"Se Gesù dovesse arrivare quest'anno, Betlemme sarebbe chiusa"
Una striscia di colonie costruite sulla terra che era a nord di Betlemme minaccia di separare definitivamente la città dalla sua gemella storica, Gerusalemme.
di Phoebe Greenwood* – traduzione a cura di Cecilia Dalla Negra
“Se Giuseppe e Maria fossero oggi in viaggio verso Betlemme, la storia del Natale sarebbe un po’ diversa”. A dirlo è padre Ibrahim Shomali, il parroco della città. “La coppia dovrebbe lottare per riuscire ad entrare in città, figuriamoci per trovare una stanza in albergo”.
“Se Gesù dovesse venire qui quest’anno, Betlemme sarebbe chiusa”, ha detto il parroco della parrocchia di Beit Jala. “Sarebbe anche costretto a nascere in un checkpoint o vicino al muro di separazione. Maria e Giuseppe dovrebbero ottenere un permesso israeliano, o fingersi turisti”.
“Questo è davvero il maggior problema per i palestinesi di Betlemme: cosa succederà quando loro (gli israeliani, ndt) ci chiuderanno completamente?”
Betlemme è il cuore della Palestina cristiana e si riempie di orgoglio, ogni Natale. Piazza Manger si trasforma in una grotta con luci e bancarelle, contornata da un imponente albero di natale. Stringhe di angeli illuminati, stelle e campanelle, festoni per strada. Ma basta percorrere in auto cinque minuti in direzione nord, e l’atmosfera gioiosa e festiva improvvisamente scompare.
Una striscia di insediamenti israeliani (illegali, ndt) lunga 18 km quadrati, costruita su ciò che una volta era il territorio di Betlemme nord, minaccia di separare la città dalla sua gemella storica, Gerusalemme.
Per le autorità israeliane, quelli sono stati quartieri periferici di Gerusalemme sin dal 1967. Uno di questi insediamenti, Har Homa, è costruito sulla terra dove si dice che gli angeli abbiano annunciato la nascita di Cristo ai pastori locali. Uno stretto corridoio di terra tra Har Homa e un’altra colonia, Gilo, ancora collega Betlemme a Gerusalemme, ma la costruzione di Givat Hamatos, un nuovo insediamento la cui costruzione è stata annunciata lo scorso ottobre, lo riempirà nel giro di qualche anno.
L’Unione europea e le Nazioni Unite denunciano abitualmente l’espansione unilaterale di Israele attraverso le colonie, ma in ottobre l’Alto commissario Ue, la baronessa Catherine Ashton, ha avvertito che la costruzione di Givat Hamatos è “di particolare preoccupazione dal momento che spezzerebbe la continuità territoriale tra Gerusalemme e Betlemme”.
Le preoccupazioni europee non stanno però rallentando il progredire di Israele. La scorsa settimana 500 nuove unità abitative sono state approvate per Har Homa, oltre a 348 nella colonia di Betar Illit, al confine occidentale di Betlemme.All’inizio di questo mese (dicembre, ndt), altre 267 unità abitative sono state multate per la crescita costante degli insediamenti, fino al confine sud della periferia cittadina, dove il ministero della Difesa ha dato ai coloni il permesso di costruire una fattoria sulla terra palestinese. Questo in aggiunta ai 6,782 nuovi appartamenti già programmati per Har Homa, Gilo e Givat Hamatos.
Nel breve periodo, la chiusura non farà grande differenza per la vita quotidiana a Betlemme: il muro di separazione già impedisce ai palestinesi di entrare a Gerusalemme dalle città vicine senza un permesso israeliano.
Ma questo anello di colonie cambierà in modo permanente la geografia del paesaggio biblico: se anche un accordo di pace radesse al suolo il muro di separazione, le due città rimarrebbero comunque divise.
L’attivista israeliano Hargit Ofram, direttore di Peace Now, vede nei piani israeliani un chiaro intento politico.”Questi sforzi sono stati fatti per evitare una possibile soluzione a due Stati, che prevederebbe uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est. Se questa capitale verrà però circondata da colonie e insediamenti, Israele sarebbe costretto in futuro a rimuoverli. Più Israele costruisce, più alto sarà il prezzo che dovrà pagare il futuro Stato palestinese”.
Una coalizione di 20 organizzazioni per i diritti umani, tra cui Oxfam e Amnesty International, ha denunciato che il numero di case palestinesi distrutte in Cisgiordania e a Gerusalemme Est dalle autorità israeliane sono raddoppiate in questi anni.
Secondo i termini degli Accordi di Oslo, il 13% del territorio di Betlemme attualmente ricade all’interno delle aree A e B, controllate dall’Autorità palestinese. Quest’area ospita l’87,6% della popolazione palestinese. Il resto ricade all’interno dell’area C, dove Israele controlla chi costruisce cosa.
La valle di al-Makour è l’ultimo spazio verde di Betlemme, e una delle poche aree rimaste per l’espansione urbana. È nell’area C ed è controllata dal checkpoint di Gilo da un lato, e dalla colonia di Har Homa dall’altro. È previsto che il muro di separazione passi all’interno della valle. Nessun palestinese ha avuto il permesso di costruire qui sin dal 1967.
Nonostante le restrizioni imposte da Israele per le costruzioni, Miranda Nasry Qasasfeh ha speso ogni week end degli ultimi anni per restaurare un magazzino in pietra di proprietà della famiglia di suo marito da 150 anni. Ha costruito un nuovo tetto in lamina di ferro e ha piantato alberi di mandorle e prugne, che erano sul punto di dare i loro primi frutti. La sua è una delle quattro strutture palestinesi nella valle di al-Makour demolite lo scorso 12 dicembre (dall’esercito israeliano, ndt). La maggior parte degli alberi è stata sradicata.
Il padre di Qasasfeh, un uomo di 75 anni, si è precipitato sul luogo della demolizione, dove ha trovato sua figlia in uno stato di profonda disperazione. Ore dopo è stato colpito da un ictus, e adesso è paralizzato in tutta la parte sinistra del corpo. Visti gli avvenimenti delle settimane scorse, la famiglia Qasasfeh quest’anno ha lasciato perdere le decorazioni natalizie.
“Il comandante israeliano mi ha detto che non avevo niente qui, che questa non è la mia terra. Ma lo è, ed abbiamo bisogno di vivere e di poterci espandere. Quale altra scelta abbiamo? Possiamo forse andare da qualche altra parte?”, si chiede Miranda.
Ma nonostante la distruzione della sua proprietà, Miranda Qasasfeh ha ancora speranza che la situazione politica cambierà in futuro. Ha minacciato di disconoscere suo figlio maggiore, se continuerà a dire di voler lasciare Betlemme per cercare lavoro altrove.
“Continuo a dire ai miei figli, di fissare nelle loro menti, che non c’è nessun posto nel mondo come questo. Non possiamo andarcene. E poi c’è il Natale. Per qualche giorno almeno possiamo dimenticare quello che accade qui, o almeno provarci”. Il punto di vista di padre Shomali è più cupo: “Quando guardo ai registri della mia chiesa, vedo che molti degli storici nomi dell’area ormai se ne sono andati. In 20 anni, credo che non ci saranno più cristiani a Betlemme”.
Jad Isaac, esperto della demografia di Betlemme e consulente del presidente palestinese Mahmoud Abbas, sostiene che oltre alle restrizioni materiali allo sviluppo, l’economia di Betlemme viene strangolata dalla perdita di terra e dalle restrizioni di movimento imposte ai palestinesi.
Con l’impossibilità di lavorare a Gerusalemme, e soltanto 6 mila permessi di lavoro all’interno di Israele accordati ai palestinesi, il livello di disoccupazione a Betlemme è fisso al 23%, quello di povertà al 18%. Molti hanno piccole opportunità di lavoro in nero per 25 dollari al giorno nei cantieri edili delle colonie. Le previsioni del dr. Isaac sono desolanti.
“La piccola città di Betlemme? Sarà presto un piccolo ghetto circondato in tutte le direzioni da insediamenti israeliani”, sostiene. “Abbiamo già passato il punto in cui Betlemme si sarebbe potuta salvare. Francamente, è per questo che non celebro più il Natale”.
* questo articolo è stato pubblicato da The Guardian.
24 dicembre 2011
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