Piazza del Milite Ignoto
Ramallah: Piazza Manara
Tulkarm: Piazzale Gamal Abdel Nasser
Jenin: complesso di garage vicino al vecchio Cinema Jenin
Hebron: davanti all’ufficio del Governatore (Al Khalil)
Bethlehem: Piazza della Natività
Nablus: Piazza dei Martiri
Giordania e Libano: da definire
Nel mondo: davanti alle sedi diplomatiche palestinesi, in coordinamento con le comunità palestinesi in esilio.
http://www.facebook.com/Palestinians.United?sk=info
Gaza Youth Breaks Out
In nome del popolo arabo palestinese, dei martiri, delle vedove, degli orfani e dei familiari di quanti sono morti, delle migliaia di prigionieri nelle carceri israeliane e di tutti i palestinesi della diaspora, chiediamo a tutte le fazioni politiche di unirsi sotto la bandiera della Palestina per una riforma del sistema politico palestinese che si basi sugli interessi e le aspirazioni del popolo palestinese tutto, sia quello che vive in terra di Palestina che i profughi.
Il grave momento attuale che vede le continue incursioni di coloni israeliani, la sottrazione continua di terra palestinese nella città sacra di Gerusalemme e il perdurare del feroce assedio di Gaza ci obbliga ad essere ancora più uniti contro la brutale occupazione israeliana.
Abbiamo sentito il popolo palestinese chiedere elezioni legislative e presidenziali per porre fine alle divisioni. Certo, noi tutti vogliamo la riconciliazione di tutte le forze politiche ma desideriamo anche una ricostruzione completa dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), che comprenda tutte le fazioni, inclusa Hamas, e in questo nuovo assetto torni a lottare per la liberazione della Palestina, così come stabilito sin dalla sua fondazione.
Noi popolo palestinese (sia coloro che vivono in terra di Palestina che i profughi) da sempre ascoltiamo ripetere che le azioni pacifiche basteranno a farci guadagnare la vittoria e a restituirci la terra, ma finora 20 anni di negoziati non sono serviti a farci ottenere la benché minima richiesta. La nostra gente vive sotto una occupazione brutale ed oppressiva, che sottrae la terra, viola i luoghi sacri, uccide i nostri figli. E tutto questo avviene mentre il mondo che ascolta e vede continua a ripetere che la democrazia è al sicuro e i diritti umani rispettati! D’altro canto la Resistenza non fa passi avanti, mentre più di un milione e mezzo di palestinesi vive sotto un un'occupazione così feroce che ai malati (compresi i figli dei leader della resistenza) sono precluse le cure mediche.
E' necessario trovare un accordo: una riconciliazione è indispensabile per tutti i palestinesi di qui e per i sei milioni di profughi palestinesi che ancora sognano di tornare alle loro case sottratte loro dall'esercito occupante, che comprende soltanto il linguaggio della forza! Dobbiamo essere determinati, fare dell'unità il nostro punto di forza e concordare su una dirigenza indivisa che ci guidi sulla strada della liberazione, con orgoglio e dignità!
Ci appelliamo a coloro che governano in Cisgiordania e Gaza affinchè rispondano alle legittime richieste del popolo che sono:
1 – rilascio di tutti i detenuti politici nelle prigioni dell’Autorità Palestinese e di Hamas
2 – fine delle campagne mediatiche contro le altre fazioni
3 – dimissioni dei governi di Haniyeh e Fayyad per dare vita ad un governo palestinese di unità nazionale che sia l'espressione di ogni fazione politica e rappresenti il popolo palestinese tutto
4 – ristrutturazione dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) in modo da renderla inclusiva di tutti i partiti affinchè torni a battersi per lo scopo originario: la liberazione della Palestina
5 – annuncio del congelamento dei negoziati finchè non si raggiungerà un accordo tra le varie fazioni su un programma politico comune
6 – fine di ogni forma di collaborazione con il nemico sionista per quanto riguarda la sicurezza
7 – organizzazione in contemporanea di elezioni presidenziali e parlamentari nei tempi stabiliti da tutte le fazioni insieme
Ci mobiliteremo a partire da martedì 15/03/2011 alle 11:30 e andremo avanti finchè non saranno accolte tutte le nostre richieste. Raduni previsti nei seguenti luoghi (possibili variazioni):
Gaza: Piazza del Milite Ignoto
Ramallah: Piazza Manara
Tulkarm: Piazzale Gamal Abdel Nasser
Jenin: complesso di garage vicino al vecchio Cinema Jenin
Hebron: davanti all’ufficio del Governatore (Al Khalil)
Bethlehem: Piazza della Natività
Nablus: Piazza dei Martiri
Giordania e Libano: da definire
Nel mondo: davanti alle sedi diplomatiche palestinesi, in coordinamento con le comunità palestinesi in esilio.
http://www.facebook.com/Palestinians.United?sk=info
Gaza Youth Breaks Out
mercoledì 9 marzo 2011
Valle del Giordano: demolizioni a Ein Il Hilwe
Domenica 06 Marzo 2011 19:08
Mondoweiss.net
05.03.2011
Immaginate che i vostri bambini vadano a scuola in tende, destinate a essere demolite,
perché i coloni cercano l’acqua nel vostro villaggio.
di Chris Keeler
A Ein il Hilwel la scuola è data da una semplice tenda con seggiole di plastica.
Ein Il Hilwe è una comunità beduina ubicata nella West Bank occupata, nella parte settentrionale della Valle del Giordano. E’ una delle molte comunità palestinesi condannate a risentire di recessione e di stagnazione a causa delle rigide politiche dell’Area C. Il villaggio è composto da circa 130 persone ed è situato in una posizione strategica vicina a una delle poche sorgenti naturali della Valle del Giordano che non è stata confiscata dal governo israeliano.
Il villaggio si trova distante dalla strada principale della Valle del Giordano, ai piedi delle colline circostanti. Estrapolata dal contesto dell’occupazione israeliana, Ein Il Hilwe sembra essere una pittoresca dimostrazione di genuinità e di tranquillità. Purtroppo per gli abitanti della comunità, l’occupazione è onnipresente ed è improbabile che presto si ritiri; Ein Il Hilwe è circondata da cinque insediamenti israeliani illegali abitati da coloni che spesso si recano a perseguitare i residenti del villaggio. Come in molti altri villaggi in Palestina, sono principalmente i bambini delle comunità quelli che forse risentono in modo più forte degli effetti dell’occupazione.
Solo 35 studenti di Ein Il Hilwe e delle comunità dei dintorni possono usufruire della scuola.
I bambini di Ein Il Hilwe, come quelli che provengono dalle comunità beduine dei dintorni, erano soliti andare a scuola nel villaggio di Tayasir, un percorso di oltre 13 km che comportava la necessità di dover prendere un autobus e di passare attraverso un check point israeliano. Troppo spesso, però, i bambini sarebbero oggetto di vessazione da parte dei soldati che presidiavano il posto di blocco. Alcuni sarebbero stati persino costretti ad abbandonare il bus e a percorrere a piedi i 13 chilometri per andare e per tornare da scuola. Comprensibilmente, il trattamento brutale imposto dai soldati israeliani ha costretto molti bambini ad abbandonare la scuola. Per combattere il tasso di permanenza scolastica in calo e per essere di aiuto alla sopravvivenza della comunità di Ein Il Hilwe, lo scorso novembre la Campagna Salva la Valle del Giordano ha costruito una semplice tenda-scuola. La scuola può ospitare 35 bambini, anche se, seduti su piccole sedie di plastica, molti frequentano i corsi all’esterno nei quali docenti volontari insegnano arabo, inglese, matematica, chimica e religione, in quanto le classi sono formate da studenti di tutte le età e di tutti i livelli. Purtroppo, dato che la tenda scuola di Ein Il Hilwe è stata costruita illegalmente (secondo le normative draconiane imposte dagli ormai defunti Accordi di Oslo), essa non è riconosciuta dal Ministero dell’Educazione palestinese tanto che non riceve alcun finanziamento dal governo palestinese, ed è ritenuta illegale dal governo israeliano. La tenda e l’area gioco, così come il costo di trasporto per gli insegnanti e per tutti i materiali scolastici sono stati forniti esclusivamente da organizzazioni per lo sviluppo. In effetti, l’esito della scuola dipende completamente dalla beneficenza.
Sabato 26 febbraio, ho partecipato a una iniziativa di appoggio a Ein Il Hilwe organizzata dalla Save the Jordan Valley Campaign e dal Ma’an Development Center, durante la quale i volontari hanno aiutato ad ampliare l’attuale area gioco per i bambini e si sono incontrati con i dirigenti della comunità. I volontari avevano il compito di costruire per la comunità una seconda tenda per la scuola che avrebbe permesso ad altri 65 bambini di frequentare la scuola, ma venerdì 25 febbraio, è arrivata sul posto una jeep militare e ha minacciato di demolire entrambe le tende e l’area gioco esistenti.
Purtroppo, la situazione di Ein Il Hilwe non è un caso isolato. In tutta la Palestina e in particolar modo nella Valle del Giordano le comunità sono soggette alle stesse spaventose congiunture. L’Area C – che sta a significare il pieno controllo amministrativo e militare israeliano – si estende su oltre il 95% della Valle del Giordano. Cosa ancor più devastante a proposito dell’Area C è l’impossibilità da parte palestinese di costruire, che lascia le comunità palestinesi nel migliore dei casi in un costante stato di ristagno, in quello peggiore, di recessione. Tra il 2000 e il 2007, è stato approvato solo il 6% delle richieste di permessi edilizi per i palestinesi; nello stesso periodo, sono stati accordati 91 permessi ai palestinesi mentre sono state edificate 18.472 unità abitative per ebrei. Per ogni permesso edilizio palestinese approvato da Israele, questi ha emesso 55 ordini di demolizione.
Gli studenti di Ein Il Hilwe non sono stati soli neppure nella loro sofferenza. Il villaggio Ka’abneh è un’altra comunità beduina che è circondata da colonie. Come a Ein Il Hilwe, era stata costruita illegalmente una scuola per la comunità, che fornisce istruzione a 66 studenti. Negli ultimi tre anni, per la scuola di Ka’abneh sono stati emessi 6 ordini di demolizione, il più recente nell’ottobre 2010 per un piccolo gabinetto. Allo stesso modo, la scuola di Jiftlik ha subito lo stesso destino prima del 2005. Come i loro compatrioti di Ein Il Hilwe, gli studenti di Jiftlik sono stati costretti a recarsi nella vicina Beit Hassan per andare a scuola. Dopo la costruzione del posto di controllo di Hamra, da Jiftlik molti hanno abbandonato la scuola a causa dei costi elevati dei trasporti e dei maltrattamenti subiti ai check point ad opera dei soldati israeliani. Il villaggio ha deciso di costruire una tenda-scuola come quella di Ein Il Hilwe, ma, tra il 2003 e il 2008, gli israeliani hanno demolito la scuola ben sette volte.
I palestinesi della Valle del Giordano sono soggetti a una costante aggressione. Israele non solo usa le armi ma anche i bulldozer e gli avvocati per costringere i palestinesi ad abbandonare le loro terre. Nel 1967, nella Valle del Giordano vivevano 320.000 palestinesi. Oggi, il numero si è ridotto dell’82% ad appena 56.000.
I tassi di povertà salgono al 60%, peggio di molte aree di Gaza. Forse la cosa più tragica è che l’occupazione israeliana nega attivamente agli studenti della Valle del Giordano il loro legittimo diritto all’istruzione. I soprusi da parte dei soldati e dei coloni, così come l’abituale pratica disumana della demolizione delle scuole nega ai bambini palestinesi il diritto all’apprendimento.
L’Articolo 50 della IV Convenzione di Ginevra impone alla forza occupante – in questo caso Israele – di “agevolare il buon funzionamento” delle scuole nel territorio occupato. La pratica di molestie nei confronti degli studenti, la distruzione delle scuole e l’incremento delle politiche che mettono a repentaglio l’istruzione palestinese sono una lampante violazione di questa, e di molte altre leggi del diritto internazionale – compresa la Convenzione dei Diritti dei Bambini e la Convenzione contro la Discriminazione nel campo dell’Educazione. Ancora più importante, il danno fatto oggi alle scuole e agli studenti è causa di forti limitazioni e di menomazioni per le future generazioni della Palestina.
Gli studenti di Ein Il Hilwe sono solo un esempio di come Israele, negando l’istruzione,
viola il diritto internazionale.
Questo lavoro è comparso originariamente su Notes From a Medinah
(tradotto da mariano mingarelli)
Mondoweiss.net
05.03.2011
Immaginate che i vostri bambini vadano a scuola in tende, destinate a essere demolite,
perché i coloni cercano l’acqua nel vostro villaggio.
di Chris Keeler
A Ein il Hilwel la scuola è data da una semplice tenda con seggiole di plastica.
Ein Il Hilwe è una comunità beduina ubicata nella West Bank occupata, nella parte settentrionale della Valle del Giordano. E’ una delle molte comunità palestinesi condannate a risentire di recessione e di stagnazione a causa delle rigide politiche dell’Area C. Il villaggio è composto da circa 130 persone ed è situato in una posizione strategica vicina a una delle poche sorgenti naturali della Valle del Giordano che non è stata confiscata dal governo israeliano.
Il villaggio si trova distante dalla strada principale della Valle del Giordano, ai piedi delle colline circostanti. Estrapolata dal contesto dell’occupazione israeliana, Ein Il Hilwe sembra essere una pittoresca dimostrazione di genuinità e di tranquillità. Purtroppo per gli abitanti della comunità, l’occupazione è onnipresente ed è improbabile che presto si ritiri; Ein Il Hilwe è circondata da cinque insediamenti israeliani illegali abitati da coloni che spesso si recano a perseguitare i residenti del villaggio. Come in molti altri villaggi in Palestina, sono principalmente i bambini delle comunità quelli che forse risentono in modo più forte degli effetti dell’occupazione.
Solo 35 studenti di Ein Il Hilwe e delle comunità dei dintorni possono usufruire della scuola.
I bambini di Ein Il Hilwe, come quelli che provengono dalle comunità beduine dei dintorni, erano soliti andare a scuola nel villaggio di Tayasir, un percorso di oltre 13 km che comportava la necessità di dover prendere un autobus e di passare attraverso un check point israeliano. Troppo spesso, però, i bambini sarebbero oggetto di vessazione da parte dei soldati che presidiavano il posto di blocco. Alcuni sarebbero stati persino costretti ad abbandonare il bus e a percorrere a piedi i 13 chilometri per andare e per tornare da scuola. Comprensibilmente, il trattamento brutale imposto dai soldati israeliani ha costretto molti bambini ad abbandonare la scuola. Per combattere il tasso di permanenza scolastica in calo e per essere di aiuto alla sopravvivenza della comunità di Ein Il Hilwe, lo scorso novembre la Campagna Salva la Valle del Giordano ha costruito una semplice tenda-scuola. La scuola può ospitare 35 bambini, anche se, seduti su piccole sedie di plastica, molti frequentano i corsi all’esterno nei quali docenti volontari insegnano arabo, inglese, matematica, chimica e religione, in quanto le classi sono formate da studenti di tutte le età e di tutti i livelli. Purtroppo, dato che la tenda scuola di Ein Il Hilwe è stata costruita illegalmente (secondo le normative draconiane imposte dagli ormai defunti Accordi di Oslo), essa non è riconosciuta dal Ministero dell’Educazione palestinese tanto che non riceve alcun finanziamento dal governo palestinese, ed è ritenuta illegale dal governo israeliano. La tenda e l’area gioco, così come il costo di trasporto per gli insegnanti e per tutti i materiali scolastici sono stati forniti esclusivamente da organizzazioni per lo sviluppo. In effetti, l’esito della scuola dipende completamente dalla beneficenza.
Sabato 26 febbraio, ho partecipato a una iniziativa di appoggio a Ein Il Hilwe organizzata dalla Save the Jordan Valley Campaign e dal Ma’an Development Center, durante la quale i volontari hanno aiutato ad ampliare l’attuale area gioco per i bambini e si sono incontrati con i dirigenti della comunità. I volontari avevano il compito di costruire per la comunità una seconda tenda per la scuola che avrebbe permesso ad altri 65 bambini di frequentare la scuola, ma venerdì 25 febbraio, è arrivata sul posto una jeep militare e ha minacciato di demolire entrambe le tende e l’area gioco esistenti.
Purtroppo, la situazione di Ein Il Hilwe non è un caso isolato. In tutta la Palestina e in particolar modo nella Valle del Giordano le comunità sono soggette alle stesse spaventose congiunture. L’Area C – che sta a significare il pieno controllo amministrativo e militare israeliano – si estende su oltre il 95% della Valle del Giordano. Cosa ancor più devastante a proposito dell’Area C è l’impossibilità da parte palestinese di costruire, che lascia le comunità palestinesi nel migliore dei casi in un costante stato di ristagno, in quello peggiore, di recessione. Tra il 2000 e il 2007, è stato approvato solo il 6% delle richieste di permessi edilizi per i palestinesi; nello stesso periodo, sono stati accordati 91 permessi ai palestinesi mentre sono state edificate 18.472 unità abitative per ebrei. Per ogni permesso edilizio palestinese approvato da Israele, questi ha emesso 55 ordini di demolizione.
Gli studenti di Ein Il Hilwe non sono stati soli neppure nella loro sofferenza. Il villaggio Ka’abneh è un’altra comunità beduina che è circondata da colonie. Come a Ein Il Hilwe, era stata costruita illegalmente una scuola per la comunità, che fornisce istruzione a 66 studenti. Negli ultimi tre anni, per la scuola di Ka’abneh sono stati emessi 6 ordini di demolizione, il più recente nell’ottobre 2010 per un piccolo gabinetto. Allo stesso modo, la scuola di Jiftlik ha subito lo stesso destino prima del 2005. Come i loro compatrioti di Ein Il Hilwe, gli studenti di Jiftlik sono stati costretti a recarsi nella vicina Beit Hassan per andare a scuola. Dopo la costruzione del posto di controllo di Hamra, da Jiftlik molti hanno abbandonato la scuola a causa dei costi elevati dei trasporti e dei maltrattamenti subiti ai check point ad opera dei soldati israeliani. Il villaggio ha deciso di costruire una tenda-scuola come quella di Ein Il Hilwe, ma, tra il 2003 e il 2008, gli israeliani hanno demolito la scuola ben sette volte.
I palestinesi della Valle del Giordano sono soggetti a una costante aggressione. Israele non solo usa le armi ma anche i bulldozer e gli avvocati per costringere i palestinesi ad abbandonare le loro terre. Nel 1967, nella Valle del Giordano vivevano 320.000 palestinesi. Oggi, il numero si è ridotto dell’82% ad appena 56.000.
I tassi di povertà salgono al 60%, peggio di molte aree di Gaza. Forse la cosa più tragica è che l’occupazione israeliana nega attivamente agli studenti della Valle del Giordano il loro legittimo diritto all’istruzione. I soprusi da parte dei soldati e dei coloni, così come l’abituale pratica disumana della demolizione delle scuole nega ai bambini palestinesi il diritto all’apprendimento.
L’Articolo 50 della IV Convenzione di Ginevra impone alla forza occupante – in questo caso Israele – di “agevolare il buon funzionamento” delle scuole nel territorio occupato. La pratica di molestie nei confronti degli studenti, la distruzione delle scuole e l’incremento delle politiche che mettono a repentaglio l’istruzione palestinese sono una lampante violazione di questa, e di molte altre leggi del diritto internazionale – compresa la Convenzione dei Diritti dei Bambini e la Convenzione contro la Discriminazione nel campo dell’Educazione. Ancora più importante, il danno fatto oggi alle scuole e agli studenti è causa di forti limitazioni e di menomazioni per le future generazioni della Palestina.
Gli studenti di Ein Il Hilwe sono solo un esempio di come Israele, negando l’istruzione,
viola il diritto internazionale.
Questo lavoro è comparso originariamente su Notes From a Medinah
(tradotto da mariano mingarelli)
martedì 8 marzo 2011
BAHREIN, LE DONNE SONO PROTAGONISTE
8 MARZO; BAHREIN, LE DONNE SONO PROTAGONISTE
«Lottiamo per la democrazia, per un Bahrein senza discriminazioni verso gli sciiti ma anche per i nostri diritti», dice la giornalista e attivista Rim Khalifa alla vigilia dell'8 marzo
DI MICHELE GIORGIO*
Lungo gli ampi viali che partono da Piazza della Perla ieri erano le donne a comporre buona parte della catena umana simbolo dell’unità del paese. «Siamo protagoniste di questa rivolta. Lottiamo per la democrazia, per un Bahrein senza discriminazioni tra sunniti e sciiti ma anche per i nostri diritti». Rim Khalifa sorride descrivendo il ruolo che stanno recitando le bahrenite nella lotta contro la monarchia e il governo e per ricostruire il paese su nuove fondamenta.
«Non avevo mai visto prima qualcosa di simile, è un buon segnale per le celebrazioni dell’8 marzo» aggiunge. Giornalista di punta di Wasat, quotidiano indipendente del Bahrein che diversamente dai media megafono del regime (di fatto tutti), è considerato una «voce» della protesta, Khalifa è impegnata in un doppio lavoro: di reporter e di attivista. «Non lasciatevi ingannare dall’abaya nero che indossano in pubblico quasi tutte le donne, perché fa parte della tradizione locale – spiega Khalifa -. Sta avvenendo qualcosa di importante. Le donne, di qualsiasi condizione, religiose e laiche, giovani e meno giovani, escono dalle case e sono accanto agli uomini nella lotta, nella diffusione delle informazione e nella gestione dell’accampamento in Piazza della Perla».
Si tratta di uno sviluppo eccezionale, sottolinea Khalifa, per un paese dove mogli e figlie in genere stanno a casa, non escono quasi mai. Ma per la giornalista stanno cambiando anche gli uomini. «Certo, la società era e resta nelle mani degli uomini ed è ancora lunga la strada che porta alla realizzazione dei nostri diritti – avverte – ma da qualche tempo le cose si stanno modificando, i bahreniti maschi guardano con occhi diversi al ruolo delle donne, i più giovani cominciano a superare idee e stereotipi della società patriarcale e autoritaria».
Tra i paesi del Golfo, il Bahrein ha visto, primo fra tutti, alcuni importanti riconoscimenti alle donne. In non pochi casi è stata la stessa monarchia a sostenere iniziative a sostegno dell’emancipazione femminile. Lo stesso è accaduto in misura minore (e diversa) in altri Paesi del Golfo dove l’intervento diretto delle cosiddette «sceicche» (le mogli dei leader), ha favorito qualche cambiamento. Sheikha Sabiha, moglie di re del Bahrein Hamad Al Khalifa, a una conferenza della Società delle Donne imprenditrici, ha dichiarato che le donne sono al centro del movimento di riforma del paese «che è diretto alla modernizzazione, verso la libertà di opinione, elezioni libere e diritti umani».
Belle parole quelle della «sheikha» ma molto lontane dalla realtà del suo paese. Nella maggior parte dei casi si è trattato di cambiamenti di facciata voluti dal regime bahrenita per offrire all’esterno un’immagine migliore e per sottrarsi alle critiche per violazioni gravi di diritti umani e politici.
Certo, in Bahrein nessuno dimentica che Mona Jassim Al Kawari è stata nominata giudice di un tribunale civile, la prima donna di tutto il Golfo ad occupare questa posizione, mentre il pubblico ministero Amina Isa, è stata la prima a rappresentare l’Ufficio della pubblica accusa in udienze giudiziarie. Senza dimenticare Latifa Al Gaoud, la prima parlamentare donna del paese.
Ma dietro questi traguardi raggiunti, rimangono alte le resistenze della fasce più tradizionali e conservatrici della società. «La futura classe politica del Bahrein che sta nascendo in Piazza della Perla deve tenere presente che vanno cambiate leggi e norme che oggi limitano fortemente le possibilità delle donne – spiega Khadije H., impiegata ministeriale – non dimenticando che a pagare il conto più alto delle discriminazioni sono le donne a basso reddito, le vedove o le divorziate che devono fare i conti con una società che le boicotta e un regime che si disinteressa di loro». Se poi una donna è sciita, aggiunge Khadije, deve fare i conti con uno Stato che boicotta gli appartenenti alla sua fede oltre alle rigide regole della società patriarcale.
Per Jalila Sayyed, donna-avvocato che ha difeso alcuni importanti prigionieri politici in processi per «terrorismo», solo con «la fine del regime in Bahrein è possibile immaginare un importante cambiamento sociale». La cultura dei diritti, dice Sayyed, «deve entrare a far parte del patrimonio di ogni bahrenita».Nena News
* questo articolo e’ stato pubblicato il 6 marzo 2011 dal quotidiano Il Manifesto
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«Lottiamo per la democrazia, per un Bahrein senza discriminazioni verso gli sciiti ma anche per i nostri diritti», dice la giornalista e attivista Rim Khalifa alla vigilia dell'8 marzo
DI MICHELE GIORGIO*
Lungo gli ampi viali che partono da Piazza della Perla ieri erano le donne a comporre buona parte della catena umana simbolo dell’unità del paese. «Siamo protagoniste di questa rivolta. Lottiamo per la democrazia, per un Bahrein senza discriminazioni tra sunniti e sciiti ma anche per i nostri diritti». Rim Khalifa sorride descrivendo il ruolo che stanno recitando le bahrenite nella lotta contro la monarchia e il governo e per ricostruire il paese su nuove fondamenta.
«Non avevo mai visto prima qualcosa di simile, è un buon segnale per le celebrazioni dell’8 marzo» aggiunge. Giornalista di punta di Wasat, quotidiano indipendente del Bahrein che diversamente dai media megafono del regime (di fatto tutti), è considerato una «voce» della protesta, Khalifa è impegnata in un doppio lavoro: di reporter e di attivista. «Non lasciatevi ingannare dall’abaya nero che indossano in pubblico quasi tutte le donne, perché fa parte della tradizione locale – spiega Khalifa -. Sta avvenendo qualcosa di importante. Le donne, di qualsiasi condizione, religiose e laiche, giovani e meno giovani, escono dalle case e sono accanto agli uomini nella lotta, nella diffusione delle informazione e nella gestione dell’accampamento in Piazza della Perla».
Si tratta di uno sviluppo eccezionale, sottolinea Khalifa, per un paese dove mogli e figlie in genere stanno a casa, non escono quasi mai. Ma per la giornalista stanno cambiando anche gli uomini. «Certo, la società era e resta nelle mani degli uomini ed è ancora lunga la strada che porta alla realizzazione dei nostri diritti – avverte – ma da qualche tempo le cose si stanno modificando, i bahreniti maschi guardano con occhi diversi al ruolo delle donne, i più giovani cominciano a superare idee e stereotipi della società patriarcale e autoritaria».
Tra i paesi del Golfo, il Bahrein ha visto, primo fra tutti, alcuni importanti riconoscimenti alle donne. In non pochi casi è stata la stessa monarchia a sostenere iniziative a sostegno dell’emancipazione femminile. Lo stesso è accaduto in misura minore (e diversa) in altri Paesi del Golfo dove l’intervento diretto delle cosiddette «sceicche» (le mogli dei leader), ha favorito qualche cambiamento. Sheikha Sabiha, moglie di re del Bahrein Hamad Al Khalifa, a una conferenza della Società delle Donne imprenditrici, ha dichiarato che le donne sono al centro del movimento di riforma del paese «che è diretto alla modernizzazione, verso la libertà di opinione, elezioni libere e diritti umani».
Belle parole quelle della «sheikha» ma molto lontane dalla realtà del suo paese. Nella maggior parte dei casi si è trattato di cambiamenti di facciata voluti dal regime bahrenita per offrire all’esterno un’immagine migliore e per sottrarsi alle critiche per violazioni gravi di diritti umani e politici.
Certo, in Bahrein nessuno dimentica che Mona Jassim Al Kawari è stata nominata giudice di un tribunale civile, la prima donna di tutto il Golfo ad occupare questa posizione, mentre il pubblico ministero Amina Isa, è stata la prima a rappresentare l’Ufficio della pubblica accusa in udienze giudiziarie. Senza dimenticare Latifa Al Gaoud, la prima parlamentare donna del paese.
Ma dietro questi traguardi raggiunti, rimangono alte le resistenze della fasce più tradizionali e conservatrici della società. «La futura classe politica del Bahrein che sta nascendo in Piazza della Perla deve tenere presente che vanno cambiate leggi e norme che oggi limitano fortemente le possibilità delle donne – spiega Khadije H., impiegata ministeriale – non dimenticando che a pagare il conto più alto delle discriminazioni sono le donne a basso reddito, le vedove o le divorziate che devono fare i conti con una società che le boicotta e un regime che si disinteressa di loro». Se poi una donna è sciita, aggiunge Khadije, deve fare i conti con uno Stato che boicotta gli appartenenti alla sua fede oltre alle rigide regole della società patriarcale.
Per Jalila Sayyed, donna-avvocato che ha difeso alcuni importanti prigionieri politici in processi per «terrorismo», solo con «la fine del regime in Bahrein è possibile immaginare un importante cambiamento sociale». La cultura dei diritti, dice Sayyed, «deve entrare a far parte del patrimonio di ogni bahrenita».Nena News
* questo articolo e’ stato pubblicato il 6 marzo 2011 dal quotidiano Il Manifesto
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Libertò per le prigioniere politiche
8 MARZO; PALESTINA: LIBERTA’ PER LE PRIGIONIERE POLITICHE
36 donne rimangono ancora rinchiuse nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani, vittime di abusi fisici, verbali e psicologici. Alcune di loro usate in modo strumentale per arrestare mariti, figli, fratelli. L'appello della ONG Addameer.
Ramallah, 08 Marzo 2011, Nena News – Secondo i dati diffusi da Addameer, la ONG palestinese nata nel 1992 a sostegno delle migliaia di detenuti palestinesi, circa 10.000 donne palestinesi sono state arrestate e detenute dal 1967 ad oggi, sottoposte ad ordini militari, applicati da Israele ai palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata.
Alla data del 1 febbraio 2011, 36 donne rimangono ancora rinchiuse nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani, in strutture al di là dei territori occupati nel 1967, quindi in aperta violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. Tre di loro poi sono in detenzione amministrativa.
La maggioranza di loro – come avviene per i prigionieri politici di sesso maschile – sono vittime di abusi fisici, verbali e psicologici, maltrattamenti durante l’arresto, la detenzione e gli interrogatori, che includono percosse, minacce, perquisizioni corporali.
Secondo i dati forniti da Addameer, i prigionieri di sesso femminile, vengono detenuti nelle carceri israeliane di Neve Tertza e Hasharon-Telmond, dove rimangono in detenzione nella stessa sezione o nella stessa cella con donne israeliane accusate di crimini anche molto gravi, come omicidi.
Inoltre le carceri israeliane mancano di un approccio di genere: le donne palestinesi si ritrovano in celle sovraffollate, private dei più basilari requisiti di igiene e assistenza sanitaria, senza la possibilità di avere visite specialistiche, di ricevere visite dai familiari o di accedere al sistema educativo.
Molte di loro infine vengono arrestate o sottoposte ad interrogatori in modo strumentale, per far pressione sui loro mariti, fratelli, figli. Soprattutto nel caso si tratti di minori. Lo aveva già evidenziato la ONG B’Tselem: in alcuni casi di minori arrestati a Gerusalemme Est, sono seguiti anche provvedimenti intimidatori nei confronti delle loro madri; come nel caso di Nabil, 12 anni e mezzo, del quartiere di Silwan, fermato il 17 ottobre 2010 e rilasciato lo stesso giorno agli arresti domiciliari; 4 giorni dopo sua madre è stata convocata e interrogata dal Ministero del Welfare israeliano per determinare la sua “negligenza” verso il figlio.
In occasione della Giornata Internazionale delle Donne, la ONG Addameer rilancia un appello per il rilascio immediato di tutte le prigioniere politiche palestinesi e invita a firmare la petizione online al seguente link:
http://www.thepetitionsite.com/6/free-Palestinian-women-political-prisoners/
36 donne rimangono ancora rinchiuse nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani, vittime di abusi fisici, verbali e psicologici. Alcune di loro usate in modo strumentale per arrestare mariti, figli, fratelli. L'appello della ONG Addameer.
Ramallah, 08 Marzo 2011, Nena News – Secondo i dati diffusi da Addameer, la ONG palestinese nata nel 1992 a sostegno delle migliaia di detenuti palestinesi, circa 10.000 donne palestinesi sono state arrestate e detenute dal 1967 ad oggi, sottoposte ad ordini militari, applicati da Israele ai palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata.
Alla data del 1 febbraio 2011, 36 donne rimangono ancora rinchiuse nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani, in strutture al di là dei territori occupati nel 1967, quindi in aperta violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. Tre di loro poi sono in detenzione amministrativa.
La maggioranza di loro – come avviene per i prigionieri politici di sesso maschile – sono vittime di abusi fisici, verbali e psicologici, maltrattamenti durante l’arresto, la detenzione e gli interrogatori, che includono percosse, minacce, perquisizioni corporali.
Secondo i dati forniti da Addameer, i prigionieri di sesso femminile, vengono detenuti nelle carceri israeliane di Neve Tertza e Hasharon-Telmond, dove rimangono in detenzione nella stessa sezione o nella stessa cella con donne israeliane accusate di crimini anche molto gravi, come omicidi.
Inoltre le carceri israeliane mancano di un approccio di genere: le donne palestinesi si ritrovano in celle sovraffollate, private dei più basilari requisiti di igiene e assistenza sanitaria, senza la possibilità di avere visite specialistiche, di ricevere visite dai familiari o di accedere al sistema educativo.
Molte di loro infine vengono arrestate o sottoposte ad interrogatori in modo strumentale, per far pressione sui loro mariti, fratelli, figli. Soprattutto nel caso si tratti di minori. Lo aveva già evidenziato la ONG B’Tselem: in alcuni casi di minori arrestati a Gerusalemme Est, sono seguiti anche provvedimenti intimidatori nei confronti delle loro madri; come nel caso di Nabil, 12 anni e mezzo, del quartiere di Silwan, fermato il 17 ottobre 2010 e rilasciato lo stesso giorno agli arresti domiciliari; 4 giorni dopo sua madre è stata convocata e interrogata dal Ministero del Welfare israeliano per determinare la sua “negligenza” verso il figlio.
In occasione della Giornata Internazionale delle Donne, la ONG Addameer rilancia un appello per il rilascio immediato di tutte le prigioniere politiche palestinesi e invita a firmare la petizione online al seguente link:
http://www.thepetitionsite.com/6/free-Palestinian-women-political-prisoners/
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