mercoledì 29 febbraio 2012
Val di Susa e stronzate giornalistiche
Il ragazzo che ha rivolto al poliziotto alcune frasi ironiche e un buon consiglio"Per quello che guadagni non vale la pena stare qui" è diventato improvvisamente famoso. Non c'è giornale o telegiornale che non abbia riportato la foto, il fatto, mandato il video, fino alla nausea. Non hanno niente per screditare il movimento NO TAV e si attaccano a tutto. Il giovane è diventato un provocatore, un "bulletto grottesco"(Corradino Mineo) vorrebbe le ignobili violenze ed il tutto è una scena disgustosa. Perchè non vanno a gettare uno sguardo a fogli ignobili come "Il giornale" e simili? Non troverebbero bulletti grotteschi, ma veri e propri delinquenti che però possono dire tutto quello che vogliono liberamente senza essere insultati. Questo si, è una scena vergognosa, schifosa e ripugnante. Il poliziotto poi che non ha risposto (ma che magari un minuto prima o un minuto poi avrebbe manganellato) ha ricevuto addirittura un "encomio solenne" e perchè non una medaglia al valore? CI sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Maroni poi vuole mandare l'esercito, forse a bombardare? Non avevo detto a caso che stanno prendendo esempio da Israele, lì distruggono i pannelli fotovoltaici dei palestinesi e in val di Susa devastano con il cantiere e requisiscono terreni privati. Ma sentite sentite: i blocchi (sgombrati ora) alla A 32 RISCHIANO DI DANNEGGIARE IL TERRITORIO!!! Avete capito bene, i blocchi stradali di protesta, non il cantiere, danneggiano il territorio. E poi c'è la stagione sciistica che deve andare avanti. Rai news titola il suo servizio Ragioni e provocazioni" e l'aggressione più aggressiva sarebbe quella del giovane di cui sopra, ma c'è anche, scandalo! L'aggressione ai giornalisti! Con tutte le cazzate che dicono se la meriterebbero davvero un'aggressione, ma non si sono fatti neppure un graffio perchè danneggiate sino state solo le macchine e ben gli sta. C'è da parte dei giornalisti la continua insistenza su una presunta "ala esatremista del movimento NO TAV che gira per l'Italia con facce mascherate e vuole lo scontro sociale che è la ragione della loro vita" Lo hanno detto in molti anche a Rai 3 e news 24, ma questo è DI Pietro che da buon poliziotto ritiene che lo stato deve affermare la legalità. Mineo insiste in modo ossessivo sull'episodio del poliziotto silente e encomiato "è un autogol" lo vuole a tutti i costio l'autogol, e si accalora a insultare il movimento attorno alla no tav. Vorrei dire una cosa a questi giornalisti che vedono solo quello che vogliono vedere: CI avete rotto i c...
Sibia, Liria. Inquietante cuneo dentro le primavere arabe
Marinella Correggia
Sibia e Liria. Possiamo mescolare le sillabe di Siria e Libia. Perché due paesi così diversi da un anno hanno molto in comune. Poco importano le responsabilità dei due governi nazionali. Il copione internazionale ne prescinde. Così come le agende geopolitiche delle potenze esterne coinvolte.
Sibia e Liria. Due sollevazioni che hanno richiesto e richiedono un’incredibile operazione di demonizzazione dei due governi e santificazione degli oppositori, da parte dell’Onu, di tanti governi e dei media, con menzogne e omissioni così da spacciare per “protezione dei civili e dei diritti umani” quella che è un’operazione politico-militare di cambio di regime. In Libia una vera congiura fra più attori – interni e internazionali, governativi e non governativi – radicò nell’inconscio dell’opinione pubblica mondiale la convinzione che Gheddafi e i suoi “mercenari” avessero fatto seimila o diecimila morti civili nei primi giorni di scontri; erano stati in realtà poco più di cento come riconobbe la stessa Amnesty, e distribuiti fra le due parti (con atti efferati da parte dei “ribelli”). Nel caso siriano la conta dei morti da parte di Onu e media e le notizie di massacri e atrocità su bambini e adulti provengono da fonti di parte (“attivisti dei diritti umani” dell’opposizione, “disertori” ecc.). I media si collegano con combattenti definendoli “attivisti” (Rainews24 il 28 febbraio). Oppositori esterni al paese i quali sostengono di avere centinaia di informatori sul campo (questi ultimi mandano liste di vittime, e “video amatoriali” sempre riportati dai media seppure con l’irrilevante precisazione “non possono essere indipendentemente verificati”); l’opera è completata da media presenti nel paese ed embedded nell’opposizione armata. Inoltre, sia nel caso libico che in quello siriano, sono definiti “civili disarmati” quelli che invece sono gruppi armati e violenti (tale è la confusione che c’è chi considera “pacifista” e “umanitario” un possibile intervento dalla parte degli oppositori armati). I rapporti Onu (anche la più recente stima di fine febbraio che parla di “ben oltre 7.500 persone morte negli 11 mesi di rivolte) danno a intendere che si tratti a) di vittime disarmate, b) fatte tutte dalle forze del governo. Inoltre si basano so “rapporti credibili” che provengono in realtà dall’opposizione. Onu, Ong e media òe prendono sempre per buone e obiettive, senza prove, con corredo di video che spesso non mostrano nulla, nomi e circostanze spesso verificatisi falsi e perfino grossolanamente “copiati”, a un minimo controllo (vedi “Guerra mediatica”, dossier a puntate per Contropiano, in particolare http://www.contropiano.org/it/esteri/item/6818-siria-guerra-mediatica-sesta-puntata). Certamente in Siria i civili muoiono, ma come risultato dello scontro fra esercito e oppositori armati. Anche solo la domanda “cui prodest?” induce a ritenere che il governo siriano non abbia convenienza ad attirarsi addosso ancor più le ire del mondo colpendo deliberatamente i civili. In Libia gli unici “civili” (fra virgolette) che la Nato ha davvero difeso sono stati i “ribelli”, armatissimi e responsabili di atti molto violenti contro i civili (si pensi all’assedio feroce a Sirte, agli abitanti di Tawergha deportati, ai detenuti torturati e uccisi). In Siria cd “Esercito libero” è responsabile di uccisioni di soldati e civili (ci sono elenchi nominativi documentati; v. http://www.forumpalestina.org/news/2012/Febbraio12/12-02-12GuerraMediatica3.htm) e atti di sabotaggio e terrorismo. Anche a Homs nella fase attuale (http://www.megachip.info/tematiche/guerra-e-verita/7707-homs-un-testimone-racconta-il-terrore-gruppi-armati-non-damasco.html). Questo è sottolineato anche dal rapporto degli Osservatori della Lega Araba (http://www.peacelink.it/conflitti/a/35517.html) che per questa ragione Arabia Saudita e Qatar hanno occultato. Omissione totale da parte dei media e della “comunità internazionale”(asse Occidente-petromonarchie) dei quotidiani resoconti di uccisioni, rapimenti, sabotaggi per opera dei gruppi armati che come nel caso della Libia il ministero dell’informazione siriano diffonde quotidianamente, come fa il Siryan Observatory on Victims of Violence and Terrorism-Sovvt, da non confodersi con il citatissimo Osservatorio siriano sui diritti umani basato a Londra e fonte privilegiata dei media e della stessa Onu.
Sibia e Liria. Due sollevazioni armate incuneatesi nella “primavera araba” diventata “inverno islamico” secondo la definizione del movimento palestinese Hamas finanziato da Fratelli musulmani e Qatar, e lieto di questa svolta che spazza via i regimi laici (potremmo parlare anche di inverno atlantislamico). Le componenti maggioritarie di queste opposizioni appoggiano e fiancheggiano i gruppi armati. E’ successo in Libia e succede in Siria dove il Consiglio nazionale siriano (Cns), enfant chéri degli Occidentali e petromonarchi, ha un patto di cooperazione con la nebulosa chiamata “Free Syrian Army-Fsa (Esercito siriano libero) con basi in Libano e Turchia. Come nel caso libico, la cosiddetta opposizione siriana è eterodiretta: appoggi e suggerimenti internazionali (vedi oltre), ruolo di espatriati nell’avviare la protesta (e nel dirigerla, quanto al caso del Consiglio nazionale siriano: basato in Turchia e diretto da un professore siriano della Sorbona, da decenni in Francia), e perfino presenza di combattenti stranieri jihadisti. Certo se in Siria ci fossero basi militari statunitensi si direbbe che Assad sta difendendo il paese da terroristi. Migliaia di libici sarebbero addestrati in Giordania, per 1.000 dollari al mese forniti da Qatar e Arabia Saudita (http://rt.com/news/jordan-syria-intelligence-training-859/). Oltre ai libici (http://www.corriere.it/esteri/11_novembre_24/olimpio-scenario-siria_baea5e0a-166c-11e1-a1c0-69f6106d85c1.shtml) a quelli che giungono dall’Iraq (come ha affermato il ministro dell’interno iracheno (New York Times 12 febbraio 2012,”For Iraqis, Aid to Rebels in Syria Repays a Debt »). Direttamente da Al Qaeda arriva l’appello di solidarietà lanciato dal capo della rete terroristica, Al Zawahiri, e della presenza della Rete terrorista ha riferito invano al Congresso Usa il direttore della National Intelligence Usa James Clapper(http://www.mcclatchydc.com/2012/02/16/139139/top-us-intelligence-officials.html), e ribadito dal generale statunitense Martin Dempsey: “La Siria è un’arena con molti attori e ciascuno cerca di rafforzare la propria posizione. Non parla di bombardamenti sui civili (http://www.lesdebats.com/editions/220212/les%20debats.htm). L’Occidente si prepara a fare da aviazione ad Al Qaeda come in Libia? Come nel caso libico e in precedenza in Afghanistan, in Siria Occidente/petromonarchie e Al Qaeda/islamisti lavorano insieme ognuno contro il comune nemico (Bashar al Assad), sperando di avere la meglio gli uni sugli altri in seguito (http://rt.com/news/us-al-qaeda-syria-otrakji-635/). I gruppi armati sono responsabili di uccisioni di molti civili e militari e di sabotaggi. Le uccisioni per vendetta sono rivendicate dagli stessi gruppi armati (reportage del libanese Daily Star dal titolo “FSA soldier in Lebanon discloses tactics ») ; sgozzamenti stile Al Qaeda sono stati mostrati su un video dai combattenti anti-governativi all’inviato della Bbc a Homs – che non si è scandalizzato troppo (http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-16984219).
Sibia Liria. Due sollevazioni le cui componenti maggioritarie chiedono (e nel caso della Libia hanno ottenuto) l’intervento armato estero diretto. “Se il mondo ci abbandona dichiareremo la Jihad” ha dichiarato un ufficiale del cosiddetto Esercito siriano libero Abdel Razzak Atlas a Jonathan Littell di Le Monde. Nel caso della Siria, l’opposizione interna e progressista che rifiuta risolutamente l’ingerenza esterna e la lotta armata, è schiacciata dal Consiglio nazionale siriano. Da notare anche che il quest’ultimo ha avuto il primo (surreale) riconoscimento come “legittimo rappresentante del popolo siriano” da parte proprio del Cnt libico, arrivato al potere sulle ali della Nato.
Sibia e Liria. Due sollevazioni le cui componenti maggioritarie hanno goduto e godono del totale appoggio da parte dell’Occidente e delle petromonarchie del Golfo, con il pretesto del sostegno alla democrazia e della protezione dei civili ma con un segreto di Pulcinella: l’obiettivo del cambio di regime. Per questo, gli alleati internazionali degli oppositori boicottano qualunque tentativo negoziale. Nel marzo 2011 si riunirono a Parigi (e poi in Qatar) i cosiddetti “Amici della Libia”, franco--anglosassoni e petromonarchi in testa, seguiti da alleati minori. Poco meno di un anno dopo, a Tunisi decine di paesi di riuniscono come “amici della Siria”. Nel caso libico ci fu un’ alleanza armata diretta, con bombardamenti Nato/Qatar e invio di armi e commandos. Nel caso siriano (per ora) c‘è un sostegno indiretto all’opposizione armata. I servizi segreti russi dichiarano alla Itar Tass che da Libano, Iraq e Turchia arrivano non ufficialmente (cioè non attraverso i governi) fucili di precisione (per i cecchini), lanciarazzi, MACHINE GUNS. Finanziamenti e forniture di armi (http://rt.com/news/syria-opposition-weapon-smuggling-843/) da parte sono sostenuti dalle petromonarchie (Qatar e Arabia Saudita che chiedono all’Occidente di ufficializzare l’appoggio). La base logistica alla Free Syrian Army è offerta dalla Turchia. Forze speciali di consiglieri ed esperti militari britanniche, francesi, giordane e del Qatar nella base turca di Iskenderun addestrerebbero i combattenti insieme ai militari di Ankara. Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha dichiarato ufficialmente la presenza di agenti inglesi del M16 già sul terreno in Siria. L’esercito siriano ha catturato diversi combattenti e consiglieri stranieri, in numero tale da innescare grandi trattative per il rilascio (http://www.haaretz.com/news/middle-east/report-u-s-drones-flying-over-syria-to-monitor-crackdown-1.413348). Secondo il Réseau Voltaire, una dozzina di francesi hanno chiesto lo status di prigioniero di guerra fornendo la loro identità, il grado e il corpo di appartenenza. Uno di questi è un colonnello del servizio trasmissioni della Dgse (Direction générale de la sécurité extérieure): “Nell’armare la rivolta wahhabita e nel fornirle informazioni satellitari, la Francia ha dunque condotto una guerra segreta contro l’esercito siriano, che ha portato, in dieci mesi di combattimenti, all’uccisione di circa 3.000 militari e oltre 1.500 civili”. In Libia come in Siria l’ingerenza esterna ha fomentato gli scontri e impedito la riconciliazione e l’avvio di un percorso di pace senza interferenze. Del resto, secondo rivelazioni della Press Tv (iraniana), nel 2008 l’ambasciatore saudita e quello degli Stati Uniti in Libano idearono un piano per detronizzare il governo siriano.
Sibia e Liria. Due sollevazioni di fronte alle quali la frase “manifestanti inermi uccisi da un regime che massacra il suo stesso popolo” accomuna il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon con l’ultimo militante della “sinistra umanitaria” occidentale. Uniti ieri nella demonizzazione di Gheddafi, oggi nel biasimare Cina e Russia che in sede di Consiglio di Sicurezza dell’Onu hanno posto due volte il veto a una risoluzione proposta dall’Occidente e dai petromonarchi e fatta apposta per permettere un intervento armato “umanitario” in Siria sulla falsariga di quello in Libia. Il 16 febbraio una nuova alleanza si è delineata: all’Assemblea dell’Onu, Russia e Cina e altri 9 paesi – i cinque paesi dell’Alleanza Bolivariana per l’America-Alba, Venezuela, Cuba, Ecuador, Bolivia, Nicaragua, e poi Iran, Bielorussia, Zimbabwe, Corea del Nord – oltre ovviamente alla Siria sono stati gli unici al mondo a votare contro una risoluzione proposta dall’Arabia Saudita, che condanna delle sole violenze governative e propone l’appoggio all’opposizione siriana in nome della protezione della popolazione. Ricordiamo che i paesi dell’Alba sono stati protagonisti, sia nel caso della Libia che in quello della Siria, di proposte di pace e mediazione, con l’invio di osservatori neutrali, accettate anche dai due governi interessati ma del tutto boicottate dalle opposizioni armate libica e siriana e dalla “comunità internazionale”.
Sibia e Liria. Due sollevazioni in grado di frammentare i rispettivi paesi e farli piombare in un inferno armatissimo governato di fatto da milizie e gruppi contrapposti. In Libia è già successo.
Sibia e Liria. Due sollevazioni contro due governi laici e tradizionalmente non allineanti, nel contesto di un mondo arabo completamente islamizzato (un islam che sul piano economico e politico è alleato dell’Occidente).
Sibia e Liria. Due sollevazioni la cui parte maggioritaria vuole smantellare lo stato, cambiando financo la bandiera del paese (Libia: da quella verde della Jamahiryia a quella a strisce rosso, verde e nero con stella e mezzaluna della monarchia pre-1969. Siria: dal rosso-bianco-nero con due stelle al verde-bianco-nero con tre stelle.
Sibia e Liria. Possiamo mescolare le sillabe di Siria e Libia. Perché due paesi così diversi da un anno hanno molto in comune. Poco importano le responsabilità dei due governi nazionali. Il copione internazionale ne prescinde. Così come le agende geopolitiche delle potenze esterne coinvolte.
Sibia e Liria. Due sollevazioni che hanno richiesto e richiedono un’incredibile operazione di demonizzazione dei due governi e santificazione degli oppositori, da parte dell’Onu, di tanti governi e dei media, con menzogne e omissioni così da spacciare per “protezione dei civili e dei diritti umani” quella che è un’operazione politico-militare di cambio di regime. In Libia una vera congiura fra più attori – interni e internazionali, governativi e non governativi – radicò nell’inconscio dell’opinione pubblica mondiale la convinzione che Gheddafi e i suoi “mercenari” avessero fatto seimila o diecimila morti civili nei primi giorni di scontri; erano stati in realtà poco più di cento come riconobbe la stessa Amnesty, e distribuiti fra le due parti (con atti efferati da parte dei “ribelli”). Nel caso siriano la conta dei morti da parte di Onu e media e le notizie di massacri e atrocità su bambini e adulti provengono da fonti di parte (“attivisti dei diritti umani” dell’opposizione, “disertori” ecc.). I media si collegano con combattenti definendoli “attivisti” (Rainews24 il 28 febbraio). Oppositori esterni al paese i quali sostengono di avere centinaia di informatori sul campo (questi ultimi mandano liste di vittime, e “video amatoriali” sempre riportati dai media seppure con l’irrilevante precisazione “non possono essere indipendentemente verificati”); l’opera è completata da media presenti nel paese ed embedded nell’opposizione armata. Inoltre, sia nel caso libico che in quello siriano, sono definiti “civili disarmati” quelli che invece sono gruppi armati e violenti (tale è la confusione che c’è chi considera “pacifista” e “umanitario” un possibile intervento dalla parte degli oppositori armati). I rapporti Onu (anche la più recente stima di fine febbraio che parla di “ben oltre 7.500 persone morte negli 11 mesi di rivolte) danno a intendere che si tratti a) di vittime disarmate, b) fatte tutte dalle forze del governo. Inoltre si basano so “rapporti credibili” che provengono in realtà dall’opposizione. Onu, Ong e media òe prendono sempre per buone e obiettive, senza prove, con corredo di video che spesso non mostrano nulla, nomi e circostanze spesso verificatisi falsi e perfino grossolanamente “copiati”, a un minimo controllo (vedi “Guerra mediatica”, dossier a puntate per Contropiano, in particolare http://www.contropiano.org/it/esteri/item/6818-siria-guerra-mediatica-sesta-puntata). Certamente in Siria i civili muoiono, ma come risultato dello scontro fra esercito e oppositori armati. Anche solo la domanda “cui prodest?” induce a ritenere che il governo siriano non abbia convenienza ad attirarsi addosso ancor più le ire del mondo colpendo deliberatamente i civili. In Libia gli unici “civili” (fra virgolette) che la Nato ha davvero difeso sono stati i “ribelli”, armatissimi e responsabili di atti molto violenti contro i civili (si pensi all’assedio feroce a Sirte, agli abitanti di Tawergha deportati, ai detenuti torturati e uccisi). In Siria cd “Esercito libero” è responsabile di uccisioni di soldati e civili (ci sono elenchi nominativi documentati; v. http://www.forumpalestina.org/news/2012/Febbraio12/12-02-12GuerraMediatica3.htm) e atti di sabotaggio e terrorismo. Anche a Homs nella fase attuale (http://www.megachip.info/tematiche/guerra-e-verita/7707-homs-un-testimone-racconta-il-terrore-gruppi-armati-non-damasco.html). Questo è sottolineato anche dal rapporto degli Osservatori della Lega Araba (http://www.peacelink.it/conflitti/a/35517.html) che per questa ragione Arabia Saudita e Qatar hanno occultato. Omissione totale da parte dei media e della “comunità internazionale”(asse Occidente-petromonarchie) dei quotidiani resoconti di uccisioni, rapimenti, sabotaggi per opera dei gruppi armati che come nel caso della Libia il ministero dell’informazione siriano diffonde quotidianamente, come fa il Siryan Observatory on Victims of Violence and Terrorism-Sovvt, da non confodersi con il citatissimo Osservatorio siriano sui diritti umani basato a Londra e fonte privilegiata dei media e della stessa Onu.
Sibia e Liria. Due sollevazioni armate incuneatesi nella “primavera araba” diventata “inverno islamico” secondo la definizione del movimento palestinese Hamas finanziato da Fratelli musulmani e Qatar, e lieto di questa svolta che spazza via i regimi laici (potremmo parlare anche di inverno atlantislamico). Le componenti maggioritarie di queste opposizioni appoggiano e fiancheggiano i gruppi armati. E’ successo in Libia e succede in Siria dove il Consiglio nazionale siriano (Cns), enfant chéri degli Occidentali e petromonarchi, ha un patto di cooperazione con la nebulosa chiamata “Free Syrian Army-Fsa (Esercito siriano libero) con basi in Libano e Turchia. Come nel caso libico, la cosiddetta opposizione siriana è eterodiretta: appoggi e suggerimenti internazionali (vedi oltre), ruolo di espatriati nell’avviare la protesta (e nel dirigerla, quanto al caso del Consiglio nazionale siriano: basato in Turchia e diretto da un professore siriano della Sorbona, da decenni in Francia), e perfino presenza di combattenti stranieri jihadisti. Certo se in Siria ci fossero basi militari statunitensi si direbbe che Assad sta difendendo il paese da terroristi. Migliaia di libici sarebbero addestrati in Giordania, per 1.000 dollari al mese forniti da Qatar e Arabia Saudita (http://rt.com/news/jordan-syria-intelligence-training-859/). Oltre ai libici (http://www.corriere.it/esteri/11_novembre_24/olimpio-scenario-siria_baea5e0a-166c-11e1-a1c0-69f6106d85c1.shtml) a quelli che giungono dall’Iraq (come ha affermato il ministro dell’interno iracheno (New York Times 12 febbraio 2012,”For Iraqis, Aid to Rebels in Syria Repays a Debt »). Direttamente da Al Qaeda arriva l’appello di solidarietà lanciato dal capo della rete terroristica, Al Zawahiri, e della presenza della Rete terrorista ha riferito invano al Congresso Usa il direttore della National Intelligence Usa James Clapper(http://www.mcclatchydc.com/2012/02/16/139139/top-us-intelligence-officials.html), e ribadito dal generale statunitense Martin Dempsey: “La Siria è un’arena con molti attori e ciascuno cerca di rafforzare la propria posizione. Non parla di bombardamenti sui civili (http://www.lesdebats.com/editions/220212/les%20debats.htm). L’Occidente si prepara a fare da aviazione ad Al Qaeda come in Libia? Come nel caso libico e in precedenza in Afghanistan, in Siria Occidente/petromonarchie e Al Qaeda/islamisti lavorano insieme ognuno contro il comune nemico (Bashar al Assad), sperando di avere la meglio gli uni sugli altri in seguito (http://rt.com/news/us-al-qaeda-syria-otrakji-635/). I gruppi armati sono responsabili di uccisioni di molti civili e militari e di sabotaggi. Le uccisioni per vendetta sono rivendicate dagli stessi gruppi armati (reportage del libanese Daily Star dal titolo “FSA soldier in Lebanon discloses tactics ») ; sgozzamenti stile Al Qaeda sono stati mostrati su un video dai combattenti anti-governativi all’inviato della Bbc a Homs – che non si è scandalizzato troppo (http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-16984219).
Sibia Liria. Due sollevazioni le cui componenti maggioritarie chiedono (e nel caso della Libia hanno ottenuto) l’intervento armato estero diretto. “Se il mondo ci abbandona dichiareremo la Jihad” ha dichiarato un ufficiale del cosiddetto Esercito siriano libero Abdel Razzak Atlas a Jonathan Littell di Le Monde. Nel caso della Siria, l’opposizione interna e progressista che rifiuta risolutamente l’ingerenza esterna e la lotta armata, è schiacciata dal Consiglio nazionale siriano. Da notare anche che il quest’ultimo ha avuto il primo (surreale) riconoscimento come “legittimo rappresentante del popolo siriano” da parte proprio del Cnt libico, arrivato al potere sulle ali della Nato.
Sibia e Liria. Due sollevazioni le cui componenti maggioritarie hanno goduto e godono del totale appoggio da parte dell’Occidente e delle petromonarchie del Golfo, con il pretesto del sostegno alla democrazia e della protezione dei civili ma con un segreto di Pulcinella: l’obiettivo del cambio di regime. Per questo, gli alleati internazionali degli oppositori boicottano qualunque tentativo negoziale. Nel marzo 2011 si riunirono a Parigi (e poi in Qatar) i cosiddetti “Amici della Libia”, franco--anglosassoni e petromonarchi in testa, seguiti da alleati minori. Poco meno di un anno dopo, a Tunisi decine di paesi di riuniscono come “amici della Siria”. Nel caso libico ci fu un’ alleanza armata diretta, con bombardamenti Nato/Qatar e invio di armi e commandos. Nel caso siriano (per ora) c‘è un sostegno indiretto all’opposizione armata. I servizi segreti russi dichiarano alla Itar Tass che da Libano, Iraq e Turchia arrivano non ufficialmente (cioè non attraverso i governi) fucili di precisione (per i cecchini), lanciarazzi, MACHINE GUNS. Finanziamenti e forniture di armi (http://rt.com/news/syria-opposition-weapon-smuggling-843/) da parte sono sostenuti dalle petromonarchie (Qatar e Arabia Saudita che chiedono all’Occidente di ufficializzare l’appoggio). La base logistica alla Free Syrian Army è offerta dalla Turchia. Forze speciali di consiglieri ed esperti militari britanniche, francesi, giordane e del Qatar nella base turca di Iskenderun addestrerebbero i combattenti insieme ai militari di Ankara. Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha dichiarato ufficialmente la presenza di agenti inglesi del M16 già sul terreno in Siria. L’esercito siriano ha catturato diversi combattenti e consiglieri stranieri, in numero tale da innescare grandi trattative per il rilascio (http://www.haaretz.com/news/middle-east/report-u-s-drones-flying-over-syria-to-monitor-crackdown-1.413348). Secondo il Réseau Voltaire, una dozzina di francesi hanno chiesto lo status di prigioniero di guerra fornendo la loro identità, il grado e il corpo di appartenenza. Uno di questi è un colonnello del servizio trasmissioni della Dgse (Direction générale de la sécurité extérieure): “Nell’armare la rivolta wahhabita e nel fornirle informazioni satellitari, la Francia ha dunque condotto una guerra segreta contro l’esercito siriano, che ha portato, in dieci mesi di combattimenti, all’uccisione di circa 3.000 militari e oltre 1.500 civili”. In Libia come in Siria l’ingerenza esterna ha fomentato gli scontri e impedito la riconciliazione e l’avvio di un percorso di pace senza interferenze. Del resto, secondo rivelazioni della Press Tv (iraniana), nel 2008 l’ambasciatore saudita e quello degli Stati Uniti in Libano idearono un piano per detronizzare il governo siriano.
Sibia e Liria. Due sollevazioni di fronte alle quali la frase “manifestanti inermi uccisi da un regime che massacra il suo stesso popolo” accomuna il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon con l’ultimo militante della “sinistra umanitaria” occidentale. Uniti ieri nella demonizzazione di Gheddafi, oggi nel biasimare Cina e Russia che in sede di Consiglio di Sicurezza dell’Onu hanno posto due volte il veto a una risoluzione proposta dall’Occidente e dai petromonarchi e fatta apposta per permettere un intervento armato “umanitario” in Siria sulla falsariga di quello in Libia. Il 16 febbraio una nuova alleanza si è delineata: all’Assemblea dell’Onu, Russia e Cina e altri 9 paesi – i cinque paesi dell’Alleanza Bolivariana per l’America-Alba, Venezuela, Cuba, Ecuador, Bolivia, Nicaragua, e poi Iran, Bielorussia, Zimbabwe, Corea del Nord – oltre ovviamente alla Siria sono stati gli unici al mondo a votare contro una risoluzione proposta dall’Arabia Saudita, che condanna delle sole violenze governative e propone l’appoggio all’opposizione siriana in nome della protezione della popolazione. Ricordiamo che i paesi dell’Alba sono stati protagonisti, sia nel caso della Libia che in quello della Siria, di proposte di pace e mediazione, con l’invio di osservatori neutrali, accettate anche dai due governi interessati ma del tutto boicottate dalle opposizioni armate libica e siriana e dalla “comunità internazionale”.
Sibia e Liria. Due sollevazioni in grado di frammentare i rispettivi paesi e farli piombare in un inferno armatissimo governato di fatto da milizie e gruppi contrapposti. In Libia è già successo.
Sibia e Liria. Due sollevazioni contro due governi laici e tradizionalmente non allineanti, nel contesto di un mondo arabo completamente islamizzato (un islam che sul piano economico e politico è alleato dell’Occidente).
Sibia e Liria. Due sollevazioni la cui parte maggioritaria vuole smantellare lo stato, cambiando financo la bandiera del paese (Libia: da quella verde della Jamahiryia a quella a strisce rosso, verde e nero con stella e mezzaluna della monarchia pre-1969. Siria: dal rosso-bianco-nero con due stelle al verde-bianco-nero con tre stelle.
LA VAL SUSA NON E' SOLA, SIAMO TUTTI/E NO TAV!
LA VAL SUSA NON E' SOLA, SIAMO TUTTI/E NO TAV!
Qualche settimana fa si è svolta un'operazione repressiva con decine di
arresti e denunce nei confronti di attivisti/e NO TAV in tutta Italia.
Da quel momento la solidarietà continua a esprimersi in molteplici
forme, dal Nord al Sud del Paese: nessuna/o è sola/o, non ci sono
buone/i e cattive/i. Un corteo di 80 mila persone si è riversato nella
valle, da Bussoleno a Susa, per dire che il movimento NO TAV non si
arresta e non ha paura. Il giorno dopo parte l'allargamento dei
cantieri, attraverso l'esproprio militare delle terre valsusine. La
resistenza dei NO TAV è immediata. Un compagno, Luca, per impedire
l'avanzamento delle ruspe, si arrampica su un traliccio. Inseguito da un
carabiniere rocciatore, cade, rischiando la vita: è tuttora ricoverato
in ospedale in gravi condizioni. I giornali e i media screditano e
minimizzano l'accaduto, insultando il coraggio e la determinazione di
Luca. La risposta della Val di Susa è determinata, con blocchi e
barricate che vengono immediatamente ricostruite non appena vengono
sgomberate. Ancora una volta in tutta Italia la solidarietà si fa
sentire con manifestazioni spontanee, presidi, blocchi stradali e
ferroviari.
Queste sono solo le ultime pagine di una lotta che va avanti da 23
anni.
Di fronte all'attacco dello Stato nei confronti del movimento No Tav,
di fronte alla repressione di ogni forma di conflitto, al di fuori del
“consentito”, tanto il 3 luglio in Val di Susa quanto il 15 Ottobre a
Roma, è necessario reagire. La lotta contro il Tav fa paura ai poteri
politici, economici e giuridici, perché ne mette in discussione la loro
stessa essenza. Si vuole reprimere l'autorganizzazione, il rifiuto della
delega, la molteplicità e la radicalità di azioni e pratiche. Si vuole
colpire tanto il dissenso e il contrattacco nei confronti dei poteri
costituiti, quanto la condivisione di esperienze di vita che generano
forme di cospirazione e di complicità sociale.
Anche attraverso Il TAV e la politica delle grandi opere il capitalismo
vuole imporre ancora una volta l'idea di un mondo sottomesso alle leggi
del profitto e dello sfruttamento affaristico dei beni comuni. La Val di
Susa fa paura perché la lotta contro il Tav esprime la possibilità
concreta di un cambiamento reale allo stato di cose presenti:
determinarne il seguito spetta a tutti e tutte noi!
IL TAV E' OVUNQUE, LOTTIAMO OVUNQUE CONTRO IL TAV
TUTTI/E LIBERI/E!
Sabato 3 marzo, ore 15:00, corteo NO TAV, partenza da Piazzale
Tiburtino
Daje Luca, Sempre no Tav, a sarà düra!
Assemblea No Tav di Roma
Qualche settimana fa si è svolta un'operazione repressiva con decine di
arresti e denunce nei confronti di attivisti/e NO TAV in tutta Italia.
Da quel momento la solidarietà continua a esprimersi in molteplici
forme, dal Nord al Sud del Paese: nessuna/o è sola/o, non ci sono
buone/i e cattive/i. Un corteo di 80 mila persone si è riversato nella
valle, da Bussoleno a Susa, per dire che il movimento NO TAV non si
arresta e non ha paura. Il giorno dopo parte l'allargamento dei
cantieri, attraverso l'esproprio militare delle terre valsusine. La
resistenza dei NO TAV è immediata. Un compagno, Luca, per impedire
l'avanzamento delle ruspe, si arrampica su un traliccio. Inseguito da un
carabiniere rocciatore, cade, rischiando la vita: è tuttora ricoverato
in ospedale in gravi condizioni. I giornali e i media screditano e
minimizzano l'accaduto, insultando il coraggio e la determinazione di
Luca. La risposta della Val di Susa è determinata, con blocchi e
barricate che vengono immediatamente ricostruite non appena vengono
sgomberate. Ancora una volta in tutta Italia la solidarietà si fa
sentire con manifestazioni spontanee, presidi, blocchi stradali e
ferroviari.
Queste sono solo le ultime pagine di una lotta che va avanti da 23
anni.
Di fronte all'attacco dello Stato nei confronti del movimento No Tav,
di fronte alla repressione di ogni forma di conflitto, al di fuori del
“consentito”, tanto il 3 luglio in Val di Susa quanto il 15 Ottobre a
Roma, è necessario reagire. La lotta contro il Tav fa paura ai poteri
politici, economici e giuridici, perché ne mette in discussione la loro
stessa essenza. Si vuole reprimere l'autorganizzazione, il rifiuto della
delega, la molteplicità e la radicalità di azioni e pratiche. Si vuole
colpire tanto il dissenso e il contrattacco nei confronti dei poteri
costituiti, quanto la condivisione di esperienze di vita che generano
forme di cospirazione e di complicità sociale.
Anche attraverso Il TAV e la politica delle grandi opere il capitalismo
vuole imporre ancora una volta l'idea di un mondo sottomesso alle leggi
del profitto e dello sfruttamento affaristico dei beni comuni. La Val di
Susa fa paura perché la lotta contro il Tav esprime la possibilità
concreta di un cambiamento reale allo stato di cose presenti:
determinarne il seguito spetta a tutti e tutte noi!
IL TAV E' OVUNQUE, LOTTIAMO OVUNQUE CONTRO IL TAV
TUTTI/E LIBERI/E!
Sabato 3 marzo, ore 15:00, corteo NO TAV, partenza da Piazzale
Tiburtino
Daje Luca, Sempre no Tav, a sarà düra!
Assemblea No Tav di Roma
martedì 28 febbraio 2012
Passera: ma quale dialogo? Tutto deve continuare come previsto
I LAVORI - Nel frattempo non si fermano anche i lavori. La Ltf ha finito nella notte le opere di recinzione del cantiere. In totale l'area da cinque ettari è passata a sette. Mentre la circolazione nelle strade della zona riprende lentamente dopo una notte di blocchi e scontri con la polizia, l'impresa incaricata dei lavori di scavo e bonifica per l'ampliamento del cantiere della Maddalena a Chiomonte per il tunnel geognostico della Tav Torino-Lione.
LE INDAGINI - Continuano intanto le indagini coordinate dai pm Andrea Beconi e Giuseppe Ferrando della Procura di Torino. I compagni di Luca Abbà, interrogati ieri, saranno molto probabilmente denunciati dalla polizia giudiziaria e indagati per aver VIOLATO L'AREA DICHIARATA SITO STRATEGICO NAZIONALE!!!
Dopo il danno la beffa, sarebbero i valsusini che hanno violato la loro terra e non invece le ruspe, la polizia e gli squali che vogliono devastare quel territorio a tutti i costi.
Ma allora se il luogo è "sito strategico nazionale" è giusto che protesti tutta la nazione! E la smettessero di dare dei provocatori a chi lotta per questa causa sacrosanta, anche se vengono dalla Sardegna e da qualunque altro posto.
LE INDAGINI - Continuano intanto le indagini coordinate dai pm Andrea Beconi e Giuseppe Ferrando della Procura di Torino. I compagni di Luca Abbà, interrogati ieri, saranno molto probabilmente denunciati dalla polizia giudiziaria e indagati per aver VIOLATO L'AREA DICHIARATA SITO STRATEGICO NAZIONALE!!!
Dopo il danno la beffa, sarebbero i valsusini che hanno violato la loro terra e non invece le ruspe, la polizia e gli squali che vogliono devastare quel territorio a tutti i costi.
Ma allora se il luogo è "sito strategico nazionale" è giusto che protesti tutta la nazione! E la smettessero di dare dei provocatori a chi lotta per questa causa sacrosanta, anche se vengono dalla Sardegna e da qualunque altro posto.
Val di Susa inquietante provocazione
“addirittura la colpa è dei militoni? Abba che muoia ma dopo tante sofferenze....uno in meno e qui mi firmo ...... cesare da fiorenzuola “
Questo porco, che non sa neanche scrivere (mi scuso con i suini innocenti) ha pure il coraggio di firmarsi. Quanta gentaglia indegna, di questa risma, razzola e inquina con la sua sporca e indecente vita il nostro povero paese? Io non mi auguro che lui muoia tra indicibili sofferenze, mi auguro che la genia canagliesca di cui si vanta di far parte scompaia dalla faccia della terra rendendo il mondo un po' più pulito e vivibile. Il commento indecente l'ho letto sul “Giornale” un fogliaccio così squallido il cui infimo livello non dovrebbe stupirmi, infatti non mi stupisce, mi fa incazzare. Ma non mi fa incazzare di meno la gente del PD che in buona compagnia del Pdl e udc continuano a difendere lo scempio della val di Susa, a insultare un territorio che difende la sua vita e i suoi diritti e una popolazione intera, perchè la val di Susa non è una faccenda locale, ma italiana.
Chi ha interesse a portare avanti un progetto che serve solo a devastare un territorio? Chi ci deve guadagnare, chi deve mangiare ancora la pelle e il sangue della gente?
Stiamo pagando con i nostri pochi soldi e i nostri infiniti sacrifici una crisi che non abbiamo generato noi, i sacrifici è al popolo che vengono richiesti, sacrifici, botte, soprusi, insulti e disperazione, questa la chiamano ancora democrazia.
Crisi o non crisi i soldi per gli scempi e per gli armamenti ci sono sempre, poi siamo sempre noi che paghiamo, anche le pallottole che fra un po' ci spareranno.
Ieri sera sentivo un giornalista di Rai News argomentare che i valsusini dovrebbero lasciar perdere tanto è una battaglia persa, a che serve protestare se si ricevono soltanto botte? E poi c'è il pericolo della strumentalizzazione di gruppi facinorosi che potrebbero trasformare una battaglia nonviolenta in uno scontro violento, i blak blok, gli anarco-insurrezionalisti, gli incappucciati...Ma quante se ne vogliono inventare ancora?
La lotta della val di Susa è nonviolenta e pacifica, ma è la polizia che non lo è. Le buone ragioni della valle hanno una lunga storia di cariche violente, di inseguimenti per i campi, di massacri a un'intera popolazione, vecchi, donne, bambini, con la logica del “dò coglio coglio” da parte di una polizia sempre più violenta più cieca più ottusa. Eseguono gli ordini, ma anche i nazisti eseguivano gli ordini, è una giustificazione? Perfino in Israele ci sono soldati che vedono la bandiera nera e non eseguono ordini illegali, per la nostra polizia invece è tutto legale e conta la legge della giungla, non la forza della ragione, ma la ragione del più forte. Questo è stato chiaro il giorno dopo la grande manifestazione pacifica quando alla stazione di Torino una polizia scatenata ha malmenato la gente e preso a manganellate perfino i finestrini del treno.
Di recente hanno arrestato più di venti persone perchè erano andati a manifestare in val di Susa, che ci sono andati a fare? Non erano val susini, quindi erano provocatori, come se non si avesse il diritto di manifestare né di essere solidali con una situazione che è il simbolo della loro prepotenza, scempi di territori se ne progettano anche altrove, per esempio a Viterbo dove insistono a voler costruire un aeroporto che devasterebbe tutto il territorio, mentre non fanno un accidente di niente per bonificare il lago di Vico e l'acqua piena di arsenico che ci sta avvelenando.
Ci indigniamo giustamente per quello che succede in Palestina dove Israele arresta la gente in detenzione amministrativa e mette in galera ragazzini che tirano un sasso, che ruba terre e campi coltivati per farci passare una strada per i coloni, mentre la comunità internazionale se ne frega, anzi prende esempio e guardate un po', qui vengono arrestati e condannati a 5 anni di prigione ragazzi di 20 anni per aver tirato un sasso a una manifestazione sacrosanta, vengono confiscati pezzi di terra di proprietà privata dei valsusini per allargare un cantiere che distruggerà il loro territorio, ogni anno muore in carcere un numero impressionante di detenuti, spesso giovani che avevano solo bisogno di aiuto, si tengono imprigionati nei CIE immigrati che cercano una via d'uscita, vengono arrestate persone per quisquillie e escono morti dal carcere. Questa però è una democrazia, certo, proprio come” l'unica democrazia del Medio oriente”.
Sempre a rai news un'attrice di sinistra credo, argomentava che però Luca Abba si era messo da solo in una posizione di pericolo, mentre il giornalista si affrettava a spiegare che secondo le informazioni della polizia non ci sarebbe stato contatto tra i poliziotti e Luca. E ci credo! Se ci fosse stato contatto sarebbero schiantati al suolo fulminati anche loro, invece sono discesi sani e salvi dopo aver provocato la sua caduta, perchè è chiaro, Luca non sarebbe precipitato nè sarebbe rimasto folgorato se quei cani da guardia non gli si fossero arrampicati dietro provocando ciò che era più che prevedibile, Ma l'unica cosa che importava loro era imporre la loro volontà a qualsiasi costo e in completo disprezzo per qualsiasi conseguenza. Che cosa c'è di umano in tutto questo? Ma questi sono uomini o automi?
Quanto all'argomentazione dell'attrice: forse lei non è stata attenta e non si è accorta che da più di un anno gli operai continuano a salire sulle gru e sulle torrette restandoci per giorni al freddo e al gelo, che ormai siamo arrivati al punto che solo gesti estremi attirano l'attenzione. Questo è il nostro paese, dove la volontà del popolo non conta niente, dove un governo e uno stato prepotente pronto a spremere la linfa vitale di una popolazione va avanti per la sua strada fino al baratro dove vuole farci precipitare, che ci precipitino loro! Non riusciranno a criminalizzare né a fermare la lotta NO TAV, come hanno dimostrato le manifestazioni in tutt'Italia i valsusini non sono soli.
Questo porco, che non sa neanche scrivere (mi scuso con i suini innocenti) ha pure il coraggio di firmarsi. Quanta gentaglia indegna, di questa risma, razzola e inquina con la sua sporca e indecente vita il nostro povero paese? Io non mi auguro che lui muoia tra indicibili sofferenze, mi auguro che la genia canagliesca di cui si vanta di far parte scompaia dalla faccia della terra rendendo il mondo un po' più pulito e vivibile. Il commento indecente l'ho letto sul “Giornale” un fogliaccio così squallido il cui infimo livello non dovrebbe stupirmi, infatti non mi stupisce, mi fa incazzare. Ma non mi fa incazzare di meno la gente del PD che in buona compagnia del Pdl e udc continuano a difendere lo scempio della val di Susa, a insultare un territorio che difende la sua vita e i suoi diritti e una popolazione intera, perchè la val di Susa non è una faccenda locale, ma italiana.
Chi ha interesse a portare avanti un progetto che serve solo a devastare un territorio? Chi ci deve guadagnare, chi deve mangiare ancora la pelle e il sangue della gente?
Stiamo pagando con i nostri pochi soldi e i nostri infiniti sacrifici una crisi che non abbiamo generato noi, i sacrifici è al popolo che vengono richiesti, sacrifici, botte, soprusi, insulti e disperazione, questa la chiamano ancora democrazia.
Crisi o non crisi i soldi per gli scempi e per gli armamenti ci sono sempre, poi siamo sempre noi che paghiamo, anche le pallottole che fra un po' ci spareranno.
Ieri sera sentivo un giornalista di Rai News argomentare che i valsusini dovrebbero lasciar perdere tanto è una battaglia persa, a che serve protestare se si ricevono soltanto botte? E poi c'è il pericolo della strumentalizzazione di gruppi facinorosi che potrebbero trasformare una battaglia nonviolenta in uno scontro violento, i blak blok, gli anarco-insurrezionalisti, gli incappucciati...Ma quante se ne vogliono inventare ancora?
La lotta della val di Susa è nonviolenta e pacifica, ma è la polizia che non lo è. Le buone ragioni della valle hanno una lunga storia di cariche violente, di inseguimenti per i campi, di massacri a un'intera popolazione, vecchi, donne, bambini, con la logica del “dò coglio coglio” da parte di una polizia sempre più violenta più cieca più ottusa. Eseguono gli ordini, ma anche i nazisti eseguivano gli ordini, è una giustificazione? Perfino in Israele ci sono soldati che vedono la bandiera nera e non eseguono ordini illegali, per la nostra polizia invece è tutto legale e conta la legge della giungla, non la forza della ragione, ma la ragione del più forte. Questo è stato chiaro il giorno dopo la grande manifestazione pacifica quando alla stazione di Torino una polizia scatenata ha malmenato la gente e preso a manganellate perfino i finestrini del treno.
Di recente hanno arrestato più di venti persone perchè erano andati a manifestare in val di Susa, che ci sono andati a fare? Non erano val susini, quindi erano provocatori, come se non si avesse il diritto di manifestare né di essere solidali con una situazione che è il simbolo della loro prepotenza, scempi di territori se ne progettano anche altrove, per esempio a Viterbo dove insistono a voler costruire un aeroporto che devasterebbe tutto il territorio, mentre non fanno un accidente di niente per bonificare il lago di Vico e l'acqua piena di arsenico che ci sta avvelenando.
Ci indigniamo giustamente per quello che succede in Palestina dove Israele arresta la gente in detenzione amministrativa e mette in galera ragazzini che tirano un sasso, che ruba terre e campi coltivati per farci passare una strada per i coloni, mentre la comunità internazionale se ne frega, anzi prende esempio e guardate un po', qui vengono arrestati e condannati a 5 anni di prigione ragazzi di 20 anni per aver tirato un sasso a una manifestazione sacrosanta, vengono confiscati pezzi di terra di proprietà privata dei valsusini per allargare un cantiere che distruggerà il loro territorio, ogni anno muore in carcere un numero impressionante di detenuti, spesso giovani che avevano solo bisogno di aiuto, si tengono imprigionati nei CIE immigrati che cercano una via d'uscita, vengono arrestate persone per quisquillie e escono morti dal carcere. Questa però è una democrazia, certo, proprio come” l'unica democrazia del Medio oriente”.
Sempre a rai news un'attrice di sinistra credo, argomentava che però Luca Abba si era messo da solo in una posizione di pericolo, mentre il giornalista si affrettava a spiegare che secondo le informazioni della polizia non ci sarebbe stato contatto tra i poliziotti e Luca. E ci credo! Se ci fosse stato contatto sarebbero schiantati al suolo fulminati anche loro, invece sono discesi sani e salvi dopo aver provocato la sua caduta, perchè è chiaro, Luca non sarebbe precipitato nè sarebbe rimasto folgorato se quei cani da guardia non gli si fossero arrampicati dietro provocando ciò che era più che prevedibile, Ma l'unica cosa che importava loro era imporre la loro volontà a qualsiasi costo e in completo disprezzo per qualsiasi conseguenza. Che cosa c'è di umano in tutto questo? Ma questi sono uomini o automi?
Quanto all'argomentazione dell'attrice: forse lei non è stata attenta e non si è accorta che da più di un anno gli operai continuano a salire sulle gru e sulle torrette restandoci per giorni al freddo e al gelo, che ormai siamo arrivati al punto che solo gesti estremi attirano l'attenzione. Questo è il nostro paese, dove la volontà del popolo non conta niente, dove un governo e uno stato prepotente pronto a spremere la linfa vitale di una popolazione va avanti per la sua strada fino al baratro dove vuole farci precipitare, che ci precipitino loro! Non riusciranno a criminalizzare né a fermare la lotta NO TAV, come hanno dimostrato le manifestazioni in tutt'Italia i valsusini non sono soli.
lunedì 27 febbraio 2012
PALESTINA, IL LAVORO NELLE COLONIE
Testimonianze dirette dello sfruttamento della manodopera palestinese all'interno degli insediamenti israeliani. Nena News è entrata nella colonia di Tomer nella Valle del Giordano e ha raccolto sconvolgenti storie di lavoratori.
MARTA FORTUNATO
Al-Jiftlik (Valle del Giordano), 27 febbraio 2012, Nena News – E’ ancora notte in Cisgiordania quando i primi bus carichi di lavoratori palestinesi lasciano le città settentrionali di Nablus e Jenin per dirigersi verso la Valle del Giordano. Pulmini da dieci posti straripanti di palestinesi stipati uno sull’altro. Una, a volte due ore di viaggio, per recarsi al proprio luogo di lavoro: tanti chilometri da percorrere ed un check-point da attraversare.
Siamo nella colonia di Tomer, a nord di Gerico, a destra della by-pass road 90 che collega Gerusalemme a Tiberiade. Passando veloci in automobile qualcuno potrebbe non rendersi conto che le enormi serre e le infinite distese di coltivazioni sono le terre agricole della piccola colonia che sorge dall’altro lato della strada. Piccole casette col tetto spiovente, una popolazione di nemmeno 300 persone ma un’area coltivabile pari a 366 dunums (1 dunum equivale a 1000 metri quadrati). Tutte terre rubate nel corso degli anni alle comunità palestinesi della Valle del Giordano, a partire dal 1978, anno di creazione dell’insediamento di Tomer.
Sono le 6 del mattino, il sole è appena sorto e i lavoratori palestinesi scendono dagli autobus e si avviano a piedi verso i campi. C’è chi ha un secchio in mano, chi è alla guida del proprio macchinario, e chi rincorre uno dei numerosi trattori di passaggio, prende lo slancio e si siede sul rimorchio. In pochi minuti arrivano nei campi: un’altra giornata di lavoro è iniziata.
Pochi vogliono parlare o farsi fotografare, temono la reazione del loro “capo”, hanno paura di essere mandati via e licenziati. “E’ vietato fotografare qui dentro” affermano in molti – “i nostri boss non vogliono che si sappia come vengono trattati i lavoratori”.
“Lavoriamo dalle 6 alle 14, tutti i giorni fuorché venerdì e sabato” ha racconta Mohammed* a Nena News – per 8 ore di lavoro guadagniamo 70 shekel (equivalenti a 14 euro). In un mese non raggiungiamo i 1500 shekel (300 euro)”. E Mohammad è tra i “fortunati” poiché abita nel vicino villaggio di Fasayil e non deve sostenere alcun costo per i trasporti.
Diversa l’esperienza di Amir*: “Vivo a Jenin, tutti i giorni mi alzo alle 4 per venire qui, un viaggio che dura più di un’ora e che mi costa 20 shekel. Quindi di fatto alla fine della giornata guadagno 50 shekel, ho una famiglia da mantenere, una moglie e quattro figli piccoli. Senza aiuti esterni non riesco ad arrivare alla fine del mese”.
“Non solo (gli israeliani) ci hanno rubano le terre” ha continuato Mohammad – ma ci hanno anche costretto a lavorare per loro. Passo le giornata a raccogliere e ad innaffiare le coltivazioni di peperoni e di pomodori. Nel mio villaggio non ho nemmeno l’acqua corrente e sono costretto a comprare i tank da Israele”. Mohammad, come tanti altri, un tempo era un contadino e lavorava la terra che aveva ereditato dal padre. Tuttavia con la costruzione e l’espansione delle colonie e con l’inasprirsi delle politiche israeliane di confisca della terra e delle risorse idriche, i campi agricoli si sono pian piano trasformati in un deserto arido e secco costringendo gli abitanti di molte comunità palestinesi della Valle del Giordano a trovare un’altra fonte di sostentamento. E molto spesso l’esperta forza lavoro palestinese è stata assorbita dalle colonie israeliane. “Il 60% della popolazione di Fasayil lavora all’interno degli insediamenti israeliani” ha raccontato Bassam mentre è alla guida di un trattore in mezzo ad un campo di pomodori – Io lavoro qui da quando avevo 20 anni, ora mi aiutano anche 4 dei miei figli”. Nessuna distinzione di sesso od età. “Ci sono ragazzini di 12 anni che lavorano qui dentro con noi” ha continuato Bassam – lasciano la scuola perché le loro famiglie hanno bisogno di soldi”. E tra le lunghe file di piantagioni di pomodori si intravedono anche molte donne, chine e silenziose, dedite al loro lavoro. “Vengono soprattutto dalle città, da Nablus, Jenin, Tubas o Jericho” ha concluso Bassam.
Nessuno conosce con precisione il numero di lavoratori all’interno di Tomer. Ci sono sia palestinesi che thailandesi, ma come ha spiegato Amir “gli israeliani preferiscono i palestinesi perchè hanno una maggiore esperienza nell’agricoltura e perchè ai thailandesi devono dare anche vitto ed alloggio”.
Oltre all’enorme area agricola, l’insediamento di Tomer ha anche un’area per l’imballaggio dei prodotti. I carciofi, le banane, i datteri, i pomodori ed i peperoni di questa colonia vengono impacchettati ed esportati all’estero. E sono gli stessi prodotti che poi ritroviamo ogni giorno sugli scaffali di molti supermercati europei ed italiani. Nena News
MARTA FORTUNATO
Al-Jiftlik (Valle del Giordano), 27 febbraio 2012, Nena News – E’ ancora notte in Cisgiordania quando i primi bus carichi di lavoratori palestinesi lasciano le città settentrionali di Nablus e Jenin per dirigersi verso la Valle del Giordano. Pulmini da dieci posti straripanti di palestinesi stipati uno sull’altro. Una, a volte due ore di viaggio, per recarsi al proprio luogo di lavoro: tanti chilometri da percorrere ed un check-point da attraversare.
Siamo nella colonia di Tomer, a nord di Gerico, a destra della by-pass road 90 che collega Gerusalemme a Tiberiade. Passando veloci in automobile qualcuno potrebbe non rendersi conto che le enormi serre e le infinite distese di coltivazioni sono le terre agricole della piccola colonia che sorge dall’altro lato della strada. Piccole casette col tetto spiovente, una popolazione di nemmeno 300 persone ma un’area coltivabile pari a 366 dunums (1 dunum equivale a 1000 metri quadrati). Tutte terre rubate nel corso degli anni alle comunità palestinesi della Valle del Giordano, a partire dal 1978, anno di creazione dell’insediamento di Tomer.
Sono le 6 del mattino, il sole è appena sorto e i lavoratori palestinesi scendono dagli autobus e si avviano a piedi verso i campi. C’è chi ha un secchio in mano, chi è alla guida del proprio macchinario, e chi rincorre uno dei numerosi trattori di passaggio, prende lo slancio e si siede sul rimorchio. In pochi minuti arrivano nei campi: un’altra giornata di lavoro è iniziata.
Pochi vogliono parlare o farsi fotografare, temono la reazione del loro “capo”, hanno paura di essere mandati via e licenziati. “E’ vietato fotografare qui dentro” affermano in molti – “i nostri boss non vogliono che si sappia come vengono trattati i lavoratori”.
“Lavoriamo dalle 6 alle 14, tutti i giorni fuorché venerdì e sabato” ha racconta Mohammed* a Nena News – per 8 ore di lavoro guadagniamo 70 shekel (equivalenti a 14 euro). In un mese non raggiungiamo i 1500 shekel (300 euro)”. E Mohammad è tra i “fortunati” poiché abita nel vicino villaggio di Fasayil e non deve sostenere alcun costo per i trasporti.
Diversa l’esperienza di Amir*: “Vivo a Jenin, tutti i giorni mi alzo alle 4 per venire qui, un viaggio che dura più di un’ora e che mi costa 20 shekel. Quindi di fatto alla fine della giornata guadagno 50 shekel, ho una famiglia da mantenere, una moglie e quattro figli piccoli. Senza aiuti esterni non riesco ad arrivare alla fine del mese”.
“Non solo (gli israeliani) ci hanno rubano le terre” ha continuato Mohammad – ma ci hanno anche costretto a lavorare per loro. Passo le giornata a raccogliere e ad innaffiare le coltivazioni di peperoni e di pomodori. Nel mio villaggio non ho nemmeno l’acqua corrente e sono costretto a comprare i tank da Israele”. Mohammad, come tanti altri, un tempo era un contadino e lavorava la terra che aveva ereditato dal padre. Tuttavia con la costruzione e l’espansione delle colonie e con l’inasprirsi delle politiche israeliane di confisca della terra e delle risorse idriche, i campi agricoli si sono pian piano trasformati in un deserto arido e secco costringendo gli abitanti di molte comunità palestinesi della Valle del Giordano a trovare un’altra fonte di sostentamento. E molto spesso l’esperta forza lavoro palestinese è stata assorbita dalle colonie israeliane. “Il 60% della popolazione di Fasayil lavora all’interno degli insediamenti israeliani” ha raccontato Bassam mentre è alla guida di un trattore in mezzo ad un campo di pomodori – Io lavoro qui da quando avevo 20 anni, ora mi aiutano anche 4 dei miei figli”. Nessuna distinzione di sesso od età. “Ci sono ragazzini di 12 anni che lavorano qui dentro con noi” ha continuato Bassam – lasciano la scuola perché le loro famiglie hanno bisogno di soldi”. E tra le lunghe file di piantagioni di pomodori si intravedono anche molte donne, chine e silenziose, dedite al loro lavoro. “Vengono soprattutto dalle città, da Nablus, Jenin, Tubas o Jericho” ha concluso Bassam.
Nessuno conosce con precisione il numero di lavoratori all’interno di Tomer. Ci sono sia palestinesi che thailandesi, ma come ha spiegato Amir “gli israeliani preferiscono i palestinesi perchè hanno una maggiore esperienza nell’agricoltura e perchè ai thailandesi devono dare anche vitto ed alloggio”.
Oltre all’enorme area agricola, l’insediamento di Tomer ha anche un’area per l’imballaggio dei prodotti. I carciofi, le banane, i datteri, i pomodori ed i peperoni di questa colonia vengono impacchettati ed esportati all’estero. E sono gli stessi prodotti che poi ritroviamo ogni giorno sugli scaffali di molti supermercati europei ed italiani. Nena News
sabato 25 febbraio 2012
GIOVANE PALESTINESE UCCISO ALLE PORTE DI GERUSALEMME, TENSIONE A HEBRON
GIOVANE PALESTINESE UCCISO ALLE PORTE DI GERUSALEMME, TENSIONE A HEBRON
Talat Ramia, 25 anni, e' stato colpito in pieno petto da un colpo esploso dai soldati israeliani a Qalandia, tra Ramallah e Gerusalemme. Ieri a Hebron mano pesante dell'esercito contro dimostranti
MICHELE GIORGIO
Gerusalemme, 25 feb 2012, Nena News (nella foto di Maannews, il vano tentativo di salvare Talat Ramia) – Un giovane ucciso a Kalandia. Le due città sante della Palestina in fiamme. I territori palestinesi e l’occupazione israeoliana tornano in primo piano. Talat Ramia, 25 anni, colpito ieri in pieno petto da un proiettile sparato dai soldati al valico di Kalandia, tra Ramallah e Gerusalemme, si è spento in ospedale. I medici hanno fatto il possibile per rianimarlo ma non sono riusciti a salvarlo. Scontri seguiti a quelli violenti, con 35 palestinesi (e alcuni poliziotti israeliani) feriti, divampati sulla spianata della moschea di al Aqsa a Gerusalemme al termine della preghiera islamica. A Hebron, la città dei Patriarchi, soldati e guardie di frontiera hanno disperso con una pioggia di lacrimogeni e granate assordanti, due cortei organizzati in occasione della giornata di lotta per la riapertura di Shuhada street, la più importante via di comunicazione all’interno della città vecchia di Hebron, chiusa dall’esercito israeliano nel 2000.
Causa dell’impennata di tensione a Gerusalemme, sono i ripetuti proclami dell’ala più estrema del Likud, il partito del premier israeliano Netanyahu, e della destra ultranazionalista sull’imminenza di «perlustrazioni» nel recinto di al Aqsa e della moschea della Roccia, in vista della ricostruzione del tempio ebraico in quel sito. Proclami, perlustrazioni e «passeggiate» della destra non sono una novità nella storia recente della Spianata di al Aqsa. E le conseguenze di queste provocazioni sono state sempre gravi. Nel 1990 l’annuncio da parte di Gershon Solomon, leader dei “Fedeli del Monte del Tempio”, della posa della prima pietra del nuovo Tempio, provocò proteste che la polizia spense nel sangue: una ventina i palestinesi uccisi. Nel settembre 2000 la «passeggiata» tra le due moschee dell’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon, all’epoca capo dell’opposizione, con il suo drammatico bilancio di morti e feriti, innescò la seconda Intifada palestinese. Ora un dirigente del Likud, Moshe Feiglin, una icona del movimento dei coloni, chiede che Israele prenda il pieno controllo della spianata di al Aqsa amministrata dal Waqf islamico.
A Hebron, città della Tomba dei Patriarchi/Moschea di Ibrahim, divisa in due parti, H1 e H2, dagli accordi firmati da Netanyahu e l’ex presidente palestinese Yasser Arafat, il clima è sempre più irrespirabile. In particolare nella zona H2, dove 500-600 coloni israeliani ultranazionalisti si sono insediati tra oltre 20mila abitanti palestinesi. Poche centinaia di persone che, protette dalle forze armate, impongono la loro volontà ai vicini palestinesi. L’impossibilità di condurre una vita normale ha indotto molti residenti arabi ad andare via, gli altri vivono nascosti. Una condizione ben rappresentata dalla casbah semideserta e soprattutto da via Shuhada. Un tempo questa era un’arteria cittadina piena di vita, di negozi e di botteghe artigiane. Ospitava la stazione dei bus e quella dei taxi, il mercato della frutta e un antico bagno turco. Ora non c’è quasi più nulla. Resistono solo le scuole. A chiedere la chiusura di via Shuhada sono stati «per ragioni di sicurezza» i coloni che vivono nei sei insediamenti vicini alla strada.
Nel 2010 i comitati popolari di Hebron, in accordo con gruppi di solidarietà internazionali e israeliani, hanno proclamato il 25 febbraio – 18esimo anniversario del massacro di 30 palestinesi nella Tomba dei Patriarchi da parte del colono Baruch Goldstein – giornata di lotta per la riapertura di Shuhada Street e per il libero movimento dei palestinesi ad Hebron. E in città nell’ultima settimana si sono tenute iniziative e dibattiti. Due cortei, con centinaia di attivisti giunti anche dall’estero e da Israele, ieri hanno provato a raggiungere via Shuhada per chiederne la riapertura. Ad accoglierli però hanno trovato i reparti antisommossa della guardia di frontiera e soldati che hanno lanciato decine di granate assordati e candelotti lacrimogeni e non hanno mancato di spruzzare con acqua dall’odore nauseabondo i manifestanti. Ad un certo punto un altoparlante dell’esercito ha persino annunciato, in lingua inglese, il tipo di armi «non letali» che sarebbero state usate per disperdere la manifestazione. Una decina di attivisti sono rimasti feriti in modo leggero. Altri sono stati portati via dalle ambulanze. Nena News
Talat Ramia, 25 anni, e' stato colpito in pieno petto da un colpo esploso dai soldati israeliani a Qalandia, tra Ramallah e Gerusalemme. Ieri a Hebron mano pesante dell'esercito contro dimostranti
MICHELE GIORGIO
Gerusalemme, 25 feb 2012, Nena News (nella foto di Maannews, il vano tentativo di salvare Talat Ramia) – Un giovane ucciso a Kalandia. Le due città sante della Palestina in fiamme. I territori palestinesi e l’occupazione israeoliana tornano in primo piano. Talat Ramia, 25 anni, colpito ieri in pieno petto da un proiettile sparato dai soldati al valico di Kalandia, tra Ramallah e Gerusalemme, si è spento in ospedale. I medici hanno fatto il possibile per rianimarlo ma non sono riusciti a salvarlo. Scontri seguiti a quelli violenti, con 35 palestinesi (e alcuni poliziotti israeliani) feriti, divampati sulla spianata della moschea di al Aqsa a Gerusalemme al termine della preghiera islamica. A Hebron, la città dei Patriarchi, soldati e guardie di frontiera hanno disperso con una pioggia di lacrimogeni e granate assordanti, due cortei organizzati in occasione della giornata di lotta per la riapertura di Shuhada street, la più importante via di comunicazione all’interno della città vecchia di Hebron, chiusa dall’esercito israeliano nel 2000.
Causa dell’impennata di tensione a Gerusalemme, sono i ripetuti proclami dell’ala più estrema del Likud, il partito del premier israeliano Netanyahu, e della destra ultranazionalista sull’imminenza di «perlustrazioni» nel recinto di al Aqsa e della moschea della Roccia, in vista della ricostruzione del tempio ebraico in quel sito. Proclami, perlustrazioni e «passeggiate» della destra non sono una novità nella storia recente della Spianata di al Aqsa. E le conseguenze di queste provocazioni sono state sempre gravi. Nel 1990 l’annuncio da parte di Gershon Solomon, leader dei “Fedeli del Monte del Tempio”, della posa della prima pietra del nuovo Tempio, provocò proteste che la polizia spense nel sangue: una ventina i palestinesi uccisi. Nel settembre 2000 la «passeggiata» tra le due moschee dell’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon, all’epoca capo dell’opposizione, con il suo drammatico bilancio di morti e feriti, innescò la seconda Intifada palestinese. Ora un dirigente del Likud, Moshe Feiglin, una icona del movimento dei coloni, chiede che Israele prenda il pieno controllo della spianata di al Aqsa amministrata dal Waqf islamico.
A Hebron, città della Tomba dei Patriarchi/Moschea di Ibrahim, divisa in due parti, H1 e H2, dagli accordi firmati da Netanyahu e l’ex presidente palestinese Yasser Arafat, il clima è sempre più irrespirabile. In particolare nella zona H2, dove 500-600 coloni israeliani ultranazionalisti si sono insediati tra oltre 20mila abitanti palestinesi. Poche centinaia di persone che, protette dalle forze armate, impongono la loro volontà ai vicini palestinesi. L’impossibilità di condurre una vita normale ha indotto molti residenti arabi ad andare via, gli altri vivono nascosti. Una condizione ben rappresentata dalla casbah semideserta e soprattutto da via Shuhada. Un tempo questa era un’arteria cittadina piena di vita, di negozi e di botteghe artigiane. Ospitava la stazione dei bus e quella dei taxi, il mercato della frutta e un antico bagno turco. Ora non c’è quasi più nulla. Resistono solo le scuole. A chiedere la chiusura di via Shuhada sono stati «per ragioni di sicurezza» i coloni che vivono nei sei insediamenti vicini alla strada.
Nel 2010 i comitati popolari di Hebron, in accordo con gruppi di solidarietà internazionali e israeliani, hanno proclamato il 25 febbraio – 18esimo anniversario del massacro di 30 palestinesi nella Tomba dei Patriarchi da parte del colono Baruch Goldstein – giornata di lotta per la riapertura di Shuhada Street e per il libero movimento dei palestinesi ad Hebron. E in città nell’ultima settimana si sono tenute iniziative e dibattiti. Due cortei, con centinaia di attivisti giunti anche dall’estero e da Israele, ieri hanno provato a raggiungere via Shuhada per chiederne la riapertura. Ad accoglierli però hanno trovato i reparti antisommossa della guardia di frontiera e soldati che hanno lanciato decine di granate assordati e candelotti lacrimogeni e non hanno mancato di spruzzare con acqua dall’odore nauseabondo i manifestanti. Ad un certo punto un altoparlante dell’esercito ha persino annunciato, in lingua inglese, il tipo di armi «non letali» che sarebbero state usate per disperdere la manifestazione. Una decina di attivisti sono rimasti feriti in modo leggero. Altri sono stati portati via dalle ambulanze. Nena News
venerdì 24 febbraio 2012
Palestina, Khader Adnan: "Questa lunga notte di tirannia e disumanità dovrà finire
Palestina, Khader Adnan: "Questa lunga notte di tirannia e disumanità dovrà finire"
Randa Musa, moglie di Khader Adnan, scrive una lettera aperta al Guardian per spiegare le ragioni del lungo sciopero della fame del marito. E per ringraziare quanti nel mondo hanno sostenuto la sua battaglia.
di Randa Musa - traduzione a cura di Cecilia Dalla Negra*
Il nome di mio marito, Khadar Adnan, è diventato noto in tutto il mondo. Quattro mesi fa era sconosciuto al di fuori della nostra terra, la Palestina. Il suo sciopero della fame lungo 66 giorni lo ha trasformato in una figura globale e in un simbolo della lotta del mio popolo.
La nostra vita è cambiata quando, il 17 dicembre 2011, truppe israeliane hanno fatto un raid nella nostra casa nel villaggio di Arabya, a sud di Jenin, nella Cisgiordania occupata.
Erano circa le 3 del mattino quando hanno buttato giù la porta e hanno fatto irruzione in casa. La devastazione che hanno causato resterà impressa per sempre nella mente delle nostre due figlie. Ma’ali ha 4 anni, Baysan solo un anno e mezzo.
Non sarei sorpresa se ne risentisse anche il bambino che porto in grembo, non ancora nato. È questo il trauma che portano con sé i raid israeliani.
Khadar è stato uno studente e un attivista per molti anni. Non è una figura oscura, ma un leader locale contro l’occupazione israeliana. È molto conosciuto sia dalle autorità dell’occupazione sia dall’Autorità Palestinese a Ramallah. Entrambi lo hanno arrestato diverse volte senza accuse.
Queste continue vessazioni hanno rallentato Khadar nel completamento della sua laurea in Economia.
Ma noi siamo rimasti una coppia normale, con il desiderio di dare la stabilità necessaria e la libertà di crescere ai nostri figli; di dare loro la felicità che spetta ad ogni bambino.
Con la mia laurea, non ho mai avuto dubbi che come genitori saremmo stati in grado di realizzare le nostre ambizioni. Ma la vita sotto l’occupazione militare ha trasformato i nostri sogni in incubi.
Non è la prima volta che Khadar utilizza lo strumento dello sciopero della fame: questa potente forma di protesta pacifica che ha ottimi effetti. Quando l’Autorità Palestinese lo ha arrestato nel 2010 è stato in sciopero della fame per 12 giorni consecutivi, costringendo le autorità di Ramallah a rilasciarlo.
Allo stesso modo, ha condotto diversi scioperi della fame nei campi di detenzione dell’occupazione. L’ultimo è stato condotto nel 2005, e gli ha causato una condanna a 9 giorni di isolamento.
Cosa porta mio marito a perseguire questa difficile e pericolosa forma di resistenza? Non ho dubbi che sia la natura ingiusta della “detenzione amministrativa” e i famosi metodi di tortura e umiliazione israeliani.
Dal momento in cui è stato messo a bordo di quel veicolo militare, a dicembre, gli sono stati rivolti insulti e minacce. Hanno anche cercato di indebolirlo psicologicamente, accusandomi di essergli stata infedele, un’accusa viziosa che ha respinto con disprezzo.
Conosco molto bene mio marito: lo amo, e gli resterò per sempre fedele. Lui lo sa, ed è per questo che ha respinto le insinuazioni gratuite dei suoi aguzzini.
Khadar non è mai stato motivato da ferite o disagi personali. Lui, come migliaia di altri giovani palestinesi, è determinato a vedere la fine dell’occupazione. È mosso da una logica più grande: mostrare al mondo le condizioni dei prigionieri palestinesi.
Dal 1967, oltre 650 mila palestinesi hanno vissuto l’esperienza delle carceri israeliane, molti di loro in detenzione amministrativa: una media di una persona su quattro nei Territori Occupati.
La detenzione amministrativa è una misura nebulosa e vendicativa utilizzata dal sistema di occupazione contro i nostri giovani, uomini e donne. È una delle crudeli eredità che ci ha lasciato il Mandato Britannico sulla Palestina.
Oggi, in assenza di ogni deterrente o condanna da parte della Comunità Internazionale, Israele usa questa formula con frequenza sempre maggiore, contro studenti universitari, giovani professionisti e anche parlamentari regolarmente eletti. Circa 300 di loro sono ancora detenuti.
È solo una faccia della politica immorale utilizzata da Israele per mantenere i palestinesi in uno stato di povertà costante e sottosviluppo.
Quando un comandante militare rilascia un ordine di detenzione amministrativa, non sono prodotte prove. Non sono formulate accuse specifiche contro le vittime, e l’Occupazione non ha l’obbligo di dare una motivazione per l’arresto.
Non si tratta affatto di un meccanismo giuridico: è semplicemente una misura arbitraria e draconiana usata per colpire fisicamente e psicologicamente le sue vittime. Quando sono abbastanza fortunate da essere condotte davanti a un giudice, egli può decidere di detenerli per un periodo che da sei mesi può essere esteso indefinitamente. La questione dei prigionieri è talmente centrale oggi per i palestinesi, che hanno dovuto creare per questo uno speciale ministero.
So che mio marito non è un egoista. Ecco perché l’ho sostenuto in ogni passo sulla sua strada. E come ogni moglie devota, ho il dovere di aiutarlo a sopportare il peso del nostro popolo oppresso. I nostri parenti ci hanno sostenuti con uguale vigore.
Inoltre, non credo di mentire se sostengo che tutti i palestinesi nel mondo, di tutti gli schieramenti politici, insieme a milioni di amanti della libertà nel mondo sono stati anch’essi dalla nostra parte.
L’occupazione ha deciso, sotto pressione, di liberare mio marito in aprile, ma centinaia ancora continuano a soffrire in celle sporche, sotto lo stesso sistema illegale e disumano.
Khadar, ad ogni modo, ha consegnato il suo messaggio: che questa lunga notte di tirannia e disumanità dovrà finire.
Sappiamo bene che gli israeliani tenteranno di rinnegare l’accordo di questa settimana – così come hanno fatto nel recente scambio di prigionieri – ri-arrestando i prigionieri liberati. Ma per ogni caso ci sarà una risposta, e sono sicura che mio marito non esiterà a riprendere la sua lotta con ancora maggiore forza e determinazione.
Per me, la parte più difficile di questo calvario è stata la consapevolezza che in ogni momento avrei potuto ricevere una telefonata, che mi avrebbe annunciato la morte di mio marito.
Ma questo è il prezzo da pagare per la nostra libertà. Questo è il sacrificio necessario affinché i nostri figli possano un giorno godere di una vita libera e dignitosa.
Al mondo libero, ai milioni che hanno ascoltato Khadar e lo hanno sostenuto chiedendone il rilascio, mando i miei ringraziamenti di cuore e il mio apprezzamento.
23 febbraio 2012
* Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano The Guardian
Randa Musa, moglie di Khader Adnan, scrive una lettera aperta al Guardian per spiegare le ragioni del lungo sciopero della fame del marito. E per ringraziare quanti nel mondo hanno sostenuto la sua battaglia.
di Randa Musa - traduzione a cura di Cecilia Dalla Negra*
Il nome di mio marito, Khadar Adnan, è diventato noto in tutto il mondo. Quattro mesi fa era sconosciuto al di fuori della nostra terra, la Palestina. Il suo sciopero della fame lungo 66 giorni lo ha trasformato in una figura globale e in un simbolo della lotta del mio popolo.
La nostra vita è cambiata quando, il 17 dicembre 2011, truppe israeliane hanno fatto un raid nella nostra casa nel villaggio di Arabya, a sud di Jenin, nella Cisgiordania occupata.
Erano circa le 3 del mattino quando hanno buttato giù la porta e hanno fatto irruzione in casa. La devastazione che hanno causato resterà impressa per sempre nella mente delle nostre due figlie. Ma’ali ha 4 anni, Baysan solo un anno e mezzo.
Non sarei sorpresa se ne risentisse anche il bambino che porto in grembo, non ancora nato. È questo il trauma che portano con sé i raid israeliani.
Khadar è stato uno studente e un attivista per molti anni. Non è una figura oscura, ma un leader locale contro l’occupazione israeliana. È molto conosciuto sia dalle autorità dell’occupazione sia dall’Autorità Palestinese a Ramallah. Entrambi lo hanno arrestato diverse volte senza accuse.
Queste continue vessazioni hanno rallentato Khadar nel completamento della sua laurea in Economia.
Ma noi siamo rimasti una coppia normale, con il desiderio di dare la stabilità necessaria e la libertà di crescere ai nostri figli; di dare loro la felicità che spetta ad ogni bambino.
Con la mia laurea, non ho mai avuto dubbi che come genitori saremmo stati in grado di realizzare le nostre ambizioni. Ma la vita sotto l’occupazione militare ha trasformato i nostri sogni in incubi.
Non è la prima volta che Khadar utilizza lo strumento dello sciopero della fame: questa potente forma di protesta pacifica che ha ottimi effetti. Quando l’Autorità Palestinese lo ha arrestato nel 2010 è stato in sciopero della fame per 12 giorni consecutivi, costringendo le autorità di Ramallah a rilasciarlo.
Allo stesso modo, ha condotto diversi scioperi della fame nei campi di detenzione dell’occupazione. L’ultimo è stato condotto nel 2005, e gli ha causato una condanna a 9 giorni di isolamento.
Cosa porta mio marito a perseguire questa difficile e pericolosa forma di resistenza? Non ho dubbi che sia la natura ingiusta della “detenzione amministrativa” e i famosi metodi di tortura e umiliazione israeliani.
Dal momento in cui è stato messo a bordo di quel veicolo militare, a dicembre, gli sono stati rivolti insulti e minacce. Hanno anche cercato di indebolirlo psicologicamente, accusandomi di essergli stata infedele, un’accusa viziosa che ha respinto con disprezzo.
Conosco molto bene mio marito: lo amo, e gli resterò per sempre fedele. Lui lo sa, ed è per questo che ha respinto le insinuazioni gratuite dei suoi aguzzini.
Khadar non è mai stato motivato da ferite o disagi personali. Lui, come migliaia di altri giovani palestinesi, è determinato a vedere la fine dell’occupazione. È mosso da una logica più grande: mostrare al mondo le condizioni dei prigionieri palestinesi.
Dal 1967, oltre 650 mila palestinesi hanno vissuto l’esperienza delle carceri israeliane, molti di loro in detenzione amministrativa: una media di una persona su quattro nei Territori Occupati.
La detenzione amministrativa è una misura nebulosa e vendicativa utilizzata dal sistema di occupazione contro i nostri giovani, uomini e donne. È una delle crudeli eredità che ci ha lasciato il Mandato Britannico sulla Palestina.
Oggi, in assenza di ogni deterrente o condanna da parte della Comunità Internazionale, Israele usa questa formula con frequenza sempre maggiore, contro studenti universitari, giovani professionisti e anche parlamentari regolarmente eletti. Circa 300 di loro sono ancora detenuti.
È solo una faccia della politica immorale utilizzata da Israele per mantenere i palestinesi in uno stato di povertà costante e sottosviluppo.
Quando un comandante militare rilascia un ordine di detenzione amministrativa, non sono prodotte prove. Non sono formulate accuse specifiche contro le vittime, e l’Occupazione non ha l’obbligo di dare una motivazione per l’arresto.
Non si tratta affatto di un meccanismo giuridico: è semplicemente una misura arbitraria e draconiana usata per colpire fisicamente e psicologicamente le sue vittime. Quando sono abbastanza fortunate da essere condotte davanti a un giudice, egli può decidere di detenerli per un periodo che da sei mesi può essere esteso indefinitamente. La questione dei prigionieri è talmente centrale oggi per i palestinesi, che hanno dovuto creare per questo uno speciale ministero.
So che mio marito non è un egoista. Ecco perché l’ho sostenuto in ogni passo sulla sua strada. E come ogni moglie devota, ho il dovere di aiutarlo a sopportare il peso del nostro popolo oppresso. I nostri parenti ci hanno sostenuti con uguale vigore.
Inoltre, non credo di mentire se sostengo che tutti i palestinesi nel mondo, di tutti gli schieramenti politici, insieme a milioni di amanti della libertà nel mondo sono stati anch’essi dalla nostra parte.
L’occupazione ha deciso, sotto pressione, di liberare mio marito in aprile, ma centinaia ancora continuano a soffrire in celle sporche, sotto lo stesso sistema illegale e disumano.
Khadar, ad ogni modo, ha consegnato il suo messaggio: che questa lunga notte di tirannia e disumanità dovrà finire.
Sappiamo bene che gli israeliani tenteranno di rinnegare l’accordo di questa settimana – così come hanno fatto nel recente scambio di prigionieri – ri-arrestando i prigionieri liberati. Ma per ogni caso ci sarà una risposta, e sono sicura che mio marito non esiterà a riprendere la sua lotta con ancora maggiore forza e determinazione.
Per me, la parte più difficile di questo calvario è stata la consapevolezza che in ogni momento avrei potuto ricevere una telefonata, che mi avrebbe annunciato la morte di mio marito.
Ma questo è il prezzo da pagare per la nostra libertà. Questo è il sacrificio necessario affinché i nostri figli possano un giorno godere di una vita libera e dignitosa.
Al mondo libero, ai milioni che hanno ascoltato Khadar e lo hanno sostenuto chiedendone il rilascio, mando i miei ringraziamenti di cuore e il mio apprezzamento.
23 febbraio 2012
* Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano The Guardian
AL DIAVOLO L'EUROPA! LA GRECIA DEVE VIVERE!
Da information guerrilla
22 Febbraio 2012
ESISTE UN COMPLOTTO INTERNAZIONALE CHE HA L’OBIETTIVO DI CANCELLARE IL MIO PAESE
di MIKIS THEODORAKIS
Esiste un complotto internazionale che ha l’obiettivo di cancellare il mio paese. E’ iniziato nel 1975 opponendosi alla civiltà neo-greca, è continuato con la distorsione sistematica della nostra storia contemporanea e della nostra identità culturale e adesso sta cercando di cancellarci anche materialmente con la mancanza di lavoro, la fame e la miseria.
Se il popolo greco non prende la situazione in mano per ostacolarlo, il pericolo della sparizione della Grecia è reale. Io lo colloco entro i prossimi 10 anni.
Di noi, resterà solo la memoria della nostra civiltà e delle nostre battaglie per la libertà.
Fino al 2009 il problema economico non era grave. Le grandi ferite della nostra economia erano la spesa esagerata per la difesa del paese e la corruzione di una parte dei politici e dei giornalisti. Per queste due ferite, però, erano corresponsabili anche dei paesi stranieri. Come la Germania, la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti che guadagnavano miliardi di euro da noi con la vendita annuale di materiale bellico. Questa emorragia continua ci metteva in ginocchio e non ci permetteva di crescere mentre offriva grandi ricchezze ai paesi stranieri. Lo stesso succedeva con il problema della corruzione. La società tedesca Siemens manteneva un dipartimento che si occupava della corruzione dei nostri politici, per poter piazzare meglio i suoi prodotti nel mercato greco. Di conseguenza, il popolo greco è stato vittima di questo duetto di ladri, Greci e Tedeschi, che si arricchivano sulle sue spalle.
È evidente che queste due ferite potevano essere evitate se i due partiti al potere (filo americani) non avessero raccolto tra le loro fila elementi corrotti, i quali, per coprire l’emorragia di ricchezze (prodotte dal lavoro del popolo greco) verso le casse di paesi stranieri, hanno sottoscritto prestiti esagerati, con il risultato che il debito pubblico è aumentato fino a 300 miliardi di euro, cioè il 130% del Pil.
Con questo sistema, le forze straniere di cui ho detto sopra, guadagnavano il doppio. Dalla vendita di armi e dei loro prodotti, prima; dai tassi d’interesse dei capitali prestati ai vari governi (e non al popolo), dopo. Perché come abbiamo visto, il popolo è la vittima principale in ambedue i casi. Un esempio solo vi convincerà. I tassi d’interesse di un prestito di 1 miliardo di dollari che contrasse Andreas Papandreou nel 1986 dalla Francia, sono diventati 54 miliardi di euro e sono stati finalmente saldati nel…2010!
Il Sig. Juncker ha dichiarato un anno fa, che aveva notato questa grande emorragia di denaro dalla Grecia a causa di spese enormi (ed obbligatorie) per l’acquisto di vari armamenti dalla Germania e dalla Francia. Aveva capito che i nostri venditori ci portavano direttamente ad una catastrofe sicura ma ha confessato pubblicamente che non ha reagito minimamente, per non colpire gli interessi dei suoi paesi amici!
Nel 2008 c’è stata la grande crisi economica in Europa. Era normale che ne risentisse anche l’economia greca. Il livello di vita, abbastanza alto (eravamo tra i 30 paesi più ricchi del mondo), rimase invariato. C’è stata, però, la crescita del debito pubblico. Ma il debito pubblico non porta obbligatoriamente alla crisi economica. I debiti dei grandi paesi come gli USA e la Germania, si contano in tris miliardi di euro. Il problema era la crescita economica e la produzione. Per questo motivo furono contratti prestiti dalle grandi banche con tasso fino al 5%. In questa esatta posizione ci trovavamo nel 2009, fino a quando in novembre è diventato primo ministro Georges Papandreou. Per farvi capire cosa ne pensa oggi il popolo greco della sua politica catastrofica, bastano questi due numeri: alle elezioni del 2009 il partito socialista ha preso il 44% dei voti. Oggi le proiezioni lo portano al 6%.
Papandreou avrebbe potuto affrontare la crisi economica (che rispecchiava quella europea) con prestiti dalle banche straniere con il tasso abituale, cioè sotto il 5%. Se avesse fatto questo, non ci sarebbe stato alcun problema per il nostro paese. Anzi, sarebbe successo l’incontrario perché eravamo in una fase di crescita economica.
Papandreou, però, aveva iniziato il suo complotto contro il proprio popolo dall’estate del 2009, quando si è incontrato segretamente con il Sig. Strauss Kahn per portare la Grecia sotto l’ombrello del FMI (Fondo Monetario Internazionale). La notizia di questo incontro è stata resa pubblica direttamente dal Presidente del FMI.
Per passare sotto il controllo del FMI, bisognava stravolgere la situazione economica reale del nostro paese e permettere l’innalzamento dei tassi d’interesse sui prestiti. Questa operazione meschina è iniziata con l’aumento “falso” del debito interno, dal 9,2% al 15%. Per questa operazione criminale, il Pm Peponis, ha chiesto 20 giorni fa, il rinvio a giudizio per Papandreou e Papakostantinou (Ministro dell’economia). Ha seguito la campagna sistematica in Europa di Papandreou e del Ministro dell’economia che è durata 5 mesi, per convincere gli europei che la Grecia è un Titanic pronto per andare a fondo, che i greci sono corrotti, pigri e di conseguenza incapaci di affrontare i problemi del paese. Dopo ogni loro dichiarazione, i tassi d’interesse salivano, al punto di non poter ottenere alcun prestito e di conseguenza il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea hanno preso la forma dei nostri salvatori, mentre nella realtà era l’inizio della nostra morte.
Nel Maggio del 2010 è stato firmato da un solo Ministro il famoso primo accordo di salvataggio. Il diritto greco, in questi casi, esige, per un accordo così importante, il voto favorevole di almeno tre quinti del parlamento. Quel primo accordo è dunque illegale. La troika che oggi governa in Grecia, agisce in modo completamente illegale. Non solo per il diritto greco ma anche per quello europeo.
Dal quel momento fino ad oggi, se i gradini che portano alla nostra morte sono venti, siamo già scesi più della metà. Immaginate che con questo secondo accordo, per la nostra “salvezza”, offriamo a questi signori la nostra integrità nazionale e i nostri beni pubblici. Cioè Porti, Aeroporti, Autostrade, Elettricità, Acqua, ricchezze minerali ecc. ecc. ecc. i nostri, inoltre, monumenti nazionali come l’Acropolis, Delfi, Olympia, Epidauro ecc. ecc. ecc.; perché con questi accordi abbiamo rinunciato ad eventuali ricorsi.
La produzione si è fermata, la disoccupazione è salita al 20%, hanno chiuso 80.000 negozi, migliaia di piccole fabbriche e centinaia di industrie. In totale hanno chiuso 432.000 imprese. Decine di migliaia di giovani laureati lasciano il paese che ogni giorno si immerge in un buio medioevale. Migliaia di cittadini ex benestanti, cercano nei cassonetti della spazzatura e dormono per strada. Intanto si dice che siamo vivi grazie alla generosità dei nostri “salvatori”, dell’Europa, delle banche e del Fondo Monetario Internazionale. In realtà, ogni pacchetto di decine di miliardi di aiuti destinato alla Grecia torna per intero indietro sotto forma di nuovi incredibili tassi d’interesse.
E siccome c’è bisogno di continuare a far funzionale lo stato, gli ospedali, le scuole ecc., la troika carica di extra tasse (assolutamente nuove) gli strati più deboli della società e li porta direttamente alla fame. Un’analoga situazione di fame generalizzata l’avemmo all’inizio dell’occupazione nazista nel 1941, con 300.000 morti in 6 mesi. Adesso rivediamo la stessa situazione. Se si pensa che l’occupazione nazista ci è costata 1 milione di morti e la distruzione totale del nostro paese, com’è possibile per noi greci accettare le minacce della sig.ra Merkel e l’intenzione dei tedeschi di installare un nuovo gaulaighter… e questa volta con la cravatta…
E per dimostrare quant’è ricca la Grecia e quanto lavoratori sono i greci, che sono coscienti del Obbligo di Libertà e dell’amore verso la propria patria, c’è l’esempio di come si reagì all’occupazione nazista dal 1941 all’Ottobre del 1944. Quando le SS e la fame uccidevano 1 milione di persone e la Vermacht distruggeva sistematicamente il paese, derubando la produzione agricola e l’oro dalle banche greche, i greci hanno fondato il movimento di solidarietà nazionale che ha sfamato la popolazione ed hanno creato un esercito di 100.000 partigiani che ha costretto i tedeschi ad essere presenti in modo continuo con 200.000 soldati. Contemporaneamente, i greci, grazie al proprio lavoro, sono riusciti non solo a sopravvivere ma a sviluppare, sotto condizioni di occupazione, l’arte neo greca, soprattutto la letteratura e la musica.
La Grecia scelse la via del sacrificio per la libertà e la sopravvivenza. Anche allora ci colpirono senza ragione e noi rispondemmo con la Solidarietà e la Resistenza, e siamo riusciti a vincere. La stessa cosa che dobbiamo fare anche adesso con la certezza che il vincitore finale sarà il popolo greco. Questo messaggio mando alla Sig.ra Merkel ed al Sig. Schäuble, dichiarando che rimango sempre amico del Popolo Tedesco ed ammiratore del suo grande contributo alla Scienza, la Filosofia, l’Arte e soprattutto alla Musica! E forse, la miglior dimostrazione di questo è che tutto il mio lavoro musicale a livello mondiale, l’ho affidato a 2 grandi editori tedeschi “Schott” e “Breitkopf” con cui ho un’ottima collaborazione.
Minacciano di mandarci via dall’Europa. Ma se l’Europa non ci vuole 1 volta, noi, questa Europa di Merkel e Sarkozy, non la vogliamo 10 volte.
Oggi è domenica 12 Febbraio. Mi sto preparando per prendere parte con Manolis Glezos, l’eroe che ha tirato giù la svastica dall’Acropolis, dando così il segnale per l’inizio non solo della resistenza greca ma di quella europea contro Hitler. Le strade e le nostre piazze si riempiranno di centinaia di migliaia di cittadini che esprimeranno la propria rabbia contro il governo e la troika. Ho sentito ieri il nostro Primo ministro – banchiere, rivolgendosi al popolo greco, dire che “siamo arrivati all’ora zero”. Chi, però, ci ha portati all’ora ZERO in due anni? Le stesse persone che invece di trovarsi in prigione, ricattano i parlamentari per firmare il nuovo accordo, peggio del primo, che sarà applicato dalle stesse persone con gli stessi metodi che ci hanno portato all’ora ZERO! Perché? Perché questo ordina l’FMI e l’Eurogroup, ricattandoci che se non obbediremo ci sarà il fallimento…
Stiamo assistendo al teatro della paranoia. Tutti questi signori, che in sostanza ci odiano (greci e stranieri) e che sono gli unici responsabili della situazione drammatica alla quale hanno portato il paese, minacciano, ricattano, ordinano con l’unico scopo di continuare la loro opera distruttiva, cioè di portarci sotto l’ora ZERO, fino alla nostra sparizione definitiva.
Siamo sopravvissuti nei secoli, in condizioni molto difficili ed è certo che se ci porteranno con la forza, con la violenza, al penultimo gradino prima della nostra morte, i Greci, non solo sopravvivranno ma rinasceranno. In questo momento presto tutte le mie forze all’unione dinamica del popolo greco. Sto cercando di convincerlo che la Troika e l’FMI non sono una strada senso unico. Che esistono anche altre soluzioni. Guardare anche verso la Russia per una collaborazione economica, per lo sfruttamento delle nostre ricchezze minerarie, con condizioni diverse, a favore dei nostri interessi.
Per quanto riguarda l’Europa, propongo di interrompere l’acquisto di armamenti dalla Germania e dalla Francia. E dobbiamo fare tutto il possibile per prendere i nostri soldi, che la Germania ancora non ha saldato dal periodo della guerra. Tale somma ad oggi è quasi 500 miliardi di euro!!!
L’unica forza che può realizzare questi cambiamenti rivoluzionari è il popolo greco, unito in un enorme Fronte di Resistenza e Solidarietà, per mandare via la troika (FMI e Banche) dal paese. Nel frattempo devono essere considerati nulli tutti gli accordi illegali (prestiti, tassi d’interesse, tasse, svendita del paese ecc.). naturalmente, i loro collaboratori greci, che sono già condannati nella coscienza popolare come traditori, devono essere puniti.
Per l’Unione di tutto il Popolo stò dedicando tutte le mie energie e credo che alla fine ce la faremo. Ho fatto la guerra con le armi in mano contro l’occupazione nazista. Ho conosciuto i sotterranei della Gestapo. Sono stato condannato a morte dai Tedeschi e sono vivo per miracolo. Nel 1967 ho fondato il PAM, la prima organizzazione di resistenza contro i colonnelli. Ho agito nell’illegalità contro la dittatura. Sono stato arrestato ed imprigionato nel “mattatoio” della dittatura. Alla fine sono sopravvissuto e sono ancora qui.
Oggi ho 87 anni ed è molto probabile che non riuscirò a vedere la salvezza della mia amata patria. Ma morirò con la mia coscienza tranquilla, perché continuo a fare le mie battaglie per gli ideali della Libertà e del Diritto fino alla fine.
Mikis Theodorakis*
http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/7756-lettera-aperta-di-mikis-theodorakis.html
19.02.2012
Mikis Theodorakis è un compositore greco, famoso anche per il suo impegno nella vita politica del suo paese.
Durante la dittatura militare dei colonnelli (1967-1974) viene imprigionato e torturato, mentre la sua musica viene proibita. Scrive in quel periodo, canzoni tratte da poesie del patriota greco Alexandros Panagulis.
Punto di riferimento per l’opinione pubblica di sinistra, al ritorno della democrazia in Grecia, quando il governo socialista guidato da Andreas Papandreou si trova al centro di alcuni scandali di corruzione, Theodorakis per qualche tempo si schiera con il centro-destra, riconciliandosi con la sinistra soltanto dopo l’uscita di scena di Papandreu (Wikipedia).
Lettera scritta il 12 febbraio, poco prima che anche lui subisse la reazione da parte delle forze di polizia schierate in difesa di un parlamento pronto a varare norme penalizzanti per l’economia greca e per i cittadini, specie per le fasce più deboli.
22 Febbraio 2012
ESISTE UN COMPLOTTO INTERNAZIONALE CHE HA L’OBIETTIVO DI CANCELLARE IL MIO PAESE
di MIKIS THEODORAKIS
Esiste un complotto internazionale che ha l’obiettivo di cancellare il mio paese. E’ iniziato nel 1975 opponendosi alla civiltà neo-greca, è continuato con la distorsione sistematica della nostra storia contemporanea e della nostra identità culturale e adesso sta cercando di cancellarci anche materialmente con la mancanza di lavoro, la fame e la miseria.
Se il popolo greco non prende la situazione in mano per ostacolarlo, il pericolo della sparizione della Grecia è reale. Io lo colloco entro i prossimi 10 anni.
Di noi, resterà solo la memoria della nostra civiltà e delle nostre battaglie per la libertà.
Fino al 2009 il problema economico non era grave. Le grandi ferite della nostra economia erano la spesa esagerata per la difesa del paese e la corruzione di una parte dei politici e dei giornalisti. Per queste due ferite, però, erano corresponsabili anche dei paesi stranieri. Come la Germania, la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti che guadagnavano miliardi di euro da noi con la vendita annuale di materiale bellico. Questa emorragia continua ci metteva in ginocchio e non ci permetteva di crescere mentre offriva grandi ricchezze ai paesi stranieri. Lo stesso succedeva con il problema della corruzione. La società tedesca Siemens manteneva un dipartimento che si occupava della corruzione dei nostri politici, per poter piazzare meglio i suoi prodotti nel mercato greco. Di conseguenza, il popolo greco è stato vittima di questo duetto di ladri, Greci e Tedeschi, che si arricchivano sulle sue spalle.
È evidente che queste due ferite potevano essere evitate se i due partiti al potere (filo americani) non avessero raccolto tra le loro fila elementi corrotti, i quali, per coprire l’emorragia di ricchezze (prodotte dal lavoro del popolo greco) verso le casse di paesi stranieri, hanno sottoscritto prestiti esagerati, con il risultato che il debito pubblico è aumentato fino a 300 miliardi di euro, cioè il 130% del Pil.
Con questo sistema, le forze straniere di cui ho detto sopra, guadagnavano il doppio. Dalla vendita di armi e dei loro prodotti, prima; dai tassi d’interesse dei capitali prestati ai vari governi (e non al popolo), dopo. Perché come abbiamo visto, il popolo è la vittima principale in ambedue i casi. Un esempio solo vi convincerà. I tassi d’interesse di un prestito di 1 miliardo di dollari che contrasse Andreas Papandreou nel 1986 dalla Francia, sono diventati 54 miliardi di euro e sono stati finalmente saldati nel…2010!
Il Sig. Juncker ha dichiarato un anno fa, che aveva notato questa grande emorragia di denaro dalla Grecia a causa di spese enormi (ed obbligatorie) per l’acquisto di vari armamenti dalla Germania e dalla Francia. Aveva capito che i nostri venditori ci portavano direttamente ad una catastrofe sicura ma ha confessato pubblicamente che non ha reagito minimamente, per non colpire gli interessi dei suoi paesi amici!
Nel 2008 c’è stata la grande crisi economica in Europa. Era normale che ne risentisse anche l’economia greca. Il livello di vita, abbastanza alto (eravamo tra i 30 paesi più ricchi del mondo), rimase invariato. C’è stata, però, la crescita del debito pubblico. Ma il debito pubblico non porta obbligatoriamente alla crisi economica. I debiti dei grandi paesi come gli USA e la Germania, si contano in tris miliardi di euro. Il problema era la crescita economica e la produzione. Per questo motivo furono contratti prestiti dalle grandi banche con tasso fino al 5%. In questa esatta posizione ci trovavamo nel 2009, fino a quando in novembre è diventato primo ministro Georges Papandreou. Per farvi capire cosa ne pensa oggi il popolo greco della sua politica catastrofica, bastano questi due numeri: alle elezioni del 2009 il partito socialista ha preso il 44% dei voti. Oggi le proiezioni lo portano al 6%.
Papandreou avrebbe potuto affrontare la crisi economica (che rispecchiava quella europea) con prestiti dalle banche straniere con il tasso abituale, cioè sotto il 5%. Se avesse fatto questo, non ci sarebbe stato alcun problema per il nostro paese. Anzi, sarebbe successo l’incontrario perché eravamo in una fase di crescita economica.
Papandreou, però, aveva iniziato il suo complotto contro il proprio popolo dall’estate del 2009, quando si è incontrato segretamente con il Sig. Strauss Kahn per portare la Grecia sotto l’ombrello del FMI (Fondo Monetario Internazionale). La notizia di questo incontro è stata resa pubblica direttamente dal Presidente del FMI.
Per passare sotto il controllo del FMI, bisognava stravolgere la situazione economica reale del nostro paese e permettere l’innalzamento dei tassi d’interesse sui prestiti. Questa operazione meschina è iniziata con l’aumento “falso” del debito interno, dal 9,2% al 15%. Per questa operazione criminale, il Pm Peponis, ha chiesto 20 giorni fa, il rinvio a giudizio per Papandreou e Papakostantinou (Ministro dell’economia). Ha seguito la campagna sistematica in Europa di Papandreou e del Ministro dell’economia che è durata 5 mesi, per convincere gli europei che la Grecia è un Titanic pronto per andare a fondo, che i greci sono corrotti, pigri e di conseguenza incapaci di affrontare i problemi del paese. Dopo ogni loro dichiarazione, i tassi d’interesse salivano, al punto di non poter ottenere alcun prestito e di conseguenza il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea hanno preso la forma dei nostri salvatori, mentre nella realtà era l’inizio della nostra morte.
Nel Maggio del 2010 è stato firmato da un solo Ministro il famoso primo accordo di salvataggio. Il diritto greco, in questi casi, esige, per un accordo così importante, il voto favorevole di almeno tre quinti del parlamento. Quel primo accordo è dunque illegale. La troika che oggi governa in Grecia, agisce in modo completamente illegale. Non solo per il diritto greco ma anche per quello europeo.
Dal quel momento fino ad oggi, se i gradini che portano alla nostra morte sono venti, siamo già scesi più della metà. Immaginate che con questo secondo accordo, per la nostra “salvezza”, offriamo a questi signori la nostra integrità nazionale e i nostri beni pubblici. Cioè Porti, Aeroporti, Autostrade, Elettricità, Acqua, ricchezze minerali ecc. ecc. ecc. i nostri, inoltre, monumenti nazionali come l’Acropolis, Delfi, Olympia, Epidauro ecc. ecc. ecc.; perché con questi accordi abbiamo rinunciato ad eventuali ricorsi.
La produzione si è fermata, la disoccupazione è salita al 20%, hanno chiuso 80.000 negozi, migliaia di piccole fabbriche e centinaia di industrie. In totale hanno chiuso 432.000 imprese. Decine di migliaia di giovani laureati lasciano il paese che ogni giorno si immerge in un buio medioevale. Migliaia di cittadini ex benestanti, cercano nei cassonetti della spazzatura e dormono per strada. Intanto si dice che siamo vivi grazie alla generosità dei nostri “salvatori”, dell’Europa, delle banche e del Fondo Monetario Internazionale. In realtà, ogni pacchetto di decine di miliardi di aiuti destinato alla Grecia torna per intero indietro sotto forma di nuovi incredibili tassi d’interesse.
E siccome c’è bisogno di continuare a far funzionale lo stato, gli ospedali, le scuole ecc., la troika carica di extra tasse (assolutamente nuove) gli strati più deboli della società e li porta direttamente alla fame. Un’analoga situazione di fame generalizzata l’avemmo all’inizio dell’occupazione nazista nel 1941, con 300.000 morti in 6 mesi. Adesso rivediamo la stessa situazione. Se si pensa che l’occupazione nazista ci è costata 1 milione di morti e la distruzione totale del nostro paese, com’è possibile per noi greci accettare le minacce della sig.ra Merkel e l’intenzione dei tedeschi di installare un nuovo gaulaighter… e questa volta con la cravatta…
E per dimostrare quant’è ricca la Grecia e quanto lavoratori sono i greci, che sono coscienti del Obbligo di Libertà e dell’amore verso la propria patria, c’è l’esempio di come si reagì all’occupazione nazista dal 1941 all’Ottobre del 1944. Quando le SS e la fame uccidevano 1 milione di persone e la Vermacht distruggeva sistematicamente il paese, derubando la produzione agricola e l’oro dalle banche greche, i greci hanno fondato il movimento di solidarietà nazionale che ha sfamato la popolazione ed hanno creato un esercito di 100.000 partigiani che ha costretto i tedeschi ad essere presenti in modo continuo con 200.000 soldati. Contemporaneamente, i greci, grazie al proprio lavoro, sono riusciti non solo a sopravvivere ma a sviluppare, sotto condizioni di occupazione, l’arte neo greca, soprattutto la letteratura e la musica.
La Grecia scelse la via del sacrificio per la libertà e la sopravvivenza. Anche allora ci colpirono senza ragione e noi rispondemmo con la Solidarietà e la Resistenza, e siamo riusciti a vincere. La stessa cosa che dobbiamo fare anche adesso con la certezza che il vincitore finale sarà il popolo greco. Questo messaggio mando alla Sig.ra Merkel ed al Sig. Schäuble, dichiarando che rimango sempre amico del Popolo Tedesco ed ammiratore del suo grande contributo alla Scienza, la Filosofia, l’Arte e soprattutto alla Musica! E forse, la miglior dimostrazione di questo è che tutto il mio lavoro musicale a livello mondiale, l’ho affidato a 2 grandi editori tedeschi “Schott” e “Breitkopf” con cui ho un’ottima collaborazione.
Minacciano di mandarci via dall’Europa. Ma se l’Europa non ci vuole 1 volta, noi, questa Europa di Merkel e Sarkozy, non la vogliamo 10 volte.
Oggi è domenica 12 Febbraio. Mi sto preparando per prendere parte con Manolis Glezos, l’eroe che ha tirato giù la svastica dall’Acropolis, dando così il segnale per l’inizio non solo della resistenza greca ma di quella europea contro Hitler. Le strade e le nostre piazze si riempiranno di centinaia di migliaia di cittadini che esprimeranno la propria rabbia contro il governo e la troika. Ho sentito ieri il nostro Primo ministro – banchiere, rivolgendosi al popolo greco, dire che “siamo arrivati all’ora zero”. Chi, però, ci ha portati all’ora ZERO in due anni? Le stesse persone che invece di trovarsi in prigione, ricattano i parlamentari per firmare il nuovo accordo, peggio del primo, che sarà applicato dalle stesse persone con gli stessi metodi che ci hanno portato all’ora ZERO! Perché? Perché questo ordina l’FMI e l’Eurogroup, ricattandoci che se non obbediremo ci sarà il fallimento…
Stiamo assistendo al teatro della paranoia. Tutti questi signori, che in sostanza ci odiano (greci e stranieri) e che sono gli unici responsabili della situazione drammatica alla quale hanno portato il paese, minacciano, ricattano, ordinano con l’unico scopo di continuare la loro opera distruttiva, cioè di portarci sotto l’ora ZERO, fino alla nostra sparizione definitiva.
Siamo sopravvissuti nei secoli, in condizioni molto difficili ed è certo che se ci porteranno con la forza, con la violenza, al penultimo gradino prima della nostra morte, i Greci, non solo sopravvivranno ma rinasceranno. In questo momento presto tutte le mie forze all’unione dinamica del popolo greco. Sto cercando di convincerlo che la Troika e l’FMI non sono una strada senso unico. Che esistono anche altre soluzioni. Guardare anche verso la Russia per una collaborazione economica, per lo sfruttamento delle nostre ricchezze minerarie, con condizioni diverse, a favore dei nostri interessi.
Per quanto riguarda l’Europa, propongo di interrompere l’acquisto di armamenti dalla Germania e dalla Francia. E dobbiamo fare tutto il possibile per prendere i nostri soldi, che la Germania ancora non ha saldato dal periodo della guerra. Tale somma ad oggi è quasi 500 miliardi di euro!!!
L’unica forza che può realizzare questi cambiamenti rivoluzionari è il popolo greco, unito in un enorme Fronte di Resistenza e Solidarietà, per mandare via la troika (FMI e Banche) dal paese. Nel frattempo devono essere considerati nulli tutti gli accordi illegali (prestiti, tassi d’interesse, tasse, svendita del paese ecc.). naturalmente, i loro collaboratori greci, che sono già condannati nella coscienza popolare come traditori, devono essere puniti.
Per l’Unione di tutto il Popolo stò dedicando tutte le mie energie e credo che alla fine ce la faremo. Ho fatto la guerra con le armi in mano contro l’occupazione nazista. Ho conosciuto i sotterranei della Gestapo. Sono stato condannato a morte dai Tedeschi e sono vivo per miracolo. Nel 1967 ho fondato il PAM, la prima organizzazione di resistenza contro i colonnelli. Ho agito nell’illegalità contro la dittatura. Sono stato arrestato ed imprigionato nel “mattatoio” della dittatura. Alla fine sono sopravvissuto e sono ancora qui.
Oggi ho 87 anni ed è molto probabile che non riuscirò a vedere la salvezza della mia amata patria. Ma morirò con la mia coscienza tranquilla, perché continuo a fare le mie battaglie per gli ideali della Libertà e del Diritto fino alla fine.
Mikis Theodorakis*
http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/7756-lettera-aperta-di-mikis-theodorakis.html
19.02.2012
Mikis Theodorakis è un compositore greco, famoso anche per il suo impegno nella vita politica del suo paese.
Durante la dittatura militare dei colonnelli (1967-1974) viene imprigionato e torturato, mentre la sua musica viene proibita. Scrive in quel periodo, canzoni tratte da poesie del patriota greco Alexandros Panagulis.
Punto di riferimento per l’opinione pubblica di sinistra, al ritorno della democrazia in Grecia, quando il governo socialista guidato da Andreas Papandreou si trova al centro di alcuni scandali di corruzione, Theodorakis per qualche tempo si schiera con il centro-destra, riconciliandosi con la sinistra soltanto dopo l’uscita di scena di Papandreu (Wikipedia).
Lettera scritta il 12 febbraio, poco prima che anche lui subisse la reazione da parte delle forze di polizia schierate in difesa di un parlamento pronto a varare norme penalizzanti per l’economia greca e per i cittadini, specie per le fasce più deboli.
martedì 21 febbraio 2012
Palestina: i successi della conferenza BDS negli Usa
http://www.osservatorioiraq.it/palestina-i-successi-della-conferenza-bds-negli-usa
di Stephanie Westbrook
"Fra 15-20 anni, la gente ricorderà ancora questa conferenza, come un momento storico del
movimento per il boicottaggio di Israele. E ci sarà chi si rammaricherà per non esserci stato".
Queste le parole con cui la giornalista Helena Cobban ha descritto la conferenza nazionale
statunitense per la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).
La conferenza, tenutasi all'Università della Pennsylvania il 4-5 febbraio e organizzata dal
gruppo studentesco Penn BDS, ha infatti dovuto chiudere la registrazione a 300 partecipanti,
a dimostrazione di quanto stia crescendo il movimento negli Stati Uniti.
Mentre le prime conferenze BDS nazionali, come quella di Chicago del 2008 e
dell´Hampshire College del 2009, non hanno trovato molto spazio sui media, questa del 2012
è invece finita sulle prime pagine dei giornali locali e della stampa nazionale e internazionale,
inclusa quella israeliana.
Un aiuto l´hanno dato le organizzazioni pro-israeliane come Stand With Us e
l´Anti-Defamation League, che hanno pubblicato una classifica dei top cinque relatori
anti-Israele della conferenza.
La Federazione ebraica di Philadelphia e Hillel dell´Università della Pennsylvania hanno infatti
organizzato una serata last minute al campus due giorni prima della conferenza BDS con
Alan Dershowitz, avvocato, professore di Harvard e forte difensore di Israele, che durante il
suo intervento ha insistito nel chiamare il movimento "DBS".
Tuttavia i tentativi di screditare il movimento e la conferenza non hanno fatto altro che
accrescere l'attenzione dei media, quasi a voler confermare la famosa frase di Gandhi:
"Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono...poi vinci".
L´episodio più ripugnante si è però svolto sulle pagine del giornale dell´università, il Daily
Pennsylvanian, una delle principali e più vecchie testate studentesche statunitensi.
In una lettera pubblicata sul giornale, Ruben Gur, professore di psichiatria dell´Università
della Pennsylvania ed ex soldato dell´esercito israeliano, ha descritto Penn BDS come
"un´organizzazione genocida e odiosa", paragonando il libro sul BDS di Omar Barghouti al
Mein Kampf di Hitler e gli ebrei sostenitori di BDS ai kapò dei campi di concentramento.
E il presidente dell´università, Amy Gutmann, invece di denunciare il linguaggio deplorevole e
calunnioso, ha riaffermato la posizione contraria al BDS dell´università. Gutman aveva
partecipato alla serata con Dershowitz.
La conferenza ha avuto inizio venerdì sera con la proiezione in anteprima del nuovo
documentario Roadmap to Apartheid (http://roadmaptoapartheid.org/). Il film, che uscirà in
Italia nel 2012 in versione sottotitolata, presenta un´interminabile serie di similarità tra
l'apartheid in Sud Africa e quella praticata contro il popolo palestinese da parte di Israele,
oltre a documentare il movimento anti-apartheid che attraverso boicottaggio, disinvestimento
e sanzioni ha contribuito alla fine di questo regime.
Il confronto con il Sud Africa dell´Apartheid è stato un tema ricorrente di tutta la conferenza.
Il Reverendo Graylan Hagler, uno dei leader del movimento anti-apartheid, ha ricordato che
gli stessi argomenti usati dai critici del BDS di oggi venivano usati anche allora. Il
"coinvolgimento costruttivo" di Reagan è ora il "dialogo" o il "processo di pace".
"Le presunte preoccupazioni per i sudafricani neri danneggiati dai boicottaggi sono oggi le
stesse per i palestinesi. E mentre allora era strumentalizzata la paura del comunismo oggi lo
è quella dell´islamofobia. Sudafricani e israeliani hanno entrambi affermato che garantire pari
diritti uguale a un suicidio nazionale".
Alla domanda sempre più frequente: "Dove sta il Mandela palestinese?", Helena Cobban,
numero quattro nella classifica dell´Anti-Defamation League, ha risposto con un altro quesito:
"Dove sta il De Klerk israeliano?".
Un altro tema centrale è stato quello della necessità di unire le battaglie, e di vedere il
movimento BDS come parte della lotta globale per la giustizia, la libertà e l´uguaglianza.
Susan Abulhawa, autrice di Mornings in Jenin, nel suo appassionato discorso di apertura, ha
sottolineato che mentre Israele conta sugli Stati Uniti dei Gingrich di turno, che fomentano
odio e paura per guadagnarci politicamente, i palestinesi hanno come riferimento l'America di
Martin Luther King Jr, e il mondo che ha prodotto Rachel, Tom e Vittorio.
Nel suo messaggio video, Omar Barghouti, uno dei fondatori della campagna BDS, ha infatti
ricordato come Israele stia al centro delle politiche dell'1%, quelle del militarismo, del
razzismo, della paura e dell'instabilità: Guerra Infinita Inc.
Solo qualche giorno prima della conferenza, il movimento Occupy Oakland in California
aveva votato quasi all´unanimità (135 a 1) a favore dell´adesione alla campagna BDS
(http://mondoweiss.net/2012/02/occupy-oaklands-landslide-bds-endorsement.html). Nelle
sessioni plenarie sono state presentate le campagne BDS di rilievo nazionale, tra cui quelle
di disinvestimento da parte della Chiesa Metodista e la Chiesa Presbiteriana, importantissime
sia per la portata dell´impatto economico sia per l´opportunità di coinvolgere gruppi religiosi.
Il prossimo aprile, circa mille delegati della Chiesa Metodista si uniranno per l´assemblea
generale che si svolge ogni quattro anni. Con la campagna United Methodist Kairos
Response (https://www.kairosresponse.org/), in risposta all´appello dei palestinesi cristiani, si
presenterà una mozione per il disinvestimento del fondo pensionistico della chiesa, il più
grande fondo per un gruppo religioso negli USA ($ 17 miliardi), da tre società coinvolte
nell´occupazione israeliana, HP, Caterpillar e Motorola.
All´assemblea generale della Chiesa Presbiteriana a luglio verrà presentata un´analoga
mozione per il disinvestimento dalle tre società, raccomandato dal proprio comitato per gli
investimenti socialmente responsabili, dopo anni spesi a cercare di convincere le società in
questione a cessare le attività in Israele.
Un´altra campagna di disinvestimento riguarda TIAA-CREF
(http://jewishvoiceforpeace.org/campaigns/tiaa-cref-divest-occupation), che gestisce fondi
per ospedali, università, non profit, sindacati e scuole. La campagna chiede il disinvestimento
da società statunitensi e internazionali, quali HP, Motorola, Northrop Grumman, Veolia,
Caterpillar e Elbit, tutte legate all´occupazione.
TIAA-CREF è stato scelto come target perché è il più grande fondo del suo genere nel
mondo, dal momento che controlla 400 miliardi di dollari, vanta 60 uffici locali in tutti gli Stati
Uniti e ci tiene alla sua immagine di responsabilità sociale. Inoltre, esiste un importante
precedente per il fondo, che in passato ha disinvestito da società legate al regime sudanese.
Gli oltre 20 workshop della conferenza hanno trattato argomenti come il boicottaggio
accademico, il BDS nella comunità afro-americana, l'uso dei social media, il diritto
internazionale, il boicottagio culturale, le azioni dirette, e infine il rapporto con i media e il
pinkwashing.
L´intervento in plenaria di Sarah Schulman ha combinato questi ultimi due argomenti. Autrice,
professore e nota attivista per i diritti LGBTQ, era riuscita a far pubblicare sul New York
Times lo scorso novembre un articolo sul pinkwashing
(http://www.nytimes.com/2011/11/23/opinion/pinkwashing-and-israels-use-of-gays-as-a-mess
aging-tool.html?_r=1), che riguarda l'atteggiamento gay-friendly di Israele che mira a creare
un´immagine di un paese moderno e progressista per nascondere le politiche d´oppressione
del popolo palestinese.
Alla domanda, "Come hai fatto a farlo pubblicare sul New York Times?", Schulman ha
raccontato il retroscena della vicenda.
L´aveva contattato un giovane redattore del giornale, un omosessuale cinese-americano, per
un articolo sul 30esimo anniversario del primo caso documentato di AIDS. Ma sapeva che
quello che voleva scrivere lei non era quello che voleva il giornale. E infatti non l´hanno
pubblicato.
Il giornalista, cercando di rimediare, le ha chiesto di proporre un pezzo: "Che ne dici del
pinkwashing?". "Che cos´è?". Dopo una breve spiegazione e la segnalazione di un articolo
sul Guardian, ha accettato.
La Schulman sapeva che avrebbe dovuto sottoporsi ad un controllo intensivo, quindi insieme
all´articolo di 900 parole, ha consegnato anche 190 pagine di documentazione!
Per mesi ha dovuto rispondere alle domande del Times, a volte assurde, ma ha sempre
saputo replicare grazie in parte a un team di ricercatrici queer che traducevano i documenti
da diverse lingue, incluse l'ebraico e l'arabo. Non sono quindi riusciti a trovare motivo per cui
non pubblicarlo.
Nel suo intervento alla serata presso l´università, Dershowitz ha anche accennato all´articolo
di Schulman, definendolo "Il più stupido mai pubblicato sul New York Times, scritto da una
professoressa idiota".
Nel discorso keynote, Ali Abunimah, co-fondatore del sito Electronic Intifada e numero due
nella classifica dell´Anti-Defamation League, ha portato la riflessione su cosa precisamente
significhi la domanda spesso posta dai difensori di Israele per 'pilotare' i discorsi: "Sostieni il
diritto di Israele a esistere come Stato ebraico?".
Abunimah ha ricordato che una delle prime cose che insegnano alla facoltà di legge è che
non esiste diritto senza rimedio, "ma il rimedio deve essere legittimo". Ha quindi chiesto
quale potrebbe essere un rimedio accettabile per sostenere questo diritto.
"Controllo della nascita dei bambini 'sbagliati', è cioè non ebrei? L´espulsione dei non ebrei?
La domanda per noi e per i nostri critici è: accetteresti questi rimedi? Perché se li accetti,
devi accettare anche le conseguenze morali di sostenere vili politiche di segregazione".
Alla fine del film Roadmap to Apartheid, il giornalista sudafricano Allister Sparks ha ricordato
che "non furono solo i neri ad essere liberati quando l'apartheid finì": "Io fui liberato. Tutti noi
lo ci liberammo da questa terribile visione corrosiva".
Nello stesso spirito, Susan Abulhawa si è rivolta agli israeliani dicendo: "La nostra unica
speranza è di trattarci da uguali. Dopo tutto quello che ci avete fatto, vi accetteremo
comunque come uguali. Ma non vi accetteremo mai come Padroni".
La campagna BDS non nega alcun diritto. Rappresenta una minaccia ai soli privilegi degli
ebrei israeliani perché non esiste il 'diritto alla superiorità'.
E come ha ricordato Anne Norton, professore di Scienze Politiche e Letteratura Comparata
all´Università della Pennsylvania, la campagna BDS non mette a tacere nessuno, anzi apre il
dibattito. È utile come strumento di pressione su Israele e altrettanto per sensibilizzare il
pubblico su quanto succede in Palestina.
Ancora oggi, a una distanza di due settimane, sulle pagine del giornale studentesco, The
Daily Pennsylvanian, si parla ancora della campagna BDS e della Palestina. Questo, di sé, è
già una vittoria.
di Stephanie Westbrook
"Fra 15-20 anni, la gente ricorderà ancora questa conferenza, come un momento storico del
movimento per il boicottaggio di Israele. E ci sarà chi si rammaricherà per non esserci stato".
Queste le parole con cui la giornalista Helena Cobban ha descritto la conferenza nazionale
statunitense per la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).
La conferenza, tenutasi all'Università della Pennsylvania il 4-5 febbraio e organizzata dal
gruppo studentesco Penn BDS, ha infatti dovuto chiudere la registrazione a 300 partecipanti,
a dimostrazione di quanto stia crescendo il movimento negli Stati Uniti.
Mentre le prime conferenze BDS nazionali, come quella di Chicago del 2008 e
dell´Hampshire College del 2009, non hanno trovato molto spazio sui media, questa del 2012
è invece finita sulle prime pagine dei giornali locali e della stampa nazionale e internazionale,
inclusa quella israeliana.
Un aiuto l´hanno dato le organizzazioni pro-israeliane come Stand With Us e
l´Anti-Defamation League, che hanno pubblicato una classifica dei top cinque relatori
anti-Israele della conferenza.
La Federazione ebraica di Philadelphia e Hillel dell´Università della Pennsylvania hanno infatti
organizzato una serata last minute al campus due giorni prima della conferenza BDS con
Alan Dershowitz, avvocato, professore di Harvard e forte difensore di Israele, che durante il
suo intervento ha insistito nel chiamare il movimento "DBS".
Tuttavia i tentativi di screditare il movimento e la conferenza non hanno fatto altro che
accrescere l'attenzione dei media, quasi a voler confermare la famosa frase di Gandhi:
"Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono...poi vinci".
L´episodio più ripugnante si è però svolto sulle pagine del giornale dell´università, il Daily
Pennsylvanian, una delle principali e più vecchie testate studentesche statunitensi.
In una lettera pubblicata sul giornale, Ruben Gur, professore di psichiatria dell´Università
della Pennsylvania ed ex soldato dell´esercito israeliano, ha descritto Penn BDS come
"un´organizzazione genocida e odiosa", paragonando il libro sul BDS di Omar Barghouti al
Mein Kampf di Hitler e gli ebrei sostenitori di BDS ai kapò dei campi di concentramento.
E il presidente dell´università, Amy Gutmann, invece di denunciare il linguaggio deplorevole e
calunnioso, ha riaffermato la posizione contraria al BDS dell´università. Gutman aveva
partecipato alla serata con Dershowitz.
La conferenza ha avuto inizio venerdì sera con la proiezione in anteprima del nuovo
documentario Roadmap to Apartheid (http://roadmaptoapartheid.org/). Il film, che uscirà in
Italia nel 2012 in versione sottotitolata, presenta un´interminabile serie di similarità tra
l'apartheid in Sud Africa e quella praticata contro il popolo palestinese da parte di Israele,
oltre a documentare il movimento anti-apartheid che attraverso boicottaggio, disinvestimento
e sanzioni ha contribuito alla fine di questo regime.
Il confronto con il Sud Africa dell´Apartheid è stato un tema ricorrente di tutta la conferenza.
Il Reverendo Graylan Hagler, uno dei leader del movimento anti-apartheid, ha ricordato che
gli stessi argomenti usati dai critici del BDS di oggi venivano usati anche allora. Il
"coinvolgimento costruttivo" di Reagan è ora il "dialogo" o il "processo di pace".
"Le presunte preoccupazioni per i sudafricani neri danneggiati dai boicottaggi sono oggi le
stesse per i palestinesi. E mentre allora era strumentalizzata la paura del comunismo oggi lo
è quella dell´islamofobia. Sudafricani e israeliani hanno entrambi affermato che garantire pari
diritti uguale a un suicidio nazionale".
Alla domanda sempre più frequente: "Dove sta il Mandela palestinese?", Helena Cobban,
numero quattro nella classifica dell´Anti-Defamation League, ha risposto con un altro quesito:
"Dove sta il De Klerk israeliano?".
Un altro tema centrale è stato quello della necessità di unire le battaglie, e di vedere il
movimento BDS come parte della lotta globale per la giustizia, la libertà e l´uguaglianza.
Susan Abulhawa, autrice di Mornings in Jenin, nel suo appassionato discorso di apertura, ha
sottolineato che mentre Israele conta sugli Stati Uniti dei Gingrich di turno, che fomentano
odio e paura per guadagnarci politicamente, i palestinesi hanno come riferimento l'America di
Martin Luther King Jr, e il mondo che ha prodotto Rachel, Tom e Vittorio.
Nel suo messaggio video, Omar Barghouti, uno dei fondatori della campagna BDS, ha infatti
ricordato come Israele stia al centro delle politiche dell'1%, quelle del militarismo, del
razzismo, della paura e dell'instabilità: Guerra Infinita Inc.
Solo qualche giorno prima della conferenza, il movimento Occupy Oakland in California
aveva votato quasi all´unanimità (135 a 1) a favore dell´adesione alla campagna BDS
(http://mondoweiss.net/2012/02/occupy-oaklands-landslide-bds-endorsement.html). Nelle
sessioni plenarie sono state presentate le campagne BDS di rilievo nazionale, tra cui quelle
di disinvestimento da parte della Chiesa Metodista e la Chiesa Presbiteriana, importantissime
sia per la portata dell´impatto economico sia per l´opportunità di coinvolgere gruppi religiosi.
Il prossimo aprile, circa mille delegati della Chiesa Metodista si uniranno per l´assemblea
generale che si svolge ogni quattro anni. Con la campagna United Methodist Kairos
Response (https://www.kairosresponse.org/), in risposta all´appello dei palestinesi cristiani, si
presenterà una mozione per il disinvestimento del fondo pensionistico della chiesa, il più
grande fondo per un gruppo religioso negli USA ($ 17 miliardi), da tre società coinvolte
nell´occupazione israeliana, HP, Caterpillar e Motorola.
All´assemblea generale della Chiesa Presbiteriana a luglio verrà presentata un´analoga
mozione per il disinvestimento dalle tre società, raccomandato dal proprio comitato per gli
investimenti socialmente responsabili, dopo anni spesi a cercare di convincere le società in
questione a cessare le attività in Israele.
Un´altra campagna di disinvestimento riguarda TIAA-CREF
(http://jewishvoiceforpeace.org/campaigns/tiaa-cref-divest-occupation), che gestisce fondi
per ospedali, università, non profit, sindacati e scuole. La campagna chiede il disinvestimento
da società statunitensi e internazionali, quali HP, Motorola, Northrop Grumman, Veolia,
Caterpillar e Elbit, tutte legate all´occupazione.
TIAA-CREF è stato scelto come target perché è il più grande fondo del suo genere nel
mondo, dal momento che controlla 400 miliardi di dollari, vanta 60 uffici locali in tutti gli Stati
Uniti e ci tiene alla sua immagine di responsabilità sociale. Inoltre, esiste un importante
precedente per il fondo, che in passato ha disinvestito da società legate al regime sudanese.
Gli oltre 20 workshop della conferenza hanno trattato argomenti come il boicottaggio
accademico, il BDS nella comunità afro-americana, l'uso dei social media, il diritto
internazionale, il boicottagio culturale, le azioni dirette, e infine il rapporto con i media e il
pinkwashing.
L´intervento in plenaria di Sarah Schulman ha combinato questi ultimi due argomenti. Autrice,
professore e nota attivista per i diritti LGBTQ, era riuscita a far pubblicare sul New York
Times lo scorso novembre un articolo sul pinkwashing
(http://www.nytimes.com/2011/11/23/opinion/pinkwashing-and-israels-use-of-gays-as-a-mess
aging-tool.html?_r=1), che riguarda l'atteggiamento gay-friendly di Israele che mira a creare
un´immagine di un paese moderno e progressista per nascondere le politiche d´oppressione
del popolo palestinese.
Alla domanda, "Come hai fatto a farlo pubblicare sul New York Times?", Schulman ha
raccontato il retroscena della vicenda.
L´aveva contattato un giovane redattore del giornale, un omosessuale cinese-americano, per
un articolo sul 30esimo anniversario del primo caso documentato di AIDS. Ma sapeva che
quello che voleva scrivere lei non era quello che voleva il giornale. E infatti non l´hanno
pubblicato.
Il giornalista, cercando di rimediare, le ha chiesto di proporre un pezzo: "Che ne dici del
pinkwashing?". "Che cos´è?". Dopo una breve spiegazione e la segnalazione di un articolo
sul Guardian, ha accettato.
La Schulman sapeva che avrebbe dovuto sottoporsi ad un controllo intensivo, quindi insieme
all´articolo di 900 parole, ha consegnato anche 190 pagine di documentazione!
Per mesi ha dovuto rispondere alle domande del Times, a volte assurde, ma ha sempre
saputo replicare grazie in parte a un team di ricercatrici queer che traducevano i documenti
da diverse lingue, incluse l'ebraico e l'arabo. Non sono quindi riusciti a trovare motivo per cui
non pubblicarlo.
Nel suo intervento alla serata presso l´università, Dershowitz ha anche accennato all´articolo
di Schulman, definendolo "Il più stupido mai pubblicato sul New York Times, scritto da una
professoressa idiota".
Nel discorso keynote, Ali Abunimah, co-fondatore del sito Electronic Intifada e numero due
nella classifica dell´Anti-Defamation League, ha portato la riflessione su cosa precisamente
significhi la domanda spesso posta dai difensori di Israele per 'pilotare' i discorsi: "Sostieni il
diritto di Israele a esistere come Stato ebraico?".
Abunimah ha ricordato che una delle prime cose che insegnano alla facoltà di legge è che
non esiste diritto senza rimedio, "ma il rimedio deve essere legittimo". Ha quindi chiesto
quale potrebbe essere un rimedio accettabile per sostenere questo diritto.
"Controllo della nascita dei bambini 'sbagliati', è cioè non ebrei? L´espulsione dei non ebrei?
La domanda per noi e per i nostri critici è: accetteresti questi rimedi? Perché se li accetti,
devi accettare anche le conseguenze morali di sostenere vili politiche di segregazione".
Alla fine del film Roadmap to Apartheid, il giornalista sudafricano Allister Sparks ha ricordato
che "non furono solo i neri ad essere liberati quando l'apartheid finì": "Io fui liberato. Tutti noi
lo ci liberammo da questa terribile visione corrosiva".
Nello stesso spirito, Susan Abulhawa si è rivolta agli israeliani dicendo: "La nostra unica
speranza è di trattarci da uguali. Dopo tutto quello che ci avete fatto, vi accetteremo
comunque come uguali. Ma non vi accetteremo mai come Padroni".
La campagna BDS non nega alcun diritto. Rappresenta una minaccia ai soli privilegi degli
ebrei israeliani perché non esiste il 'diritto alla superiorità'.
E come ha ricordato Anne Norton, professore di Scienze Politiche e Letteratura Comparata
all´Università della Pennsylvania, la campagna BDS non mette a tacere nessuno, anzi apre il
dibattito. È utile come strumento di pressione su Israele e altrettanto per sensibilizzare il
pubblico su quanto succede in Palestina.
Ancora oggi, a una distanza di due settimane, sulle pagine del giornale studentesco, The
Daily Pennsylvanian, si parla ancora della campagna BDS e della Palestina. Questo, di sé, è
già una vittoria.
KHADER ADNAN, RIMANE INCERTO IL SUO FUTURO
KHADER ADNAN, RIMANE INCERTO IL SUO FUTURO
Secondo la stampa locale il detenuto palestinese avrebbe accettato di sospendere lo sciopero della fame che ha attuato per 66 giorni in cambio della scarcerazione, tra due mesi, al termine del periodo di detenzione amministrativa.
Gerusalemme, 21 febbraio 2011, Nena News – Khader Adnan avrebbe accettato di mettere fine allo sciopero della fame che ha attuato per 66 giorni. Il condizionale è d’obbligo perché i contorni della soluzione raggiunta questa mattina rimangono vaghi. I media locali parlano di un’intesa tra le autorità israeliane ed i legali del prigioniero politico palestinese condannato, dai giudici militari, a quattro mesi di «detenzione amministrativa» (senza processo e solo sulla base di indizi). L’intesa, aggiungono, dovrà essere sottoposta alla Corte Suprema israeliana, per l’approvazione, forse già questa sera. Adnan nel frattempo resterà ricoverato nell’ospedale Ziv di Safed (Galilea), viste le sue precarie condizioni di salute.
Queste notizie tuttavia non hanno trovato una piena conferma, almeno sino a questo momento, e diversi attivisti palestinesi, tra i tanti che si sono mobilitati a sostegno della battaglia di Khader Adnan, dicono, anche via Twitter e Facebook, che i termini della vicenda vanno ancira chiariti. Anche perché, secondo il quotidiano Haaretz, la scarcerazione, il prossimo 17 aprile, del detenuto palestinese avverrà solo se nelle prossime settimane non sopraggiungeranno elementi nuovi a suo carico.
E’ una conclusione in agrodolce, con un compromesso che soddisfa solo in minima parte le richieste di Adnan e dei suoi sostenitori in Palestina e all’estero. In ogni caso è servita ad alzare il velo sulla detenzione amministrativa. Originariamente basata sui Regolamenti di emergenza del mandato britannico del 1945, questa misura «cautelare» è stata ripresa nel 1970 dall’Ordine militare 1651 ed è entrata ufficialmente nell’ordinamento israeliano nel 1979. Alla sua scadenza la carcerazione può essere prolungata più volte dai giudici militari, sempre e soltanto sulla base di indizi e sospetti e non di prove concrete. Attualmente sono 310 i prigionieri palestinesi condannati senza processo, 18 dei quali membri del Consiglio legislativo palestinese. Nena News
Secondo la stampa locale il detenuto palestinese avrebbe accettato di sospendere lo sciopero della fame che ha attuato per 66 giorni in cambio della scarcerazione, tra due mesi, al termine del periodo di detenzione amministrativa.
Gerusalemme, 21 febbraio 2011, Nena News – Khader Adnan avrebbe accettato di mettere fine allo sciopero della fame che ha attuato per 66 giorni. Il condizionale è d’obbligo perché i contorni della soluzione raggiunta questa mattina rimangono vaghi. I media locali parlano di un’intesa tra le autorità israeliane ed i legali del prigioniero politico palestinese condannato, dai giudici militari, a quattro mesi di «detenzione amministrativa» (senza processo e solo sulla base di indizi). L’intesa, aggiungono, dovrà essere sottoposta alla Corte Suprema israeliana, per l’approvazione, forse già questa sera. Adnan nel frattempo resterà ricoverato nell’ospedale Ziv di Safed (Galilea), viste le sue precarie condizioni di salute.
Queste notizie tuttavia non hanno trovato una piena conferma, almeno sino a questo momento, e diversi attivisti palestinesi, tra i tanti che si sono mobilitati a sostegno della battaglia di Khader Adnan, dicono, anche via Twitter e Facebook, che i termini della vicenda vanno ancira chiariti. Anche perché, secondo il quotidiano Haaretz, la scarcerazione, il prossimo 17 aprile, del detenuto palestinese avverrà solo se nelle prossime settimane non sopraggiungeranno elementi nuovi a suo carico.
E’ una conclusione in agrodolce, con un compromesso che soddisfa solo in minima parte le richieste di Adnan e dei suoi sostenitori in Palestina e all’estero. In ogni caso è servita ad alzare il velo sulla detenzione amministrativa. Originariamente basata sui Regolamenti di emergenza del mandato britannico del 1945, questa misura «cautelare» è stata ripresa nel 1970 dall’Ordine militare 1651 ed è entrata ufficialmente nell’ordinamento israeliano nel 1979. Alla sua scadenza la carcerazione può essere prolungata più volte dai giudici militari, sempre e soltanto sulla base di indizi e sospetti e non di prove concrete. Attualmente sono 310 i prigionieri palestinesi condannati senza processo, 18 dei quali membri del Consiglio legislativo palestinese. Nena News
lunedì 20 febbraio 2012
Khader Adnan in pericolo immediato, la Corte di Israele non ha fretta.
da Addameer, Phisicans for Human Rights – Israel
La Corte Suprema di Giustizia di Israele ha fissato l’udienza relativa al caso dello sciopero della fame del prigioniero in detenzione amministrativa Khader Adnan per il 23 febbraio 2012. E’ stata stabilita questa data, nonostante un referto medico che Adnan è in “immediato pericolo”. La comunità internazionale è chiamata a considerare Israele responsabile.
La Suprema Corte di Giustizia israeliana, oggi, ha fissato che l’udienza per le istanze concernenti il caso di Khader Adnan si terrà giovedì 23 febbraio 2012 alle ore 11:30. La petizione è stata presentata dai suoi avvocati il 15 febbraio. Alla Suprema Corte di Giustizia è stata fornita una relazione medica dettagliata preparata il 14 febbraio da un medico accreditato israeliano per conto dei Medici per i Diritti Umani – Israele (PHR – Israel). Nonostante l’accurato referto medico, che ha confermato che Khader Adnan “è in immediato pericolo di morte,” e che “un digiuno che superi i 70 giorni non rende possibile la sopravvivenza”, la Corte Suprema di Giustizia ha programmato la sessione di istanza per il 23 febbraio senz’alcuna garanzia che nello stesso giorno verrà presa una qualche decisione. A quel punto, se vivo, Khader Adnan avrà raggiunto il 69° giorno dello sciopero della fame in corso.
Addameer e PHR – il si rammaricano che, alla luce di questo importante referto medico, la pressione esercitata dalla comunità locale e internazionale, comprese le dichiarazioni dell’Alto Rappresentante dell’Unione Europea, Catherine Ashton, il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace nel Medio Oriente, Robert Serrey e il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei palestinesi, Richard Falk, nella definizione da parte della Corte Suprema dell’udienza per le istanze siano state prese in considerazione in ritardo.
Khader Adnan è stato arrestato il 17 dicembre 2011 alle ore 3:30. In data 8 gennaio 2012 è stato emesso un ordine di detenzione amministrativa di quattro mesi. L’ingiunzione è stata formulata in base alla decisione del comandante militare Koles Yair. Il 7 febbraio, il giudice militare Dalya Kaufman ha confermato l’ordine di detenzione amministrativa.
L’udienza d’appello originale di Khader ha avuto luogo il 9 febbraio in una stanza del Zif Medical Center di Safad dove Khader era stato ricoverato a causa delle sue condizioni di salute conseguenti allo sciopero della fame in corso. A prescindere dal suo stato di salute la Corte d’appello ha rinviato la sua decisione al 13 febbraio 2012, che rappresenta il 58° giorno del suo sciopero della fame in atto. La sentenza di rigetto del ricorso emesso dal giudice Moshe Tirosh dichiara che questi ha rilevato che il verdetto di detenzione amministrativa sulla base di “prove segrete” è stato equilibrato, e che Khader doveva incolpare solo se stesso per il suo stato di salute dovuto alla sua scelta di continuare lo sciopero della fame.
Il 16 febbraio, gli avvocati di Addameer e di Hamoked congiuntamente hanno consegnato una petizione a Koles Yair, comandante militare dei territori palestinesi occupati competente per il rilascio dell’ordine di detenzione amministrativa, chiedendogli di annullare l’ordine dei quattro mesi di detenzione amministrativa e di rilasciare subito Khader Adnan sulla base del fatto che, a causa della sua condizione di salute, il comandante non può più sostenere le accuse infondate secondo le quali questi rappresenta una minaccia immediata alla sicurezza della zona o la pubblica sicurezza dello Stato d’Israele, per cui, continuando a tenerlo in detenzione amministrativa ogni cosa in più, a prima vista, risulta una violazione del diritto internazionale e di quello israeliano ed equivale a una detenzione arbitraria.
Fino a ora, né Hamoked, né Addameer hanno ricevuto una qualche risposta a quanto richiesto.
Addameer e PHR-Israele condannano il fatto che il governo di Israele persevera nella sua intenzionale inerzia differendo, in spregio all’urgenza, il caso di Khader Adnan. Esse ritengono il governo responsabile per la sua vita.
Addameer e PHR-Israele fanno appello alle comunità locali e internazionali di:
- Fare pressione sul comandante militare , Yair Koles, perché cancelli immediatamente l’ordine di detenzione amministrativa di Khader Adnan.
- Fare pressione sulla Corte Suprema di Israele per rinegoziare l’udienza per una data più vicina.
- Fare pressione sul governo di Israele per l’immediato rilascio di Khader Adnan.
- Inviare rappresentanti alla Corte Suprema di Giustizia di Israele per partecipare all’udienza aperta per l’istanza riguardante Khader Adnan.
- Fare pressione sul governo di Israele perché si conformi al diritto internazionale e ponga fine alle pratiche illegali della detenzione arbitraria e
rilasci tutti i palestinesi in detenzione amministrativa.
(tradotto da mariano mingarelli)
La Corte Suprema di Giustizia di Israele ha fissato l’udienza relativa al caso dello sciopero della fame del prigioniero in detenzione amministrativa Khader Adnan per il 23 febbraio 2012. E’ stata stabilita questa data, nonostante un referto medico che Adnan è in “immediato pericolo”. La comunità internazionale è chiamata a considerare Israele responsabile.
La Suprema Corte di Giustizia israeliana, oggi, ha fissato che l’udienza per le istanze concernenti il caso di Khader Adnan si terrà giovedì 23 febbraio 2012 alle ore 11:30. La petizione è stata presentata dai suoi avvocati il 15 febbraio. Alla Suprema Corte di Giustizia è stata fornita una relazione medica dettagliata preparata il 14 febbraio da un medico accreditato israeliano per conto dei Medici per i Diritti Umani – Israele (PHR – Israel). Nonostante l’accurato referto medico, che ha confermato che Khader Adnan “è in immediato pericolo di morte,” e che “un digiuno che superi i 70 giorni non rende possibile la sopravvivenza”, la Corte Suprema di Giustizia ha programmato la sessione di istanza per il 23 febbraio senz’alcuna garanzia che nello stesso giorno verrà presa una qualche decisione. A quel punto, se vivo, Khader Adnan avrà raggiunto il 69° giorno dello sciopero della fame in corso.
Addameer e PHR – il si rammaricano che, alla luce di questo importante referto medico, la pressione esercitata dalla comunità locale e internazionale, comprese le dichiarazioni dell’Alto Rappresentante dell’Unione Europea, Catherine Ashton, il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace nel Medio Oriente, Robert Serrey e il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei palestinesi, Richard Falk, nella definizione da parte della Corte Suprema dell’udienza per le istanze siano state prese in considerazione in ritardo.
Khader Adnan è stato arrestato il 17 dicembre 2011 alle ore 3:30. In data 8 gennaio 2012 è stato emesso un ordine di detenzione amministrativa di quattro mesi. L’ingiunzione è stata formulata in base alla decisione del comandante militare Koles Yair. Il 7 febbraio, il giudice militare Dalya Kaufman ha confermato l’ordine di detenzione amministrativa.
L’udienza d’appello originale di Khader ha avuto luogo il 9 febbraio in una stanza del Zif Medical Center di Safad dove Khader era stato ricoverato a causa delle sue condizioni di salute conseguenti allo sciopero della fame in corso. A prescindere dal suo stato di salute la Corte d’appello ha rinviato la sua decisione al 13 febbraio 2012, che rappresenta il 58° giorno del suo sciopero della fame in atto. La sentenza di rigetto del ricorso emesso dal giudice Moshe Tirosh dichiara che questi ha rilevato che il verdetto di detenzione amministrativa sulla base di “prove segrete” è stato equilibrato, e che Khader doveva incolpare solo se stesso per il suo stato di salute dovuto alla sua scelta di continuare lo sciopero della fame.
Il 16 febbraio, gli avvocati di Addameer e di Hamoked congiuntamente hanno consegnato una petizione a Koles Yair, comandante militare dei territori palestinesi occupati competente per il rilascio dell’ordine di detenzione amministrativa, chiedendogli di annullare l’ordine dei quattro mesi di detenzione amministrativa e di rilasciare subito Khader Adnan sulla base del fatto che, a causa della sua condizione di salute, il comandante non può più sostenere le accuse infondate secondo le quali questi rappresenta una minaccia immediata alla sicurezza della zona o la pubblica sicurezza dello Stato d’Israele, per cui, continuando a tenerlo in detenzione amministrativa ogni cosa in più, a prima vista, risulta una violazione del diritto internazionale e di quello israeliano ed equivale a una detenzione arbitraria.
Fino a ora, né Hamoked, né Addameer hanno ricevuto una qualche risposta a quanto richiesto.
Addameer e PHR-Israele condannano il fatto che il governo di Israele persevera nella sua intenzionale inerzia differendo, in spregio all’urgenza, il caso di Khader Adnan. Esse ritengono il governo responsabile per la sua vita.
Addameer e PHR-Israele fanno appello alle comunità locali e internazionali di:
- Fare pressione sul comandante militare , Yair Koles, perché cancelli immediatamente l’ordine di detenzione amministrativa di Khader Adnan.
- Fare pressione sulla Corte Suprema di Israele per rinegoziare l’udienza per una data più vicina.
- Fare pressione sul governo di Israele per l’immediato rilascio di Khader Adnan.
- Inviare rappresentanti alla Corte Suprema di Giustizia di Israele per partecipare all’udienza aperta per l’istanza riguardante Khader Adnan.
- Fare pressione sul governo di Israele perché si conformi al diritto internazionale e ponga fine alle pratiche illegali della detenzione arbitraria e
rilasci tutti i palestinesi in detenzione amministrativa.
(tradotto da mariano mingarelli)
Siria: punto di non ritorno del Medio Oriente
Siria: punto di non ritorno del Medio Oriente
di Nassar Ibrahim
La lotta in Siria non riguarda solo la Siria: è una lotta per un Medio Oriente libero e democratico che vive ora sotto il giogo dell’egemonia statunitense e israeliana.
Il conflitto siriano ha raggiunto il suo punto di non ritorno. A questo livello non è più accettabile né ragionevole continuare a giocare nella zona grigia nel nome della diplomazia, perché la lotta in Siria ha un significato cruciale per diverse ragioni strategiche.
L’importanza della questione siriana va ricercata nel ruolo chiave che il Paese svolge nel contesto geostrategico regionale. La sua posizione è strettamente interdipendente ai cambiamenti a cui assisteremo nel mondo arabo nel prossimo decennio e i cui risultati saranno fortemente subordinati a quando accadrà in Siria. Per essere chiari, i movimenti di cui siamo testimoni in questo periodo influenzeranno il destino degli equilibri regionali e globali su più di un’asse.
Dal momento in cui la Lega Araba ha deciso di sospendere la membership della Siria, assumendo una serie di sanzioni contro il popolo siriano, gli scontri scoppiati in Siria si sono spostati ad un altro livello. Ciò è diventato ancora più chiaro con la seconda risoluzione proposta dalle Nazioni Unite – che chiedeva una transizione democratica e la caduta di Bashar Al Assad – ma fermata dal veto di Russia e Cina per la seconda volta in quattro mesi. Sono stati due i tentativi di preparare il terreno per un intervento militare, voluto da Stati Uniti, Paesi europei e arabi e per cui hanno votato 13 dei 15 membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Un simile ardore ricorda il clima internazionale prima della guerra contro l’Iraq scoppiata nel 2003.
Con i recenti sviluppi, la facciata è crollata mostrando i veri obiettivi nascosti dietro le maschere e rivelando che gli slogan per la libertà, la democrazia e i diritti umani sono stati usati come testa di ariete da chi vuole un intervento concreto per distruggere la Siria. Lo scopo appare chiaro: deprivare il Paese del suo ruolo e il popolo siriano della sua volontà. Va ricordato che la Siria ha sempre avuto una posizione rilevante nella storia araba, esempio di una civilizzazione lunga un secolo e di strutture statali solide e punto di riferimento per l’intero mondo arabo, non solo per la sua posizione geografica, ma anche per il suo spirito anticoloniale e la sua storica resistenza allo Stato di Israele, longa manus dei poteri coloniali occidentali in Medio Oriente.
Tali elementi, che hanno determinato la natura dei sentimenti nazionali popolari, sono completamente ignorati dagli avvocati dei “diritti umani, la democrazia e la libertà” (in particolare dai regimi reazionari del Golfo, dalla Turchia, dal movimento Hariri libanese e dai gruppi islamici siriani), assunti dall’alleanza USA-Francia-Qatar. Ironicamente, le nazioni che hanno preso il nome della famiglia dominante (l’Arabia Saudita) o i cui leader sono saliti al potere con un colpo di stato mentre i padri erano all’estero (Sheikh Hamad bin Kalifa in Qatar) implorano oggi per un intervento della NATO chiedendo la distruzione della Siria dietro lo scudo dei diritti umani e della democrazia. All’apice della loro frustrazione – essendo incapaci di produrre un cambiamento di regime per dieci mesi nonostante i loro sforzi mediatici, finanziari e militari – il capo dell’opposizione Burhan Ghalioun ha già annunciato la sua intenzione di aprire la Siria ad alleanze con l’Occidente, di porre fine alle relazioni con l’Iran e con le resistenze libanese e palestinese e infine di stabilire buoni rapporti con Israele, se il suo progetto avrà successo. Questo cambiamento verso una più forte inclusione nell’economia di mercato e una penetrazione delle forze coloniali priverebbe la Siria del suo storico ruolo e certamente non rappresenterebbe gli interessi del popolo siriano.
L’obiettivo occidentale per la Siria e il Medio Oriente in genere è quello di consolidare progressivamente il controllo sulla regione. La cosiddetta “guerra al terrore” cominciata dopo l’11 settembre è espressione della volontà di cooptare il Medio Oriente, così come avvenuto con l’occupazione in Afghanistan, la caduta di Baghdad nel 2003, la guerra di Israele al Libano nel 2006 e infine con l’attacco israeliano a Gaza tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Gli Stati Uniti, tuttavia, si sono trovati di fronte movimenti di resistenza e opposizione.
Washington è rimasto sorpreso dalla caduta di Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia, il crollo del regime di Hosni Mubarak in Egitto e lo scoppio dei movimenti di protesta in tanti Paesi arabi. Il gioco, che fino ad allora era apparso chiaro, si è distorto e l’equazione si è modificata. Tali rovesciamenti hanno costretto l’Occidente a riformulare strategie e politiche al fine di contenere e controllare il cambiamento sociale. Ciò è diventato ancora più importante alla luce della sconfitta subita dagli USA in Iraq dopo nove anni di guerra sotto la pressione della resistenza irachena, di cinquemila morti e una spesa militare stimata di tremila miliardi di dollari.
A questo punto, l’alleanza tra gli Stati Uniti e i regimi reazionari non poteva più definire l’agenda in modo palese. La strategia è cambiata coinvolgendo l’opinione pubblica e spingendo i regimi arabi a entrare nel conflitto siriano. Un forte impegno è sembrato essere l’unica possibilità di compensare le perdite in Afghanistan e Iran e di proteggere i governi reazionari dalla Primavera Araba.
Così, l’imperialismo e le forze reazionarie – la NATO e i suoi alleati nel Golfo – hanno deciso velocemente di intervenire contro la Siria, optando per due possibili scenari. La prima opzione era cavalcare l’onda delle rivolte arabe, impegnandosi per rovesciare la Siria attraverso una guerra totale, politica, psicologica e mediatica, incluse l’internazionalizzazione della crisi e la richiesta di un intervento esterno (come quello attuato in Libia): l’obiettivo, trasformare un Paese ostile alla NATO in uno Stato satellite simile agli altri regimi arabi reazionari e portarlo nell’orbita del colonialismo occidentale.
Se questo non accadrà, potremmo vedere le forze occidentali affondare la Siria in un pantano di distruzione, esaurire le sue risorse statali e sociali e, così facendo, cancellare i risultati raggiunti dal suo ruolo storico a livello regionale e internazionale. Ciò può essere realizzato alimentando la violenza settaria e armando organizzazioni terroristiche e gruppi estremisti formati per prosciugare le strutture e le istituzioni dello Stato, al fine di distorcere i modelli sociali e religiosi e condannare la Siria a conflitti interni di lungo periodo.
In tale contesto, dobbiamo analizzare le posizioni di potere dei vari attori coinvolti nelle lotte di questi mesi. Sono due i fronti che si oppongono. Il primo comprende gli Stati Uniti, Israele, i Paesi dell’Europa Occidentale, i regimi arabi reazionari rappresentati dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, i segmenti più conservatori delle società del Golfo e la Turchia, che sta cercando di ottenere un ruolo forte nella regione. Il secondo è il popolo siriano che sta chiedendo un cambiamento, lo Stato siriano e le forze di resistenza politica e culturale, specialmente in Libano e Palestina, fino all’Algeria e all’Iran.
Qui c’è un elemento da sottolineare: il regime siriano – e il partito Baath in particolare – va duramente criticato per le sue politiche repressive. La volontà del popolo di cambiamento e riforme deve essere rispettata e sostenuta. Ma il fatto che il regime non sia stato ancora rovesciato mostra che l’equilibrio interno di potere è diverso da quello presentato dai media internazionali. Il ruolo cruciale del partito Baath nella creazione di strutture statali (ad esempio, i sistemi sanitario e scolastico) e nel sostegno ai movimenti di resistenza – in primo luogo quello palestinese – non è stato dimenticato dal popolo siriano. Inoltre, se poteri stranieri stanno chiamando alla distruzione dello Stato e le istituzioni siriane, il regime dovrebbe rispondere alle richieste di riforma del suo popolo. Una transizione è necessaria, ma non dovrebbe realizzarsi al prezzo dello smantellamento della Siria e del diniego del diritto del popolo all’autodeterminazione, conseguenze camuffate da democratizzazione.
Le pressioni interne hanno giù dato prova della capacità di spingere il regime ad aprirsi alle riforme, annunciate nei mesi scorsi e comprendenti la cancellazione della legge di emergenza in vigore dal 1963, riforme costituzionali per le elezioni presidenziali e locali, pluralismo partitico con quattro nuovi partiti legalizzati e altri cinque in via di legalizzazione, riforme economiche che revocano gli accordi di libero commercio che danneggiano gli interessi dei piccoli e medi imprenditori siriani. Ma le riforme hanno bisogno di tempo e di spazio per dare risultati e per dimostrare che la democratizzazione è possibile senza i diktat occidentali.
Quello che sta avvenendo in Siria ora non è un conflitto locale, ma l’espressione dello scontro tra la visione americana e israeliana di un “nuovo Medio Oriente” da una parte e i movimenti di resistenza e le opposizione che combattono per un reale cambiamento sociale e democratico dall’altra.
Il confronto si muove su tre livelli indipendenti:
Il primo livello: il confronto tra i partiti di resistenza e opposizione che combattono per i diritti politici, economici e culturali contro il progetto sionista in tutte le sue dimensioni e i suoi obiettivi.
Le conseguenze del conflitto a questo livello determineranno il futuro della causa palestinese, o con il superamento dell’impasse creata dagli accordi di Oslo o attraverso la dipendenza dai Paesi arabi e il conseguente indebolimento della resistenza palestinese. Significa che il mondo arabo dovrebbe prendere l’iniziativa, spingendo per i diritti nazionali palestinesi e combattendo il progetto sionista come preludio alla sua sconfitta. Altrimenti il confronto porterà alla distruzione del cuore della resistenza e alla vittoria del sionismo, ovvero all’annichilimento dei diritti palestinesi.
Il secondo livello: un confronto tra il tentativo coloniale USA-UE di dominare la regione, con il supporto delle forze reazionarie in Turchia e nei regimi arabi, e l’asse russo-cinese, sostenuto dai poteri emergenti internazionali come Iran, Brasile e India.
Tale confronto determinerà i parametri di nuovi equilibri globali, mirando a superare l’egemonia americana e a ripristinare il ruolo di moderazione di Russia e Cina e portando a rimodellare le relazioni internazionali, compresa la riforma delle Nazioni Unite, sempre più dominate dagli interessi statunitensi negli ultimi vent’anni. Russia e Cina, insieme agli altri Paesi emergenti (India, Sud Africa, Brasile, Venezuela e buona parte dell’America Latina) intendono modificare i rapporti globali sulla base di un equilibrio più giusto piuttosto che su quella della dominazione USA uscita dalla Seconda Guerra Mondiale e rinforzata dal crollo dell’Unione Sovietica.
L’alternativa ad una simile situazione sarebbe l’esecuzione del piano americano di distruggere la Siria, con la possibilità di riorganizzare la regione secondo strategie e interessi statunitensi.
Il terzo livello: Il confronto a livello sociopolitico e ideologico tra le forze religiose reazionarie e i salafiti da un lato e i movimenti progressisti laici dall’altra, con i loro rispettivi attori sociali e politici.
Questo determinerà la natura del cambiamento nella regione e nelle comunità arabe, sia portando l’area in uno stato di declino, sia guidando la creazione di nuovi sistemi di potere reazionari in nome della religione, conseguenza che porrà fine al processo di cambiamento democratico nella sua espressione nazionale progressista. Ciò è quello a cui assisteremo se la NATO interverrà e manipolerà la capacità araba di realizzare un processo di democratizzazione, restaurando ancora una volta la “democrazia” coloniale. In alternativa, la democratizzazione sociopolitica giungerà ad un nuovo livello nelle società arabe, diventando un fenomeno genuino e profondo che potrebbe essere modello per il cambiamento in Siria. Questo illuminerebbe il percorso della nazione araba verso la liberazione dallo stato di dipendenza dall’Occidente, permettendo l’avvio di una fase di progresso e il posizionamento a livello internazionale.
Alla luce di questa analisi e dell’interdipendenza dei tre livelli di confronto, il conflitto in Siria deve essere visto non solo come lotta per punire le posizioni o le politiche repressive del regime di Assad. È un conflitto per determinare il futuro della regione. In tal senso, il confronto trascende letture superficiali. Un successo della Siria va oltre la sopravvivenza dello Stato in resistenza agli interventi esteri coloniali e al tentativo di smantellamento. È importante, ma il vero successo dipende dalla capacità di realizzare un processo riformatore profondo, radicale e totale, focalizzandosi sulle istituzioni siriane, sulla società e gli apparati statali. Obiettivo di una simile democratizzazione dovrebbe essere il coinvolgimento di tutto il potenziale della società siriana, specialmente alla luce dell’alto livello di consapevolezza dimostrato in momenti storici cruciali. Il popolo, che tramite le sue proteste e allo stesso tempo la sua resistenza all’intervento esterno non è caduto nella trappola degli accecanti slogan di democrazia e diritti umani, è stato una grande sorpresa per coloro che avevano scommesso sulla sua sconfitta. Il popolo ha dimostrato al regime di Assad di volere e di essere in grado di realizzare un vero cambiamento democratico, molto di più della mera imitazione di modelli esterni.
La lotta in Siria rivela che gli attuali sviluppi sono stati alimentati dai poteri coloniali. L’obiettivo cercato dagli attori reazionari è di impedire alla Siria di costruire il proprio modello democratico come alternativa al progetto “coloniale democratico” occidentale. La politica occidentale implementata contro il regime di Assad mira alla subordinazione e alla dipendenza della Siria come strategia di contenimento delle rivoluzioni arabe, per controllarle e mantenerle sotto l’ombrello della visione americana, dopo il suo fallimento nel proteggere gli alleati arabi dalle rivolte di massa. L’interesse occidentale a mantenere le redini del cambiamento nel mondo arabo spiega il riposizionamento dei poteri coloniali a favore dell’Islam politico, specialmente i Fratelli Musulmani, saliti al potere in Tunisia, Libia e Egitto.
A loro volta, i movimenti islamici stanno dimostrando di essere meno pericolosi per gli interessi occidentali di quanto i leader, gli analisti e i media li definissero. Guardando all’ostile retorica del passato, vediamo che i movimenti islamisti al potere stanno, di fatto, ripensando la loro attitudine al fine di costruire ponti verso i Paesi occidentali, come preludio alla creazione di nuove alleanze nella regione.
Non c’è più spazio per rimanere neutrali o ambigui in merito ad un simile confronto e il compito della resistenza e di coloro che combattono per un cambiamento democratico in tutto il mondo arabo – attori che non dovrebbero essere dimenticati – è di far evolvere e di proteggere la Siria e l’intero Medio Oriente.
Tradotto in italiano da Emma Mancini (Alternative Information Center)
di Nassar Ibrahim
La lotta in Siria non riguarda solo la Siria: è una lotta per un Medio Oriente libero e democratico che vive ora sotto il giogo dell’egemonia statunitense e israeliana.
Il conflitto siriano ha raggiunto il suo punto di non ritorno. A questo livello non è più accettabile né ragionevole continuare a giocare nella zona grigia nel nome della diplomazia, perché la lotta in Siria ha un significato cruciale per diverse ragioni strategiche.
L’importanza della questione siriana va ricercata nel ruolo chiave che il Paese svolge nel contesto geostrategico regionale. La sua posizione è strettamente interdipendente ai cambiamenti a cui assisteremo nel mondo arabo nel prossimo decennio e i cui risultati saranno fortemente subordinati a quando accadrà in Siria. Per essere chiari, i movimenti di cui siamo testimoni in questo periodo influenzeranno il destino degli equilibri regionali e globali su più di un’asse.
Dal momento in cui la Lega Araba ha deciso di sospendere la membership della Siria, assumendo una serie di sanzioni contro il popolo siriano, gli scontri scoppiati in Siria si sono spostati ad un altro livello. Ciò è diventato ancora più chiaro con la seconda risoluzione proposta dalle Nazioni Unite – che chiedeva una transizione democratica e la caduta di Bashar Al Assad – ma fermata dal veto di Russia e Cina per la seconda volta in quattro mesi. Sono stati due i tentativi di preparare il terreno per un intervento militare, voluto da Stati Uniti, Paesi europei e arabi e per cui hanno votato 13 dei 15 membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Un simile ardore ricorda il clima internazionale prima della guerra contro l’Iraq scoppiata nel 2003.
Con i recenti sviluppi, la facciata è crollata mostrando i veri obiettivi nascosti dietro le maschere e rivelando che gli slogan per la libertà, la democrazia e i diritti umani sono stati usati come testa di ariete da chi vuole un intervento concreto per distruggere la Siria. Lo scopo appare chiaro: deprivare il Paese del suo ruolo e il popolo siriano della sua volontà. Va ricordato che la Siria ha sempre avuto una posizione rilevante nella storia araba, esempio di una civilizzazione lunga un secolo e di strutture statali solide e punto di riferimento per l’intero mondo arabo, non solo per la sua posizione geografica, ma anche per il suo spirito anticoloniale e la sua storica resistenza allo Stato di Israele, longa manus dei poteri coloniali occidentali in Medio Oriente.
Tali elementi, che hanno determinato la natura dei sentimenti nazionali popolari, sono completamente ignorati dagli avvocati dei “diritti umani, la democrazia e la libertà” (in particolare dai regimi reazionari del Golfo, dalla Turchia, dal movimento Hariri libanese e dai gruppi islamici siriani), assunti dall’alleanza USA-Francia-Qatar. Ironicamente, le nazioni che hanno preso il nome della famiglia dominante (l’Arabia Saudita) o i cui leader sono saliti al potere con un colpo di stato mentre i padri erano all’estero (Sheikh Hamad bin Kalifa in Qatar) implorano oggi per un intervento della NATO chiedendo la distruzione della Siria dietro lo scudo dei diritti umani e della democrazia. All’apice della loro frustrazione – essendo incapaci di produrre un cambiamento di regime per dieci mesi nonostante i loro sforzi mediatici, finanziari e militari – il capo dell’opposizione Burhan Ghalioun ha già annunciato la sua intenzione di aprire la Siria ad alleanze con l’Occidente, di porre fine alle relazioni con l’Iran e con le resistenze libanese e palestinese e infine di stabilire buoni rapporti con Israele, se il suo progetto avrà successo. Questo cambiamento verso una più forte inclusione nell’economia di mercato e una penetrazione delle forze coloniali priverebbe la Siria del suo storico ruolo e certamente non rappresenterebbe gli interessi del popolo siriano.
L’obiettivo occidentale per la Siria e il Medio Oriente in genere è quello di consolidare progressivamente il controllo sulla regione. La cosiddetta “guerra al terrore” cominciata dopo l’11 settembre è espressione della volontà di cooptare il Medio Oriente, così come avvenuto con l’occupazione in Afghanistan, la caduta di Baghdad nel 2003, la guerra di Israele al Libano nel 2006 e infine con l’attacco israeliano a Gaza tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Gli Stati Uniti, tuttavia, si sono trovati di fronte movimenti di resistenza e opposizione.
Washington è rimasto sorpreso dalla caduta di Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia, il crollo del regime di Hosni Mubarak in Egitto e lo scoppio dei movimenti di protesta in tanti Paesi arabi. Il gioco, che fino ad allora era apparso chiaro, si è distorto e l’equazione si è modificata. Tali rovesciamenti hanno costretto l’Occidente a riformulare strategie e politiche al fine di contenere e controllare il cambiamento sociale. Ciò è diventato ancora più importante alla luce della sconfitta subita dagli USA in Iraq dopo nove anni di guerra sotto la pressione della resistenza irachena, di cinquemila morti e una spesa militare stimata di tremila miliardi di dollari.
A questo punto, l’alleanza tra gli Stati Uniti e i regimi reazionari non poteva più definire l’agenda in modo palese. La strategia è cambiata coinvolgendo l’opinione pubblica e spingendo i regimi arabi a entrare nel conflitto siriano. Un forte impegno è sembrato essere l’unica possibilità di compensare le perdite in Afghanistan e Iran e di proteggere i governi reazionari dalla Primavera Araba.
Così, l’imperialismo e le forze reazionarie – la NATO e i suoi alleati nel Golfo – hanno deciso velocemente di intervenire contro la Siria, optando per due possibili scenari. La prima opzione era cavalcare l’onda delle rivolte arabe, impegnandosi per rovesciare la Siria attraverso una guerra totale, politica, psicologica e mediatica, incluse l’internazionalizzazione della crisi e la richiesta di un intervento esterno (come quello attuato in Libia): l’obiettivo, trasformare un Paese ostile alla NATO in uno Stato satellite simile agli altri regimi arabi reazionari e portarlo nell’orbita del colonialismo occidentale.
Se questo non accadrà, potremmo vedere le forze occidentali affondare la Siria in un pantano di distruzione, esaurire le sue risorse statali e sociali e, così facendo, cancellare i risultati raggiunti dal suo ruolo storico a livello regionale e internazionale. Ciò può essere realizzato alimentando la violenza settaria e armando organizzazioni terroristiche e gruppi estremisti formati per prosciugare le strutture e le istituzioni dello Stato, al fine di distorcere i modelli sociali e religiosi e condannare la Siria a conflitti interni di lungo periodo.
In tale contesto, dobbiamo analizzare le posizioni di potere dei vari attori coinvolti nelle lotte di questi mesi. Sono due i fronti che si oppongono. Il primo comprende gli Stati Uniti, Israele, i Paesi dell’Europa Occidentale, i regimi arabi reazionari rappresentati dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, i segmenti più conservatori delle società del Golfo e la Turchia, che sta cercando di ottenere un ruolo forte nella regione. Il secondo è il popolo siriano che sta chiedendo un cambiamento, lo Stato siriano e le forze di resistenza politica e culturale, specialmente in Libano e Palestina, fino all’Algeria e all’Iran.
Qui c’è un elemento da sottolineare: il regime siriano – e il partito Baath in particolare – va duramente criticato per le sue politiche repressive. La volontà del popolo di cambiamento e riforme deve essere rispettata e sostenuta. Ma il fatto che il regime non sia stato ancora rovesciato mostra che l’equilibrio interno di potere è diverso da quello presentato dai media internazionali. Il ruolo cruciale del partito Baath nella creazione di strutture statali (ad esempio, i sistemi sanitario e scolastico) e nel sostegno ai movimenti di resistenza – in primo luogo quello palestinese – non è stato dimenticato dal popolo siriano. Inoltre, se poteri stranieri stanno chiamando alla distruzione dello Stato e le istituzioni siriane, il regime dovrebbe rispondere alle richieste di riforma del suo popolo. Una transizione è necessaria, ma non dovrebbe realizzarsi al prezzo dello smantellamento della Siria e del diniego del diritto del popolo all’autodeterminazione, conseguenze camuffate da democratizzazione.
Le pressioni interne hanno giù dato prova della capacità di spingere il regime ad aprirsi alle riforme, annunciate nei mesi scorsi e comprendenti la cancellazione della legge di emergenza in vigore dal 1963, riforme costituzionali per le elezioni presidenziali e locali, pluralismo partitico con quattro nuovi partiti legalizzati e altri cinque in via di legalizzazione, riforme economiche che revocano gli accordi di libero commercio che danneggiano gli interessi dei piccoli e medi imprenditori siriani. Ma le riforme hanno bisogno di tempo e di spazio per dare risultati e per dimostrare che la democratizzazione è possibile senza i diktat occidentali.
Quello che sta avvenendo in Siria ora non è un conflitto locale, ma l’espressione dello scontro tra la visione americana e israeliana di un “nuovo Medio Oriente” da una parte e i movimenti di resistenza e le opposizione che combattono per un reale cambiamento sociale e democratico dall’altra.
Il confronto si muove su tre livelli indipendenti:
Il primo livello: il confronto tra i partiti di resistenza e opposizione che combattono per i diritti politici, economici e culturali contro il progetto sionista in tutte le sue dimensioni e i suoi obiettivi.
Le conseguenze del conflitto a questo livello determineranno il futuro della causa palestinese, o con il superamento dell’impasse creata dagli accordi di Oslo o attraverso la dipendenza dai Paesi arabi e il conseguente indebolimento della resistenza palestinese. Significa che il mondo arabo dovrebbe prendere l’iniziativa, spingendo per i diritti nazionali palestinesi e combattendo il progetto sionista come preludio alla sua sconfitta. Altrimenti il confronto porterà alla distruzione del cuore della resistenza e alla vittoria del sionismo, ovvero all’annichilimento dei diritti palestinesi.
Il secondo livello: un confronto tra il tentativo coloniale USA-UE di dominare la regione, con il supporto delle forze reazionarie in Turchia e nei regimi arabi, e l’asse russo-cinese, sostenuto dai poteri emergenti internazionali come Iran, Brasile e India.
Tale confronto determinerà i parametri di nuovi equilibri globali, mirando a superare l’egemonia americana e a ripristinare il ruolo di moderazione di Russia e Cina e portando a rimodellare le relazioni internazionali, compresa la riforma delle Nazioni Unite, sempre più dominate dagli interessi statunitensi negli ultimi vent’anni. Russia e Cina, insieme agli altri Paesi emergenti (India, Sud Africa, Brasile, Venezuela e buona parte dell’America Latina) intendono modificare i rapporti globali sulla base di un equilibrio più giusto piuttosto che su quella della dominazione USA uscita dalla Seconda Guerra Mondiale e rinforzata dal crollo dell’Unione Sovietica.
L’alternativa ad una simile situazione sarebbe l’esecuzione del piano americano di distruggere la Siria, con la possibilità di riorganizzare la regione secondo strategie e interessi statunitensi.
Il terzo livello: Il confronto a livello sociopolitico e ideologico tra le forze religiose reazionarie e i salafiti da un lato e i movimenti progressisti laici dall’altra, con i loro rispettivi attori sociali e politici.
Questo determinerà la natura del cambiamento nella regione e nelle comunità arabe, sia portando l’area in uno stato di declino, sia guidando la creazione di nuovi sistemi di potere reazionari in nome della religione, conseguenza che porrà fine al processo di cambiamento democratico nella sua espressione nazionale progressista. Ciò è quello a cui assisteremo se la NATO interverrà e manipolerà la capacità araba di realizzare un processo di democratizzazione, restaurando ancora una volta la “democrazia” coloniale. In alternativa, la democratizzazione sociopolitica giungerà ad un nuovo livello nelle società arabe, diventando un fenomeno genuino e profondo che potrebbe essere modello per il cambiamento in Siria. Questo illuminerebbe il percorso della nazione araba verso la liberazione dallo stato di dipendenza dall’Occidente, permettendo l’avvio di una fase di progresso e il posizionamento a livello internazionale.
Alla luce di questa analisi e dell’interdipendenza dei tre livelli di confronto, il conflitto in Siria deve essere visto non solo come lotta per punire le posizioni o le politiche repressive del regime di Assad. È un conflitto per determinare il futuro della regione. In tal senso, il confronto trascende letture superficiali. Un successo della Siria va oltre la sopravvivenza dello Stato in resistenza agli interventi esteri coloniali e al tentativo di smantellamento. È importante, ma il vero successo dipende dalla capacità di realizzare un processo riformatore profondo, radicale e totale, focalizzandosi sulle istituzioni siriane, sulla società e gli apparati statali. Obiettivo di una simile democratizzazione dovrebbe essere il coinvolgimento di tutto il potenziale della società siriana, specialmente alla luce dell’alto livello di consapevolezza dimostrato in momenti storici cruciali. Il popolo, che tramite le sue proteste e allo stesso tempo la sua resistenza all’intervento esterno non è caduto nella trappola degli accecanti slogan di democrazia e diritti umani, è stato una grande sorpresa per coloro che avevano scommesso sulla sua sconfitta. Il popolo ha dimostrato al regime di Assad di volere e di essere in grado di realizzare un vero cambiamento democratico, molto di più della mera imitazione di modelli esterni.
La lotta in Siria rivela che gli attuali sviluppi sono stati alimentati dai poteri coloniali. L’obiettivo cercato dagli attori reazionari è di impedire alla Siria di costruire il proprio modello democratico come alternativa al progetto “coloniale democratico” occidentale. La politica occidentale implementata contro il regime di Assad mira alla subordinazione e alla dipendenza della Siria come strategia di contenimento delle rivoluzioni arabe, per controllarle e mantenerle sotto l’ombrello della visione americana, dopo il suo fallimento nel proteggere gli alleati arabi dalle rivolte di massa. L’interesse occidentale a mantenere le redini del cambiamento nel mondo arabo spiega il riposizionamento dei poteri coloniali a favore dell’Islam politico, specialmente i Fratelli Musulmani, saliti al potere in Tunisia, Libia e Egitto.
A loro volta, i movimenti islamici stanno dimostrando di essere meno pericolosi per gli interessi occidentali di quanto i leader, gli analisti e i media li definissero. Guardando all’ostile retorica del passato, vediamo che i movimenti islamisti al potere stanno, di fatto, ripensando la loro attitudine al fine di costruire ponti verso i Paesi occidentali, come preludio alla creazione di nuove alleanze nella regione.
Non c’è più spazio per rimanere neutrali o ambigui in merito ad un simile confronto e il compito della resistenza e di coloro che combattono per un cambiamento democratico in tutto il mondo arabo – attori che non dovrebbero essere dimenticati – è di far evolvere e di proteggere la Siria e l’intero Medio Oriente.
Tradotto in italiano da Emma Mancini (Alternative Information Center)
domenica 19 febbraio 2012
Un Israele sempre più inumano
Haaretz :gli ufficiali israeliani che hanno lasciato morire Abu Omar Jariban devono pagare
Un atto indicibile ha avuto luogo in Israele. Una notte un ufficiale della polizia israeliana ha abbandonato Abu Omar Jariban - ferito, confuso e senza scarpe - al lato della strada e lo ha lasciato lì a morire. Questa storia agghiacciante è accaduta nell'estate del 2008 ed è stata segnalata da Chaim Levinson nell' edizione ebraica di Haaretz. Quanto è accaduto dovrebbe tenere molti israeliani svegli la notte.Pesanti provvedimenti devono essere adottati contro tutti i responsabili Abu Jariban - che viveva nella Striscia di Gaza città a Rafah e ,pertanto non era autorizzato a entrare in Israele ,era rimasto gravemente ferito in un incidente . Insieme a un suo amico guidava una macchina rubata. E 'stato prelevato dal Sheba Medical Center, pur avendo bisogno di ulteriori cure mediche, dalla polizia. I funzionari dell'ospedale e la polizia non si assumano la responsabilità della dimissione prematura e irragionevole dal centro di cura. Dopo i tentativi falliti per identificare Abu Jariban, i funzionari di polizia hanno preso la decisione di sbarazzarsi del ferito, malato e confuso, e di portarlo alla frontiera Maccabim. Tre poliziotti lo hanno spinto in un veicolo della polizia. Una volta raggiunto il checkpoint, il cui comandante ha rifiutato di accettare il ferito, Abu è stato gettato dal veicolo nel buio della notte tra la base Ofer e il confine Atarot crossing. Indossava il pigiama dell' ospedale ed aveva ancora il catetere. Il suo corpo è stato scoperto due giorni dopo."Stava semplicemente in pasto ai cani," il fratello di Abu Jariban, Mohammed ha dichiarato al telefono da Gaza. . Nel marzo 2009, dopo un'indagine dal dipartimento del Ministero della Giustizia ,è stato deciso che solo due degli ufficiali coinvolti sarebbero stati perseguiti penalmente con l'accusa di omicidio colposo. La fase probatoria del processo non è ancora iniziata, ma uno degli imputati è stato promosso all'interno della polizia e così un terzo ufficiale. Ci sono individui che sono responsabili di questo atto orribile e devono pagare per le loro azioni. Il procuratore generale deve ordinare un'indagine ulteriore e più completa di quanto è accaduto.(Sintesi personale)
Israeli officers who left Palestinian to die must pay
Un atto indicibile ha avuto luogo in Israele. Una notte un ufficiale della polizia israeliana ha abbandonato Abu Omar Jariban - ferito, confuso e senza scarpe - al lato della strada e lo ha lasciato lì a morire. Questa storia agghiacciante è accaduta nell'estate del 2008 ed è stata segnalata da Chaim Levinson nell' edizione ebraica di Haaretz. Quanto è accaduto dovrebbe tenere molti israeliani svegli la notte.Pesanti provvedimenti devono essere adottati contro tutti i responsabili Abu Jariban - che viveva nella Striscia di Gaza città a Rafah e ,pertanto non era autorizzato a entrare in Israele ,era rimasto gravemente ferito in un incidente . Insieme a un suo amico guidava una macchina rubata. E 'stato prelevato dal Sheba Medical Center, pur avendo bisogno di ulteriori cure mediche, dalla polizia. I funzionari dell'ospedale e la polizia non si assumano la responsabilità della dimissione prematura e irragionevole dal centro di cura. Dopo i tentativi falliti per identificare Abu Jariban, i funzionari di polizia hanno preso la decisione di sbarazzarsi del ferito, malato e confuso, e di portarlo alla frontiera Maccabim. Tre poliziotti lo hanno spinto in un veicolo della polizia. Una volta raggiunto il checkpoint, il cui comandante ha rifiutato di accettare il ferito, Abu è stato gettato dal veicolo nel buio della notte tra la base Ofer e il confine Atarot crossing. Indossava il pigiama dell' ospedale ed aveva ancora il catetere. Il suo corpo è stato scoperto due giorni dopo."Stava semplicemente in pasto ai cani," il fratello di Abu Jariban, Mohammed ha dichiarato al telefono da Gaza. . Nel marzo 2009, dopo un'indagine dal dipartimento del Ministero della Giustizia ,è stato deciso che solo due degli ufficiali coinvolti sarebbero stati perseguiti penalmente con l'accusa di omicidio colposo. La fase probatoria del processo non è ancora iniziata, ma uno degli imputati è stato promosso all'interno della polizia e così un terzo ufficiale. Ci sono individui che sono responsabili di questo atto orribile e devono pagare per le loro azioni. Il procuratore generale deve ordinare un'indagine ulteriore e più completa di quanto è accaduto.(Sintesi personale)
Israeli officers who left Palestinian to die must pay
Gaza Parkour. Il sogno di saltare oltre il muro dell'occupazione Palestina
Quattro giovani palestinesi escono per la prima volta nella loro vita dalla Striscia di Gaza e arrivano in Italia per incontrare altri atleti impegnati come loro nella pratica del Parkour, l’arte di superare ostacoli architettonici mettendo a dura prova un fisico allenato. Una disciplina - di movimento e di vita - che nasce nelle periferie metropolitane del mondo e che a Gaza si trasforma nell’arte di sopravvivere all'occupazione.
di Cecilia Dalla Negra
Il mondo esterno, fino ad oggi, l’hanno guardato attraverso la rete. Quella fisica, che separa la Striscia di Gaza dalla realtà, e quella virtuale, da cui hanno osservato, studiato e imparato anche l’arte del Parkour.
Mohammed, Abdallah, Ibrahim e Jehad hanno vent’anni, e fino ad oggi non erano mai usciti dalla Striscia di Gaza.
Per farlo hanno percorso un viaggio che ha coperto “distanze lunghissime: ci siamo accorti per la prima volta di quante cose ci sono fuori”.
I volti stupiti, lo sguardo imbarazzato, nell’iniziativa romana che inaugura il loro tour in Italia sono spaesati ma felici, mentre cercano di spiegare a chi li ascolta che anche solo praticare uno sport, a Gaza, è un’impresa complicata.
Tanto più se scegli di cimentarti nel Parkour, disciplina amata in Europa ma difficilmente compresa e accettata, perché complessa è la filosofia che ne sta alla base.
Per diventare “traceurs”, atleti impegnati in questo metodo a suo modo rivoluzionario, il percorso è lungo e l’allenamento sfiancante.
Molto più di uno sport, il Parkour è una vera e propria disciplina di movimento, che affonda le sue radici lontano nel tempo e si sviluppa, a partire dagli anni Ottanta, nelle periferie metropolitane dei grandi agglomerati urbani.
Luoghi degradati, abbandonati a se stessi, che grazie alla messa in atto di quest’arte del movimento tornano a nuova vita. Una sfida umana contro ostacoli e barriere, che utilizza il cemento, lo sfrutta nello slancio, cerca di sconfiggerlo.
E se nelle periferie delle città europee è una forma di allenamento fisico che si fa filosofia di vita, a Gaza assume un significato ancora più grande, diventando sfida contro l’occupazione, l’assedio, le macerie della guerra, che diventano teatro e palestra per torsioni, salti, voli acrobatici realizzati con il corpo.
E un grido, insieme, lanciato a quel mondo che di Gaza e del suo popolo ha una visione distorta: “Attraverso questa disciplina – raccontano – cerchiamo di mostrare un’immagine diversa di Gaza. Vogliamo riuscire a far capire che esistono giovani, con le loro pratiche e la loro cultura, che anche in condizioni difficilissime riescono comunque a vivere e sono capaci di sperare”.
Cercano, allenandosi, di far sapere che esistono. “Il Parkour non è solo uno sport che ci permette di vincere ostacoli e barriere, ma soprattutto una mentalità: ci aiuta a superare i problemi e le difficoltà quotidiane che viviamo nella nostra situazione”.
Perché è proprio la speranza nel futuro che l’assedio sta negando ai più giovani che “dal primo momento in cui vengono messi al mondo sanno che dovranno vivere in condizioni disumane, tra mille difficoltà”.
Ecco allora che anche la pratica di una disciplina sportiva diventa una forma di resistenza mentale alle dure condizioni quotidiane imposte dall’assedio: “E’ un modo per dimostrare – spiega Jehad – che Israele può occuparci, chiuderci a Gaza e assediarci. Ma non può toglierci la libertà di sognare”.
A Gaza la loro crew è l’unica a praticare il Parkour. Sono i primi nel mondo palestinese ad essersi cimentati in questa disciplina. E nonostante l’interesse che sono stati capaci di attrarre intorno a sé tra i giovanissimi, sognando un giorno di poter aprire per loro una scuola, all’inizio non è stato facile farsi capire.
“Ci scambiavano per ladri perché eravamo capaci di arrampicarci sui muri”, raccontano.
Problemi che si riscontrano anche in Europa, dove troppo spesso l’allenamento di questi giovani è considerato a rischio, accostato ad una sorta di teppismo metropolitano, quando il fine ultimo è invece nobile, e punta all’ottenimento di un corpo allenato, perché utile a se stessi e agli altri.
E se alla base di questa disciplina affascinante c’è la sfida del corpo umano contro l’ostacolo, ecco che a Gaza assume un significato ancora più grande. Quello di andare oltre il muro dell’assedio, di saltare oltre quella barriera – fisica e militarizzata – che tiene la Striscia separata dal resto del mondo; e di superare quella mentale, mantenendo viva la capacità di sognare.
18 febbraio 2012
* Il loro tour è stato finanziato dalla Provincia di Roma e organizzato dalle associazioni Eureka, Un ponte per…, Assopace, Jalla Onlus e ACS nell’ambito di un progetto di sostegno alle attività sportive di Gaza. Dopo l’arrivo a Roma proseguirà nei prossimi giorni toccando Bologna, Milano, Bergamo e Palermo.
di Cecilia Dalla Negra
Il mondo esterno, fino ad oggi, l’hanno guardato attraverso la rete. Quella fisica, che separa la Striscia di Gaza dalla realtà, e quella virtuale, da cui hanno osservato, studiato e imparato anche l’arte del Parkour.
Mohammed, Abdallah, Ibrahim e Jehad hanno vent’anni, e fino ad oggi non erano mai usciti dalla Striscia di Gaza.
Per farlo hanno percorso un viaggio che ha coperto “distanze lunghissime: ci siamo accorti per la prima volta di quante cose ci sono fuori”.
I volti stupiti, lo sguardo imbarazzato, nell’iniziativa romana che inaugura il loro tour in Italia sono spaesati ma felici, mentre cercano di spiegare a chi li ascolta che anche solo praticare uno sport, a Gaza, è un’impresa complicata.
Tanto più se scegli di cimentarti nel Parkour, disciplina amata in Europa ma difficilmente compresa e accettata, perché complessa è la filosofia che ne sta alla base.
Per diventare “traceurs”, atleti impegnati in questo metodo a suo modo rivoluzionario, il percorso è lungo e l’allenamento sfiancante.
Molto più di uno sport, il Parkour è una vera e propria disciplina di movimento, che affonda le sue radici lontano nel tempo e si sviluppa, a partire dagli anni Ottanta, nelle periferie metropolitane dei grandi agglomerati urbani.
Luoghi degradati, abbandonati a se stessi, che grazie alla messa in atto di quest’arte del movimento tornano a nuova vita. Una sfida umana contro ostacoli e barriere, che utilizza il cemento, lo sfrutta nello slancio, cerca di sconfiggerlo.
E se nelle periferie delle città europee è una forma di allenamento fisico che si fa filosofia di vita, a Gaza assume un significato ancora più grande, diventando sfida contro l’occupazione, l’assedio, le macerie della guerra, che diventano teatro e palestra per torsioni, salti, voli acrobatici realizzati con il corpo.
E un grido, insieme, lanciato a quel mondo che di Gaza e del suo popolo ha una visione distorta: “Attraverso questa disciplina – raccontano – cerchiamo di mostrare un’immagine diversa di Gaza. Vogliamo riuscire a far capire che esistono giovani, con le loro pratiche e la loro cultura, che anche in condizioni difficilissime riescono comunque a vivere e sono capaci di sperare”.
Cercano, allenandosi, di far sapere che esistono. “Il Parkour non è solo uno sport che ci permette di vincere ostacoli e barriere, ma soprattutto una mentalità: ci aiuta a superare i problemi e le difficoltà quotidiane che viviamo nella nostra situazione”.
Perché è proprio la speranza nel futuro che l’assedio sta negando ai più giovani che “dal primo momento in cui vengono messi al mondo sanno che dovranno vivere in condizioni disumane, tra mille difficoltà”.
Ecco allora che anche la pratica di una disciplina sportiva diventa una forma di resistenza mentale alle dure condizioni quotidiane imposte dall’assedio: “E’ un modo per dimostrare – spiega Jehad – che Israele può occuparci, chiuderci a Gaza e assediarci. Ma non può toglierci la libertà di sognare”.
A Gaza la loro crew è l’unica a praticare il Parkour. Sono i primi nel mondo palestinese ad essersi cimentati in questa disciplina. E nonostante l’interesse che sono stati capaci di attrarre intorno a sé tra i giovanissimi, sognando un giorno di poter aprire per loro una scuola, all’inizio non è stato facile farsi capire.
“Ci scambiavano per ladri perché eravamo capaci di arrampicarci sui muri”, raccontano.
Problemi che si riscontrano anche in Europa, dove troppo spesso l’allenamento di questi giovani è considerato a rischio, accostato ad una sorta di teppismo metropolitano, quando il fine ultimo è invece nobile, e punta all’ottenimento di un corpo allenato, perché utile a se stessi e agli altri.
E se alla base di questa disciplina affascinante c’è la sfida del corpo umano contro l’ostacolo, ecco che a Gaza assume un significato ancora più grande. Quello di andare oltre il muro dell’assedio, di saltare oltre quella barriera – fisica e militarizzata – che tiene la Striscia separata dal resto del mondo; e di superare quella mentale, mantenendo viva la capacità di sognare.
18 febbraio 2012
* Il loro tour è stato finanziato dalla Provincia di Roma e organizzato dalle associazioni Eureka, Un ponte per…, Assopace, Jalla Onlus e ACS nell’ambito di un progetto di sostegno alle attività sportive di Gaza. Dopo l’arrivo a Roma proseguirà nei prossimi giorni toccando Bologna, Milano, Bergamo e Palermo.
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