La barca pacifista, che monitora le violazioni a danno dei pescatori palestinesi, e' stata avvicinata dalle motovedette israeliane e ha rischiato di ribaltarsi. GUARDA IL VIDEO
DI DANIELA RIVA E ROSA SCHIANO
Gaza, 30 dicembre 2011, Nena News (le foto sono Rosa Schiano) - Oliva, la piccola imbarcazione che monitora le violazioni dei diritti umani sui pescatori palestinesi nelle acque di Gaza, è stata attaccata mercoledi’ dalla marina israeliana. A bordo vi erano due osservatori internazionali ed il capitano palestinese. Come di solito, Oliva si era diretta verso le piccole imbarcazioni dei pescatori. La sua presenza è infatti espressamente richiesta dai pescatori palestinesi che si sentono così maggiormente protetti durante la loro attività.
Alcuni pescatori hanno recentemente dichiarato che la presenza di internazionali permette loro di prendere una maggiore quantità di pesce.
Mercoledi’ mattina la barca Oliva si è diretta dapprima verso nord, dove ha osservato una nave della marina israeliana sparare colpi di arma da fuoco ed intimare ai pescatori di andar via. Successivamente, poco prima delle 11:00, mentre si trovava insieme ad altre imbarcazioni di pescatori a quasi tre miglia nautiche dalla costa, è stata raggiunta a grande velocità da una nave della marina israeliana, che ha iniziato a girare velocemente intorno a loro ed alla Oliva provocando forti onde. I pescatori sono scappati.
Sfortunatamente, a causa di un problema al motore, la Oliva non è stata in grado di ripartire, ed è rimasta in balia delle onde provocate dalla marina israeliana. Pur avendo visto che non era in grado di ripartire, i soldati hanno continuato a girare velocemente attorno alla barca, creando onde sempre più alte. Una di queste onde ha travolto e quasi ribaltato la Oliva. Il capitano della barca è caduto in mare, procurandosi anche una ferita al ginocchio ed alla coscia sinistra. I due osservatori internazionali a bordo sono caduti sul pavimento della barca e sono stati completamente travolti dall’acqua, non riportando ferite.
I due osservatori hanno inoltre ripetutamente ed invano chiesto ai soldati israeliani di fermarsi e di spiegare il motivo della loro aggressione. Successivamente, una imbarcazione di pescatori si è avvicinata alla Oliva ed attraverso una corda l’ha trainata verso la costa.
Nelle recenti missioni della barca Oliva, lo staff internazionale ha osservato che la marina israeliana continua a sparare in acqua o in direzione dei pescatori con colpi di arma da fuoco, intimando ai pescatori di tornare a casa, utilizzando inoltre cannoni d’acqua per attaccarli. Lo staff internazionale inoltre denuncia che spesso gli attacchi avvengono stesso entro il limite “imposto” delle tre miglia nautiche.
Recentemente sì è verificato che, in assenza della barca Oliva, alcuni pescatori palestinesi sono stati feriti con colpi di arma da fuoco o arrestati e trasportati ad Ashdod, in Israele, e le loro barche sono state confiscate. L’ultimo episodio risale a domenica 18 dicembre quando quattro palestinesi sono stati arrestati e trasportati ad Ashdod, uno dei quali ha riportato una frattura alla gamba sinistra dovuta all’impatto con la nave della marina israeliana su cui cui è stato violentemente issato.
Gli accordi di Jericho del 1994 (sotto gli accordi di Oslo) stabiliscono che l’area entro cui i pescatori palestinesi possono pescare si estende fino a 20 miglia nautiche dalla costa. Quest’area fu poi progressivamente ridotta alle 12 miglia, alle 6 miglia ed attualmente alle 3 miglia imposte dalla marina israeliana dal gennaio 2009. Questi continui attacchi non soltanto violano la legislazione internazionale sui diritti umani, ma colpiscono inevitabilemte l’industria ittica che sostiene migliaia di famiglie palestinesi e la loro capacità di autosostenersi.
L’area interna alle tre miglia è ormai povera di pesci ed il numero di pescatori palestinesi si è ridotto nel corso degli ultimi anni a causa di queste difficoltà.
E possibile visionare i reports della barca Oliva in inglese sul sito del CPS Gaza http://www.cpsgaza.org/ e in italiano su http://ilblogdioliva.blogspot.com/
sabato 31 dicembre 2011
venerdì 30 dicembre 2011
SALVIAMO LA VITA DI SAMAR
SALVIAMO LA VITA DI SAMAR
Appello del Palestine Children’s Relief Fund a favore di Samar Maree, 10 anni. Colpita da un tumore al cervello, deve essere operata subito a Firenze ma servono fondi per coprire le spese dell’intervento.
samar
Ramallah (Cisgiordania), 26 dicembre 2011, Nena News – Salviamo la vita della piccola Samar Maree. E’ questo l’appello che ha lanciato nei giorni scorsi la Ong “Palestine Children’s Relief Fund” per raccogliere i fondi necessari per l’intervento chirurgico, previsto in Italia all’inizio del 2012, per rimuovere il tumore che ha colpito la bambina al cervello.
La diagnosi è stata fatta dal professor Lorenzo Genitori che qualche giorno fa ha visitato Samar all’ospedale di Ramallah dove purtroppo non è stato possibile, per mancanza di strutture adeguate, intervenire subito. Samar verrà operata all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze che nel 2010 ha già salvato la vita di un’altra bambina palestinese, Ola Abu Jamous, affetta dalla stessa patologia.
Tuttavia l’intervento chirurgico per Samar Maree è molto costoso. Servono circa 16mila Euro che la Ong Pcrf che in questo momento non ha a disposizione. Se potete, fate subito una donazione visitando il sito del Pcrf: http://www.pcrf.net/?p=6692. Nena News
Appello del Palestine Children’s Relief Fund a favore di Samar Maree, 10 anni. Colpita da un tumore al cervello, deve essere operata subito a Firenze ma servono fondi per coprire le spese dell’intervento.
Ramallah (Cisgiordania), 26 dicembre 2011, Nena News – Salviamo la vita della piccola Samar Maree. E’ questo l’appello che ha lanciato nei giorni scorsi la Ong “Palestine Children’s Relief Fund” per raccogliere i fondi necessari per l’intervento chirurgico, previsto in Italia all’inizio del 2012, per rimuovere il tumore che ha colpito la bambina al cervello.
La diagnosi è stata fatta dal professor Lorenzo Genitori che qualche giorno fa ha visitato Samar all’ospedale di Ramallah dove purtroppo non è stato possibile, per mancanza di strutture adeguate, intervenire subito. Samar verrà operata all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze che nel 2010 ha già salvato la vita di un’altra bambina palestinese, Ola Abu Jamous, affetta dalla stessa patologia.
Tuttavia l’intervento chirurgico per Samar Maree è molto costoso. Servono circa 16mila Euro che la Ong Pcrf che in questo momento non ha a disposizione. Se potete, fate subito una donazione visitando il sito del Pcrf: http://www.pcrf.net/?p=6692. Nena News
Appello del Palestine Children’s Relief Fund a favore di Samar Maree, 10 anni. Colpita da un tumore al cervello, deve essere operata subito a Firenze ma servono fondi per coprire le spese dell’intervento.
samar
Ramallah (Cisgiordania), 26 dicembre 2011, Nena News – Salviamo la vita della piccola Samar Maree. E’ questo l’appello che ha lanciato nei giorni scorsi la Ong “Palestine Children’s Relief Fund” per raccogliere i fondi necessari per l’intervento chirurgico, previsto in Italia all’inizio del 2012, per rimuovere il tumore che ha colpito la bambina al cervello.
La diagnosi è stata fatta dal professor Lorenzo Genitori che qualche giorno fa ha visitato Samar all’ospedale di Ramallah dove purtroppo non è stato possibile, per mancanza di strutture adeguate, intervenire subito. Samar verrà operata all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze che nel 2010 ha già salvato la vita di un’altra bambina palestinese, Ola Abu Jamous, affetta dalla stessa patologia.
Tuttavia l’intervento chirurgico per Samar Maree è molto costoso. Servono circa 16mila Euro che la Ong Pcrf che in questo momento non ha a disposizione. Se potete, fate subito una donazione visitando il sito del Pcrf: http://www.pcrf.net/?p=6692. Nena News
Appello del Palestine Children’s Relief Fund a favore di Samar Maree, 10 anni. Colpita da un tumore al cervello, deve essere operata subito a Firenze ma servono fondi per coprire le spese dell’intervento.
Ramallah (Cisgiordania), 26 dicembre 2011, Nena News – Salviamo la vita della piccola Samar Maree. E’ questo l’appello che ha lanciato nei giorni scorsi la Ong “Palestine Children’s Relief Fund” per raccogliere i fondi necessari per l’intervento chirurgico, previsto in Italia all’inizio del 2012, per rimuovere il tumore che ha colpito la bambina al cervello.
La diagnosi è stata fatta dal professor Lorenzo Genitori che qualche giorno fa ha visitato Samar all’ospedale di Ramallah dove purtroppo non è stato possibile, per mancanza di strutture adeguate, intervenire subito. Samar verrà operata all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze che nel 2010 ha già salvato la vita di un’altra bambina palestinese, Ola Abu Jamous, affetta dalla stessa patologia.
Tuttavia l’intervento chirurgico per Samar Maree è molto costoso. Servono circa 16mila Euro che la Ong Pcrf che in questo momento non ha a disposizione. Se potete, fate subito una donazione visitando il sito del Pcrf: http://www.pcrf.net/?p=6692. Nena News
GUERRE NEL 2012: ATTACCO A GAZA
Sembra farsi più vicina «Piombo fuso 2». Il capo di stato maggiore israeliano Benny Gantz la considera «inevitavile». Tre anni fa oltre 1.400 palestinesi morirono nell’offensiva israeliana contro la Striscia
MICHELE GIORGIO
Gerusalemme, 29 dicembre 2011, Nena News – È un 2012 di guerra quello che attende il Vicino Oriente. Almeno questi sono i segnali che arrivano da Tel Aviv e Washington. Due giorni fa il capo di stato maggiore israeliano, generale Benny Gantz, è stato fin troppo esplicito nell’annunciare una seconda offensiva «Piombo fuso» contro Gaza, nel terzo anniversario dell’inizio della prima nella quale rimasero uccisi oltre 1.400 palestinesi. «Israele non può vivere sotto la minaccia dei lanci di razzi da Gaza» e con il movimento islamico Hamas al potere nella Striscia, sostiene Gantz. «Presto o tardi saremo costretti a condurre una significativa operazione (militare)», ha aggiunto il capo di stato maggiore.
Il generale Gantz non è l’unico in Israele a parlare di «Piombo fuso 2». Gli analisti militari insistono sull’inefficacia dei raid aerei contro «obiettivi mirati» – gli ultimi sono di due giorni fa (tre i palestinesi uccisi) – e assieme agli ultimi ex capi di stato maggiore (Shaul Mofaz, Moshe Yaalon, Dan Halutz e Gabi Ashkenazi) ripetono che la strada da seguire è quella di una nuova ampia operazione di terra. Quello di Gaza però potrebbe essere solo uno dei fronti della guerra. Il noto sito Politico, facendo riferimento ad un articolo del Daily Beast, ieri ha rivelato che l’amministrazione Obama sta lavorando con Israele per stabilire le «linee rosse» sul nucleare che, una volta superate dall’Iran, potrebbero far scattare un attacco contro Tehran. C’è stato «un intensificarsi nelle ultime settimane dei contatti segreti per permettere ai due alleati di essere sulle stesse posizioni», ha riferito il sito, sottolineando la visita a Washington della scorsa settimana del ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, tutta incentrata sulla questione iraniana.
E che i motori della nuova guerra siano già stati accesi lo prova anche il fatto che il segretario Usa alla difesa, Leon Panetta, che finora aveva rilasciato dichiarazioni caute a proposito di una eventuale azione militare contro l’Iran, la scorsa settimana ha detto che gli Stati uniti sono pronti ad usare la forza per impedire a quel paese di costruire la bomba atomica (Tehran ha sempre negato di volersi dotare di ordigni atomici). Il casus belli più immediato potrebbe essere l’intenzione dell’Iran di bloccare lo stretto di Hormuz – una delle principali rotte mondiali del greggio – in risposta a sanzioni internazionali contro l’esportazione di petrolio iraniano. Il comando della V Flotta Usa, con base in Bahrain, ha avvertito che impedirà a qualunque costo la chiusura dello Stretto di Hormuz.
In questo clima da guerra imminente, il governo di Benyamin Netanyahu non teme le (blande) critiche internazionali alla sua politica di colonizzazione della Cisgiordania. Ieri Israele ha avviato due progetti edilizi nella zona araba di Gerusalemme, occupata nel ‘67, e ha legalizzato con un espediente un avamposto colonico, Ramat Ghilad (Nablus), del quale la stessa Corte suprema israeliana aveva ordinato lo sgombero. Nena News
MICHELE GIORGIO
Gerusalemme, 29 dicembre 2011, Nena News – È un 2012 di guerra quello che attende il Vicino Oriente. Almeno questi sono i segnali che arrivano da Tel Aviv e Washington. Due giorni fa il capo di stato maggiore israeliano, generale Benny Gantz, è stato fin troppo esplicito nell’annunciare una seconda offensiva «Piombo fuso» contro Gaza, nel terzo anniversario dell’inizio della prima nella quale rimasero uccisi oltre 1.400 palestinesi. «Israele non può vivere sotto la minaccia dei lanci di razzi da Gaza» e con il movimento islamico Hamas al potere nella Striscia, sostiene Gantz. «Presto o tardi saremo costretti a condurre una significativa operazione (militare)», ha aggiunto il capo di stato maggiore.
Il generale Gantz non è l’unico in Israele a parlare di «Piombo fuso 2». Gli analisti militari insistono sull’inefficacia dei raid aerei contro «obiettivi mirati» – gli ultimi sono di due giorni fa (tre i palestinesi uccisi) – e assieme agli ultimi ex capi di stato maggiore (Shaul Mofaz, Moshe Yaalon, Dan Halutz e Gabi Ashkenazi) ripetono che la strada da seguire è quella di una nuova ampia operazione di terra. Quello di Gaza però potrebbe essere solo uno dei fronti della guerra. Il noto sito Politico, facendo riferimento ad un articolo del Daily Beast, ieri ha rivelato che l’amministrazione Obama sta lavorando con Israele per stabilire le «linee rosse» sul nucleare che, una volta superate dall’Iran, potrebbero far scattare un attacco contro Tehran. C’è stato «un intensificarsi nelle ultime settimane dei contatti segreti per permettere ai due alleati di essere sulle stesse posizioni», ha riferito il sito, sottolineando la visita a Washington della scorsa settimana del ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, tutta incentrata sulla questione iraniana.
E che i motori della nuova guerra siano già stati accesi lo prova anche il fatto che il segretario Usa alla difesa, Leon Panetta, che finora aveva rilasciato dichiarazioni caute a proposito di una eventuale azione militare contro l’Iran, la scorsa settimana ha detto che gli Stati uniti sono pronti ad usare la forza per impedire a quel paese di costruire la bomba atomica (Tehran ha sempre negato di volersi dotare di ordigni atomici). Il casus belli più immediato potrebbe essere l’intenzione dell’Iran di bloccare lo stretto di Hormuz – una delle principali rotte mondiali del greggio – in risposta a sanzioni internazionali contro l’esportazione di petrolio iraniano. Il comando della V Flotta Usa, con base in Bahrain, ha avvertito che impedirà a qualunque costo la chiusura dello Stretto di Hormuz.
In questo clima da guerra imminente, il governo di Benyamin Netanyahu non teme le (blande) critiche internazionali alla sua politica di colonizzazione della Cisgiordania. Ieri Israele ha avviato due progetti edilizi nella zona araba di Gerusalemme, occupata nel ‘67, e ha legalizzato con un espediente un avamposto colonico, Ramat Ghilad (Nablus), del quale la stessa Corte suprema israeliana aveva ordinato lo sgombero. Nena News
giovedì 29 dicembre 2011
Ciao Ronit
Ho accolto la triste notizia della morte di Ronit Dovrat con un moto di incredulità. Son dovuti passare diversi giorni perchè mi convincessi che era proprio accaduto. Un anno questo, contrassegnato dalla perdita dei nostri migliori compagni, un anno che ci ha lasciato un gran vuoto e che non poteva finire peggio.
Conoscevo Ronit dal 2002, epoca della seconda Intifada che devastò assieme ai TPO anche la nostra coscienza e il nostro cuore. Al contrario di altri “ebrei di sinistra” Ronit aveva le idee molto chiare in merito. Essendo israeliana conosceva la situazione dall'interno e non si faceva illusioni. A Gad Lerner che scriveva sul “Manifesto” “Questa nuova arma(gli attentati palestinesi) che ribalta in impotenza la superiorità militare israeliana rende verosimile la vittoria del terrorismo...” rispondeva “Non devi mai dimenticare di aggiungere quando nomini l'esercito israeliano la parola “terrorista” perchè avere un esercito non legittima tutte le sue azioni: bombardare i campi profughi del Libano e i territori occupati per anni non risparmia la morte dei civili, anzi, è più efficace. Umiliare fisicamente e psicologicamente una popolazione intera per anni è un atto terroristico perchè il suo scopo è ferire e uccidere.” Ronit definiva il pensiero di Lerner “pacifismo razzista” come quello di coloro che in Israele negli anni 70-80 i veri pacifisti israeliani chiamavano “quelli di piangi e spara” “perchè il sangue ebraico alla fine ci è ben più caro di quello palestinese.” Ronit stigmatizzava l'equidistanza di Lerner rispetto alla quale si poneva ben distante.
Durante i giorni della strage israeliana a Gaza “Piombo fuso” ricordava che le sue nonne quando le parlavano dei pogrom in Russia, dove avevano perso tutta la famiglia, definivano gli assassini “A vilde chayes” bestie feroci. La strage di Gaza, notava Ronit, non aveva neppure il paravento della Falange come a Sabra e Chatila “la gloria è tutta di Tzahal” l'esercito israeliano. Notava che questi piloti non sono mai stati chiamati terroristi e chiamava a manifestare con la striscia nera di lutto contro le bestie feroci che come nei pogrom in Russia avevano assassinato migliaia di persone e centinaia di bambini a Gaza.
Ronit non era solo una militante, ma anche un'artista sensibile, fin dall'82 aveva espresso artisticamente il suo dissenso, all'epoca viveva a Tel Aviv e non si poteva parlare di palestinesi né avere una bandiera, per cui all'interno della sua installazione, il cui soggetto erano i prigionieri, aveva dipinto ogni prigioniero con un colore della bandiera palestinese.
Nel 2003 mi colpì moltissimo una sua mostra allestita assieme all'artista palestinese Rula Alawani. Rula che lavora sulla fotografia presentava una serie di foto agghiaccianti, immagini della repressione della seconda Intifada elaborate in negativo. Ronit invece aveva “lavorato sull'invisibile”. I volti che rappresentavano le 12 tribu di Israele erano senza occhi “perchè essi non vedevano gli altri, ma soltanto se stessi”queste opere si chiamavano “Frontiere mentali” e mentre le tribu d'Israele non vedevano, gli occhi dei palestinesi erano sottolineati, i loro corpi ridotti praticamente a volto, spesso contornato da uccelli senza ali e chiusi in un rettangolo, esprimevano come in un grido silenzioso tutta la sofferenza e l'oppressione e assieme reclamavano nonostante tutto di esistere e di essere vivi.
In un'intervista con Rita Scrimieri diceva: “”Frontiere mentali” le ho fatte proprio in questa seconda Intifada, l'elemento di collegamento, di continuità con il periodo precedente è la sensazione che tutto un popolo è in prigione, è chiuso fuori dalla vita, non solo fisicamente. E questa chiusura non è che l'ho sentita solo su un altro popolo. Io mi sono svegliata tutte le mattine, fin'ora con un peso...Ho sentito che creando queste frontiere, questa limitazione della vita ai palestinesi, hanno creato la frontiera anche a me, mi hanno limitato la vita, i miei spazi, io non posso svegliarmi serena perchè sento questo peso e finchè c'è questa chiusura sull'altro c'è la chiusura su di me, una chiusura che ti rovina la vita”.
Nelle opere “Testimonianze” Ronit aveva creato dei grandi dipinti in cui era inserito una parte scritta. Quello scritto era la testimonianza di un palestinese ferito o torturato da Israele e riportato sul dossier di Bet'slem, l'associazione israeliana per i diritti umani che registra tutti i soprusi israeliani ai danni dei palestinesi. Di enorme impatto era il dipinto su cui campeggiava una grande stella di david, la testimonianza riportata era di uno studente palestinese fermato a un check point da un soldato che gli aveva inciso sul braccio con un coccio di bottiglia una stella di david. Molto toccante anche un altro dipinto “Bambini volatili” la testimonianza era quella di un bambino picchiato selvaggiamente dai soldati all'uscita da scuola. A proposito del primo dipinto Ronit notava “Bisogna ricordare che per gli ebrei la stella ha un valore incredibile, e in “nome della stella” viene perpetrato questo sterminio nei confronti dei palestinesi.” Avrebbe voluto raccontare tutto, ogni tortura, ma doveva fare una scelta, per “bambini volatili” diceva “Ho scelto un bambino di 13 anni che racconta quello che gli ha fatto il soldato, l'ho scelto perchè ho un figlio di 13 anni e non vorrei mai che gli succedesse una cosa del genere. Nè a lui né a nessuno”. Ma nell'intensità artistica, umana ed etica di queste opere Ronit non faceva da tramite di una testimonianza. “No, non sono un tramite” diceva, “Questa testimonianza diventa la mia testimonianza. Psicologicamente è difficile resistere dentro, perchè veramente ti senti come se fosse successa a te questa cosa e le testimonianze sono durissime.
Ronit era una donna giusta e libera, entrambe cose che fanno soffrire.
Ciao Ronit. Che la terra ti sia lieve.
Conoscevo Ronit dal 2002, epoca della seconda Intifada che devastò assieme ai TPO anche la nostra coscienza e il nostro cuore. Al contrario di altri “ebrei di sinistra” Ronit aveva le idee molto chiare in merito. Essendo israeliana conosceva la situazione dall'interno e non si faceva illusioni. A Gad Lerner che scriveva sul “Manifesto” “Questa nuova arma(gli attentati palestinesi) che ribalta in impotenza la superiorità militare israeliana rende verosimile la vittoria del terrorismo...” rispondeva “Non devi mai dimenticare di aggiungere quando nomini l'esercito israeliano la parola “terrorista” perchè avere un esercito non legittima tutte le sue azioni: bombardare i campi profughi del Libano e i territori occupati per anni non risparmia la morte dei civili, anzi, è più efficace. Umiliare fisicamente e psicologicamente una popolazione intera per anni è un atto terroristico perchè il suo scopo è ferire e uccidere.” Ronit definiva il pensiero di Lerner “pacifismo razzista” come quello di coloro che in Israele negli anni 70-80 i veri pacifisti israeliani chiamavano “quelli di piangi e spara” “perchè il sangue ebraico alla fine ci è ben più caro di quello palestinese.” Ronit stigmatizzava l'equidistanza di Lerner rispetto alla quale si poneva ben distante.
Durante i giorni della strage israeliana a Gaza “Piombo fuso” ricordava che le sue nonne quando le parlavano dei pogrom in Russia, dove avevano perso tutta la famiglia, definivano gli assassini “A vilde chayes” bestie feroci. La strage di Gaza, notava Ronit, non aveva neppure il paravento della Falange come a Sabra e Chatila “la gloria è tutta di Tzahal” l'esercito israeliano. Notava che questi piloti non sono mai stati chiamati terroristi e chiamava a manifestare con la striscia nera di lutto contro le bestie feroci che come nei pogrom in Russia avevano assassinato migliaia di persone e centinaia di bambini a Gaza.
Ronit non era solo una militante, ma anche un'artista sensibile, fin dall'82 aveva espresso artisticamente il suo dissenso, all'epoca viveva a Tel Aviv e non si poteva parlare di palestinesi né avere una bandiera, per cui all'interno della sua installazione, il cui soggetto erano i prigionieri, aveva dipinto ogni prigioniero con un colore della bandiera palestinese.
Nel 2003 mi colpì moltissimo una sua mostra allestita assieme all'artista palestinese Rula Alawani. Rula che lavora sulla fotografia presentava una serie di foto agghiaccianti, immagini della repressione della seconda Intifada elaborate in negativo. Ronit invece aveva “lavorato sull'invisibile”. I volti che rappresentavano le 12 tribu di Israele erano senza occhi “perchè essi non vedevano gli altri, ma soltanto se stessi”queste opere si chiamavano “Frontiere mentali” e mentre le tribu d'Israele non vedevano, gli occhi dei palestinesi erano sottolineati, i loro corpi ridotti praticamente a volto, spesso contornato da uccelli senza ali e chiusi in un rettangolo, esprimevano come in un grido silenzioso tutta la sofferenza e l'oppressione e assieme reclamavano nonostante tutto di esistere e di essere vivi.
In un'intervista con Rita Scrimieri diceva: “”Frontiere mentali” le ho fatte proprio in questa seconda Intifada, l'elemento di collegamento, di continuità con il periodo precedente è la sensazione che tutto un popolo è in prigione, è chiuso fuori dalla vita, non solo fisicamente. E questa chiusura non è che l'ho sentita solo su un altro popolo. Io mi sono svegliata tutte le mattine, fin'ora con un peso...Ho sentito che creando queste frontiere, questa limitazione della vita ai palestinesi, hanno creato la frontiera anche a me, mi hanno limitato la vita, i miei spazi, io non posso svegliarmi serena perchè sento questo peso e finchè c'è questa chiusura sull'altro c'è la chiusura su di me, una chiusura che ti rovina la vita”.
Nelle opere “Testimonianze” Ronit aveva creato dei grandi dipinti in cui era inserito una parte scritta. Quello scritto era la testimonianza di un palestinese ferito o torturato da Israele e riportato sul dossier di Bet'slem, l'associazione israeliana per i diritti umani che registra tutti i soprusi israeliani ai danni dei palestinesi. Di enorme impatto era il dipinto su cui campeggiava una grande stella di david, la testimonianza riportata era di uno studente palestinese fermato a un check point da un soldato che gli aveva inciso sul braccio con un coccio di bottiglia una stella di david. Molto toccante anche un altro dipinto “Bambini volatili” la testimonianza era quella di un bambino picchiato selvaggiamente dai soldati all'uscita da scuola. A proposito del primo dipinto Ronit notava “Bisogna ricordare che per gli ebrei la stella ha un valore incredibile, e in “nome della stella” viene perpetrato questo sterminio nei confronti dei palestinesi.” Avrebbe voluto raccontare tutto, ogni tortura, ma doveva fare una scelta, per “bambini volatili” diceva “Ho scelto un bambino di 13 anni che racconta quello che gli ha fatto il soldato, l'ho scelto perchè ho un figlio di 13 anni e non vorrei mai che gli succedesse una cosa del genere. Nè a lui né a nessuno”. Ma nell'intensità artistica, umana ed etica di queste opere Ronit non faceva da tramite di una testimonianza. “No, non sono un tramite” diceva, “Questa testimonianza diventa la mia testimonianza. Psicologicamente è difficile resistere dentro, perchè veramente ti senti come se fosse successa a te questa cosa e le testimonianze sono durissime.
Ronit era una donna giusta e libera, entrambe cose che fanno soffrire.
Ciao Ronit. Che la terra ti sia lieve.
domenica 25 dicembre 2011
"Se Gesù dovesse arrivare quest'anno, Betlemme sarebbe chiusa"
"Se Gesù dovesse arrivare quest'anno, Betlemme sarebbe chiusa"
Una striscia di colonie costruite sulla terra che era a nord di Betlemme minaccia di separare definitivamente la città dalla sua gemella storica, Gerusalemme.
di Phoebe Greenwood* – traduzione a cura di Cecilia Dalla Negra
“Se Giuseppe e Maria fossero oggi in viaggio verso Betlemme, la storia del Natale sarebbe un po’ diversa”. A dirlo è padre Ibrahim Shomali, il parroco della città. “La coppia dovrebbe lottare per riuscire ad entrare in città, figuriamoci per trovare una stanza in albergo”.
“Se Gesù dovesse venire qui quest’anno, Betlemme sarebbe chiusa”, ha detto il parroco della parrocchia di Beit Jala. “Sarebbe anche costretto a nascere in un checkpoint o vicino al muro di separazione. Maria e Giuseppe dovrebbero ottenere un permesso israeliano, o fingersi turisti”.
“Questo è davvero il maggior problema per i palestinesi di Betlemme: cosa succederà quando loro (gli israeliani, ndt) ci chiuderanno completamente?”
Betlemme è il cuore della Palestina cristiana e si riempie di orgoglio, ogni Natale. Piazza Manger si trasforma in una grotta con luci e bancarelle, contornata da un imponente albero di natale. Stringhe di angeli illuminati, stelle e campanelle, festoni per strada. Ma basta percorrere in auto cinque minuti in direzione nord, e l’atmosfera gioiosa e festiva improvvisamente scompare.
Una striscia di insediamenti israeliani (illegali, ndt) lunga 18 km quadrati, costruita su ciò che una volta era il territorio di Betlemme nord, minaccia di separare la città dalla sua gemella storica, Gerusalemme.
Per le autorità israeliane, quelli sono stati quartieri periferici di Gerusalemme sin dal 1967. Uno di questi insediamenti, Har Homa, è costruito sulla terra dove si dice che gli angeli abbiano annunciato la nascita di Cristo ai pastori locali. Uno stretto corridoio di terra tra Har Homa e un’altra colonia, Gilo, ancora collega Betlemme a Gerusalemme, ma la costruzione di Givat Hamatos, un nuovo insediamento la cui costruzione è stata annunciata lo scorso ottobre, lo riempirà nel giro di qualche anno.
L’Unione europea e le Nazioni Unite denunciano abitualmente l’espansione unilaterale di Israele attraverso le colonie, ma in ottobre l’Alto commissario Ue, la baronessa Catherine Ashton, ha avvertito che la costruzione di Givat Hamatos è “di particolare preoccupazione dal momento che spezzerebbe la continuità territoriale tra Gerusalemme e Betlemme”.
Le preoccupazioni europee non stanno però rallentando il progredire di Israele. La scorsa settimana 500 nuove unità abitative sono state approvate per Har Homa, oltre a 348 nella colonia di Betar Illit, al confine occidentale di Betlemme.All’inizio di questo mese (dicembre, ndt), altre 267 unità abitative sono state multate per la crescita costante degli insediamenti, fino al confine sud della periferia cittadina, dove il ministero della Difesa ha dato ai coloni il permesso di costruire una fattoria sulla terra palestinese. Questo in aggiunta ai 6,782 nuovi appartamenti già programmati per Har Homa, Gilo e Givat Hamatos.
Nel breve periodo, la chiusura non farà grande differenza per la vita quotidiana a Betlemme: il muro di separazione già impedisce ai palestinesi di entrare a Gerusalemme dalle città vicine senza un permesso israeliano.
Ma questo anello di colonie cambierà in modo permanente la geografia del paesaggio biblico: se anche un accordo di pace radesse al suolo il muro di separazione, le due città rimarrebbero comunque divise.
L’attivista israeliano Hargit Ofram, direttore di Peace Now, vede nei piani israeliani un chiaro intento politico.”Questi sforzi sono stati fatti per evitare una possibile soluzione a due Stati, che prevederebbe uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est. Se questa capitale verrà però circondata da colonie e insediamenti, Israele sarebbe costretto in futuro a rimuoverli. Più Israele costruisce, più alto sarà il prezzo che dovrà pagare il futuro Stato palestinese”.
Una coalizione di 20 organizzazioni per i diritti umani, tra cui Oxfam e Amnesty International, ha denunciato che il numero di case palestinesi distrutte in Cisgiordania e a Gerusalemme Est dalle autorità israeliane sono raddoppiate in questi anni.
Secondo i termini degli Accordi di Oslo, il 13% del territorio di Betlemme attualmente ricade all’interno delle aree A e B, controllate dall’Autorità palestinese. Quest’area ospita l’87,6% della popolazione palestinese. Il resto ricade all’interno dell’area C, dove Israele controlla chi costruisce cosa.
La valle di al-Makour è l’ultimo spazio verde di Betlemme, e una delle poche aree rimaste per l’espansione urbana. È nell’area C ed è controllata dal checkpoint di Gilo da un lato, e dalla colonia di Har Homa dall’altro. È previsto che il muro di separazione passi all’interno della valle. Nessun palestinese ha avuto il permesso di costruire qui sin dal 1967.
Nonostante le restrizioni imposte da Israele per le costruzioni, Miranda Nasry Qasasfeh ha speso ogni week end degli ultimi anni per restaurare un magazzino in pietra di proprietà della famiglia di suo marito da 150 anni. Ha costruito un nuovo tetto in lamina di ferro e ha piantato alberi di mandorle e prugne, che erano sul punto di dare i loro primi frutti. La sua è una delle quattro strutture palestinesi nella valle di al-Makour demolite lo scorso 12 dicembre (dall’esercito israeliano, ndt). La maggior parte degli alberi è stata sradicata.
Il padre di Qasasfeh, un uomo di 75 anni, si è precipitato sul luogo della demolizione, dove ha trovato sua figlia in uno stato di profonda disperazione. Ore dopo è stato colpito da un ictus, e adesso è paralizzato in tutta la parte sinistra del corpo. Visti gli avvenimenti delle settimane scorse, la famiglia Qasasfeh quest’anno ha lasciato perdere le decorazioni natalizie.
“Il comandante israeliano mi ha detto che non avevo niente qui, che questa non è la mia terra. Ma lo è, ed abbiamo bisogno di vivere e di poterci espandere. Quale altra scelta abbiamo? Possiamo forse andare da qualche altra parte?”, si chiede Miranda.
Ma nonostante la distruzione della sua proprietà, Miranda Qasasfeh ha ancora speranza che la situazione politica cambierà in futuro. Ha minacciato di disconoscere suo figlio maggiore, se continuerà a dire di voler lasciare Betlemme per cercare lavoro altrove.
“Continuo a dire ai miei figli, di fissare nelle loro menti, che non c’è nessun posto nel mondo come questo. Non possiamo andarcene. E poi c’è il Natale. Per qualche giorno almeno possiamo dimenticare quello che accade qui, o almeno provarci”. Il punto di vista di padre Shomali è più cupo: “Quando guardo ai registri della mia chiesa, vedo che molti degli storici nomi dell’area ormai se ne sono andati. In 20 anni, credo che non ci saranno più cristiani a Betlemme”.
Jad Isaac, esperto della demografia di Betlemme e consulente del presidente palestinese Mahmoud Abbas, sostiene che oltre alle restrizioni materiali allo sviluppo, l’economia di Betlemme viene strangolata dalla perdita di terra e dalle restrizioni di movimento imposte ai palestinesi.
Con l’impossibilità di lavorare a Gerusalemme, e soltanto 6 mila permessi di lavoro all’interno di Israele accordati ai palestinesi, il livello di disoccupazione a Betlemme è fisso al 23%, quello di povertà al 18%. Molti hanno piccole opportunità di lavoro in nero per 25 dollari al giorno nei cantieri edili delle colonie. Le previsioni del dr. Isaac sono desolanti.
“La piccola città di Betlemme? Sarà presto un piccolo ghetto circondato in tutte le direzioni da insediamenti israeliani”, sostiene. “Abbiamo già passato il punto in cui Betlemme si sarebbe potuta salvare. Francamente, è per questo che non celebro più il Natale”.
* questo articolo è stato pubblicato da The Guardian.
24 dicembre 2011
Una striscia di colonie costruite sulla terra che era a nord di Betlemme minaccia di separare definitivamente la città dalla sua gemella storica, Gerusalemme.
di Phoebe Greenwood* – traduzione a cura di Cecilia Dalla Negra
“Se Giuseppe e Maria fossero oggi in viaggio verso Betlemme, la storia del Natale sarebbe un po’ diversa”. A dirlo è padre Ibrahim Shomali, il parroco della città. “La coppia dovrebbe lottare per riuscire ad entrare in città, figuriamoci per trovare una stanza in albergo”.
“Se Gesù dovesse venire qui quest’anno, Betlemme sarebbe chiusa”, ha detto il parroco della parrocchia di Beit Jala. “Sarebbe anche costretto a nascere in un checkpoint o vicino al muro di separazione. Maria e Giuseppe dovrebbero ottenere un permesso israeliano, o fingersi turisti”.
“Questo è davvero il maggior problema per i palestinesi di Betlemme: cosa succederà quando loro (gli israeliani, ndt) ci chiuderanno completamente?”
Betlemme è il cuore della Palestina cristiana e si riempie di orgoglio, ogni Natale. Piazza Manger si trasforma in una grotta con luci e bancarelle, contornata da un imponente albero di natale. Stringhe di angeli illuminati, stelle e campanelle, festoni per strada. Ma basta percorrere in auto cinque minuti in direzione nord, e l’atmosfera gioiosa e festiva improvvisamente scompare.
Una striscia di insediamenti israeliani (illegali, ndt) lunga 18 km quadrati, costruita su ciò che una volta era il territorio di Betlemme nord, minaccia di separare la città dalla sua gemella storica, Gerusalemme.
Per le autorità israeliane, quelli sono stati quartieri periferici di Gerusalemme sin dal 1967. Uno di questi insediamenti, Har Homa, è costruito sulla terra dove si dice che gli angeli abbiano annunciato la nascita di Cristo ai pastori locali. Uno stretto corridoio di terra tra Har Homa e un’altra colonia, Gilo, ancora collega Betlemme a Gerusalemme, ma la costruzione di Givat Hamatos, un nuovo insediamento la cui costruzione è stata annunciata lo scorso ottobre, lo riempirà nel giro di qualche anno.
L’Unione europea e le Nazioni Unite denunciano abitualmente l’espansione unilaterale di Israele attraverso le colonie, ma in ottobre l’Alto commissario Ue, la baronessa Catherine Ashton, ha avvertito che la costruzione di Givat Hamatos è “di particolare preoccupazione dal momento che spezzerebbe la continuità territoriale tra Gerusalemme e Betlemme”.
Le preoccupazioni europee non stanno però rallentando il progredire di Israele. La scorsa settimana 500 nuove unità abitative sono state approvate per Har Homa, oltre a 348 nella colonia di Betar Illit, al confine occidentale di Betlemme.All’inizio di questo mese (dicembre, ndt), altre 267 unità abitative sono state multate per la crescita costante degli insediamenti, fino al confine sud della periferia cittadina, dove il ministero della Difesa ha dato ai coloni il permesso di costruire una fattoria sulla terra palestinese. Questo in aggiunta ai 6,782 nuovi appartamenti già programmati per Har Homa, Gilo e Givat Hamatos.
Nel breve periodo, la chiusura non farà grande differenza per la vita quotidiana a Betlemme: il muro di separazione già impedisce ai palestinesi di entrare a Gerusalemme dalle città vicine senza un permesso israeliano.
Ma questo anello di colonie cambierà in modo permanente la geografia del paesaggio biblico: se anche un accordo di pace radesse al suolo il muro di separazione, le due città rimarrebbero comunque divise.
L’attivista israeliano Hargit Ofram, direttore di Peace Now, vede nei piani israeliani un chiaro intento politico.”Questi sforzi sono stati fatti per evitare una possibile soluzione a due Stati, che prevederebbe uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est. Se questa capitale verrà però circondata da colonie e insediamenti, Israele sarebbe costretto in futuro a rimuoverli. Più Israele costruisce, più alto sarà il prezzo che dovrà pagare il futuro Stato palestinese”.
Una coalizione di 20 organizzazioni per i diritti umani, tra cui Oxfam e Amnesty International, ha denunciato che il numero di case palestinesi distrutte in Cisgiordania e a Gerusalemme Est dalle autorità israeliane sono raddoppiate in questi anni.
Secondo i termini degli Accordi di Oslo, il 13% del territorio di Betlemme attualmente ricade all’interno delle aree A e B, controllate dall’Autorità palestinese. Quest’area ospita l’87,6% della popolazione palestinese. Il resto ricade all’interno dell’area C, dove Israele controlla chi costruisce cosa.
La valle di al-Makour è l’ultimo spazio verde di Betlemme, e una delle poche aree rimaste per l’espansione urbana. È nell’area C ed è controllata dal checkpoint di Gilo da un lato, e dalla colonia di Har Homa dall’altro. È previsto che il muro di separazione passi all’interno della valle. Nessun palestinese ha avuto il permesso di costruire qui sin dal 1967.
Nonostante le restrizioni imposte da Israele per le costruzioni, Miranda Nasry Qasasfeh ha speso ogni week end degli ultimi anni per restaurare un magazzino in pietra di proprietà della famiglia di suo marito da 150 anni. Ha costruito un nuovo tetto in lamina di ferro e ha piantato alberi di mandorle e prugne, che erano sul punto di dare i loro primi frutti. La sua è una delle quattro strutture palestinesi nella valle di al-Makour demolite lo scorso 12 dicembre (dall’esercito israeliano, ndt). La maggior parte degli alberi è stata sradicata.
Il padre di Qasasfeh, un uomo di 75 anni, si è precipitato sul luogo della demolizione, dove ha trovato sua figlia in uno stato di profonda disperazione. Ore dopo è stato colpito da un ictus, e adesso è paralizzato in tutta la parte sinistra del corpo. Visti gli avvenimenti delle settimane scorse, la famiglia Qasasfeh quest’anno ha lasciato perdere le decorazioni natalizie.
“Il comandante israeliano mi ha detto che non avevo niente qui, che questa non è la mia terra. Ma lo è, ed abbiamo bisogno di vivere e di poterci espandere. Quale altra scelta abbiamo? Possiamo forse andare da qualche altra parte?”, si chiede Miranda.
Ma nonostante la distruzione della sua proprietà, Miranda Qasasfeh ha ancora speranza che la situazione politica cambierà in futuro. Ha minacciato di disconoscere suo figlio maggiore, se continuerà a dire di voler lasciare Betlemme per cercare lavoro altrove.
“Continuo a dire ai miei figli, di fissare nelle loro menti, che non c’è nessun posto nel mondo come questo. Non possiamo andarcene. E poi c’è il Natale. Per qualche giorno almeno possiamo dimenticare quello che accade qui, o almeno provarci”. Il punto di vista di padre Shomali è più cupo: “Quando guardo ai registri della mia chiesa, vedo che molti degli storici nomi dell’area ormai se ne sono andati. In 20 anni, credo che non ci saranno più cristiani a Betlemme”.
Jad Isaac, esperto della demografia di Betlemme e consulente del presidente palestinese Mahmoud Abbas, sostiene che oltre alle restrizioni materiali allo sviluppo, l’economia di Betlemme viene strangolata dalla perdita di terra e dalle restrizioni di movimento imposte ai palestinesi.
Con l’impossibilità di lavorare a Gerusalemme, e soltanto 6 mila permessi di lavoro all’interno di Israele accordati ai palestinesi, il livello di disoccupazione a Betlemme è fisso al 23%, quello di povertà al 18%. Molti hanno piccole opportunità di lavoro in nero per 25 dollari al giorno nei cantieri edili delle colonie. Le previsioni del dr. Isaac sono desolanti.
“La piccola città di Betlemme? Sarà presto un piccolo ghetto circondato in tutte le direzioni da insediamenti israeliani”, sostiene. “Abbiamo già passato il punto in cui Betlemme si sarebbe potuta salvare. Francamente, è per questo che non celebro più il Natale”.
* questo articolo è stato pubblicato da The Guardian.
24 dicembre 2011
venerdì 23 dicembre 2011
LA LACOSTE BLOCCA ARTISTA LARISSA SANSOUR
LA LACOSTE BLOCCA ARTISTA LARISSA SANSOUR
La fotografa palestinese di Betlemme era stata scelta per partecipare al premio Lacoste Elysée Prize. Ma la sua opera, troppo impegnata, ha allarmato il celebre brand che le ha chiesto di ritirarsi. Vietato in qualsiasi modo raccontare la realtà
ARIANNA DI GENOVA *
Roma, 23 dicembre 2011, Nena News (nella foto Larissa Sansour) – La Lacoste, il celebre brand francese per l’abbigliamento, avrebbe pesantemente censurato l’artista di Betlemme Larissa Sansour che figurava fra gli 8 finalisti del premio fotografico (25,000 euro il budget) Lacoste Elysée Prize, che si svolge sotto il patrocinio del museo di Losanna. Ma la nota azienda ha chiesto che il nome di Sansour fosse rimosso prima che la giuria si riunisse per decretare il vincitore (nel gennaio 2012) perché la sua opera era troppo «pro Palestina».
In qualità di candidata, Sansour si era aggiudicata una borsa di studio di 4.000 euro e aveva carta bianca per la produzione di un portfolio di immagini da sottomettere al giudizio del team dei giurati. Il tema affrontato dai concorrenti al premio riguardava la “Gioia di vivere” e l’assunto era che ognuno «era libero di interpretarlo a proprio piacimento, in maniera diretta o indiretta, con umorismo o autenticità». Larissa Sansour aveva preparato il suo portfolio partendo dal progetto «Nation Estate», dove – mixando architettura e finzione – mostrava al pubblico la nascita di uno stato palestinese sotto forma di un grattacielo circondato da un muro in cemento armato. In diversi piani che rappresentavano altrettante città, veniva collocata l’intera popolazione palestinese.
L’opera, ha spiegato l’artista, è stata concepita alla vigilia della richiesta di adesione alle Nazioni Uniti da parte della Palestina. Ma a dicembre è arrivata la sorpresa: niente più candidatura, il suo nome era stato cancellato dalla shortlist. La Lacoste infatti avrebbe fatto pressione sul museo svizzero affinché annullasse quella presenza «conturbante». Addirittura, avrebbe chiesto all’artista stessa di auto-cassarsi dalla competizione, firmando un documento in cui annunciava un ritiro «spontaneo». Scioccata, Larissa Sansour ha affidato la sua tristezza a Facebook. «Quest’anno – ha scritto – la Palestina è stata ufficialmente ammessa nell’Unesco, così ci hanno voluto ridurre al silenzio. Spesso ho avuto contrasti nel mio lavoro perché sono un’artista impegnata politicamente ma mai mi era capitato di essere censurata dalle medesime persone che mi avevano scelta e nominata. E’ tutto così inquietante..». Il museo de l’Elysée ha cercato di mediare offrendo alla fotografa di presentare il suo progetto fuori dal premio, in un’altra occasione. La Lacoste, invece, si è chiusa nel mutismo, evitando ogni commento sull’accaduto. Nena News
*Questo articolo e’ stato pubblicato dal quotidiano Il Manifesto
La fotografa palestinese di Betlemme era stata scelta per partecipare al premio Lacoste Elysée Prize. Ma la sua opera, troppo impegnata, ha allarmato il celebre brand che le ha chiesto di ritirarsi. Vietato in qualsiasi modo raccontare la realtà
ARIANNA DI GENOVA *
Roma, 23 dicembre 2011, Nena News (nella foto Larissa Sansour) – La Lacoste, il celebre brand francese per l’abbigliamento, avrebbe pesantemente censurato l’artista di Betlemme Larissa Sansour che figurava fra gli 8 finalisti del premio fotografico (25,000 euro il budget) Lacoste Elysée Prize, che si svolge sotto il patrocinio del museo di Losanna. Ma la nota azienda ha chiesto che il nome di Sansour fosse rimosso prima che la giuria si riunisse per decretare il vincitore (nel gennaio 2012) perché la sua opera era troppo «pro Palestina».
In qualità di candidata, Sansour si era aggiudicata una borsa di studio di 4.000 euro e aveva carta bianca per la produzione di un portfolio di immagini da sottomettere al giudizio del team dei giurati. Il tema affrontato dai concorrenti al premio riguardava la “Gioia di vivere” e l’assunto era che ognuno «era libero di interpretarlo a proprio piacimento, in maniera diretta o indiretta, con umorismo o autenticità». Larissa Sansour aveva preparato il suo portfolio partendo dal progetto «Nation Estate», dove – mixando architettura e finzione – mostrava al pubblico la nascita di uno stato palestinese sotto forma di un grattacielo circondato da un muro in cemento armato. In diversi piani che rappresentavano altrettante città, veniva collocata l’intera popolazione palestinese.
L’opera, ha spiegato l’artista, è stata concepita alla vigilia della richiesta di adesione alle Nazioni Uniti da parte della Palestina. Ma a dicembre è arrivata la sorpresa: niente più candidatura, il suo nome era stato cancellato dalla shortlist. La Lacoste infatti avrebbe fatto pressione sul museo svizzero affinché annullasse quella presenza «conturbante». Addirittura, avrebbe chiesto all’artista stessa di auto-cassarsi dalla competizione, firmando un documento in cui annunciava un ritiro «spontaneo». Scioccata, Larissa Sansour ha affidato la sua tristezza a Facebook. «Quest’anno – ha scritto – la Palestina è stata ufficialmente ammessa nell’Unesco, così ci hanno voluto ridurre al silenzio. Spesso ho avuto contrasti nel mio lavoro perché sono un’artista impegnata politicamente ma mai mi era capitato di essere censurata dalle medesime persone che mi avevano scelta e nominata. E’ tutto così inquietante..». Il museo de l’Elysée ha cercato di mediare offrendo alla fotografa di presentare il suo progetto fuori dal premio, in un’altra occasione. La Lacoste, invece, si è chiusa nel mutismo, evitando ogni commento sull’accaduto. Nena News
*Questo articolo e’ stato pubblicato dal quotidiano Il Manifesto
martedì 20 dicembre 2011
Alleanza militare aerea tra Italia e Israele
di Antonio Mazzeo
Giochi di guerra nel deserto del Negev per i cacciabombardieri dell’aeronautica militare italiana. Lo scorso 16 dicembre si è conclusa l’esercitazione “Desert Dusk 2011” a cui hanno partecipato venticinque velivoli da guerra delle forze aeree italiane ed israeliane. Due settimane di duelli, inseguimenti e lanci di missili e bombe, protagonisti gli “Eurofighter” e i “Tornado” dell’Ami e gli F-15 ed F-16 israeliani schierati per l’occasione nello scalo meridionale di Uvda, utilizzato dai charter che trasportano i turisti diretti a Eilat (mar Rosso). L’esercitazione rientra nel programma di collaborazione e coordinamento tra le due aeronautiche finalizzato ad affinare le procedure e le tecniche di azione in missioni di controllo delle crisi (Crisis Response Operations). In Israele sono stati impegnati 150 militari italiani, mentre i cacciabombardieri dell’Ami hanno svolto più di un centinaio di missioni di volo. Alle operazioni hanno pure partecipato alcuni velivoli KC-767A del 14° Stormo di Pratica di Mare (Roma) e C130J della 46ª Brigata Aerea di Pisa.
>
> A fine ottobre erano stati i cacciabombardieri israeliani a sorvolare i grandi poligoni della Sardegna nell’ambito dell’esercitazione “Vega 2011”, a cui hanno partecipato pure le aeronautiche militari di Italia, Germania e Olanda. Per l’occasione, due squadroni con F-15 ed F-16 ed un velivolo radar di nuova produzione “Eitam” erano stati trasferiti dalle basi aeree di Nevatim e Tel Nof allo scalo di Decimomannu (Cagliari), centro di comando e coordinamento dell’intero ciclo addestrativo. “Gli obiettivi delle attività di Vega 2011 sono stati il rafforzamento dell’interoperabilità dei reparti impegnati, il miglioramento della capacità di cooperazione e lo svolgimento di attività tattiche grazie ad operazioni in aree di media scala in un ambiente ad alta minaccia”, hanno riferito le autorità italiane. L’esercitazione in Sardegna è stata seguita con particolare interesse dalla stampa di Tel Aviv: le spericolate missioni di volo sarebbero state finalizzate infatti a simulare un attacco agli impianti nucleari iraniani. Secondo quanto pubblicato dal sito JewPI.com, “Vega 2011” avrebbe comportato una condanna a sette giorni di carcere e un anno di sospensione dal volo per un pilota del 106° squadrone della IAF (Israeli Air Force) reo di aver compiuto senza autorizzazione un’evoluzione pericolosissima a bassa quota (una rotazione del velivolo di 360°).
>
> Oltre alle recentissime esercitazioni, nel corso di quest’anno si sono registrati importanti incontri tra i massimi responsabili delle forze aeree d’Italia ed Israele. Il 7 e l’8 febbraio, il sottocapo di Stato maggiore della IAF, generale Nimrod Sheffer, ha incontrato a Roma l’omologo italiano, generale Maurizio Lodovisi, per “approfondire i processi di trasformazione in atto nelle due aeronautiche, le esperienze maturate nei rispettivi teatri di operazione e le future attività addestrative”. Il successivo 14 giugno, è stato il comandante delle forze israeliane, generale Ido Nehushtan, a giungere in Italia in missione ufficiale. Dopo aver incontrato il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, generale Giuseppe Bernardis, Nehushtan ha raggiunto gli aeroporti di Pratica di Mare, Lecce e Grosseto per una “visita” ai reparti militari ospitati.
>
> Secondo quanto riportato dal sito specializzato Dedalo News, i colloqui al vertice “hanno riguardato i principali programmi di cooperazione tra i due paesi, con particolare riferimento all’uso degli UAV (velivoli a pilotaggio remoto), alla gestione logistica integrata del velivolo Joint Strike Fighter (JSF), di futura introduzione, e al velivolo d’addestramento M-346, nei confronti del quale l’aeronautica israeliana ha manifestato un certo interesse in previsione della sostituzione degli A-4 Skyhawk attualmente in linea”. L’interesse all’acquisto dei nuovi mezzi prodotti da Alenia Aermacchi è stato confermato dai principali quotidiani di Tel Aviv. Haaretz, in particolare, ha riferito che l’impresa del gruppo Finmeccanica avrebbe già firmato un accordo preliminare, a cui dovrebbe seguire presto la fornitura all’Italia di velivoli senza pilota e aerei radar di produzione israeliana.
Giochi di guerra nel deserto del Negev per i cacciabombardieri dell’aeronautica militare italiana. Lo scorso 16 dicembre si è conclusa l’esercitazione “Desert Dusk 2011” a cui hanno partecipato venticinque velivoli da guerra delle forze aeree italiane ed israeliane. Due settimane di duelli, inseguimenti e lanci di missili e bombe, protagonisti gli “Eurofighter” e i “Tornado” dell’Ami e gli F-15 ed F-16 israeliani schierati per l’occasione nello scalo meridionale di Uvda, utilizzato dai charter che trasportano i turisti diretti a Eilat (mar Rosso). L’esercitazione rientra nel programma di collaborazione e coordinamento tra le due aeronautiche finalizzato ad affinare le procedure e le tecniche di azione in missioni di controllo delle crisi (Crisis Response Operations). In Israele sono stati impegnati 150 militari italiani, mentre i cacciabombardieri dell’Ami hanno svolto più di un centinaio di missioni di volo. Alle operazioni hanno pure partecipato alcuni velivoli KC-767A del 14° Stormo di Pratica di Mare (Roma) e C130J della 46ª Brigata Aerea di Pisa.
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> A fine ottobre erano stati i cacciabombardieri israeliani a sorvolare i grandi poligoni della Sardegna nell’ambito dell’esercitazione “Vega 2011”, a cui hanno partecipato pure le aeronautiche militari di Italia, Germania e Olanda. Per l’occasione, due squadroni con F-15 ed F-16 ed un velivolo radar di nuova produzione “Eitam” erano stati trasferiti dalle basi aeree di Nevatim e Tel Nof allo scalo di Decimomannu (Cagliari), centro di comando e coordinamento dell’intero ciclo addestrativo. “Gli obiettivi delle attività di Vega 2011 sono stati il rafforzamento dell’interoperabilità dei reparti impegnati, il miglioramento della capacità di cooperazione e lo svolgimento di attività tattiche grazie ad operazioni in aree di media scala in un ambiente ad alta minaccia”, hanno riferito le autorità italiane. L’esercitazione in Sardegna è stata seguita con particolare interesse dalla stampa di Tel Aviv: le spericolate missioni di volo sarebbero state finalizzate infatti a simulare un attacco agli impianti nucleari iraniani. Secondo quanto pubblicato dal sito JewPI.com, “Vega 2011” avrebbe comportato una condanna a sette giorni di carcere e un anno di sospensione dal volo per un pilota del 106° squadrone della IAF (Israeli Air Force) reo di aver compiuto senza autorizzazione un’evoluzione pericolosissima a bassa quota (una rotazione del velivolo di 360°).
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> Oltre alle recentissime esercitazioni, nel corso di quest’anno si sono registrati importanti incontri tra i massimi responsabili delle forze aeree d’Italia ed Israele. Il 7 e l’8 febbraio, il sottocapo di Stato maggiore della IAF, generale Nimrod Sheffer, ha incontrato a Roma l’omologo italiano, generale Maurizio Lodovisi, per “approfondire i processi di trasformazione in atto nelle due aeronautiche, le esperienze maturate nei rispettivi teatri di operazione e le future attività addestrative”. Il successivo 14 giugno, è stato il comandante delle forze israeliane, generale Ido Nehushtan, a giungere in Italia in missione ufficiale. Dopo aver incontrato il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, generale Giuseppe Bernardis, Nehushtan ha raggiunto gli aeroporti di Pratica di Mare, Lecce e Grosseto per una “visita” ai reparti militari ospitati.
>
> Secondo quanto riportato dal sito specializzato Dedalo News, i colloqui al vertice “hanno riguardato i principali programmi di cooperazione tra i due paesi, con particolare riferimento all’uso degli UAV (velivoli a pilotaggio remoto), alla gestione logistica integrata del velivolo Joint Strike Fighter (JSF), di futura introduzione, e al velivolo d’addestramento M-346, nei confronti del quale l’aeronautica israeliana ha manifestato un certo interesse in previsione della sostituzione degli A-4 Skyhawk attualmente in linea”. L’interesse all’acquisto dei nuovi mezzi prodotti da Alenia Aermacchi è stato confermato dai principali quotidiani di Tel Aviv. Haaretz, in particolare, ha riferito che l’impresa del gruppo Finmeccanica avrebbe già firmato un accordo preliminare, a cui dovrebbe seguire presto la fornitura all’Italia di velivoli senza pilota e aerei radar di produzione israeliana.
venerdì 16 dicembre 2011
Ormai è "guerra sporca" contro la Siria
Ormai è "guerra sporca" contro la Siria
A Tunisi si riuniscono gli “oppositori” ad Assad. A Daraa uccisi dai miliziani 27 soldati e poliziotti. Sul campo centinaia di combattenti addestrati da Usa e Nato. Fiumi di armi arrivano dall’estero. Ormai è una guerra sporca, con molti zampini dietro. Piccolo dossier con i servizi di Nena News, Sole 24 Ore, Global Research
di Sergio Cararo*
Il Consiglio nazionale siriano (Cns), che rappresenta diverse forze dell'opposizione al regime del presidente siriano Bashar al-Assad, si riunirà domani sera a Tunisi per il suo primo congresso. Lo ha annunciato all’agenzia Adn/Kronos un esponente del Cns, Abdallah al-Turkmani, il quale ha precisato che l'evento si aprirà venerdì sera in presenza del nostro leader, Burhan Ghalioun, del presidente tunisino, Moncef Marzouqi, e di circa 200 membri del Cns provenienti dalla Siria e da altri Paesi, oltre a un certo numero di ospiti e di “attivisti per i diritti umani”. Turkmani ha sottolineato che «il 17 e il 18 dicembre si svolgeranno riunioni a porte chiuse, che si concluderanno con una conferenza stampa lunedì mattina». Tra gli argomenti in agenda, «la presentazione e il varo del programma politico del Cns, la presa in esame di una serie di documenti e delle relazioni delle commissioni speciali». Il Cns è stato creato tre mesi fa in Turchia e riunisce parte delle forze che si oppongono al governo di Damasco.
In Siria intanto è di 27 morti tra soldati dell'esercito regolare siriano e forze di sicurezza il bilancio di un attacco sferrato all'alba da alcuni gruppi di miliziani armati anti-Assad (tra cui ci sono circa 600 miliziani libici del Cnt) nella provincia di Daraa, nel sud della Siria. Lo ha riferito una nota degli attivisti dell'Osservatorio siriano per i diritti umani. Secondo l'organizzazione che ha sede a Londra, i miliziani hanno attaccato le forze lealiste in due zone di Daraa, città da cui è partita la rivolta contro il presidente Bashar al-Assad, e a un checkpoint fuori città. Viene intanto confermato che truppe americane e della Nato stanno addestrando le milizie dell'opposizione siriana al presidente Bashar al-Assad nella citta' di Hakkari, nel sud est della Turchia, vicino al confine siriano. E' quanto ha svelato un'ex impiegata dell'Fbi, Sibel Edmonds, citando fonti turche e statunitensi. Secondo quanto riporta il quotidiano turco 'Milliyet', per la Edmonds l'addestramento dei ribelli siriani, che sotto il colonnello disertore Riad al-Assad hanno formato l'Esercito siriano libero, è iniziato a maggio. La Edmonds ha quindi aggiunto che gli Stati Uniti sono coinvolti nel traffico di armi verso la Siria dalla base militare di Incirlik in Turchia. Washington, ha aggiunto, provvede anche a fornire un supporto finanziario ai ribelli impegnati a rovesciare l'attuale regime di Damasco.
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Dal Libano, intenso traffico di armi per i siriani (di Giorgia Grifoni/Nena News)
Nonostante i controlli, il confine nord-orientale tra i due paesi rimane il terreno d'elezione per un affare sempre più redditizio. Un contrabbando che bypassa le affiliazioni politiche in favore del denaro.
Iraq, Turchia, Libano. In Siria, le armi destinate agli oppositori del regime di Assad, entrano da tre lati su quattro. Tra il contrabbando di sigarette, generi di prima necessità e carburante, quello di Kalashnikov, M16 e RPG è sicuramente il più redditizio per i villaggi frontalieri libanesi, turchi o iracheni, popolati in gran parte da siriani. Non sono solo le armi a varcare il confine: secondo le confessioni di un trafficante libanese intervistato dalla BBC, assieme ai kalashnikov prenderebbero la via di Homs anche gruppi di salafiti, pronti a combattere accanto ai ribelli sunniti contro le forze governative. Ma in Libano, diviso come non mai sul calderone siriano tra affiliazioni di vecchia data e incubi dell’occupazione passata, non tutto può il settarismo politico. Soprattutto, non contro il denaro.
I prezzi delle armi sono lievitati a cifre folli, nel Paese dei cedri: da marzo a settembre, si stima che siano aumentati del 75%. Per un kalashnikov, si può spendere dai 1500 ai 2000 dollari, mentre un RPG costa circa 2500 dollari. Poco, se paragonato ai 5000 dollari (inclusi due razzi, però) che chiedono i trafficanti iracheni o turchi. Una pallottola per un M16 in Libano costa 1,5 dollari, in Turchia e in Iraq 2. "Stiamo parlando di kalashnikov – spiega Moe Ali, giornalista di Beirut – che fino a cinque anni fa costavano 100 dollari. Persino durante gli scontri di Maggio 2008 i prezzi erano scesi da 800 a 600 dollari, e non c’era domanda semplicemente perché Hezbollah e Amal controllavano il mercato".
E’ il confine nord-orientale del paese, quello più battuto dai traffici di armi diretti in Siria. Da una parte la valle della Beqaa, roccaforte sciita nel nord del paese, da un altro l’Akkar, regione quasi completamente sunnita oltre Tripoli. Proprio qui sono concentrati tre dei quattro valichi di frontiera tra Siria e Libano, quelli che conducono a Homs e Hama. Zone in cui per decenni le autorità siriane si sono rifiutate di demarcare il confine internazionale con il Libano, rendendole delle No man’s land che sono servite a rafforzare la presenza militare siriana negli anni dell’occupazione del piccolo vicino (1976-2005) con ingressi di truppe, check-points e contrabbando, tra gli altri, di hashish libanese coltivato alle falde del monte Hermel. Circa un mese fa l’esercito siriano ha però minato un tratto di frontiera con il Libano, precisamente quello di Wadi Khaled, all’angolo nord-orientale del Paese dei cedri: sicuramente non un gesto di riconoscimento della sovranità del Libano, ma piuttosto una difesa contro l’inondazione di armi e il passaggio dei ribelli siriani in territorio libanese. Nella Beqaa, invece, sembra che i traffici siano in netta diminuzione, stando alle parole di un trafficante libanese intervistato dal quotidiano al-Akhbar . Beirut ne attribuisce il merito alla presenza dell’esercito, dispiegato alcune settimane fa a guardia del confine. Ma se i traffici nell’Akkar sunnita continuano, sul versante sciita potrebbero essere stati interrotti dall’alto.
"Tutti in Libano – continua Moe Ali- vendono armi ai ribelli siriani per ragioni più forti dell’affiliazione politica o settaria. Lo fanno per soldi, non tenendo conto di chi siano i destinatari". Una versione confermata anche dal trafficante libanese intervistato, perché vendono quasi tutti: dalle Forze Libanesi al Movimento del Futuro (coalizione 14 marzo, anti-siriani), da Amal al Partito Nazionale Sociale Siriano e addirittura al partito Baath (tutti e tre della coalizione 8 Marzo, filo-siriani). Ovviamente nell’Akkar si vendono armi ai ribelli siriani anche per ragioni ideologiche: armi che spesso sono finanziate dall’Arabia Saudita e dai paesi del Golfo tramite Hariri. Ma nelle zone dove Hezbollah è preponderante, lo si fa soprattutto per fame. "Ovviamente sono i singoli a vendere – conclude Moe Ali- e i membri dei partiti alleati di Hezbollah nel Nord stanno vendendo le armi che erano state loro distribuite per difendersi solo perché pra è un business redditizio in una fase di grande instabilità economica. La vita è diventata così cara in Libano che per la maggior parte delle persone è dura arrivare al giorno dopo".
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La confusa escalation della crisi siriana. L'insurrezione somiglia sempre più a una guerra
analisi di Gianandrea Gaiani (daI Il Sole 24Ore del 13 dicembre)
L'insurrezione siriana sta assumendo progressivamente le caratteristiche di una vera e propria guerra a causa delle accresciute capacità belliche dell'Esercito siriano libero (ELS) guidato dal colonnello Riyadh al Asaad e composto da migliaia di disertori che hanno abbandonato le brigate governative. Incursioni contro centri di comando, imboscate a convogli, uccisioni mirate ma anche vere e proprie battaglie campali avrebbero provocato, secondo Damasco, la morte di oltre un migliaio di soldati fedeli al regime di Bashar Assad in un conflitto che le stime dell'Onu valutano abbia provocato finora 5 mila vittime. Una guerra che sta assumendo sempre più una dimensione internazionale come indicano diversi elementi.
Sembrano confermate le indiscrezioni circa il ruolo delle forze speciali britanniche, francesi, giordane e del Qatar che nella base turca di Iskenderun addestrano i combattenti dell'ELS insieme ai militari di Ankara. Consiglieri militari che si spingerebbero anche nel nord della Siria per affiancare l'esercito ribelle e che sarebbero affiancati da miliziani delle brigate islamiche libiche che combatterono il regime di Gheddafi con il supporto finanziario e militare del Qatar. L'obiettivo di questo embrione di forza multinazionale sembra essere l'istituzione di "corridoi umanitari" o un'area cuscinetto per i ribelli nel nord del Paese. L'opposizione russa e cinese sembra impedire una risoluzione dell'Onu che autorizzi l'intervento internazionale (come in Libia) ma una sorta di copertura politico-giuridica potrebbe venire assicurata dalla Lega Araba adducendo (come in Libia) ragioni umanitarie.
Gli elementi per una crisi internazionale intorno alle sorti del regime siriano ci sono tutti. Miliziani ribelli si infiltrano in Siria dalle frontiere turca, libanese e giordana. L'Iran non lesina aiuti a Damasco consapevole che un crollo di Assad isolerebbe Teheran e le milizie Hezbollah in Libano dove l'attentato che ha ferito il 9 dicembre cinque caschi blu francesi ha indotto Parigi a inasprire le accuse a Damasco.
L'arrivo nel Mediterraneo Orientale del gruppo navale statunitense guidato dalla portaerei George Bush, composto anche da un sottomarino dotato di missili da crociera, ha indotto Mosca a trasferire nella base navale siriana di Tartus la sua portaerei Kuznetsov con alcune navi logistiche e di scorta. Un confronto navale che non si vedeva dai tempi della Guerra Fredda. A rendere credibile l'iniziativa militare di Mosca, che ha nella Siria un alleato storico e un importante cliente per la sua industria militare, potrebbe contribuire Israele la cui posizione nella crisi siriana rimane da chiarire.
Gerusalemme aveva accolto con freddezza l'inizio della rivolta in Siria temendone una deriva simile a quella della "primavera egiziana" per poi mutare ufficialmente posizione. Il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, ha dichiarato domenica scorsa che la caduta del presidente siriano Bashar al Assad sarebbe ''una benedizione'' per il Medio Oriente e anche se "non possiamo dire cosa succederà dopo, in ogni caso sarà un colpo all'asse Iran-Hezbollah''. Secondo Germano Dottori, uno dei più attenti analisti strategici italiani, Mosca potrebbe però aver concordato le proprie recenti iniziative con Israele, che punterebbe così ad "arrestare l'espansione geopolitica della Turchia e arginare la marea montante della Fratellanza musulmana" considerato un obiettivo più importante che "spezzare la mezzaluna sciita che attualmente congiunge l'Iran al Libano meridionale".
Mosca e Gerusalemme hanno del resto intensificato da tempo i rapport anche nel settore dell'intelligence e della sicurezza nonostante la Russia sia il maggior fornitore di armi a Siria e Iran. Un anno or sono Mosca ha acquistato velivoli teleguidati israeliani per 400 milioni di dollari e anche negli ultimi tempi non sono mancati I segnali di un'intesa che negli interessi di Gerusalemme tenderebbe a bilanciare il sostegno che Washington offre ad Ankara e alle rivolte che stanno portando movimenti islamisti al potere in tutto il Mediterraneo meridionale.
Recentemente un satellite israeliano è stato lanciato da un poligono spaziale russo in Kazakhistan e nei giorni scorsi Il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, cittadino sovietico di nascita, si è recato a Mosca dove ha riconosciuto la regolarità delle elezioni russe. Una situazione strategica molto fluida, che ribalta le alleanze storiche alla quale non sono estranei interessi economici dal momento che Ankara è in prima linea a contestare il diritto di Israele di sfruttare gli enormi giacimenti di gas rinvenuti nelle acque tra lo stato, ebraico, il Libano e Cipro.
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-12-13/confusa-escalation-crisi-siriana-201618.shtml?uuid=AaY2c1TE
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“Seicento libici già combattono in Libia”
Il governo libico a quanto pare vuole condividere la propria esperienza di successo nel rovesciamento del regime di Gheddafi con siriani che la pensano allo stesso modo. Ha inviato 600 dei suoi combattenti per supportare i militanti locali contro il regime di Assad, secondo quanto riferiscono i media.
I combattenti hanno aderito al Free Syria Army, il gruppo militante che sta portando attacchi contro le forze governative in Siria, riferisce il sito web di informazione egiziano Al-Ray Al-Arabi che li cita come fonte. Il rapporto dice che le truppe sono entrate in Siria attraverso il territorio turco.
La presunta incursione è avvenuta con il consenso del presidente del Consiglio nazionale di transizione libico (CNT) Mustafa Abdul Jalil. Il CNT ha presumibilmente accolto con favore questi volontari.
Venerdì scorso i media britannici hanno riferito di un incontro segreto tra gli inviati CNT e i ribelli siriani tenuto a Istanbul. Da quanto riferito il governo libico si è impegnato a fornire armi, denaro e combattenti ai siriani.
Governo di Bashar Assad ha più volte accusato le forze straniere rispetto ai gruppi armati e al contrabbando di armi in Siria, che alimentano così le violenze in corso.
A metà ottobre il CNT libico è stato il primo governo a riconoscere il Consiglio nazionale dei ribelli siriani come legittimi rappresentanti del popolo siriano.
La popolazione libica è in possesso di molte armi, che hanno ricevuto durante la guerra civile saccheggiando depositi militari, attraverso il contrabbando o come aiuti da parte dei membri della NATO e di paesi come il Qatar, che hanno partecipato alla cacciata di Muammar Gheddafi. Il CNT ha difficoltà a disarmare gli ex ribelli, i quali vogliono mantenere le loro armi sia per protezione personale che come mezzo per guadagnarsi da vivere.
Nel mese di novembre, la capitale libica Tripoli ha visto una protesta di massa da parte dei ribelli, che chiedevano al CNT di pagare i loro stipendi. Alcuni addirittura hanno minacciato di rovesciare il nuovo governo come fatto con il precedente, se le loro richieste non saranno soddisfatte.
Indirizzare giovani armati, sottoccupati e smaniosi di combattere in un altro paese potrebbe essere una mossa conveniente per il CNT. Il governo siriano, tuttavia, è probabile che li consideri come mercenari, cui la Turchia, membro della NATO, ha consentito l'accesso nel paese come alternativa a una vera e propria campagna militare, impossibile senza l'approvazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU.
da http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&;aid=27946
Traduzione dall'inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
da www.contropiano.org
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A Tunisi si riuniscono gli “oppositori” ad Assad. A Daraa uccisi dai miliziani 27 soldati e poliziotti. Sul campo centinaia di combattenti addestrati da Usa e Nato. Fiumi di armi arrivano dall’estero. Ormai è una guerra sporca, con molti zampini dietro. Piccolo dossier con i servizi di Nena News, Sole 24 Ore, Global Research
di Sergio Cararo*
Il Consiglio nazionale siriano (Cns), che rappresenta diverse forze dell'opposizione al regime del presidente siriano Bashar al-Assad, si riunirà domani sera a Tunisi per il suo primo congresso. Lo ha annunciato all’agenzia Adn/Kronos un esponente del Cns, Abdallah al-Turkmani, il quale ha precisato che l'evento si aprirà venerdì sera in presenza del nostro leader, Burhan Ghalioun, del presidente tunisino, Moncef Marzouqi, e di circa 200 membri del Cns provenienti dalla Siria e da altri Paesi, oltre a un certo numero di ospiti e di “attivisti per i diritti umani”. Turkmani ha sottolineato che «il 17 e il 18 dicembre si svolgeranno riunioni a porte chiuse, che si concluderanno con una conferenza stampa lunedì mattina». Tra gli argomenti in agenda, «la presentazione e il varo del programma politico del Cns, la presa in esame di una serie di documenti e delle relazioni delle commissioni speciali». Il Cns è stato creato tre mesi fa in Turchia e riunisce parte delle forze che si oppongono al governo di Damasco.
In Siria intanto è di 27 morti tra soldati dell'esercito regolare siriano e forze di sicurezza il bilancio di un attacco sferrato all'alba da alcuni gruppi di miliziani armati anti-Assad (tra cui ci sono circa 600 miliziani libici del Cnt) nella provincia di Daraa, nel sud della Siria. Lo ha riferito una nota degli attivisti dell'Osservatorio siriano per i diritti umani. Secondo l'organizzazione che ha sede a Londra, i miliziani hanno attaccato le forze lealiste in due zone di Daraa, città da cui è partita la rivolta contro il presidente Bashar al-Assad, e a un checkpoint fuori città. Viene intanto confermato che truppe americane e della Nato stanno addestrando le milizie dell'opposizione siriana al presidente Bashar al-Assad nella citta' di Hakkari, nel sud est della Turchia, vicino al confine siriano. E' quanto ha svelato un'ex impiegata dell'Fbi, Sibel Edmonds, citando fonti turche e statunitensi. Secondo quanto riporta il quotidiano turco 'Milliyet', per la Edmonds l'addestramento dei ribelli siriani, che sotto il colonnello disertore Riad al-Assad hanno formato l'Esercito siriano libero, è iniziato a maggio. La Edmonds ha quindi aggiunto che gli Stati Uniti sono coinvolti nel traffico di armi verso la Siria dalla base militare di Incirlik in Turchia. Washington, ha aggiunto, provvede anche a fornire un supporto finanziario ai ribelli impegnati a rovesciare l'attuale regime di Damasco.
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Dal Libano, intenso traffico di armi per i siriani (di Giorgia Grifoni/Nena News)
Nonostante i controlli, il confine nord-orientale tra i due paesi rimane il terreno d'elezione per un affare sempre più redditizio. Un contrabbando che bypassa le affiliazioni politiche in favore del denaro.
Iraq, Turchia, Libano. In Siria, le armi destinate agli oppositori del regime di Assad, entrano da tre lati su quattro. Tra il contrabbando di sigarette, generi di prima necessità e carburante, quello di Kalashnikov, M16 e RPG è sicuramente il più redditizio per i villaggi frontalieri libanesi, turchi o iracheni, popolati in gran parte da siriani. Non sono solo le armi a varcare il confine: secondo le confessioni di un trafficante libanese intervistato dalla BBC, assieme ai kalashnikov prenderebbero la via di Homs anche gruppi di salafiti, pronti a combattere accanto ai ribelli sunniti contro le forze governative. Ma in Libano, diviso come non mai sul calderone siriano tra affiliazioni di vecchia data e incubi dell’occupazione passata, non tutto può il settarismo politico. Soprattutto, non contro il denaro.
I prezzi delle armi sono lievitati a cifre folli, nel Paese dei cedri: da marzo a settembre, si stima che siano aumentati del 75%. Per un kalashnikov, si può spendere dai 1500 ai 2000 dollari, mentre un RPG costa circa 2500 dollari. Poco, se paragonato ai 5000 dollari (inclusi due razzi, però) che chiedono i trafficanti iracheni o turchi. Una pallottola per un M16 in Libano costa 1,5 dollari, in Turchia e in Iraq 2. "Stiamo parlando di kalashnikov – spiega Moe Ali, giornalista di Beirut – che fino a cinque anni fa costavano 100 dollari. Persino durante gli scontri di Maggio 2008 i prezzi erano scesi da 800 a 600 dollari, e non c’era domanda semplicemente perché Hezbollah e Amal controllavano il mercato".
E’ il confine nord-orientale del paese, quello più battuto dai traffici di armi diretti in Siria. Da una parte la valle della Beqaa, roccaforte sciita nel nord del paese, da un altro l’Akkar, regione quasi completamente sunnita oltre Tripoli. Proprio qui sono concentrati tre dei quattro valichi di frontiera tra Siria e Libano, quelli che conducono a Homs e Hama. Zone in cui per decenni le autorità siriane si sono rifiutate di demarcare il confine internazionale con il Libano, rendendole delle No man’s land che sono servite a rafforzare la presenza militare siriana negli anni dell’occupazione del piccolo vicino (1976-2005) con ingressi di truppe, check-points e contrabbando, tra gli altri, di hashish libanese coltivato alle falde del monte Hermel. Circa un mese fa l’esercito siriano ha però minato un tratto di frontiera con il Libano, precisamente quello di Wadi Khaled, all’angolo nord-orientale del Paese dei cedri: sicuramente non un gesto di riconoscimento della sovranità del Libano, ma piuttosto una difesa contro l’inondazione di armi e il passaggio dei ribelli siriani in territorio libanese. Nella Beqaa, invece, sembra che i traffici siano in netta diminuzione, stando alle parole di un trafficante libanese intervistato dal quotidiano al-Akhbar . Beirut ne attribuisce il merito alla presenza dell’esercito, dispiegato alcune settimane fa a guardia del confine. Ma se i traffici nell’Akkar sunnita continuano, sul versante sciita potrebbero essere stati interrotti dall’alto.
"Tutti in Libano – continua Moe Ali- vendono armi ai ribelli siriani per ragioni più forti dell’affiliazione politica o settaria. Lo fanno per soldi, non tenendo conto di chi siano i destinatari". Una versione confermata anche dal trafficante libanese intervistato, perché vendono quasi tutti: dalle Forze Libanesi al Movimento del Futuro (coalizione 14 marzo, anti-siriani), da Amal al Partito Nazionale Sociale Siriano e addirittura al partito Baath (tutti e tre della coalizione 8 Marzo, filo-siriani). Ovviamente nell’Akkar si vendono armi ai ribelli siriani anche per ragioni ideologiche: armi che spesso sono finanziate dall’Arabia Saudita e dai paesi del Golfo tramite Hariri. Ma nelle zone dove Hezbollah è preponderante, lo si fa soprattutto per fame. "Ovviamente sono i singoli a vendere – conclude Moe Ali- e i membri dei partiti alleati di Hezbollah nel Nord stanno vendendo le armi che erano state loro distribuite per difendersi solo perché pra è un business redditizio in una fase di grande instabilità economica. La vita è diventata così cara in Libano che per la maggior parte delle persone è dura arrivare al giorno dopo".
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La confusa escalation della crisi siriana. L'insurrezione somiglia sempre più a una guerra
analisi di Gianandrea Gaiani (daI Il Sole 24Ore del 13 dicembre)
L'insurrezione siriana sta assumendo progressivamente le caratteristiche di una vera e propria guerra a causa delle accresciute capacità belliche dell'Esercito siriano libero (ELS) guidato dal colonnello Riyadh al Asaad e composto da migliaia di disertori che hanno abbandonato le brigate governative. Incursioni contro centri di comando, imboscate a convogli, uccisioni mirate ma anche vere e proprie battaglie campali avrebbero provocato, secondo Damasco, la morte di oltre un migliaio di soldati fedeli al regime di Bashar Assad in un conflitto che le stime dell'Onu valutano abbia provocato finora 5 mila vittime. Una guerra che sta assumendo sempre più una dimensione internazionale come indicano diversi elementi.
Sembrano confermate le indiscrezioni circa il ruolo delle forze speciali britanniche, francesi, giordane e del Qatar che nella base turca di Iskenderun addestrano i combattenti dell'ELS insieme ai militari di Ankara. Consiglieri militari che si spingerebbero anche nel nord della Siria per affiancare l'esercito ribelle e che sarebbero affiancati da miliziani delle brigate islamiche libiche che combatterono il regime di Gheddafi con il supporto finanziario e militare del Qatar. L'obiettivo di questo embrione di forza multinazionale sembra essere l'istituzione di "corridoi umanitari" o un'area cuscinetto per i ribelli nel nord del Paese. L'opposizione russa e cinese sembra impedire una risoluzione dell'Onu che autorizzi l'intervento internazionale (come in Libia) ma una sorta di copertura politico-giuridica potrebbe venire assicurata dalla Lega Araba adducendo (come in Libia) ragioni umanitarie.
Gli elementi per una crisi internazionale intorno alle sorti del regime siriano ci sono tutti. Miliziani ribelli si infiltrano in Siria dalle frontiere turca, libanese e giordana. L'Iran non lesina aiuti a Damasco consapevole che un crollo di Assad isolerebbe Teheran e le milizie Hezbollah in Libano dove l'attentato che ha ferito il 9 dicembre cinque caschi blu francesi ha indotto Parigi a inasprire le accuse a Damasco.
L'arrivo nel Mediterraneo Orientale del gruppo navale statunitense guidato dalla portaerei George Bush, composto anche da un sottomarino dotato di missili da crociera, ha indotto Mosca a trasferire nella base navale siriana di Tartus la sua portaerei Kuznetsov con alcune navi logistiche e di scorta. Un confronto navale che non si vedeva dai tempi della Guerra Fredda. A rendere credibile l'iniziativa militare di Mosca, che ha nella Siria un alleato storico e un importante cliente per la sua industria militare, potrebbe contribuire Israele la cui posizione nella crisi siriana rimane da chiarire.
Gerusalemme aveva accolto con freddezza l'inizio della rivolta in Siria temendone una deriva simile a quella della "primavera egiziana" per poi mutare ufficialmente posizione. Il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, ha dichiarato domenica scorsa che la caduta del presidente siriano Bashar al Assad sarebbe ''una benedizione'' per il Medio Oriente e anche se "non possiamo dire cosa succederà dopo, in ogni caso sarà un colpo all'asse Iran-Hezbollah''. Secondo Germano Dottori, uno dei più attenti analisti strategici italiani, Mosca potrebbe però aver concordato le proprie recenti iniziative con Israele, che punterebbe così ad "arrestare l'espansione geopolitica della Turchia e arginare la marea montante della Fratellanza musulmana" considerato un obiettivo più importante che "spezzare la mezzaluna sciita che attualmente congiunge l'Iran al Libano meridionale".
Mosca e Gerusalemme hanno del resto intensificato da tempo i rapport anche nel settore dell'intelligence e della sicurezza nonostante la Russia sia il maggior fornitore di armi a Siria e Iran. Un anno or sono Mosca ha acquistato velivoli teleguidati israeliani per 400 milioni di dollari e anche negli ultimi tempi non sono mancati I segnali di un'intesa che negli interessi di Gerusalemme tenderebbe a bilanciare il sostegno che Washington offre ad Ankara e alle rivolte che stanno portando movimenti islamisti al potere in tutto il Mediterraneo meridionale.
Recentemente un satellite israeliano è stato lanciato da un poligono spaziale russo in Kazakhistan e nei giorni scorsi Il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, cittadino sovietico di nascita, si è recato a Mosca dove ha riconosciuto la regolarità delle elezioni russe. Una situazione strategica molto fluida, che ribalta le alleanze storiche alla quale non sono estranei interessi economici dal momento che Ankara è in prima linea a contestare il diritto di Israele di sfruttare gli enormi giacimenti di gas rinvenuti nelle acque tra lo stato, ebraico, il Libano e Cipro.
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-12-13/confusa-escalation-crisi-siriana-201618.shtml?uuid=AaY2c1TE
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“Seicento libici già combattono in Libia”
Il governo libico a quanto pare vuole condividere la propria esperienza di successo nel rovesciamento del regime di Gheddafi con siriani che la pensano allo stesso modo. Ha inviato 600 dei suoi combattenti per supportare i militanti locali contro il regime di Assad, secondo quanto riferiscono i media.
I combattenti hanno aderito al Free Syria Army, il gruppo militante che sta portando attacchi contro le forze governative in Siria, riferisce il sito web di informazione egiziano Al-Ray Al-Arabi che li cita come fonte. Il rapporto dice che le truppe sono entrate in Siria attraverso il territorio turco.
La presunta incursione è avvenuta con il consenso del presidente del Consiglio nazionale di transizione libico (CNT) Mustafa Abdul Jalil. Il CNT ha presumibilmente accolto con favore questi volontari.
Venerdì scorso i media britannici hanno riferito di un incontro segreto tra gli inviati CNT e i ribelli siriani tenuto a Istanbul. Da quanto riferito il governo libico si è impegnato a fornire armi, denaro e combattenti ai siriani.
Governo di Bashar Assad ha più volte accusato le forze straniere rispetto ai gruppi armati e al contrabbando di armi in Siria, che alimentano così le violenze in corso.
A metà ottobre il CNT libico è stato il primo governo a riconoscere il Consiglio nazionale dei ribelli siriani come legittimi rappresentanti del popolo siriano.
La popolazione libica è in possesso di molte armi, che hanno ricevuto durante la guerra civile saccheggiando depositi militari, attraverso il contrabbando o come aiuti da parte dei membri della NATO e di paesi come il Qatar, che hanno partecipato alla cacciata di Muammar Gheddafi. Il CNT ha difficoltà a disarmare gli ex ribelli, i quali vogliono mantenere le loro armi sia per protezione personale che come mezzo per guadagnarsi da vivere.
Nel mese di novembre, la capitale libica Tripoli ha visto una protesta di massa da parte dei ribelli, che chiedevano al CNT di pagare i loro stipendi. Alcuni addirittura hanno minacciato di rovesciare il nuovo governo come fatto con il precedente, se le loro richieste non saranno soddisfatte.
Indirizzare giovani armati, sottoccupati e smaniosi di combattere in un altro paese potrebbe essere una mossa conveniente per il CNT. Il governo siriano, tuttavia, è probabile che li consideri come mercenari, cui la Turchia, membro della NATO, ha consentito l'accesso nel paese come alternativa a una vera e propria campagna militare, impossibile senza l'approvazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU.
da http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&;aid=27946
Traduzione dall'inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
da www.contropiano.org
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AL UJA : GLI ISRAELIANI PROSCIUGANO L'ACQUA FINO ALL'ULTIMA GOCCIA
AL AUJA: TORRENTE PROSCIUGATO, L’ACQUA ORA VA ALLE COLONIE
Nemmeno una goccia: le autorità israeliane hanno costruito un generatore con cui pompare l’acqua dalla sorgente e inviarla alle colonie della Valle del Giordano. La fonte di Al Auja prima serviva Gerico.
EMMA MANCINI
Al Auja, 13dicembre 2011, Nena News – Abdallah guarda fisso il canale vuoto. Stupito, nervoso, quasi rassegnato. In questa bella giornata di sole non si aspettava di trovarsi di fronte il torrente dell’infanzia sua e di tanti bambini palestinesi completamente prosciugato. Accanto al canale senza più una goccia d’acqua, sta un’immensa pompa israeliana protetta da reti elettrificate.
“Al Auja era una sorgente, da cui partiva il torrente”, spiega Abdallah Awudallah, 29 anni, del villaggio di Ubbedyia nel distretto di Betlemme. Ha accompagnato un gruppo di internazionali alla scoperta della Jordan Valley, delle sue risorse d’acqua rubate e delle sue terre confiscate. E il tour avrebbe dovuto concludersi alla sorgente di Al Auja. Ma di acqua nella sorgente non ce n’è più.
“In arabo ‘auja’ significa ‘nella direzione opposta’ – spiega Abdallah – Chiamavamo il torrente così perché per lunghi tratti l’acqua correva verso l’alto e non verso il basso. A causa della forte pressione e della velocità, l’acqua riceveva la spinta necessaria a salire verso l’alto”.
Un sito unico che colorava di verde il deserto. “Molte delle scuole della Cisgiordania erano solite portare in gita qui gli alunni, a Gerico e poi ad Al Auja: era il luogo perfetto per passare una giornata tra acqua e pesci e per studiare una delle risorse naturali fondamentali alla vita. Nessuna scuola palestinese può organizzare gite a Tiberiade, nella Palestina ’48, per mancanza dei permessi necessari a entrare in Israele. Così, Al Auja era l’unico luogo in cui venire a contatto con l’importanza dell’acqua”.
“La prima volta che sono venuto qui – continua – avevo circa 15 anni. Era il 1997. È stata la prima volta in cui ho visto un torrente e i pesci giocare intorno ai nostri piedi, immersi nell’acqua. Lungo il torrente, correva il verde dell’erba. Molte famiglie venivano ad Al Auja per un picnic. Ma sempre con prudenza, paura: la sorgente si trova in Area C, sotto controllo israeliano, e molte organizzazioni israeliane organizzavano tour qui. Spesso, l’esercito allontanava i palestinesi: ricordo di arresti, perquisizioni”.
“E oggi, lo scopro vuoto – sussurra Abdallah con gli occhi asciutti e fissi sul canale – Questo posto è deserto, senza vita. Mi sento vuoto, triste come questo canale. Mi chiedo come viva ora la comunità beduina di Ras Al Auja: si erano stabiliti qui per la presenza dell’acqua. Avevano erba fresca per pecore e capre e acqua potabile da bere. Ora sicuramente saranno costretti ad acquistare i tank d’acqua dalle compagnie israeliane: per ogni tank, il costo si aggira sui 200 shekel”.
Al Auja era un’oasi, spiegano gli attivisti del Jordan Valley Solidarity, il comitato popolare impegnato nell’area nella tutela e la difesa della popolazione palestinese sotto occupazione. Le famiglie erano solite venire alla sorgente per nuotare, pescare e fare picnic tra i banani. Nel 1972 la compagnia privata israeliana Mekarot (per il 51% di proprietà dello Stato di Israele) ha iniziato a scavare due pozzi che negli anni hanno ridotto la portata della falda acquifera.
Qualche anno fa, le autorità israeliane hanno completato l’opera con la costruzione di una pompa che attinge l’acqua direttamente alla sorgente, prosciugando completamente il torrente. E lasciando a secco le comunità della Jordan Valley. In diversi modi: gli israeliani sono autorizzati a scavare pozzi fino ad una profondità di 300 metri, mentre i palestinesi non possono superare i 160 metri. Così le risorse d’acqua, teoricamente raggiungibili, diventano nella pratica inaccessibili.
Le comunità palestinesi della Jordan Valley sono costrette ad acquistare tank d’acqua dalla compagnia Mekarot, che ha monopolizzato la gestione delle risorse idriche in Cisgiordania. Come spiega il Jordan Valley Solidarity, i beduini sono costretti a pagare 200 shekel (circa 40 euro) per ogni tank d’acqua più le spese di trasporto, la stessa acqua che scorre sotto i loro piedi e che non possono più toccare.
Ogni metro cubo d’acqua costa alle comunità palestinesi 30 shekel, mentre ai coloni viene venduta a 3 shekel al m³. Per legge, inoltre, le compagnie israeliane che forniscono acqua, elettricità, servizi di telecomunicazione sono tenute ad applicare uno sconto del 75% sulle bollette pagate dai coloni in Cisgiordania: alla fine, negli insediamenti un metro cubo d’acqua viene pagato meno di uno shekel. Ciò spiega perché, mentre l’ammontare d’acqua consumato da un palestinese nella Jordan Valley non supera i 70 litri al giorno, negli insediamenti il consumo di risorse idriche è di 33 volte superiore.
Sotto il mirino dell’occupante la comunità beduina di Ras Al Auja: il villaggio si trova a circa dieci chilometri a Nord Est di Gerico e ha una dimensione totale di oltre 107mila dunam (1 dunam = 1 km²). Nella comunità vivono 4.119 beduini. Dopo il 1967, Israele ha creato una zona di sicurezza lungo tutta la Jordan Valley, operazione che ha prodotto la confisca di oltre 30mila dunam appartenenti ad Al Auja.
Come spiega il JVS, a peggiorare la situazione la bypass road numero 90, strada riservata ai coloni e che taglia da Sud a Nord la Cisgiordania: la strada passa per Gerico e taglia a metà il villaggio di Ras Al Auja, senza che i suoi residenti possano utilizzarla.
La scorsa primavera, un trattore e l’unico tank d’acqua della famiglia Tresh sono stati confiscati L’accusa: aver rubato l’acqua alla compagnia Mekarot. Nello stesso periodo, la scuola dedicata all’attivista italiano Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza lo scorso 15 aprile, è stata distrutta dall’esercito. La scuola era stata costruita dal Jordan Valley Solidarity per ospitare oltre 130 bambini della comunità.
A ciò si aggiungono le colonie: Yitav, Niran e Omer’s Farm circondano la comunità beduina, mentre un checkpoint militare controlla l’area a Sud di Ras Al Auja. La disoccupazione è alle stelle, spiegano gli attivisti di JVS: “Al Auja sopravvive solo perché gli uomini vanno a lavorare a nero nelle colonie israeliane. L’area assomiglia ad un campo di lavoro, reminiscenza delle township del regime di apartheid sudafricano, con tutti gli uomini assenti durante il giorno per poter lavorare negli insediamenti”. Nena News
Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2011 dal sito dell’Alternative Information Center
Nemmeno una goccia: le autorità israeliane hanno costruito un generatore con cui pompare l’acqua dalla sorgente e inviarla alle colonie della Valle del Giordano. La fonte di Al Auja prima serviva Gerico.
EMMA MANCINI
Al Auja, 13dicembre 2011, Nena News – Abdallah guarda fisso il canale vuoto. Stupito, nervoso, quasi rassegnato. In questa bella giornata di sole non si aspettava di trovarsi di fronte il torrente dell’infanzia sua e di tanti bambini palestinesi completamente prosciugato. Accanto al canale senza più una goccia d’acqua, sta un’immensa pompa israeliana protetta da reti elettrificate.
“Al Auja era una sorgente, da cui partiva il torrente”, spiega Abdallah Awudallah, 29 anni, del villaggio di Ubbedyia nel distretto di Betlemme. Ha accompagnato un gruppo di internazionali alla scoperta della Jordan Valley, delle sue risorse d’acqua rubate e delle sue terre confiscate. E il tour avrebbe dovuto concludersi alla sorgente di Al Auja. Ma di acqua nella sorgente non ce n’è più.
“In arabo ‘auja’ significa ‘nella direzione opposta’ – spiega Abdallah – Chiamavamo il torrente così perché per lunghi tratti l’acqua correva verso l’alto e non verso il basso. A causa della forte pressione e della velocità, l’acqua riceveva la spinta necessaria a salire verso l’alto”.
Un sito unico che colorava di verde il deserto. “Molte delle scuole della Cisgiordania erano solite portare in gita qui gli alunni, a Gerico e poi ad Al Auja: era il luogo perfetto per passare una giornata tra acqua e pesci e per studiare una delle risorse naturali fondamentali alla vita. Nessuna scuola palestinese può organizzare gite a Tiberiade, nella Palestina ’48, per mancanza dei permessi necessari a entrare in Israele. Così, Al Auja era l’unico luogo in cui venire a contatto con l’importanza dell’acqua”.
“La prima volta che sono venuto qui – continua – avevo circa 15 anni. Era il 1997. È stata la prima volta in cui ho visto un torrente e i pesci giocare intorno ai nostri piedi, immersi nell’acqua. Lungo il torrente, correva il verde dell’erba. Molte famiglie venivano ad Al Auja per un picnic. Ma sempre con prudenza, paura: la sorgente si trova in Area C, sotto controllo israeliano, e molte organizzazioni israeliane organizzavano tour qui. Spesso, l’esercito allontanava i palestinesi: ricordo di arresti, perquisizioni”.
“E oggi, lo scopro vuoto – sussurra Abdallah con gli occhi asciutti e fissi sul canale – Questo posto è deserto, senza vita. Mi sento vuoto, triste come questo canale. Mi chiedo come viva ora la comunità beduina di Ras Al Auja: si erano stabiliti qui per la presenza dell’acqua. Avevano erba fresca per pecore e capre e acqua potabile da bere. Ora sicuramente saranno costretti ad acquistare i tank d’acqua dalle compagnie israeliane: per ogni tank, il costo si aggira sui 200 shekel”.
Al Auja era un’oasi, spiegano gli attivisti del Jordan Valley Solidarity, il comitato popolare impegnato nell’area nella tutela e la difesa della popolazione palestinese sotto occupazione. Le famiglie erano solite venire alla sorgente per nuotare, pescare e fare picnic tra i banani. Nel 1972 la compagnia privata israeliana Mekarot (per il 51% di proprietà dello Stato di Israele) ha iniziato a scavare due pozzi che negli anni hanno ridotto la portata della falda acquifera.
Qualche anno fa, le autorità israeliane hanno completato l’opera con la costruzione di una pompa che attinge l’acqua direttamente alla sorgente, prosciugando completamente il torrente. E lasciando a secco le comunità della Jordan Valley. In diversi modi: gli israeliani sono autorizzati a scavare pozzi fino ad una profondità di 300 metri, mentre i palestinesi non possono superare i 160 metri. Così le risorse d’acqua, teoricamente raggiungibili, diventano nella pratica inaccessibili.
Le comunità palestinesi della Jordan Valley sono costrette ad acquistare tank d’acqua dalla compagnia Mekarot, che ha monopolizzato la gestione delle risorse idriche in Cisgiordania. Come spiega il Jordan Valley Solidarity, i beduini sono costretti a pagare 200 shekel (circa 40 euro) per ogni tank d’acqua più le spese di trasporto, la stessa acqua che scorre sotto i loro piedi e che non possono più toccare.
Ogni metro cubo d’acqua costa alle comunità palestinesi 30 shekel, mentre ai coloni viene venduta a 3 shekel al m³. Per legge, inoltre, le compagnie israeliane che forniscono acqua, elettricità, servizi di telecomunicazione sono tenute ad applicare uno sconto del 75% sulle bollette pagate dai coloni in Cisgiordania: alla fine, negli insediamenti un metro cubo d’acqua viene pagato meno di uno shekel. Ciò spiega perché, mentre l’ammontare d’acqua consumato da un palestinese nella Jordan Valley non supera i 70 litri al giorno, negli insediamenti il consumo di risorse idriche è di 33 volte superiore.
Sotto il mirino dell’occupante la comunità beduina di Ras Al Auja: il villaggio si trova a circa dieci chilometri a Nord Est di Gerico e ha una dimensione totale di oltre 107mila dunam (1 dunam = 1 km²). Nella comunità vivono 4.119 beduini. Dopo il 1967, Israele ha creato una zona di sicurezza lungo tutta la Jordan Valley, operazione che ha prodotto la confisca di oltre 30mila dunam appartenenti ad Al Auja.
Come spiega il JVS, a peggiorare la situazione la bypass road numero 90, strada riservata ai coloni e che taglia da Sud a Nord la Cisgiordania: la strada passa per Gerico e taglia a metà il villaggio di Ras Al Auja, senza che i suoi residenti possano utilizzarla.
La scorsa primavera, un trattore e l’unico tank d’acqua della famiglia Tresh sono stati confiscati L’accusa: aver rubato l’acqua alla compagnia Mekarot. Nello stesso periodo, la scuola dedicata all’attivista italiano Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza lo scorso 15 aprile, è stata distrutta dall’esercito. La scuola era stata costruita dal Jordan Valley Solidarity per ospitare oltre 130 bambini della comunità.
A ciò si aggiungono le colonie: Yitav, Niran e Omer’s Farm circondano la comunità beduina, mentre un checkpoint militare controlla l’area a Sud di Ras Al Auja. La disoccupazione è alle stelle, spiegano gli attivisti di JVS: “Al Auja sopravvive solo perché gli uomini vanno a lavorare a nero nelle colonie israeliane. L’area assomiglia ad un campo di lavoro, reminiscenza delle township del regime di apartheid sudafricano, con tutti gli uomini assenti durante il giorno per poter lavorare negli insediamenti”. Nena News
Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2011 dal sito dell’Alternative Information Center
giovedì 15 dicembre 2011
BASTA RAZZISMO ASSASSINO!
Appello: Uniti per fermare il razzismo assassino
è urgente reagire uniti contro il razzismo assassino. L’omicidio a Firenze di due fratelli senegalesi ad opera di un militante di estrema destra è una grave espressione di una escalation razzista in atto.
Il razzismo fascista e criminale è stato alimentato da quello istituzionale, statale e governativo, che semina odio, violenza e repressione verso gli immigrati. è il momento di unirsi e mobilitarsi per fermare questa barbarie, costruendo solidarietà contro tutte le forme di razzismo. Perciò ci mobiliteremo nazionalmente sabato 17 dicembre al fianco dei nostri fratelli senegalesi che stanno reagendo.
Tutti a Firenze sabato 17 dicembre
Manifestazione nazionale
piazza Dalmazia ore 15
• Unità per fermare il razzismo criminale!
• No al razzismo in tutte le sue forme!
• Basta repressione verso i nostri fratelli!
• Accoglienza, libera circolazione e soggiorno per tutti gli immigrati senza condizioni!
Prime adesioni:
Associazione nazionale antirazzista e interetnica “3 febbraio”, Socialismo rivoluzionario, CIB-Unicobas, Partito Umanista,
Coordinamento nazionale StopRazzismo, Carlo D’Antoni (sacerdote Siracusa), Coordinamento tecnico nazionale Comitati Solidali e Antirazzisti
Per adesioni e informazioni:
055.2302015 – 340.7903971
socialismorivoluzionario@yahoo.it
stoprazzismo@libero.it
è urgente reagire uniti contro il razzismo assassino. L’omicidio a Firenze di due fratelli senegalesi ad opera di un militante di estrema destra è una grave espressione di una escalation razzista in atto.
Il razzismo fascista e criminale è stato alimentato da quello istituzionale, statale e governativo, che semina odio, violenza e repressione verso gli immigrati. è il momento di unirsi e mobilitarsi per fermare questa barbarie, costruendo solidarietà contro tutte le forme di razzismo. Perciò ci mobiliteremo nazionalmente sabato 17 dicembre al fianco dei nostri fratelli senegalesi che stanno reagendo.
Tutti a Firenze sabato 17 dicembre
Manifestazione nazionale
piazza Dalmazia ore 15
• Unità per fermare il razzismo criminale!
• No al razzismo in tutte le sue forme!
• Basta repressione verso i nostri fratelli!
• Accoglienza, libera circolazione e soggiorno per tutti gli immigrati senza condizioni!
Prime adesioni:
Associazione nazionale antirazzista e interetnica “3 febbraio”, Socialismo rivoluzionario, CIB-Unicobas, Partito Umanista,
Coordinamento nazionale StopRazzismo, Carlo D’Antoni (sacerdote Siracusa), Coordinamento tecnico nazionale Comitati Solidali e Antirazzisti
Per adesioni e informazioni:
055.2302015 – 340.7903971
socialismorivoluzionario@yahoo.it
stoprazzismo@libero.it
Soldi per lo Sviluppo dirottati nel bilancio della Difesa: serviranno ad acquistare armi
Si tratta di circa 1,6 miliardi di euro destinati a interventi agevolati per il settore aeronautico e 135 milioni di euro per lo sviluppo e l'acquisizione di unità navali della classe Fremm. Somme che il governo Berlusconi ha deciso di utilizzare per 'fini militari'
Anche i soldi destinati allo sviluppo finiscono nel calderone delle spese militari. Si tratta di 1.538,6 milioni di euro per interventi agevolati per il settore aeronautico e 135 milioni di euro per lo sviluppo e l’acquisizione di unità navali della classe Fremm. Soldi che il governo Berlusconi ha deciso di dirottare sulla Difesa. A questi, vanno aggiunti i fondi derivanti dal ministero dell’Economia per le missioni internazionali, pari a 1,4 milioni. Così il bilancio della Difesa, unico tra i ministeri, riceve le stampelle da altri dicasteri e arriva a totalizzare una spesa prevista per il 2012 di 23.113 miliardi di euro. Grosso modo quanto richiesto dalla manovra “salva-Italia” imposta da Monti. Da qui si moltiplicano gli appelli a “disarmare l’economia”, riducendo il bilancio della Difesa e mettendo un freno alla spesa per nuove armi, a partire dai contestatissimi F35.
Sul primo fronte, quello del bilancio, regna poca chiarezza. “Ancora si aspetta di capire se ci saranno i tagli annunciati con le due manovre estive”, spiega Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete italiana per il disarmo. “Invece è certo che si ripeterà la presa in giro dei fondi allo sviluppo dirottati sullo sviluppo d’armi. Lo scandalo non è tanto nel fatto che lo Sviluppo economico allochi risorse alla Difesa, quanto il fatto che sia quest’ultima a decidere come spenderli. Allora si dica chiaramente che l’Italia sceglie di sviluppare la propria tecnologia e la propria industria a beneficio degli armamenti, alimentando un settore dove la corruzione e la collusione politica è ormai endemica, come dimostra la vicenda Finmeccanica“.
E alla fine si torna sempre lì: a quanto si potrebbe risparmiare se Monti guardasse ai programmi di spesa per armamenti militari e al bilancio della Difesa con gli stessi occhiali che riserva alla vita civile degli italiani. Lo ha fatto, ad esempio, Massimo Donadi dell’Idv lanciando la proposta proprio dal suo blog su ilfattoquotidiano.it : “Costano 18 miliardi di euro: cosa se ne dovrebbe fare il nostro Paese di 131 aerei da guerra, inutilizzabili nelle missioni di pace dove siamo ancora impegnati, in un momento in cui rischiamo il fallimento e tenuto conto che siamo l’ottava potenza militare al mondo?”, chiede Donadi. E sono solo una parte della lunghissima lista di acquisti che entro il 2026 porterà il nostro Paese a spendere in armi 50 miliardi di euro. Tra un anno, ad esempio, perfezioneremo l’acquisto di 249 blindati “freccia” per 1,5 miliardi. Nel 2015 arrivano due Fregate antiaeree classe “Orizzonte” da 1,5 miliardi. Nel 2016 avremo finito (forse) di pagare quattro sommergibili U-212 da 1,8 miliardi e la portaerei Cavour da 1,39. Nel 2018 saranno consegnati 121 caccia Eurofighter da 18 miliardi e di 100 elicotteri di trasporto tattico NH-90 (3,8 miliardi). Il 2019 sarà l’anno navale con la consegna delle Fregate Europee Multi Missione (Fremm) da 5,6 miliardi. Gran trionfo nel 2026 con i 131 velivoli d’attacco Joint Strike Fighter (F35) per l’astronomica cifra di 18.100 milioni.
Altri risparmi potrebbero essere fatti sul bilancio della Difesa. Nel 2012 impegnerà 20,4 miliardi, con un incremento rispetto all’anno precedente di 785 milioni di euro, e un peso sul Pil pari all’1,3%. Le possibilità di tagliare non mancano, al di là degli sprechi più grossolani, come le ormai famose Maserati blindate per i generali o i 500mila euro spesi per celebrare la Festa delle Forze Armate al Circo Massimo. Si potrebbe tagliare sui 224 milioni spesi in noleggi, locazioni e leasing, sui 36 milioni di euro di consulenze, sui 4,5 milioni spesi in carta, cancelleria e stampanti per arrivare al milione e mezzo speso in “giornali e pubblicazioni”. O ancora si potrebbe ritornare sui costi della “mini-naja“, introdotta a livello sperimentale per tre anni e confermata a oltranza con una spesa di 20 milioni. Stesso discorso per l’operazione “strade sicure” che di milioni ne costa 7.
Ma pare proprio difficile far passare tagli a questo settore. Con le due manovre estive, Tremonti aveva applicato tagli lineari per 2,8 miliardi, ma sul loro destino è giallo, tanto che nel budget dello Stato per il prossimo triennio redatto il 31 ottobre 2011 dalla Ragioneria Generale è previsto addirittura un aumento della spesa pari 661 milioni di euro con una previsione di spesa per il 2014 pari a 21,1 miliardi. “Quei tagli sono stati annunciati ma ancora oggi non è chiaro se mai e dove saranno effettivamente operati, probabilmente saranno ridotti a slittamenti dei tempi di consegna e qualche piccola riduzione”, spiega Massimo Paolicelli, presidente dell’Associazione Obiettori Nonviolenti.
Anche i soldi destinati allo sviluppo finiscono nel calderone delle spese militari. Si tratta di 1.538,6 milioni di euro per interventi agevolati per il settore aeronautico e 135 milioni di euro per lo sviluppo e l’acquisizione di unità navali della classe Fremm. Soldi che il governo Berlusconi ha deciso di dirottare sulla Difesa. A questi, vanno aggiunti i fondi derivanti dal ministero dell’Economia per le missioni internazionali, pari a 1,4 milioni. Così il bilancio della Difesa, unico tra i ministeri, riceve le stampelle da altri dicasteri e arriva a totalizzare una spesa prevista per il 2012 di 23.113 miliardi di euro. Grosso modo quanto richiesto dalla manovra “salva-Italia” imposta da Monti. Da qui si moltiplicano gli appelli a “disarmare l’economia”, riducendo il bilancio della Difesa e mettendo un freno alla spesa per nuove armi, a partire dai contestatissimi F35.
Sul primo fronte, quello del bilancio, regna poca chiarezza. “Ancora si aspetta di capire se ci saranno i tagli annunciati con le due manovre estive”, spiega Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete italiana per il disarmo. “Invece è certo che si ripeterà la presa in giro dei fondi allo sviluppo dirottati sullo sviluppo d’armi. Lo scandalo non è tanto nel fatto che lo Sviluppo economico allochi risorse alla Difesa, quanto il fatto che sia quest’ultima a decidere come spenderli. Allora si dica chiaramente che l’Italia sceglie di sviluppare la propria tecnologia e la propria industria a beneficio degli armamenti, alimentando un settore dove la corruzione e la collusione politica è ormai endemica, come dimostra la vicenda Finmeccanica“.
E alla fine si torna sempre lì: a quanto si potrebbe risparmiare se Monti guardasse ai programmi di spesa per armamenti militari e al bilancio della Difesa con gli stessi occhiali che riserva alla vita civile degli italiani. Lo ha fatto, ad esempio, Massimo Donadi dell’Idv lanciando la proposta proprio dal suo blog su ilfattoquotidiano.it : “Costano 18 miliardi di euro: cosa se ne dovrebbe fare il nostro Paese di 131 aerei da guerra, inutilizzabili nelle missioni di pace dove siamo ancora impegnati, in un momento in cui rischiamo il fallimento e tenuto conto che siamo l’ottava potenza militare al mondo?”, chiede Donadi. E sono solo una parte della lunghissima lista di acquisti che entro il 2026 porterà il nostro Paese a spendere in armi 50 miliardi di euro. Tra un anno, ad esempio, perfezioneremo l’acquisto di 249 blindati “freccia” per 1,5 miliardi. Nel 2015 arrivano due Fregate antiaeree classe “Orizzonte” da 1,5 miliardi. Nel 2016 avremo finito (forse) di pagare quattro sommergibili U-212 da 1,8 miliardi e la portaerei Cavour da 1,39. Nel 2018 saranno consegnati 121 caccia Eurofighter da 18 miliardi e di 100 elicotteri di trasporto tattico NH-90 (3,8 miliardi). Il 2019 sarà l’anno navale con la consegna delle Fregate Europee Multi Missione (Fremm) da 5,6 miliardi. Gran trionfo nel 2026 con i 131 velivoli d’attacco Joint Strike Fighter (F35) per l’astronomica cifra di 18.100 milioni.
Altri risparmi potrebbero essere fatti sul bilancio della Difesa. Nel 2012 impegnerà 20,4 miliardi, con un incremento rispetto all’anno precedente di 785 milioni di euro, e un peso sul Pil pari all’1,3%. Le possibilità di tagliare non mancano, al di là degli sprechi più grossolani, come le ormai famose Maserati blindate per i generali o i 500mila euro spesi per celebrare la Festa delle Forze Armate al Circo Massimo. Si potrebbe tagliare sui 224 milioni spesi in noleggi, locazioni e leasing, sui 36 milioni di euro di consulenze, sui 4,5 milioni spesi in carta, cancelleria e stampanti per arrivare al milione e mezzo speso in “giornali e pubblicazioni”. O ancora si potrebbe ritornare sui costi della “mini-naja“, introdotta a livello sperimentale per tre anni e confermata a oltranza con una spesa di 20 milioni. Stesso discorso per l’operazione “strade sicure” che di milioni ne costa 7.
Ma pare proprio difficile far passare tagli a questo settore. Con le due manovre estive, Tremonti aveva applicato tagli lineari per 2,8 miliardi, ma sul loro destino è giallo, tanto che nel budget dello Stato per il prossimo triennio redatto il 31 ottobre 2011 dalla Ragioneria Generale è previsto addirittura un aumento della spesa pari 661 milioni di euro con una previsione di spesa per il 2014 pari a 21,1 miliardi. “Quei tagli sono stati annunciati ma ancora oggi non è chiaro se mai e dove saranno effettivamente operati, probabilmente saranno ridotti a slittamenti dei tempi di consegna e qualche piccola riduzione”, spiega Massimo Paolicelli, presidente dell’Associazione Obiettori Nonviolenti.
martedì 13 dicembre 2011
Israele non rispetta neppure i funerali
Muore un freedom fighter, ne nascono altri 100!
Posted on dicembre 12, 2011 by freepalestine
Questa notte un gruppo di solidali è uscito per le strade di Roma con la voglia di comunicare il pieno appoggio alla popolazione palestinese in resistenza e il disprezzo per il piano coloniale sionista e l’assedio assassino a Gaza.
Nella giornata di ieri abbiamo seguito con dolore l’attacco che l’esercito israeliano ha compiuto nei confronti della popolazione di Nabi Saleh che marciava nel villaggio commemorando Mustafa Tamimi con un ultimo saluto.
La marcia funebre è stata attaccata da un fitto lancio di lacrimogeni e dall’arroganza dei militari che hanno ferito molti partecipanti, arrestandone 7 e tentando addirittura di strangolare Jonathan Pollack, un compagno degli anarchici contro il muro.
Continua l’attacco spietato del colonialismo, continuano i bombardamenti a Gaza ma la popolazione palestinese non smette di lottare. A noi spetta schierarci al loro fianco.
Posted on dicembre 12, 2011 by freepalestine
Questa notte un gruppo di solidali è uscito per le strade di Roma con la voglia di comunicare il pieno appoggio alla popolazione palestinese in resistenza e il disprezzo per il piano coloniale sionista e l’assedio assassino a Gaza.
Nella giornata di ieri abbiamo seguito con dolore l’attacco che l’esercito israeliano ha compiuto nei confronti della popolazione di Nabi Saleh che marciava nel villaggio commemorando Mustafa Tamimi con un ultimo saluto.
La marcia funebre è stata attaccata da un fitto lancio di lacrimogeni e dall’arroganza dei militari che hanno ferito molti partecipanti, arrestandone 7 e tentando addirittura di strangolare Jonathan Pollack, un compagno degli anarchici contro il muro.
Continua l’attacco spietato del colonialismo, continuano i bombardamenti a Gaza ma la popolazione palestinese non smette di lottare. A noi spetta schierarci al loro fianco.
lunedì 12 dicembre 2011
LACRIMOGENI ISRAELIANI, ARMA LETALE
LACRIMOGENI ISRAELIANI, ARMA LETALE
I candelotti di gas lacrimogeno sono diventati strumento di morte dei soldati israeliani contro i manifestanti alle proteste pacifiche in Cisgiordania. Rilasciano sostanze letali e vengono utilizzati come veri e propri proiettili.
MARTA FORTUNATO
Beit Sahour (Cisgiordania), 12 dicembre 2011, Nena News (nella foto: Moustafa Tamimi dietro alla jeep dell’esercito israeliano, foto Haim Scwarczenerg) – L’esercito israeliano ha mirato e colpito a morte Moustafa Tamimi, 28 anni, durante la manifestazione pacifica di venerdì 12 dicembre a Nabi Saleh, suo villaggio natale, nei dintorni di Ramallah. Come provato da foto fornite dal giornalista presente Haim Scwarczenerg, una granata di lacrimogeno, sparata dal retro di una camionetta militare israeliana ad una distanza inferiore di dieci metri, gli ha provocato una profonda ferita in testa, uccidendolo.
Candelotti di gas lacrimogeno. Uno strumento che dovrebbe essere usato solo in casi estremi per disperdere la folla, ma che invece l’esercito israeliano utilizza come arma di morte contro i manifestanti. “E’ come sparare un piccolo missile” ha spiegato Sarit Michaeli, portavoce dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’tselem.
Bassem, Tristan, Moustafa. Storie diverse con un destino comune. Bassem Abu Rahmah di Bil’in è stato ucciso ad aprile 2009 da un lacrimogeno che lo aveva colpito al petto. Secondo un rapporto redatto da B’tselem, il ragazzo sarebbe stato ucciso “da un candelotto modello 4431” in grado di “penetrare barriere di media densità come finestre e porte da interno”, ad una velocità tra i 135-150 metri al secondo. Solo due mesi prima la morte di Bassem, l’americano Tristan Anderson aveva riportato danni irreversibili dopo che un candelotto, lanciato ad una manifestazione nello stesso villaggio di Bil’in, gli aveva fracassato la parte destra del cranio, lasciandolo paralizzato.
Dopo questi due gravi episodi e a seguito delle proteste di molte associazioni per i diritti umani, l’uso di gas lacrimogeni con una gittata di 250 metri è stato vietato. Ma non per molto. Nell’estate 2010 alcuni ufficiali israeliani, durante un’esercitazione tenutasi al comando di stato maggiore, hanno deciso di reintrodurli, sostenendo che l’utilizzo di candelotti a breve gittata li esponeva a gravi pericoli, come ad esempio “al lancio di pietre dei manifestanti”. Un mese dopo, l’esercito ha deciso ufficialmente di reimpiegare questo tipo di granata. Secondo dichiarazioni del generale Michael Edenstein, riportate dal quotidiano israeliano Haaretz, ultimamente l’esercito si è equipaggiato di “nuove armi non letali”, tra cui dei lanciatori di gas lacrimogeno dotati di mirino ad alta precisione. Attrezzature che sempre più rendono i candelotti uno strumento per uccidere senza dover far uso di munizioni vere.
Bassem Abu Rahmah (foto dal sito Palestine Chronicle)
I lacrimogeni non sono impiegati solo per penetrare barriere – e colpire manifestanti – ma hanno come obiettivo quello di emanare gas chimici. Gas che possono essere letali, come lo sono stati per Jawaher Abu Rahmah, sorella di Bassem. La donna è morta soffocata il 1 gennaio 2011, un giorno dopo aver inalato gas lacrimogeni lanciati durante la manifestazione del venerdì a Bil’in.
A discapito delle dichiarazioni dell’esercito israeliano – secondo cui le granate lacrimogene non sarebbero letali – la tossicità è comprovata dalla stessa compagnia americana fornitrice dell’IDF. Sulle istruzioni d’uso della Combined Systems Inc. di Jamestown (Pennsylvania), si legge che è obbligatorio indossare una maschera respiratoria ed è meglio proteggere occhi, mani e cute.
Questo stesso gas – chiamato gas CS – era già stato utilizzato durante il raid dell’FBI a Waco in Texas, causando la morte di decine di persone. I risultati dell’inchiesta, aperta per investigare le cause del decesso, sono esplicite: “c’è una chiara possibilità che l’esposizione a questo tipo di gas CS possa aver contribuito in modo significativo o possa addirittura aver causato gli effetti letali”. . Altri test fatti su animali in seguito, hanno provato che l’inalazione di questo gas, oltre a provocare un’infiammazione dell’apparato respiratorio, può portare alla morte per soffocamento. Proprio com’è avvenuto nel caso di Jawaher. Che come tanti altri aveva preso parte ad una delle manifestazioni dichiaratemente non violenta. Nena News
I candelotti di gas lacrimogeno sono diventati strumento di morte dei soldati israeliani contro i manifestanti alle proteste pacifiche in Cisgiordania. Rilasciano sostanze letali e vengono utilizzati come veri e propri proiettili.
MARTA FORTUNATO
Beit Sahour (Cisgiordania), 12 dicembre 2011, Nena News (nella foto: Moustafa Tamimi dietro alla jeep dell’esercito israeliano, foto Haim Scwarczenerg) – L’esercito israeliano ha mirato e colpito a morte Moustafa Tamimi, 28 anni, durante la manifestazione pacifica di venerdì 12 dicembre a Nabi Saleh, suo villaggio natale, nei dintorni di Ramallah. Come provato da foto fornite dal giornalista presente Haim Scwarczenerg, una granata di lacrimogeno, sparata dal retro di una camionetta militare israeliana ad una distanza inferiore di dieci metri, gli ha provocato una profonda ferita in testa, uccidendolo.
Candelotti di gas lacrimogeno. Uno strumento che dovrebbe essere usato solo in casi estremi per disperdere la folla, ma che invece l’esercito israeliano utilizza come arma di morte contro i manifestanti. “E’ come sparare un piccolo missile” ha spiegato Sarit Michaeli, portavoce dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’tselem.
Bassem, Tristan, Moustafa. Storie diverse con un destino comune. Bassem Abu Rahmah di Bil’in è stato ucciso ad aprile 2009 da un lacrimogeno che lo aveva colpito al petto. Secondo un rapporto redatto da B’tselem, il ragazzo sarebbe stato ucciso “da un candelotto modello 4431” in grado di “penetrare barriere di media densità come finestre e porte da interno”, ad una velocità tra i 135-150 metri al secondo. Solo due mesi prima la morte di Bassem, l’americano Tristan Anderson aveva riportato danni irreversibili dopo che un candelotto, lanciato ad una manifestazione nello stesso villaggio di Bil’in, gli aveva fracassato la parte destra del cranio, lasciandolo paralizzato.
Dopo questi due gravi episodi e a seguito delle proteste di molte associazioni per i diritti umani, l’uso di gas lacrimogeni con una gittata di 250 metri è stato vietato. Ma non per molto. Nell’estate 2010 alcuni ufficiali israeliani, durante un’esercitazione tenutasi al comando di stato maggiore, hanno deciso di reintrodurli, sostenendo che l’utilizzo di candelotti a breve gittata li esponeva a gravi pericoli, come ad esempio “al lancio di pietre dei manifestanti”. Un mese dopo, l’esercito ha deciso ufficialmente di reimpiegare questo tipo di granata. Secondo dichiarazioni del generale Michael Edenstein, riportate dal quotidiano israeliano Haaretz, ultimamente l’esercito si è equipaggiato di “nuove armi non letali”, tra cui dei lanciatori di gas lacrimogeno dotati di mirino ad alta precisione. Attrezzature che sempre più rendono i candelotti uno strumento per uccidere senza dover far uso di munizioni vere.
Bassem Abu Rahmah (foto dal sito Palestine Chronicle)
I lacrimogeni non sono impiegati solo per penetrare barriere – e colpire manifestanti – ma hanno come obiettivo quello di emanare gas chimici. Gas che possono essere letali, come lo sono stati per Jawaher Abu Rahmah, sorella di Bassem. La donna è morta soffocata il 1 gennaio 2011, un giorno dopo aver inalato gas lacrimogeni lanciati durante la manifestazione del venerdì a Bil’in.
A discapito delle dichiarazioni dell’esercito israeliano – secondo cui le granate lacrimogene non sarebbero letali – la tossicità è comprovata dalla stessa compagnia americana fornitrice dell’IDF. Sulle istruzioni d’uso della Combined Systems Inc. di Jamestown (Pennsylvania), si legge che è obbligatorio indossare una maschera respiratoria ed è meglio proteggere occhi, mani e cute.
Questo stesso gas – chiamato gas CS – era già stato utilizzato durante il raid dell’FBI a Waco in Texas, causando la morte di decine di persone. I risultati dell’inchiesta, aperta per investigare le cause del decesso, sono esplicite: “c’è una chiara possibilità che l’esposizione a questo tipo di gas CS possa aver contribuito in modo significativo o possa addirittura aver causato gli effetti letali”. . Altri test fatti su animali in seguito, hanno provato che l’inalazione di questo gas, oltre a provocare un’infiammazione dell’apparato respiratorio, può portare alla morte per soffocamento. Proprio com’è avvenuto nel caso di Jawaher. Che come tanti altri aveva preso parte ad una delle manifestazioni dichiaratemente non violenta. Nena News
domenica 11 dicembre 2011
La tortura in Israele: connivenza dei medici
The Guardian
03.12.2011
http://www.guardian.co.uk/world/2011/nov/03/israeli-doctors-report-torture-palestinian
Medici israeliani ‘che omettono di segnalare la tortura di detenuti palestinesi’
Gruppi per i diritti umani accusano i medici di non documentare i segni di torture e di rinviare i detenuti a coloro che svolgono gli interrogatori.
di Harriet Sherwood, da Gerusalemme
Medici israeliani ignorano le proteste di pazienti palestinesi che affermano di essere maltrattati
In Israele, medici professionisti sono accusati di non documentare e riferire, in violazione al loro codice etico, le ferite derivate dai maltrattamenti e dalla tortura di detenuti ad opera del personale di sicurezza.
Un rapporto redatto da due organizzazioni israeliane per i diritti umani, il Comitato Pubblico Contro la Tortura (PCAT) e i Medici per i Diritti Umani (PHR), sostiene che il personale sanitario omette anche di segnalare il sospetto di tortura e maltrattamento, rinviando i detenuti a coloro che svolgono gli interrogatori e passando loro informazioni mediche.
Il rapporto, Falsificazione di Prove e Abbandono delle Vittime, che sarà pubblicato alla fine del mese, si basa su 100 casi di detenuti palestinesi comunicati al PCAT fin dal 2007. Afferma: “Questo rapporto rivela testimonianze eloquenti che fanno sorgere il sospetto che molti medici ignorino le proteste dei pazienti, permettendo agli inquisitori israeliani dell’Agenzia di Sicurezza di utilizzare la tortura; approvino l’uso di metodi di interrogatorio proibiti e il maltrattamento di detenuti inermi; e occultino le denunce, consentendo in tal modo l’immunità totale per i torturatori”.
Presunti maltrattamenti di detenuti, alcuni dei quali sono esposti in modo dettagliato nel rapporto di 61 pagine, includono percosse, l’essere tenuti per lungo tempo in posizioni stressanti, le mani strettamente legate da manette di plastica, la privazione del sonno e le minacce. Israele nega di torturare o maltrattare i prigionieri.
I medici omettono di riportare sulle cartelle cliniche, in modo corretto, le lesioni prodotte durante gli interrogatori. Il rapporto cita “innumerevoli sono i casi in cui gli individui hanno testimoniato di ferite loro inflitte durante la detenzione o l’interrogatorio, e tuttavia la cartella clinica dell’ospedale o del servizio carcerario non ne fa menzione.”
In mancanza di tali prove, sostiene il rapporto, è molto difficile ottenere un risarcimento legale per maltrattamenti. “L’effettiva documentazione della lesione può essere un fattore decisivo per l’avvio di un’inchiesta, per l’invio a giudizio dei responsabili e per garantire che la giustizia sia applicata.”
Esso afferma che il referto medico dovrebbe contenere la descrizione della ferita con la relativa fotografia, il resoconto dei fatti da parte della vittima e la documentazione della terapia.
Tra i casi che cita c’è “BA”, arrestato nel novembre 2010. In una dichiarazione giurata ha asserito di essere stato picchiato, tenuto in posizioni dolorose e privato del sonno. Ha riferito di aver raccontato ai medici dei maltrattamenti subiti e di avere detto dei forti dolori che sentiva al braccio, alla gamba e alla schiena. La sua cartella clinica dimostra che è stato visitato dai medici, ma l’unico commento riportato è che il paziente non aveva presentato alcun reclamo e che risultava in buone condizioni generali.
Un altro, “MA”, arrestato nel giugno 2008, ha rilasciato una dichiarazione giurata nella quale dichiarava di aver avuto le mani ammanettate con stretti laccetti di plastica, di essere stato tenuto per ore in posizione inginocchiata appoggiato sulla punta delle dita e che la sua testa era stata sbattuta 20 volte su una panca provocando una lesione agli occhi. Un rapporto del giorno successivo conteneva l’osservazione di un medico: “condizione generale soddisfacente, il battito cardiaco regolare.” Due settimane dopo, un ulteriore esame riportava l’annotazione del medico: “Si lamenta per dolore ai denti, agli occhi”. Pochi giorni dopo, un giudice inviava MA da un oculista perché venisse curato, con il commento, “Sostiene di essere stato picchiato nel corso del suo arresto, lamenta di non sentirsi bene e accusa un offuscamento della vista”.
Il rapporto accusa pure i medici di rinviare i detenuti agli interrogatori dopo la medicazione delle ferite. Questo, a quanto si dice, avviene in violazione degli obblighi etici e “serve anche come timbro di approvazione per coloro che svolgono gli interrogatori, i quali si affidano alla responsabilità dei medici come avessero ottenuto da essi l’autorizzazione a procedere con le loro pratiche”.
Tra le indicazioni del rapporto PCAT/PHR ci sono linee di guida chiare per quanto riguarda il trattamento medico dei detenuti, le indagini e le azioni disciplinari nei confronti del personale che viola le regole, e la protezione per chi denuncia.
Israele vieta la tortura o i “trattamenti disumani” durante gli interrogatori, anche se la corte suprema ha stabilito che espedienti fisici di interrogatorio potrebbero essere ammissibili pur di salvare vite umane.
“In Israele è illegale praticare la violenza sui detenuti, compresi i prigionieri per motivi di sicurezza”, ha dichiarato il portavoce del governo Mark Regev. “Alle autorità competenti sono state consegnate delle linee guida. Se anni fa non erano chiare, oggi lo sono. E se ci sono accuse di illeciti contro persone in custodia, che siano indagate a fondo.”
Il ministero della sanità e i servizi penitenziari non hanno risposto alle richieste di commento.
(tradotto da mariano mingarelli)
Per il rapporto “Doctoring the Evidence, Abandoning the Victim” (The involvment of medical professionals in torture and ill-treatment in Israel) completo in versione pdf, vedi :
http://www.phr.org.il/aploaded/Doctoring%20the%20Evidence%20Abandoning%20the%20Victim_november2011.pdf
03.12.2011
http://www.guardian.co.uk/world/2011/nov/03/israeli-doctors-report-torture-palestinian
Medici israeliani ‘che omettono di segnalare la tortura di detenuti palestinesi’
Gruppi per i diritti umani accusano i medici di non documentare i segni di torture e di rinviare i detenuti a coloro che svolgono gli interrogatori.
di Harriet Sherwood, da Gerusalemme
Medici israeliani ignorano le proteste di pazienti palestinesi che affermano di essere maltrattati
In Israele, medici professionisti sono accusati di non documentare e riferire, in violazione al loro codice etico, le ferite derivate dai maltrattamenti e dalla tortura di detenuti ad opera del personale di sicurezza.
Un rapporto redatto da due organizzazioni israeliane per i diritti umani, il Comitato Pubblico Contro la Tortura (PCAT) e i Medici per i Diritti Umani (PHR), sostiene che il personale sanitario omette anche di segnalare il sospetto di tortura e maltrattamento, rinviando i detenuti a coloro che svolgono gli interrogatori e passando loro informazioni mediche.
Il rapporto, Falsificazione di Prove e Abbandono delle Vittime, che sarà pubblicato alla fine del mese, si basa su 100 casi di detenuti palestinesi comunicati al PCAT fin dal 2007. Afferma: “Questo rapporto rivela testimonianze eloquenti che fanno sorgere il sospetto che molti medici ignorino le proteste dei pazienti, permettendo agli inquisitori israeliani dell’Agenzia di Sicurezza di utilizzare la tortura; approvino l’uso di metodi di interrogatorio proibiti e il maltrattamento di detenuti inermi; e occultino le denunce, consentendo in tal modo l’immunità totale per i torturatori”.
Presunti maltrattamenti di detenuti, alcuni dei quali sono esposti in modo dettagliato nel rapporto di 61 pagine, includono percosse, l’essere tenuti per lungo tempo in posizioni stressanti, le mani strettamente legate da manette di plastica, la privazione del sonno e le minacce. Israele nega di torturare o maltrattare i prigionieri.
I medici omettono di riportare sulle cartelle cliniche, in modo corretto, le lesioni prodotte durante gli interrogatori. Il rapporto cita “innumerevoli sono i casi in cui gli individui hanno testimoniato di ferite loro inflitte durante la detenzione o l’interrogatorio, e tuttavia la cartella clinica dell’ospedale o del servizio carcerario non ne fa menzione.”
In mancanza di tali prove, sostiene il rapporto, è molto difficile ottenere un risarcimento legale per maltrattamenti. “L’effettiva documentazione della lesione può essere un fattore decisivo per l’avvio di un’inchiesta, per l’invio a giudizio dei responsabili e per garantire che la giustizia sia applicata.”
Esso afferma che il referto medico dovrebbe contenere la descrizione della ferita con la relativa fotografia, il resoconto dei fatti da parte della vittima e la documentazione della terapia.
Tra i casi che cita c’è “BA”, arrestato nel novembre 2010. In una dichiarazione giurata ha asserito di essere stato picchiato, tenuto in posizioni dolorose e privato del sonno. Ha riferito di aver raccontato ai medici dei maltrattamenti subiti e di avere detto dei forti dolori che sentiva al braccio, alla gamba e alla schiena. La sua cartella clinica dimostra che è stato visitato dai medici, ma l’unico commento riportato è che il paziente non aveva presentato alcun reclamo e che risultava in buone condizioni generali.
Un altro, “MA”, arrestato nel giugno 2008, ha rilasciato una dichiarazione giurata nella quale dichiarava di aver avuto le mani ammanettate con stretti laccetti di plastica, di essere stato tenuto per ore in posizione inginocchiata appoggiato sulla punta delle dita e che la sua testa era stata sbattuta 20 volte su una panca provocando una lesione agli occhi. Un rapporto del giorno successivo conteneva l’osservazione di un medico: “condizione generale soddisfacente, il battito cardiaco regolare.” Due settimane dopo, un ulteriore esame riportava l’annotazione del medico: “Si lamenta per dolore ai denti, agli occhi”. Pochi giorni dopo, un giudice inviava MA da un oculista perché venisse curato, con il commento, “Sostiene di essere stato picchiato nel corso del suo arresto, lamenta di non sentirsi bene e accusa un offuscamento della vista”.
Il rapporto accusa pure i medici di rinviare i detenuti agli interrogatori dopo la medicazione delle ferite. Questo, a quanto si dice, avviene in violazione degli obblighi etici e “serve anche come timbro di approvazione per coloro che svolgono gli interrogatori, i quali si affidano alla responsabilità dei medici come avessero ottenuto da essi l’autorizzazione a procedere con le loro pratiche”.
Tra le indicazioni del rapporto PCAT/PHR ci sono linee di guida chiare per quanto riguarda il trattamento medico dei detenuti, le indagini e le azioni disciplinari nei confronti del personale che viola le regole, e la protezione per chi denuncia.
Israele vieta la tortura o i “trattamenti disumani” durante gli interrogatori, anche se la corte suprema ha stabilito che espedienti fisici di interrogatorio potrebbero essere ammissibili pur di salvare vite umane.
“In Israele è illegale praticare la violenza sui detenuti, compresi i prigionieri per motivi di sicurezza”, ha dichiarato il portavoce del governo Mark Regev. “Alle autorità competenti sono state consegnate delle linee guida. Se anni fa non erano chiare, oggi lo sono. E se ci sono accuse di illeciti contro persone in custodia, che siano indagate a fondo.”
Il ministero della sanità e i servizi penitenziari non hanno risposto alle richieste di commento.
(tradotto da mariano mingarelli)
Per il rapporto “Doctoring the Evidence, Abandoning the Victim” (The involvment of medical professionals in torture and ill-treatment in Israel) completo in versione pdf, vedi :
http://www.phr.org.il/aploaded/Doctoring%20the%20Evidence%20Abandoning%20the%20Victim_november2011.pdf
sabato 10 dicembre 2011
CISGIORDANIA, MORTO GIOVANE FERITO A NABI SALEH
Mustafa Tamini e' spirato in ospedale. Era stato ferito ieri alla testa da un candelotto lacrimogeno sparato dai soldati israeliani. Nuovi raid aerei su Gaza, 5 i morti da mercoledi'.
Nabi Saleh (Cisgiordania), 10 dicembre 2011, Nena News – Tensione alta in Cisgiordania. E’ deceduto in ospedale Mustafa Tamini, il giovane palestinese ferito ieri dai soldati israeliani a Nabi Saleh, tra Ramallah e Gerusalemme, durante la manifestazione settimanale degli abitanti del villaggio contro il Muro israeliano. Tamimi era stato colpito al capo da un candelotto lacrimogeno sparato da distanza ravvicinata da un soldato. Le sue condizioni erano apparse subito disperate. Dopo aver lottato per ore tra la vita e la morte, il giovane e’ spirato nella tarda mattinata di oggi.
In questi ultimi anni i candelotti lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo e da breve distanza hanno causato diverse vittime tra i manifestanti palestinesi. Il caso più noto è quello di Bassam Abu Rahma, colpito due anni fa al ventre e ucciso mentre manifestava a Bilin (Ramallah) contro la costruzione del Muro. E in questi ultimi anni non sono stati risparmiati anche i cittadini stranieri. Nel marzo 2009 a Nilin (Ramallah) Tristan Anderson, un attivista americano dell’International solidarity movement, venne ferito alla testa da un lacrimogeno di un nuovo tipo ad alta velocità. Da allora è paralizzato al lato destro del corpo.
Intanto la diplomazia egiziana sta facendo il possibile per frenare l’escalation di attacchi e rappresaglie che cresce con il passare delle ore ma anche questa mattina l’aviazione israeliana ha colpito la Striscia di Gaza. I missili sparati dai cacciabombardieri hanno centrato obiettivi, non meglio precisati dal portavoce militare israeliano, a sud della Striscia, senza fare vittime. Da parte loro i palestinesi hanno reagito lanciando da giovedì almeno 12 razzi verso il territorio meridionale israeliano che sono caduti in aree disabitate.
Più sanguinose erano state le incursioni aeree israeliane di ieri. Colpito in pieno un edificio residenziale. Sotto le macerie sono rimasti un anziano e altre 14 persone, tra le quali sette bambini. Uno dei piccoli è morto poco dopo in ospedale. Israele ha riconosciuto di aver centrato «per errore» il palazzo e ha espresso «rammarico». Poi però ha attribuito la morte dell’anziano e del bambino ad una «deflagrazione collaterale» che, secondo il portavoce delle Forze Armate, sarebbe stata dovuta ad ordigni stivati in una vicina base della sicurezza del governo di Hamas centrata dai missili. Mercoledì i jet avevano ucciso un militante armato che, secondo Israele, si apprestava a lanciare un razzo mentre giovedì un drone ha colpito una automobile uccidendo altri due palestinesi nel primo «omicidio mirato» a Gaza city da diversi mesi a questa parte. Forte la reazione di Hamas. Il premier Ismail Haniyeh ha accusato Israele di voler innescare deliberatamente un’escalation per lanciare una nuova guerra a vasto raggio contro la Gaza. Nena News
Nabi Saleh (Cisgiordania), 10 dicembre 2011, Nena News – Tensione alta in Cisgiordania. E’ deceduto in ospedale Mustafa Tamini, il giovane palestinese ferito ieri dai soldati israeliani a Nabi Saleh, tra Ramallah e Gerusalemme, durante la manifestazione settimanale degli abitanti del villaggio contro il Muro israeliano. Tamimi era stato colpito al capo da un candelotto lacrimogeno sparato da distanza ravvicinata da un soldato. Le sue condizioni erano apparse subito disperate. Dopo aver lottato per ore tra la vita e la morte, il giovane e’ spirato nella tarda mattinata di oggi.
In questi ultimi anni i candelotti lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo e da breve distanza hanno causato diverse vittime tra i manifestanti palestinesi. Il caso più noto è quello di Bassam Abu Rahma, colpito due anni fa al ventre e ucciso mentre manifestava a Bilin (Ramallah) contro la costruzione del Muro. E in questi ultimi anni non sono stati risparmiati anche i cittadini stranieri. Nel marzo 2009 a Nilin (Ramallah) Tristan Anderson, un attivista americano dell’International solidarity movement, venne ferito alla testa da un lacrimogeno di un nuovo tipo ad alta velocità. Da allora è paralizzato al lato destro del corpo.
Intanto la diplomazia egiziana sta facendo il possibile per frenare l’escalation di attacchi e rappresaglie che cresce con il passare delle ore ma anche questa mattina l’aviazione israeliana ha colpito la Striscia di Gaza. I missili sparati dai cacciabombardieri hanno centrato obiettivi, non meglio precisati dal portavoce militare israeliano, a sud della Striscia, senza fare vittime. Da parte loro i palestinesi hanno reagito lanciando da giovedì almeno 12 razzi verso il territorio meridionale israeliano che sono caduti in aree disabitate.
Più sanguinose erano state le incursioni aeree israeliane di ieri. Colpito in pieno un edificio residenziale. Sotto le macerie sono rimasti un anziano e altre 14 persone, tra le quali sette bambini. Uno dei piccoli è morto poco dopo in ospedale. Israele ha riconosciuto di aver centrato «per errore» il palazzo e ha espresso «rammarico». Poi però ha attribuito la morte dell’anziano e del bambino ad una «deflagrazione collaterale» che, secondo il portavoce delle Forze Armate, sarebbe stata dovuta ad ordigni stivati in una vicina base della sicurezza del governo di Hamas centrata dai missili. Mercoledì i jet avevano ucciso un militante armato che, secondo Israele, si apprestava a lanciare un razzo mentre giovedì un drone ha colpito una automobile uccidendo altri due palestinesi nel primo «omicidio mirato» a Gaza city da diversi mesi a questa parte. Forte la reazione di Hamas. Il premier Ismail Haniyeh ha accusato Israele di voler innescare deliberatamente un’escalation per lanciare una nuova guerra a vasto raggio contro la Gaza. Nena News
venerdì 9 dicembre 2011
Da "Bocche scucite"
Futuro e F35
Pubblicato da fd il 5/12/11 • Inserito nella categoria: Primo Piano
Riportiamo volentieri questo articolo di Manlio Dinucci dal Manifesto di alcuni giorni fa.
L’opzione armi in Italia è molto forte come quasi ovunque nel mondo occidentale. Ricordiamo anche il caso Finmeccanica che non è importante tanto per le bustarelle che volano, cosa tipica in certi ambienti come per l’ENI, quanto per la quasi totale riconversione alla produzione di armi.
La nostra economia si fonda sempre più sugli armamenti e il nuovo governo molto probabilmente proporrà tagli ovunque ma non alle spese militari.
Anche la professionalizzazione dell’esercito e il sempre più frequente portare i bambini in caserma per renderli familiari con le strutture militari fa parte di questo quadro.
Noi dovremmo fare altrimenti: portare i bambini nei luoghi dove la pratica della nonviolenza insegna che l’amore può avere un forte impatto.
(fd)
(il manifesto, 3 dicembre 2011)
Tranquilli, al futuro ci pensa il nuovo F-35
La crisi economica, documenta il Censis, ha colpito in Italia soprattutto i giovani, un milione dei quali ha perso il lavoro negli ultimi tre anni. Aumentano quindi le preoccupazioni per il futuro. Tranquilli, a loro e ai loro figli ci pensa la Lockheed Martin: «Proteggere le generazioni di domani – assicura nella sua pubblicità – significa impegnarsi per la quinta generazione di oggi». Si riferisce all’F-35 Lightning II, «l’unico velivolo di quinta generazione in grado di garantire la sicurezza delle nuove generazioni».
Sono stati dunque lungimiranti i governi che hanno deciso di far partecipare l’Italia alla realizzazione di questo caccia (prima denominato Joint Strike Fighter) della statunitense Lockheed Martin. Con il sostegno di uno schieramento bipartisan, il primo memorandum d’intesa venne firmato al Pentagono nel 1998 dal governo D’Alema; il secondo, nel 2002, dal governo Berlusconi; il terzo, nel 2007, dal governo Prodi. E nel 2009 è stato di nuovo un governo Berlusconi a deliberare l’acquisto di 131 caccia che, a onor del vero, era già stato deciso dal governo Prodi. L’Italia partecipa al programma dell’F-35 come partner di secondo livello, contribuendo allo sviluppo e alla costruzione del caccia.
Vi sono impegnate oltre venti industrie: Alenia Aeronautica, Galileo Avionica, Datamat e Otomelara di Finmeccanica e altre tra cui la Piaggio. Negli stabilimenti Alenia verranno prodotte oltre mille ali dell’F-35. Presso l’aeroporto militare di Cameri (Novara) sarà realizzata una linea di assemblaggio e collaudo dei caccia per i paesi europei, che verrà poi trasformata in centro di manutenzione, revisione, riparazione e modifica. A tale scopo sono stati stanziati oltre 600 milioni di euro, presentandolo come un grande affare per l’Italia. Ma non si dice quanto verranno a costare i pochi posti di lavoro creati in questa industria bellica. Non si dice che, mentre i miliardi dei contratti per l’F-35 entreranno nelle casse di aziende private, i miliardi per l’acquisto dei caccia usciranno dalle casse pubbliche.
Per partecipare al programma, l’Italia si è impegnata a versare un miliardo di euro, cui si aggiungerà la spesa per l’acquisto dei 131 caccia. Allo stato attuale, essa può essere quantificata in circa 15 miliardi di euro. Va inoltre considerato che l’aeronautica sta acquistando anche un centinaio di caccia Eurofighter Typhoon, costruiti da un consorzio europeo, il cui costo attuale è quantificabile in oltre 10 miliardi di euro. E, come avviene per tutti i sistemi d’arma, l’F-35 verrà a costare più del previsto.
Il prezzo dei primi caccia prodotti – documenta la Corte dei conti Usa – è risultato quasi il doppio rispetto a quello preventivato. Il costo complessivo del programma, previsto in 382 miliardi di dollari per 2.443 caccia che saranno acquistati dagli Usa e da otto partner internazionali, sarà dunque molto più alto. Perfino il senatore John McCain, noto «falco», ha definito «vergognoso» il fatto che il prezzo dei primi 28 aerei sfori di 800 milioni di dollari quello preventivato. Nessuno sa con esattezza quanto verrà a costare l’F-35. La Lockheed aveva parlato di un prezzo medio di 65 milioni per aereo, al valore del dollaro 2010, ma poi è stato chiarito che il prezzo non comprendeva il motore né i costosissimi sistemi elettronici e all’infrarosso (come andare ad acquistare un’auto, scoprendo che nel prezzo non sono compresi il motore e la centralina elettronica).
L’Italia si è dunque impegnata ad acquistare 131 caccia F-35 senza sapere quale sarà il prezzo finale. Anche perché differisce a seconda delle varianti: a decollo/atterraggio convenzionale, per le portaerei, e a decollo corto/atterraggio verticale. L’Italia ne acquisterà 69 della prima variante e 62 della terza, che saranno usati anche per la portaerei Cavour. E, una volta acquistati, dovrà pagare altri miliardi per ammodernarli con i sistemi che la Lockheed produrrà. Un pozzo senza fondo, che inghiottirà altro denaro pubblico, facendo crescere la spesa militare, già salita a 25 miliardi di euro annui.
Non ci si può illudere che il governo Monti cambi rotta, sganciando l’Italia da questo costosissimo programma. L’ammiraglio Di Paola, oggi ministro della difesa, è il maggiore sostenitore dell’F-35: fu lui, in veste di direttore nazionale degli armamenti, a firmare al Pentagono, il 24 giugno 2002, il memorandum d’intesa che impegnava l’Italia a partecipare al programma come partner di secondo livello. E l’F-35 Lightning (Fulmine) – che, assicura la Lockeed, «come un fulmine colpisce il nemico con forza distruttiva e inaspettatamente» – è il sistema d’arma ideale per la strategia enunciata da Di Paola quando era capo di stato maggiore della difesa: trasformare le forze armate in uno «strumento proiettabile», dotato di spiccata capacità «expeditionary» coerente col «livello di ambizione nazionale». Che l’F-35 garantirà insieme alla «sicurezza delle nuove generazioni».
Manlio Dinucci
Pubblicato da fd il 5/12/11 • Inserito nella categoria: Primo Piano
Riportiamo volentieri questo articolo di Manlio Dinucci dal Manifesto di alcuni giorni fa.
L’opzione armi in Italia è molto forte come quasi ovunque nel mondo occidentale. Ricordiamo anche il caso Finmeccanica che non è importante tanto per le bustarelle che volano, cosa tipica in certi ambienti come per l’ENI, quanto per la quasi totale riconversione alla produzione di armi.
La nostra economia si fonda sempre più sugli armamenti e il nuovo governo molto probabilmente proporrà tagli ovunque ma non alle spese militari.
Anche la professionalizzazione dell’esercito e il sempre più frequente portare i bambini in caserma per renderli familiari con le strutture militari fa parte di questo quadro.
Noi dovremmo fare altrimenti: portare i bambini nei luoghi dove la pratica della nonviolenza insegna che l’amore può avere un forte impatto.
(fd)
(il manifesto, 3 dicembre 2011)
Tranquilli, al futuro ci pensa il nuovo F-35
La crisi economica, documenta il Censis, ha colpito in Italia soprattutto i giovani, un milione dei quali ha perso il lavoro negli ultimi tre anni. Aumentano quindi le preoccupazioni per il futuro. Tranquilli, a loro e ai loro figli ci pensa la Lockheed Martin: «Proteggere le generazioni di domani – assicura nella sua pubblicità – significa impegnarsi per la quinta generazione di oggi». Si riferisce all’F-35 Lightning II, «l’unico velivolo di quinta generazione in grado di garantire la sicurezza delle nuove generazioni».
Sono stati dunque lungimiranti i governi che hanno deciso di far partecipare l’Italia alla realizzazione di questo caccia (prima denominato Joint Strike Fighter) della statunitense Lockheed Martin. Con il sostegno di uno schieramento bipartisan, il primo memorandum d’intesa venne firmato al Pentagono nel 1998 dal governo D’Alema; il secondo, nel 2002, dal governo Berlusconi; il terzo, nel 2007, dal governo Prodi. E nel 2009 è stato di nuovo un governo Berlusconi a deliberare l’acquisto di 131 caccia che, a onor del vero, era già stato deciso dal governo Prodi. L’Italia partecipa al programma dell’F-35 come partner di secondo livello, contribuendo allo sviluppo e alla costruzione del caccia.
Vi sono impegnate oltre venti industrie: Alenia Aeronautica, Galileo Avionica, Datamat e Otomelara di Finmeccanica e altre tra cui la Piaggio. Negli stabilimenti Alenia verranno prodotte oltre mille ali dell’F-35. Presso l’aeroporto militare di Cameri (Novara) sarà realizzata una linea di assemblaggio e collaudo dei caccia per i paesi europei, che verrà poi trasformata in centro di manutenzione, revisione, riparazione e modifica. A tale scopo sono stati stanziati oltre 600 milioni di euro, presentandolo come un grande affare per l’Italia. Ma non si dice quanto verranno a costare i pochi posti di lavoro creati in questa industria bellica. Non si dice che, mentre i miliardi dei contratti per l’F-35 entreranno nelle casse di aziende private, i miliardi per l’acquisto dei caccia usciranno dalle casse pubbliche.
Per partecipare al programma, l’Italia si è impegnata a versare un miliardo di euro, cui si aggiungerà la spesa per l’acquisto dei 131 caccia. Allo stato attuale, essa può essere quantificata in circa 15 miliardi di euro. Va inoltre considerato che l’aeronautica sta acquistando anche un centinaio di caccia Eurofighter Typhoon, costruiti da un consorzio europeo, il cui costo attuale è quantificabile in oltre 10 miliardi di euro. E, come avviene per tutti i sistemi d’arma, l’F-35 verrà a costare più del previsto.
Il prezzo dei primi caccia prodotti – documenta la Corte dei conti Usa – è risultato quasi il doppio rispetto a quello preventivato. Il costo complessivo del programma, previsto in 382 miliardi di dollari per 2.443 caccia che saranno acquistati dagli Usa e da otto partner internazionali, sarà dunque molto più alto. Perfino il senatore John McCain, noto «falco», ha definito «vergognoso» il fatto che il prezzo dei primi 28 aerei sfori di 800 milioni di dollari quello preventivato. Nessuno sa con esattezza quanto verrà a costare l’F-35. La Lockheed aveva parlato di un prezzo medio di 65 milioni per aereo, al valore del dollaro 2010, ma poi è stato chiarito che il prezzo non comprendeva il motore né i costosissimi sistemi elettronici e all’infrarosso (come andare ad acquistare un’auto, scoprendo che nel prezzo non sono compresi il motore e la centralina elettronica).
L’Italia si è dunque impegnata ad acquistare 131 caccia F-35 senza sapere quale sarà il prezzo finale. Anche perché differisce a seconda delle varianti: a decollo/atterraggio convenzionale, per le portaerei, e a decollo corto/atterraggio verticale. L’Italia ne acquisterà 69 della prima variante e 62 della terza, che saranno usati anche per la portaerei Cavour. E, una volta acquistati, dovrà pagare altri miliardi per ammodernarli con i sistemi che la Lockheed produrrà. Un pozzo senza fondo, che inghiottirà altro denaro pubblico, facendo crescere la spesa militare, già salita a 25 miliardi di euro annui.
Non ci si può illudere che il governo Monti cambi rotta, sganciando l’Italia da questo costosissimo programma. L’ammiraglio Di Paola, oggi ministro della difesa, è il maggiore sostenitore dell’F-35: fu lui, in veste di direttore nazionale degli armamenti, a firmare al Pentagono, il 24 giugno 2002, il memorandum d’intesa che impegnava l’Italia a partecipare al programma come partner di secondo livello. E l’F-35 Lightning (Fulmine) – che, assicura la Lockeed, «come un fulmine colpisce il nemico con forza distruttiva e inaspettatamente» – è il sistema d’arma ideale per la strategia enunciata da Di Paola quando era capo di stato maggiore della difesa: trasformare le forze armate in uno «strumento proiettabile», dotato di spiccata capacità «expeditionary» coerente col «livello di ambizione nazionale». Che l’F-35 garantirà insieme alla «sicurezza delle nuove generazioni».
Manlio Dinucci
Palestina chiama Europa
Palestina chiama Europa
L'avvocato palestinese Khalil Shaheen del Pchr in giro per l'Italia per chiedere aiuto per la popolazione civile palestinese
''La situazione economica a Gaza e in Cisgiordania può essere semplificata in un'immagine sola: una profonda miseria. Al contesto generale si sono sommati i tagli che gli Stati Uniti hanno portato ai fondi per l'Autorità Palestinese dopo la richiesta di riconoscimento alle Nazioni Unite e il congelamento dei dazi e delle tasse, che bisogna chiarire sono palestinesi, che Israele si rifiuta di erogare come prevede il diritto internazionale. La situazione generale è un disastro''.
L'avvocato palestinese Khalil Shaheen è il responsabile dell'unità Economica e Sociale del Palestinian Centre for Human Rights (Pchr), organizzazione non governativa di Gaza City, che si batte per il rispetto dei diritti umani, per la legalità e per la democratizzazione della società palestinese. Ma si batte soprattutto contro l'occupazione israeliana della Cisgiordania e contro l'embargo imposto alla Striscia di Gaza. Affiliato alla Commissione Internazionale dei Giuristi, con sede a Ginevra, il Pchr è nato nel 1995, fondato da un gruppo di avvocati palestinesi come Shaheen, che documentano le violazioni dei diritti umani, da qualsiasi parte provengano. Sheheen, in particolare, si occupa di lavorare all'importanza dei diritti socio-economici della popolazione civile.
Se da un lato, il Pchr si batte per far pressione su Hamas e sull'Autorità Palestinese per implementare la legislazione palestinese sul modello degli standard internazionali di rispetto dei diritti umani, dall'altro non si può non denunciare l'occupazione, che crea una situazione claustrofobica per la popolazione civile. Shaheen ha girato in questi giorni l'Italia, per una serie di conferenza di riflessione e denuncia, nel Paese al quale il Pchr è molto legato, grazie anche al lavoro e all'impegno di Vittorio Arrigoni, che proprio al Pchr devolse i diritti del suo libro Restiamo Umani.
''Siamo qui per incoraggiare gli attivisti italiani e chi vuole occuparsi di diritti umani, perché servono voci e testimonianze della catastrofe palestinese, proprio come lo era Vittorio Arrigoni, volontario italiano ucciso dal terrorismo. Lui era una di queste voci ed era riuscito a descrivere in modo magico il dramma dell'occupazione della Palestina'', ha detto Shehaan in una delle serate nelle quali ha incontrato attivisti e persone comuni.
''Dobbiamo far conoscere alla comunità internazionale cosa succede nei Territori Occupati - spiega Shaheen - un luogo dove Israele ha instaurato una politica di apartheid e distrutto la convivenza civile, distrutto le case dei civili, bloccato le frontiere a persone, merci e informazioni: un vero e proprio assedio e una volontà di pulizia etnica. Circa un milione e mezzo di persone vivono sotto assedio. Nel 2008 durante l'operazione militare israeliana Piombo Fuso morirono 1436 persone, tra le quali molti bambini. Adesso Gaza è una città distrutta: 70mila case sono devastate e mancano i servizi primari, in particolare nella rete idrica e nelle strutture sanitarie. E non si può fare niente per ricostruirla perché Israele lo impedisce''.
I tagli si abbattono come una mannaia su una situazione disperata. ''Di tutti gli aspetti complicati, quello della sanità di sicuro il più complesso. Manca tutto e le cure esterne in Israele sono praticamente annullate. In nessun modo riusciamo a finanziarci, avendo qualsiasi forma di esportazione bloccata. L'agricoltura è limitata a un'economia di sussistenza, non si può pescare perché ci sparano addosso. Questa totale assenza di opportunità non può che avere ricadute sociali, con la disperazione che sempre più si insinua nelle case, tra le famiglie, nei rapporti sociali e interfamiliari. Che altro aspettarsi in un territorio dove il 65 percento della forza lavoro è disoccupata? Che altro aspettarsi in un territorio dove più della metà della popolazione sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari?''.
Questo giro di conferenze, però, è una speranza. Gli Usa e Israele non hanno perdonato la richiesta di riconoscimento che la Palestina ha presentato alle Nazioni Unite, l'Europa è come sempre reticente e divisa sulla questione. Che si aspetta da questi incontri? ''Un moto di coscienza, un fremito di indignazione. Perché l'Europa, abbandonandoci, tradisce la sua storia. Bisogna premere per il rispetto dei diritti umani, per la fine di questo embargo criminale e perché si arrivi davvero a un processo di pace giusto''.
L'avvocato palestinese Khalil Shaheen del Pchr in giro per l'Italia per chiedere aiuto per la popolazione civile palestinese
''La situazione economica a Gaza e in Cisgiordania può essere semplificata in un'immagine sola: una profonda miseria. Al contesto generale si sono sommati i tagli che gli Stati Uniti hanno portato ai fondi per l'Autorità Palestinese dopo la richiesta di riconoscimento alle Nazioni Unite e il congelamento dei dazi e delle tasse, che bisogna chiarire sono palestinesi, che Israele si rifiuta di erogare come prevede il diritto internazionale. La situazione generale è un disastro''.
L'avvocato palestinese Khalil Shaheen è il responsabile dell'unità Economica e Sociale del Palestinian Centre for Human Rights (Pchr), organizzazione non governativa di Gaza City, che si batte per il rispetto dei diritti umani, per la legalità e per la democratizzazione della società palestinese. Ma si batte soprattutto contro l'occupazione israeliana della Cisgiordania e contro l'embargo imposto alla Striscia di Gaza. Affiliato alla Commissione Internazionale dei Giuristi, con sede a Ginevra, il Pchr è nato nel 1995, fondato da un gruppo di avvocati palestinesi come Shaheen, che documentano le violazioni dei diritti umani, da qualsiasi parte provengano. Sheheen, in particolare, si occupa di lavorare all'importanza dei diritti socio-economici della popolazione civile.
Se da un lato, il Pchr si batte per far pressione su Hamas e sull'Autorità Palestinese per implementare la legislazione palestinese sul modello degli standard internazionali di rispetto dei diritti umani, dall'altro non si può non denunciare l'occupazione, che crea una situazione claustrofobica per la popolazione civile. Shaheen ha girato in questi giorni l'Italia, per una serie di conferenza di riflessione e denuncia, nel Paese al quale il Pchr è molto legato, grazie anche al lavoro e all'impegno di Vittorio Arrigoni, che proprio al Pchr devolse i diritti del suo libro Restiamo Umani.
''Siamo qui per incoraggiare gli attivisti italiani e chi vuole occuparsi di diritti umani, perché servono voci e testimonianze della catastrofe palestinese, proprio come lo era Vittorio Arrigoni, volontario italiano ucciso dal terrorismo. Lui era una di queste voci ed era riuscito a descrivere in modo magico il dramma dell'occupazione della Palestina'', ha detto Shehaan in una delle serate nelle quali ha incontrato attivisti e persone comuni.
''Dobbiamo far conoscere alla comunità internazionale cosa succede nei Territori Occupati - spiega Shaheen - un luogo dove Israele ha instaurato una politica di apartheid e distrutto la convivenza civile, distrutto le case dei civili, bloccato le frontiere a persone, merci e informazioni: un vero e proprio assedio e una volontà di pulizia etnica. Circa un milione e mezzo di persone vivono sotto assedio. Nel 2008 durante l'operazione militare israeliana Piombo Fuso morirono 1436 persone, tra le quali molti bambini. Adesso Gaza è una città distrutta: 70mila case sono devastate e mancano i servizi primari, in particolare nella rete idrica e nelle strutture sanitarie. E non si può fare niente per ricostruirla perché Israele lo impedisce''.
I tagli si abbattono come una mannaia su una situazione disperata. ''Di tutti gli aspetti complicati, quello della sanità di sicuro il più complesso. Manca tutto e le cure esterne in Israele sono praticamente annullate. In nessun modo riusciamo a finanziarci, avendo qualsiasi forma di esportazione bloccata. L'agricoltura è limitata a un'economia di sussistenza, non si può pescare perché ci sparano addosso. Questa totale assenza di opportunità non può che avere ricadute sociali, con la disperazione che sempre più si insinua nelle case, tra le famiglie, nei rapporti sociali e interfamiliari. Che altro aspettarsi in un territorio dove il 65 percento della forza lavoro è disoccupata? Che altro aspettarsi in un territorio dove più della metà della popolazione sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari?''.
Questo giro di conferenze, però, è una speranza. Gli Usa e Israele non hanno perdonato la richiesta di riconoscimento che la Palestina ha presentato alle Nazioni Unite, l'Europa è come sempre reticente e divisa sulla questione. Che si aspetta da questi incontri? ''Un moto di coscienza, un fremito di indignazione. Perché l'Europa, abbandonandoci, tradisce la sua storia. Bisogna premere per il rispetto dei diritti umani, per la fine di questo embargo criminale e perché si arrivi davvero a un processo di pace giusto''.
giovedì 8 dicembre 2011
La Germania consegna sottomarino nucleare a Israele, in cambio della restituzione all'AP dei soldi rubati delle tasse doganali.
GERMANIA, SI’ A SOTTOMARINO A ISRAELE
La Germania riconferma la consegna del sesto sottomarino Dolphin ad Israele, sovvenzionato per un terzo dallo stato tedesco. In cambio, Tel Aviv scongela i finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese, bloccati in seguito all’ammissione della Palestina all’UNESCO.
IKA DANO
Gerusalemme, 8 dicembre 2011, Nena News. “Questa decisione non é in sintonia con lo spirito delle dichiarazioni fatte dal Quartetto. Proprio ora non si dovrebbe fare nulla che sia di ostacolo alla ripresa dei negoziati”. Con questa dichiarazione del ministro degli esteri Guido Westerwelle la Germania aveva criticato apertamente per la prima volta il premier israeliano Netanyahu per la decisione di ampliare la colonia illegale di Gilo a Gerusalemme Est. E aveva tirato in ballo la consegna di un sottomarino a testate nucleari, prevista dagli accordi bilateri presi durante il mandato dell’ex-premier Schröder. La minaccia di bloccare la produzione del sesto sottomarino di tipo Dolphin destinato a Israele non aveva sortito l’effetto desiderato, e la costruzione di 1 100 nuove unità abitative a Gilo era stata portata avanti dal governo israeliano. Ora, la pressione sembra aver funzionato. E la Germania annuncia di mantenere la parola e sovvenzionare un terzo del prezzo del sottomarino in cambio dello sblocco israeliano dei finanziamenti all’Autorità palestinese (ANP).
“I salari di novembre verranno elargiti in tempo” – ha dichiarato il portavoce palestinese Ghassan Kahtib all’agenzia stampa Maan – “Il governo (palestinese) ha ricevuto i fondi per i salari di ottobre e novembre che erano stati bloccati da Israele”. All’ammissione della Palestina all’UNESCO con 107 favorevoli, 14 contrari e 52 astensioni, Israele aveva reagito accellerando la costruzione di colonie nei Territori Palestinesi Occupati e congelando il trasferimento dei finanziamenti all’ANP a partire dal primo di novembre. In una dichiarazione ufficiale del gabinetto israeliano riportata dall’AFP, la decisione di scongelare i fondi sarebbe stata presa “ a seguito della cessazione di iniziative unilaterali da parte del’Autorità nazionale”.
Secondo fonti ufficiali del governo tedesco riportate dal quotidiano israeliano Jerusalem Post, la Germania avrebbe accordato la consegna del sottomarino di sua produzione solo a condizione che Tel Aviv avesse trasferito 100 milioni di dollari destinati all’ANP. Le concessioni politiche fatte da Israele avrebbero portato Berlino a riconfermare il patto di vendita per un valore di 500 milioni di dollari, di cui 135 milioni sovvenzionati dallo Stato. O, come ci tiene a precisare il settimanale tedesco Die Zeit, “dal contribuente tedesco”.
La Germania fornisce sottomarini a Israele sin dalla fine degli anni ’90. Secondo la rivista specializzata Defense Industry Daily, i primi due sono stati donati all’alleato mediorientale subito dopo la prima Guerra del Golfo, mentre per gli altri era stato garantito il sovvenzionamento di un terzo dei costi. La marina israeliana dispone già di tre sottomarini dello stesso tipo, mentre altri due Dolphin sarebbero in costruzione nel cantiere Howaldtswerke-Deutche Werft AG (HDW) della città di Kiel. Nel bilancio statale per il 2012 diffuso dal settimanale Der Spiegel, il sovvenzionamento del sesto sottomarino sarebbe riportato come “contributo al sistema di difesa di Israele”. I sottomarini Dolphin sarebbero strategicamente importanti perché forniti di un moderno sistema di propulsione che li rende adatti al lancio di missili balistici nucleari ad ampia gittata. Un aspetto militare da non sottovalutare per un paese che intende aumentare la propria presenza navale nelle acque del Mar Rosso per contrastare l’Iran, e che sembra volersi preparare all’eventualità di un attacco nucleare. Nena News
La Germania riconferma la consegna del sesto sottomarino Dolphin ad Israele, sovvenzionato per un terzo dallo stato tedesco. In cambio, Tel Aviv scongela i finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese, bloccati in seguito all’ammissione della Palestina all’UNESCO.
IKA DANO
Gerusalemme, 8 dicembre 2011, Nena News. “Questa decisione non é in sintonia con lo spirito delle dichiarazioni fatte dal Quartetto. Proprio ora non si dovrebbe fare nulla che sia di ostacolo alla ripresa dei negoziati”. Con questa dichiarazione del ministro degli esteri Guido Westerwelle la Germania aveva criticato apertamente per la prima volta il premier israeliano Netanyahu per la decisione di ampliare la colonia illegale di Gilo a Gerusalemme Est. E aveva tirato in ballo la consegna di un sottomarino a testate nucleari, prevista dagli accordi bilateri presi durante il mandato dell’ex-premier Schröder. La minaccia di bloccare la produzione del sesto sottomarino di tipo Dolphin destinato a Israele non aveva sortito l’effetto desiderato, e la costruzione di 1 100 nuove unità abitative a Gilo era stata portata avanti dal governo israeliano. Ora, la pressione sembra aver funzionato. E la Germania annuncia di mantenere la parola e sovvenzionare un terzo del prezzo del sottomarino in cambio dello sblocco israeliano dei finanziamenti all’Autorità palestinese (ANP).
“I salari di novembre verranno elargiti in tempo” – ha dichiarato il portavoce palestinese Ghassan Kahtib all’agenzia stampa Maan – “Il governo (palestinese) ha ricevuto i fondi per i salari di ottobre e novembre che erano stati bloccati da Israele”. All’ammissione della Palestina all’UNESCO con 107 favorevoli, 14 contrari e 52 astensioni, Israele aveva reagito accellerando la costruzione di colonie nei Territori Palestinesi Occupati e congelando il trasferimento dei finanziamenti all’ANP a partire dal primo di novembre. In una dichiarazione ufficiale del gabinetto israeliano riportata dall’AFP, la decisione di scongelare i fondi sarebbe stata presa “ a seguito della cessazione di iniziative unilaterali da parte del’Autorità nazionale”.
Secondo fonti ufficiali del governo tedesco riportate dal quotidiano israeliano Jerusalem Post, la Germania avrebbe accordato la consegna del sottomarino di sua produzione solo a condizione che Tel Aviv avesse trasferito 100 milioni di dollari destinati all’ANP. Le concessioni politiche fatte da Israele avrebbero portato Berlino a riconfermare il patto di vendita per un valore di 500 milioni di dollari, di cui 135 milioni sovvenzionati dallo Stato. O, come ci tiene a precisare il settimanale tedesco Die Zeit, “dal contribuente tedesco”.
La Germania fornisce sottomarini a Israele sin dalla fine degli anni ’90. Secondo la rivista specializzata Defense Industry Daily, i primi due sono stati donati all’alleato mediorientale subito dopo la prima Guerra del Golfo, mentre per gli altri era stato garantito il sovvenzionamento di un terzo dei costi. La marina israeliana dispone già di tre sottomarini dello stesso tipo, mentre altri due Dolphin sarebbero in costruzione nel cantiere Howaldtswerke-Deutche Werft AG (HDW) della città di Kiel. Nel bilancio statale per il 2012 diffuso dal settimanale Der Spiegel, il sovvenzionamento del sesto sottomarino sarebbe riportato come “contributo al sistema di difesa di Israele”. I sottomarini Dolphin sarebbero strategicamente importanti perché forniti di un moderno sistema di propulsione che li rende adatti al lancio di missili balistici nucleari ad ampia gittata. Un aspetto militare da non sottovalutare per un paese che intende aumentare la propria presenza navale nelle acque del Mar Rosso per contrastare l’Iran, e che sembra volersi preparare all’eventualità di un attacco nucleare. Nena News
Il Vaticano: il maggiore evasore di tasse
Scommettiamo che se ci mettiamo d'impegno invadiamo i social network e la posta elettronica con questo messaggio fino a farne parlare sui giornali? Copiatelo così com'è (compresa questa parte) e incollatelo:
Rai uno: una suora in trasmissione ci informa che con il costo di una scatoletta di CIBO PER CANI si SFAMA UN BAMBINO in un paese del terzo mondo...
Io la informo che con il pagamento dell'ICI su tutti i beni immobili del Vaticano presenti sul suolo italiano e con la dismissione dei beni del Vaticano e dello IOR, si sfamano tutti i bambini e tutti i cani del mondo!!!!
IL VATICANO NON PAGA ICI, IRPEF, IRES, IMU, TASSE IMMOBILIARI E DOGANALI, MA NEANCHE GAS, ACQUA E FOGNE... E' TUTTO A CARICO DEI CONTRIBUENTI ITALIANI... Possiede quasi il 30% del patrimonio immobiliare Italiano e con l'8 per mille toglie quasi 1 Miliardo di Euro all'anno all'Italia... Tassare la Chiesa e i suoi possedimenti in Italia é giusto per gli Italiani... (e per i bambini del terzo mondo e per tutti i cani, aggiungo io!!)
E io ci aggiungo pure i gatti!
Studio Legale
Avv. Maria Cristina Bruno Voena
Via Giuseppe Verdi n.47
10124 TORINO
Tel.: 011.889330-011.8110730
Telefax: 011.889330
Pace e Bene
Rai uno: una suora in trasmissione ci informa che con il costo di una scatoletta di CIBO PER CANI si SFAMA UN BAMBINO in un paese del terzo mondo...
Io la informo che con il pagamento dell'ICI su tutti i beni immobili del Vaticano presenti sul suolo italiano e con la dismissione dei beni del Vaticano e dello IOR, si sfamano tutti i bambini e tutti i cani del mondo!!!!
IL VATICANO NON PAGA ICI, IRPEF, IRES, IMU, TASSE IMMOBILIARI E DOGANALI, MA NEANCHE GAS, ACQUA E FOGNE... E' TUTTO A CARICO DEI CONTRIBUENTI ITALIANI... Possiede quasi il 30% del patrimonio immobiliare Italiano e con l'8 per mille toglie quasi 1 Miliardo di Euro all'anno all'Italia... Tassare la Chiesa e i suoi possedimenti in Italia é giusto per gli Italiani... (e per i bambini del terzo mondo e per tutti i cani, aggiungo io!!)
E io ci aggiungo pure i gatti!
Studio Legale
Avv. Maria Cristina Bruno Voena
Via Giuseppe Verdi n.47
10124 TORINO
Tel.: 011.889330-011.8110730
Telefax: 011.889330
Pace e Bene
mercoledì 7 dicembre 2011
Consiglio comunale di Rho condanna la Pizzarotti
Consiglio comunale di Rho condanna la Pizzarotti
L’impresa parmense condannata per il coinvolgimento nella TAV israeliana che attaversa i Territori palestinesi occupati
[Stop That Train]
Di seguito il comunicato della Coalizione italiana Stop That Train. Firma per ringraziare il Consiglio Comunale di Rho!
Il 30 novembre, il Consiglio Comunale di Rho ha approvato la risoluzione presentata dal Gruppo consiliare di Sinistra Ecologia Libertà che esprime una “condanna morale e politica nei confronti di Pizzarotti & C. S.p.A. per la partecipazione ai lavori per la costruzione della A1 Gerusalemme – Tel Aviv”.
La Pizzarotti è appaltatrice del progetto israeliano per lo scavo di tunnel per un nuovo treno ad alta velocità, detto A1 che collegherà Tel Aviv e Gerusalemme, tagliando per ben 6,5 km i Territori palestinesi occupati e quindi integrando una palese violazione del diritto internazionale e dei diritti umani. La nuova TAV israeliana comporta la illegittima confisca di terre palestinesi nei villaggi di Beit Iksa e Beit Sourik. Inoltre, il mega cantiere e la rete stradale predisposta specificamente per le enormi macchine scavatrici e per il trasporto del materiale estratto dai tunnel scavati dalla Pizzarotti, stanno portando alla distruzione di uliveti secolari e di terreni agricoli, riconosciuti dalla Corte Suprema Israeliana come “risorsa fondamentale per la sussistenza” delle comunità. L’art. 53 della IV Convenzione di Ginevra vieta espressamente alla potenza occupante di distruggere beni mobili o immobili salvo in caso di assoluta necessità militare.
La Coalizione Italiana Stop That Train applaude alla decisione del Consiglio Comunale di Rho, che si basa sulla difesa dei diritti umani e segue l’esempio della Deutsche Bahn, società delle ferrovie tedesche, che su indicazione del Ministro dei Trasporti tedesco si era ritirata dal progetto A1 nel mese di marzo 2011.
Mentre la Pizzarotti tradisce il proprio codice etico, nel quale afferma che “sostiene e rispetta i diritti umani”, il Consiglio comunale di Rho dimostra coerenza con i principi del proprio statuto, che riconosce “quali valori essenziali riguardo alla persona il rispetto della vita, l’intangibilità della dignità umana, i diritti della persona e della famiglia”.
“Stop That Train” invita le Amministrazioni pubbliche di tutt’Italia ad aderire alla campagna “Libera il tuo comune dalla Pizzarotti”, approvando risoluzioni analoghe nei confronti della Pizzarotti, finché questa non cesserà di prestare la sua opera in violazione del Diritto Internazionale.
Coalizione Italiana Stop That Train
Note:
La Coalizione Italiana Stop That Train che raggruppa circa 90 associazioni, tra organizzazioni nazionali e internazionali, anche in Israele, e realtà locali in tutt’Italia, esige l’immediato ritiro della Pizzarotti S.p.A dal progetto israeliana A1.
Il progetto per la linea ferroviaria A1 e il coinvolgimento della Pizzarotti sono descritti nel rapporto redatto dalla Coalizione delle Donne per la Pace – Israele, Crossing the Line: Il treno ad alta velocità Tel Aviv – Gerusalemme
Testo della risoluzione approvato dal Consiglio Comunale di Rho: Risoluzione Consiglio Comunale Rho
Maggiori informazioni sull’iniziativa “Libera il tuo comune dalla Pizzarotti”
INTERVISTA RADIOFONICA: http://www.radio24.ilsole24ore.com/player/player.php?filename=111113-reportage.mp3
L’impresa parmense condannata per il coinvolgimento nella TAV israeliana che attaversa i Territori palestinesi occupati
[Stop That Train]
Di seguito il comunicato della Coalizione italiana Stop That Train. Firma per ringraziare il Consiglio Comunale di Rho!
Il 30 novembre, il Consiglio Comunale di Rho ha approvato la risoluzione presentata dal Gruppo consiliare di Sinistra Ecologia Libertà che esprime una “condanna morale e politica nei confronti di Pizzarotti & C. S.p.A. per la partecipazione ai lavori per la costruzione della A1 Gerusalemme – Tel Aviv”.
La Pizzarotti è appaltatrice del progetto israeliano per lo scavo di tunnel per un nuovo treno ad alta velocità, detto A1 che collegherà Tel Aviv e Gerusalemme, tagliando per ben 6,5 km i Territori palestinesi occupati e quindi integrando una palese violazione del diritto internazionale e dei diritti umani. La nuova TAV israeliana comporta la illegittima confisca di terre palestinesi nei villaggi di Beit Iksa e Beit Sourik. Inoltre, il mega cantiere e la rete stradale predisposta specificamente per le enormi macchine scavatrici e per il trasporto del materiale estratto dai tunnel scavati dalla Pizzarotti, stanno portando alla distruzione di uliveti secolari e di terreni agricoli, riconosciuti dalla Corte Suprema Israeliana come “risorsa fondamentale per la sussistenza” delle comunità. L’art. 53 della IV Convenzione di Ginevra vieta espressamente alla potenza occupante di distruggere beni mobili o immobili salvo in caso di assoluta necessità militare.
La Coalizione Italiana Stop That Train applaude alla decisione del Consiglio Comunale di Rho, che si basa sulla difesa dei diritti umani e segue l’esempio della Deutsche Bahn, società delle ferrovie tedesche, che su indicazione del Ministro dei Trasporti tedesco si era ritirata dal progetto A1 nel mese di marzo 2011.
Mentre la Pizzarotti tradisce il proprio codice etico, nel quale afferma che “sostiene e rispetta i diritti umani”, il Consiglio comunale di Rho dimostra coerenza con i principi del proprio statuto, che riconosce “quali valori essenziali riguardo alla persona il rispetto della vita, l’intangibilità della dignità umana, i diritti della persona e della famiglia”.
“Stop That Train” invita le Amministrazioni pubbliche di tutt’Italia ad aderire alla campagna “Libera il tuo comune dalla Pizzarotti”, approvando risoluzioni analoghe nei confronti della Pizzarotti, finché questa non cesserà di prestare la sua opera in violazione del Diritto Internazionale.
Coalizione Italiana Stop That Train
Note:
La Coalizione Italiana Stop That Train che raggruppa circa 90 associazioni, tra organizzazioni nazionali e internazionali, anche in Israele, e realtà locali in tutt’Italia, esige l’immediato ritiro della Pizzarotti S.p.A dal progetto israeliana A1.
Il progetto per la linea ferroviaria A1 e il coinvolgimento della Pizzarotti sono descritti nel rapporto redatto dalla Coalizione delle Donne per la Pace – Israele, Crossing the Line: Il treno ad alta velocità Tel Aviv – Gerusalemme
Testo della risoluzione approvato dal Consiglio Comunale di Rho: Risoluzione Consiglio Comunale Rho
Maggiori informazioni sull’iniziativa “Libera il tuo comune dalla Pizzarotti”
INTERVISTA RADIOFONICA: http://www.radio24.ilsole24ore.com/player/player.php?filename=111113-reportage.mp3
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