lunedì 30 dicembre 2013

Non chiudiamoci gli occhi su Gaza assediata

Una delegazione di 34 italiani è da tre giorni al Cairo in attesa di potersi recare a Gaza. La delegazione ha l'obiettivo di portare a Gaza aiuti per l'ospedale Al Awda e manifestare solidarietà con il popolo palestinese ribadendo il diritto a poter tornare alle loro terre d'origini. Da tre giorni, invece siamo bloccati nella capitale egiziana, in balia di notizie contradditorie. In pratica da tre giorni viviamo sulla nostra pelle, seppur in millesimi, quello che quotidianamente vivono i nostri amici palestinesi. Tutto questo nonostante la delegazione “Per non dimenticare… il diritto al ritorno” abbia richiesto da mesi tutte le autorizzazioni fornendo all'ambasciata italiana i documenti richiesti. Comprendiamo le difficoltà che sta vivendo l‘Egitto, in questi giorni abbiamo potuto toccare con mano la tensione e il timore che il paese possa cadere nella spirale della violenza. Rispettiamo il suo travaglio e non vogliamo fare nessun tipo di ingerenza sulle scelte interne di questa nazione. Rivolgiamo alle donne e agli uomini dell'Egitto la nostra piena amicizia e solidarietà.
Questa nota si propone di parlare agli italiani. Lo vogliamo fare proprio in questi giorni di festa, nei quali molti nostri cittadini sono bombardati da false notizie tendenti ad istillare un clima di ovattata felicità e serenità, in assoluto contrasto con una realtà fatta, sia in Italia che nel mondo, di continui soprusi, di negazione di diritti e di attacchi alla democrazia e alle libertà. Temiamo che nessun appello in questa direzione arriverà dalla massima autorità dello Stato italiano, il Presidente Napolitano che, al contrario di quanto 31 anni fa fece un ben altro presidente, Sandro Pertini – quando denunciò senza mezzi termini i responsabili dell'eccidio di Sabra e Chatila – non spenderà una parola sulle ingiustizie a cui è condannato il popolo di Palestina. Vogliamo in questo modo essere megafono di quanti normalmente non hanno voce: quelle donne e quegli uomini che vivono tanto a Gaza e in Cisgiordania quanto nei miseri campi in Libano, Siria e Giordania. Tutto questo accade nel più assoluto silenzio della comunità internazionale che in questo modo si rende complice e responsabile di quanto accade in questa parte del mondo. Un silenzio a cui non si sottrae il nostro Paese. Il governo italiano che si vanta di avere rapporti eccellenti con i Paesi dell'area, che stringe le mani dei vari capi di stato di questa regione e firma accordi con un Paese, Israele, che non rispetta i diritti umani e civili, ha qualcosa da dire in merito a questa situazione? Ritiene normale che a suoi cittadini possa arbitrariamente essere impedito il movimento da uno Stato “amico” senza ricevere nessuna spiegazione?
Noi in tutta sincerità riteniamo che non sia assolutamente accettabile tutto ciò e che quindi è necessario che si levi con forza una voce di protesta e di condanna!!!
Per non dimenticare… il diritto al ritorno (per info 00201202057062 - tuttiagaza2013@gmail.com)

lunedì 23 dicembre 2013

5000 accademici statunitensi si schierano con i palestinesi boicottando Israele


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Evento storico’: accademici statunitensi si schierano con i palestinesi nel boicottaggio di Israele

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di Sarah Lazare

Un’associazione di 5.000 accademici è diventata lunedì la più vasta organizzazione di studiosi statunitensi che abbia mai aderito al boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane.

L’American Studies Association (ASA) che si autodefinisce “la più antica e più vasta associazione della nazione dedita allo studio interdisciplinare della cultura e della storia americana”, ha annunciato lunedì che i suoi membri hanno approvato una risoluzione che stabilisce che l’organizzazione “sottoscrive e onorerà l’appello della società civile palestinese a un boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane ”.

La risoluzione, che era stata proposta l’anno scorso ed è stata approvata all’unanimità dal consiglio nazionale dell’ASA il 4 novembre, ha attirato un numero di votanti senza precedenti, con il 66,05% a favore della risoluzione, il 30,5% contrario e il 3,43% astenuto, secondo la dichiarazione dell’ASA.

“La schiacciante maggioranza che ha votato a favore della risoluzione mostra che ci rifiutiamo di essere complici dell’aggressione israeliana”, ha dichiarato a Common Dreams Steven Salaita, docente associato d’inglese alla Virginia Tech e membro del polo attivista dell’ASA. “Questa posizione di solidarietà con la libertà dei palestinesi è un evento storico e segnala una nuova era di impegno nei confronti delle popolazioni colonizzate”.

La risoluzione è stata approvata con una profusione di sostegno dei membri dell’ASA, tra cui la famosa attivista, scrittrice e studiosa Angela Davis. “Le analogie tra le pratiche storiche in stile Jim Crow e il regime contemporaneo di segregazione nella Palestina occupata fanno di questa risoluzione un imperativo etico per l’ASA”, ha scritto quest’ultima. “Se abbiamo appreso la lezione più importante impartita dal dottor Martin Luther King – che la giustizia è sempre indivisibile – dovrebbe essere chiaro che un movimento di massa di solidarietà con la libertà dei palestinesi è qualcosa di dovuto da molto tempo.”

L’ASA ha affrontato una bufera di critiche e attacchi da parte delle forze filoisraeliane, tra cui appelli dell’ex rettore di Harvard e attualmente dirigente dell’amministrazione Obama, Larry Summers, a boicottare l’ASA sulla base della tesi che la risoluzione viola la libertà accademica e perpetua l’antisemitismo.

Tuttavia Alex Lubin, Direttore del Centro Studi e Ricerche sugli Stati Uniti presso l’American University di Beirut ha stroncato tali accuse scrivendo, il mese scorso, su The Nation:

“La libertà accademica significa ben poco quando ha luogo in un contesto di segregazione e apartheid. Il cambiamento è arrivato nel Sud di Jim Crow non dal dialogo accademico, bensì dalle proteste e, in alcuni casi, da boicottaggio di istituzioni che incoraggiavano la segregazione. Il cambiamento del sistema dell’apartheid sudafricano non è venuto dal dialogo accademico, bensì da proteste, resistenza e da un boicottaggio internazionale. Quelli tra noi che valorizzano la libertà accademica devono sempre lottare per garantire che il mondo che circonda l’accademia assicuri i diritti umani fondamentali che rendono possibile la vita accademica.”

“La risoluzione sul boicottaggio è intesa ad affrontare un caso grave di discriminazione contro il palestinesi ed è coerente con la precedente adesione dell’ASA a posizioni antirazziste in altre aree,” ha affermato Lubin nel sottoscrivere la risoluzione. “La risoluzione non prende di mira gli israeliani, gli ebrei o singole persone; in realtà il sostegno dell’ASA al boicottaggio afferma la sua opposizione a ogni forma di discriminazione razziale, tra cui, ma non limitatamente ad essi, l’antisemitismo e l’islamofobia”.

La chiamata al boicottaggio, ai disinvestimenti e alle sanzioni [BDS] contro Israele è venuta da organizzazioni della società civile palestinese nel 2005 con un invito a rivendicare i diritti umani, l’autodeterminazione e la libertà dall’occupazione per i palestinesi utilizzando tattiche simili a quelle attivate per trasformare il Sudafrica dell’apartheid.

L’attivista palestinese Omar Barghouti scrive su The Nation che il 2013 ha visto grandi progressi di questo movimento per i BDS nel settore accademico:

“Giorni fa, in una lettera di appoggio all’ASA, la facoltà di studi etnici dell’Università delle Hawaii è stata la prima facoltà accademica dell’occidente ad appoggiare il boicottaggio accademico di Israele. In aprile, l’Association for Asian-American Studies ha sottoscritto il boicottaggio accademico, la prima associazione accademica professionale degli Stati Uniti a farlo. Circa nello stesso periodo il Sindacato Insegnanti dell’Irlanda ha sollecitato all’unanimità i propri membri a “cessare ogni collaborazione accademica e culturale” con “lo stato israeliano dell’apartheid” e la Federazione degli Studenti Belgi di Lingua Francese (FEF), che rappresenta 100.000 membri, ha adottato “un congelamento di ogni collaborazione accademica con istituzioni accademiche israeliane”. Sempre quest’anno, comitati studenteschi di numerose università nordamericane, tra cui l’Università della California Berkeley, hanno sollecitato disinvestimenti da imprese che traggono profitto dall’occupazione israeliana.”

Quello che segue è il testo completo della risoluzione dell’ASA:

Considerato che l’American Studies Association è impegnata nel perseguimento della giustizia sociale, nella lotta contro ogni forma di razzismo, compresi l’antisemitismo, la discriminazione e la xenofobia e nella solidarietà con chi ne è leso negli Stati Uniti e nel mondo;

Considerato che gli Stati Uniti svolgono un ruolo considerevole nel rendere possibile l’occupazione israeliana della Palestina e l’espansione degli insediamenti illegali e del Muro, in violazione della legge internazionale, nonché nell’appoggiare la discriminazione sistematica contro i palestinesi, che ha avuto un impatto devastante documentato sul benessere generale, l’esercizio dei diritti politici e umani, la libertà di movimento e le opportunità di istruzione dei palestinesi;

Considerato che non esiste un’effettiva o sostanziale libertà accademica per gli studenti e gli studiosi palestinesi nelle condizioni dell’occupazione israeliana e che istituzioni israeliane di istruzione superiore sono partecipi delle politici statali israeliane che violano diritti umani e che hanno un impatto negativo sulle condizioni di lavoro degli studiosi e degli studenti palestinesi;

Considerato che l’American Studies Association è a conoscenza di studiosi e studenti israeliani critici delle politiche statali di Israele e che appoggiano il movimento internazionale per il boicottaggio, i disinvestimenti e le sanzioni (BDS) in condizioni di isolamento e di minaccia di sanzioni;

Considerato che l’American Studies Association è impegnata per il diritto degli studenti e degli studiosi a perseguire l’istruzione e la ricerca senza indebita interferenza, repressione e violenza militare dello stato e che, coerentemente con lo spirito di dichiarazioni precedenti, appoggia il diritto degli studenti e degli studiosi alla libertà intellettuale e al dissenso politico da cittadini e da studiosi;

Si delibera che l’American Studies Association (ASA) sottoscrive e onorerà l’appello della società civile palestinese a un boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane. Si delibera altresì che l’ASA appoggia i diritti protetti degli studenti e degli studiosi di tutto il mondo a impegnarsi in ricerche e dichiarazioni pubbliche riguardo al rapporto Israele-Palestina e a sostegno del movimento per il boicottaggio, i disinvestimenti e le sanzioni (BDS).

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Fonte: www.znetitaly.org

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Da: ki.noblogs.org News Aggregator

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venerdì 13 dicembre 2013

Sotto il fuoco israeliano, i pescatori di Gaza montano una tenda in segno di protesta per “liberare il mare della Terra Santa”



Martedì 17 Dicembre, i pescatori palestinesi monteranno una tenda in segno di protesta all’interno del porto di Gaza. La struttura, che resterà montata per tre giorni e sarà allestita con fotografie di pescatori attaccati o arrestati dalla marina militare israeliana, sarà intesa come manifestazione contro il blocco navale di Israele della Striscia di Gaza e i suoi attacchi ai pescatori palestinesi.
I pescatori che in precedenza sono stati arrestati o catturati, così come rappresentanti dei pescatori e di organizzazioni dei diritti umani, saranno disponibili per essere intervistati. Parteciperanno anche sostenitori palestinesi ed internazionali che parlano arabo, catalano, inglese, francese, tedesco, italiano, portoghese, spagnolo e svedese.
"Come pescatori, vogliamo che la gente stia in solidarietà con noi, per rendere libere le acque territoriali della Striscia di Gaza e per garantire il nostro pieno godimento del diritto fondamentale di poter navigare liberamente, e per porre fine alle enormi violazioni israeliane contro di noi,” ha affermato Zakaria Baker, pescatore ed attivista. "E’ giunto il momento di porre fine a tutti i tipi di crimini di guerra contro i pescatori. E’ giunto il momento di porre fine all’assedio illegale, una forma di punizione collettiva proibita dal diritto umanitario internazionale.”
"I pescatori di Gaza stanno cercando di usufruire dei loro mezzi di sostentamento, basati sulla dignità e sulla libertà,” ha affermato Khalil Shaheen, direttore del dipartimento economico e diritti sociali del Palestinian Centre for Human Rights (PCHR).
"Lasciate che la gente vivi la sua vita normale. Ponete fine alla punizione collettiva. Rispettate i diritti umani in ogni circostanza.”

La campagna “Liberare il mare della Terra Santa” è sostenuta da PCHR, Activists for Palestinian Prisoners, al-Mezan Center for Human Rights, the General Union of Fishermen, the International Solidarity Movement, Palestinian Press Network, Supporters for Fishermen's Rights, e Associazione Unadikum.
La tenda sarà allestita dale 10.00 alle 14.00 da Martedì 17 Dicembre a Giovedì 19 Dicembre.
Fonti:
Fishing under fire off the Gaza coast
The Guardian
8 December 2013

Israeli Attacks on Fishermen in the Gaza Sea
Palestinian Centre for Human Rights
8 November 2013

Restricted Livelihood: Gaza's Fishermen
United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs

mercoledì 11 dicembre 2013

Accordi Italia-Israele sulla sanità, una collaborazione bagnata dal sangue dei palestinesi

di Loretta Mussi
Mentre Letta e Netanyahu, in una Roma blindata e circondati da uno stuolo di ministri, funzionari e uomini della sicurezza, discutevano di affari, in tutta la Palestina storica (cioè l’attuale Israele ed i territori Occupati) si svolgevano manifestazioni e proteste contro il Piano Prawer, che prevede la distruzione di 45 villaggi beduini del Negev, con l’ espulsione e il trasferimento forzato di 70.000 beduini palestinesi in nuove “township”, e la confisca di oltre 800.000 dunam di terre, cioè 800.000 metri quadrati.
Tali manifestazioni, nel giorno dei sorrisi e degli affari tra i due Governi, ma anche tra Netanyahu ed i vertici del Vaticano, sono state duramente represse dalla polizia israeliana, che ha eseguito retate e numerosi arresti, incurante della giovane età di molti manifestanti, tra cui un dodicenne che è stato trascinato per terra per alcuni metri con una pistola puntata alla testa.

Tra i diversi accordi, sono stati stipulati anche un protocollo sanitario tra la Regione Abruzzo e il governo israeliano, una lettera di Intenti tra il Policlinico “Gemelli” e il “Rambam Hospital” di Haifa, ed un Memorandum di Intesa tra le Facoltà di Medicina ed il Politecnico dell’Università degli Studi di Torino e l’ “Israeli Insitute of Technology”.

“Sono convinto che la collaborazione tra il sistema sanitario israeliano e quello abruzzese, ci consentirà di affrontare al meglio le criticità e le sfide presenti e future della nostra realtà sanitaria”, ha detto il Presidente della regione Abruzzo Chiodi. “La nostra ambizione è creare, dopo il risanamento, una rete di emergenza urgenza di grandissima qualità. Per questo collaboreremo con il sistema sanitario di Israele che in questo settore è il migliore al mondo (…)….Una delle criticità che abbiamo rilevato nella rete dell’emergenza urgenza abruzzese era proprio la mancanza di un programma di formazione aggiornato ed omogeneo diffuso a tutti gli operatori della rete dell’emergenza. E dato che l’economia insegna che quando le risorse sono poche vanno ottimizzate e che quando non si ha la possibilità per crescere individualmente, bisogna creare sinergie, abbiamo deciso di dar vita a questa collaborazione con Israele”.

Queste affermazioni, oltre a sminuire il lavoro di chi, nonostante la carenza di risorse, il mercimonio e lo scambio politico che amministratori e politici fanno sul corpo della salute, riesce a far si che il nostro sistema sanitario continui ad essere uno dei migliori del mondo, in particolare proprio nel sistema dell’emergenza-urgenza, denotano cecità o noncuranza nei confronti delle violazioni che quotidianamente Israele compie proprio nel campo dei diritto alla salute, in violazione della IV convenzione di Ginevra.

Politici ed universitari che hanno firmato accordi e lettere di intenti nel campo della organizzazione dei servizi sanitari e della ricerca biomedica non possono non sapere che a Gaza si muore per l’impossibilità di accedere alle cure e per il gravissimo inquinamento ambientale provocato da guerre e da un embargo che impedisce il passaggio di medicine, attrezzature sanitarie e delle tecnologie necessarie alla potabilizzazione dell’acqua e alla ricostituzione del sistema fognario.
Non possono non sapere che i malati, tra cui donne incinta e bambini, vengono trattenuti e respinti ai checkpoint, dove talvolta muoiono.

E forse non sanno che tale avanzato sistema è tra i pochi in cui il virus della polio non è stato eradicato? E’ stata la OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) a lanciare l’allarme per Israele, dove il poliovirus selvaggio di tipo 1 (Wpv1) è stato isolato in 30 campioni di acque reflue provenienti da zone abitate dai beduini del Negev, ma anche nelle acque reflue in alcune zone costiere del Paese. C’entra forse qualcosa la mancanza d’acqua e l’insalubrità di alcuni territori palestinesi, causata dal furto delle risorse idriche sistematicamente operato da Israele, e lo scarico delle acque reflue degli insediamenti illegali in essi?

Questo Governo, i suoi ministri, i rettori delle facoltà di medicina del Gemelli e di Torino, il governatore dell’Abruzzo Chiodi, hanno firmato accordi con un paese che pratica costantemente la violazione del diritto alla vita, sancito dal Diritto Internazionale ed in particolare dalla e alla IV Convenzione di Ginevra.
Perché Israele ha compiuto, e compie, a Gaza e nella Cisgiordania, attacchi militari contro civili, attacchi indiscriminati e sproporzionati contro campi profughi, uccisioni mirate.
Usa ampiamente la tortura contro i prigionieri palestinesi, compresi i bambini e le donne, e si macchia di gravi colpe di negligenza medica e mancata assistenza nelle prigioni. Ma, oltre alla violenza, persegue una strategia di attacco alla vita, meno evidente ma incessante, attuando una sua “logica umanitaria”, al ribasso, per debellare i palestinesi.
Eyal Weizman, autore israeliano che ha smascherato magistralmente il sistema di oppressione israeliano nei suoi libri, dice in uno di essi, Il minore dei mali possibili: “In confronto ad altri conflitti nel mondo, il conflitto Israelo-palestinese non produce un maggior numero di morti dirette o violente. Ma è ormai diventata comune una forma di uccisione molto più sottile: quella messa in atto attraverso la degradazione delle condizioni ambientali, della qualità dell’acqua, dell’igiene, dell’alimentazione e delle cure; attraverso la riduzione del flusso dei materiali necessari per costruire le infrastrutture che sostengono la vita; attraverso il divieto di importazione di depuratori per l’acqua; e attraverso le restrizioni alla pianificazione sanitaria e al trasferimento dei pazienti.”
Per Gaza (e prima ancora per la Cisgiordania, al tempo della 2°Intifada), Israele ha studiato e calcolato il minimo vitale per la sopravvivenza sia in termini di beni primari, che in termini di calorie, per maschi, donne e bambini – quel giusto che possa tenere in vita e, allo stesso tempo, prevenire le critiche. La logica sottesa al sistema, la spiegò bene il consigliere Dov Weisglass del primo ministro laburista Olmert e’ “mettere a dieta i palestinesi, senza farli morire di fame”.

In un recente rapporto dell’UNRWA si stima che, a meno di interventi, entro il 2016 mancherà totalmente l’acqua ed entro il 2020 la situazione di Gaza sarà incompatibile con la vita.

Vale anche la pena segnalare che quasi tutte le città e i villaggi arabi nel nord di Israele non sono attrezzati con sirene di allarme contro gli attacchi aerei e sono privi di rifugi pubblici anti-bombardamento, a differenza di quanto succede per la maggior parte delle comunità ebraiche. A causa di ciò molte persone nei villaggi arabi sono morte sulle strade durante la guerra contro il Libano (2006). Inoltre, durante la guerra, le autorità israeliane diffusero alle famiglie istruzioni su come proteggersi in caso di emergenza attraverso la radio, la televisione e con brochure, ma soltanto in lingua ebraica, nonostante l’arabo sia una delle due lingue ufficiali di Israele.

E’ questo il sistema che si vuole imitare e con cui si vogliono creare sinergie? E’ questo il paese che può dar lezioni in materia di servizi sanitari e tutela dell’ambiente?

I rappresentanti di Israele sanno bene che la realtà è un’altra, tanto che hanno elaborato una vera e propria strategia, denominata Brand Israel, per far vedere al mondo un’immagine diversa da quella pessima, che nonostante tutta la censura dei media occidentali, i nostri in testa, riesce a filtrare. Fa parte di questa strategia anche la partecipazione di Israele all’Expo di Milano del 2015, il cui obiettivo, ha detto al vertice Elazar Cohen, ideatore del progetto, è: “Mostrare il vero carattere di Israele e non quello che di norma appare sui giornali”. Il nome del padiglione ‘Fields of tomorrow’ (Campi di domani) ne rappresenta bene li carattere: in tutta la sua estensione, pari a di 2400 metri quadrati sarà completamente verde per testimoniare i temi di fondo dell’Esposizione, agricoltura, sostenibilità, alimentazione.
Quindi tanta luce, sorgenti di acqua, e altre meraviglie, per nascondere la realtà dell’occupazione, dell’oppressione, e delle uccisioni indiscriminate o mirate, sostenuta con un apparato militare e tecnologico, nel quale invece Israele davvero eccelle.
9 dicembre 2013

martedì 3 dicembre 2013

Attivare l’appartenenza della Palestina all’UNESCO



di Valentina Azarov, Nidal Sliman

Panoramica

La Palestina ha ottenuto l’ammissione all'UNESCO nel 2011, ma i suoi rappresentanti non hanno ancora fatto l’uso migliore di questo nuovo status, in parte a causa delle pressioni da parte di Israele e degli Stati Uniti. Il membro di Al-Shabaka Policy, Nidal Sliman e Valentina Azarov rivedono il valore dell'UNESCO nel tentativo di veder riconosciuti i diritti dei palestinesi e di applicare gli strumenti pertinenti del diritto internazionale al caso della Palestina. Portano un argomento convincente del fatto che la Palestina può ottenere notevoli vantaggi pratici dalla sua appartenenza all’UNESCO, tra cui riaffermare la sovranità sul suo territorio e sul mare e obbligare gli altri Stati a ritenere Israele responsabile dei suoi doveri (1]).



Perché è importante essere membri dell’UNESCO

Il giorno dopo che la Palestina ha ottenuto l'adesione alla United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization (UNESCO), che è avvenuta il 30 ottobre 2011, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha anticipato la costruzione di 2.000 case negli insediamenti ed ha congelato la partecipazione di Israele al bilancio dell'Unesco.

Anche gli Stati Uniti hanno tagliato i fondi all'Unesco in seguito all'adesione della Palestina. L'Amministrazione ha sostenuto che è stata costretta a farlo dalle leggi approvate nel 1990 e nel 1994. Gli Stati Uniti hanno inoltre avanzato la tesi paradossale che questa adesione - che si basa sullo status della Palestina come Stato – ha minato l'obiettivo finale di un accordo negoziato sullo status finale che potrebbe portare a uno stato palestinese.

Eppure, anche prima che la Palestina ottenesse l'adesione, l'UNESCO si è dimostrata un luogo importante per difendere il diritto internazionale in materia di pratiche illegali israeliane nei Territori Palestinesi Occupati. Ad esempio, nel 2010, l'UNESCO ha ribadito che il tentativo di Israele di includere la Haram al-Ibrahimi/Tomba dei Patriarchi di Hebron e la moschea di Bilal bin Rabah (Tomba di Rachele) di Betlemme nella lista del patrimonio nazionale di Israele è stata "una violazione della legge internazionale," delle convenzioni UNESCO e delle risoluzioni delle Nazioni Unite. I siti sono stati rimossi, a causa di considerazioni finanziarie, da una lista israeliana dei siti di interesse proposta per il rinnovo nei primi mesi del 2012.

Sulla scia dell’appartenenza all'UNESCO, la Palestina ha ratificato la costituzione dell'UNESCO ed è diventata uno degli stati che ha approvato le otto convenzioni UNESCO e i relativi protocolli, tra cui la Convenzione dell'Aia del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e i suoi due protocolli. Particolarmente importante è il secondo protocollo della Convenzione che prevede la responsabilità penale individuale e le sanzioni in base al principio della giurisdizione universale. Infatti, l'articolo 15 del protocollo prevede che gli stati cerchino e perseguitino gli autori degli atti elencati in tale articolo nei loro tribunali nazionali, a prescindere dalla nazionalità del colpevole, come accade anche nel caso dell'articolo 146 della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949.

La Palestina ne ha anche tratto alcuni guadagni concreti: ha messo nell’elenco il suo primo sito di interesse mondiale, la Chiesa della Natività a Betlemme, nel giugno 2012, nonostante alcune proteste negli Stati Uniti. Dodici altri siti rimangono sulla lista provvisoria della Palestina. Tuttavia, nel giugno 2013, i rappresentanti palestinesi hanno ceduto alle pressioni di Israele e degli Stati Uniti, sulla scia dell'iniziativa del Segretario di Stato John Kerry a riprendere i negoziati israelo-palestinesi e hanno rinunciato al tentativo di includere i circa 400 chilometri di terrazzamenti del villaggio Battir nella Lista del Patrimonio Mondiale in Pericolo, archiviando il file dettagliato della candidatura, che era stato preparato con il supporto di esperti internazionali di fama. Se avessero insistito con questa richiesta, i rappresentanti palestinesi sarebbero riusciti a prevenire i piani di

Israele di costruire parte del muro in prossimità del villaggio che, attualmente, sono stati impugnati presso l'Alta Corte israeliana.

Nel maggio del 2013, Israele ha annullato una missione dell'Unesco a Gerusalemme, alla quale aveva precedentemente acconsentito nell’ambito di un accordo mediato dai russi in cambio del fatto che la Palestina rinviasse l’approvazione di cinque risoluzioni UNESCO sui cambiamenti fatti alla città da Israele. Il 5 ottobre 2013, l'UNESCO ha approvato sei risoluzioni di condanna al comportamento illecito di Israele.

L’adesione della Palestina all’UNESCO offre un banco di prova per promuovere la tutela dei diritti umani e il rispetto per il diritto internazionale sia a livello nazionale che internazionale. L'affermazione dello status della Palestina come stato appartenente all’UNESCO crea un precedente autorevole per gli Stati osservatori delle Nazioni Unite affinché entrino a far parte di altre istituzioni internazionali e ratifichino una lista di trattati internazionali per i quali è depositario il segretario generale delle Nazioni Unite, compreso lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. La Palestina rafforzerebbe la sua capacità di rivendicare il rispetto dei diritti, portando gli Stati terzi e gli attori internazionali a chiedere che Israele modifichi le sue pratiche in conformità al diritto internazionale.

Distruzione e appropriazione del patrimonio palestinese

Per quasi un secolo, il patrimonio culturale palestinese situato in quelli che oggi sono la Palestina e Israele è stato sottoposto a distruzione e appropriazione da parte di diverse amministrazioni. Dal 1967, Israele ha danneggiato e distrutto siti storici, culturali, religiosi e naturali in tutti i Territori Occupati. Subito dopo l'occupazione, le autorità israeliane hanno raso al suolo il quartiere marocchino della città vecchia di Gerusalemme e requisito edifici storici e religiosi, come il Museo Archeologico della Palestina (ora conosciuto come il Museo Rockefeller). Fin dalla sua annessione illegale di Gerusalemme Est, che non è riconosciuta da nessun altro paese, Israele ha sottoposto il patrimonio culturale della città alla sua legislazione nazionale. I progetti archeologici in corso comprendono il parco "Città di Davide", a Gerusalemme Est, nella zona di Silwan. Nel mese di ottobre del 2011, l'Alta Corte israeliana ha ignorato gli obblighi di Israele derivanti dai trattati e dai protocolli UNESCO ed ha considerato le opere archeologiche come coerenti con il diritto interno di Israele.

Un esempio altrettanto scioccante è la costruzione del Centro Simon Wiesenthal del Museo della Tolleranza a Gerusalemme Ovest, che ha comportato scavi vicino all'antico cimitero di Mamilla, causando l’esumazione di centinaia di tombe e resti. Risalente al 7° secolo, il cimitero fu riconosciuto come sito di antichità nel 1944, dalle autorità del Mandato Britannico. Gli scavi continuano in violazione degli obblighi di Israele sulla base della Convenzione dell’UNESCO del patrimonio mondiale naturale e culturale del 1972 e del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Lo statunitense Center for Constitutional Rights ha presentato una petizione agli organi delle Nazioni Unite e al governo svizzero in nome dei discendenti palestinesi di coloro che sono sepolti nel cimitero di Mamilla a Gerusalemme.

In Cisgiordania, le operazioni militari israeliane nella Città Vecchia di Nablus, nel 2002, provocarono ingenti danni al patrimonio culturale, comprese strutture risalenti alle epoche romana, bizantina e ottomana. Alcuni hanno sostenuto che l'attacco militare israeliano del 2002 alla Chiesa della Natività fu un crimine di guerra. Israele ha, inoltre, utilizzato l’archeologia come pretesto per trasferire forzatamente i palestinesi, demolire villaggi e ottenere il controllo territoriale sulla terra palestinese per promuovere il suo progetto di insediamento illegale e sfruttare le risorse naturali.

C'è un argomento forte che dimostra come ognuno di questi casi violi gli obblighi giuridici di Israele in quanto firmatario della convenzione dell'Aia del 1954 e del suo primo protocollo, così come i suoi obblighi ai sensi di altre leggi internazionali. Anche la relazione sulle libertà religiose del 2009 del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti rileva la natura discriminatoria della politica di Israele nel proteggere e finanziare solo i luoghi santi ebraici, trascurando molti siti musulmani e cristiani, molti dei quali sono "minacciati dai promotori immobiliari pubblici e privati." Tuttavia, ad oggi, gli obblighi giuridici di Israele non sono mai stati rispettati.

Diritto internazionale e tutela dei beni culturali

La Convenzione dell'Aja del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e il suo Primo Protocollo integrano e rafforzano le tutele per i beni culturali istituite dalla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e dal Regolamento dell'Aia del 1907. L'articolo 4 della Convenzione dell'Aia impone agli Stati di proteggere i beni culturali dagli attacchi e da altri "distruzioni o danni" a meno che la "necessità militare richieda obbligatoriamente una tale rinuncia." Il divieto della Convenzione del 1954 contro il saccheggio dei beni culturali integra il divieto generale di saccheggio presente nell'articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, applicabile sia alla Potenza occupante che ai privati.

I tribunali penali internazionali hanno esperienza nel perseguire i crimini legati alla distruzione e alla sottrazione di beni culturali. I tribunali nazionali, tuttavia, hanno dimostrato di essere un luogo meno promettente perché non sono né politicamente costretti, né è regolamentato a livello internazionale il modo in cui essi devono perseguire i presunti colpevoli. Molte delle cause di giurisdizione universale presentate contro i funzionari israeliani nei sistemi nazionali di tutta Europa e negli Stati Uniti sono state annullate per motivi politici.

La Convenzione si occupa specificamente di situazioni di occupazione belligerante. L'articolo 5 della convenzione e l'articolo 9 del secondo protocollo limitano l'autorità di un occupante a, al massimo, sostenere "le autorità nazionali competenti del paese occupato a salvaguardare e preservare il suo patrimonio culturale."

La Convenzione ha codificato il consueto divieto sull’esportazione di beni culturali dai territori occupati. Inoltre, il commercio illegale di manufatti, compresi quelli estratti dal sottosuolo del territorio occupato, è vietato ai sensi della Convenzione UNESCO del 1970, di cui ora la Palestina è uno Stato Membro, concernente le misure da adottare per interdire e impedire l'illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali.

Proteggere l’eredità culturale e riaffermare la sovranità

L’UNESCO ha ripetutamente condannato le pratiche illegali sotto l'occupazione israeliana del territorio palestinese, comprese le pratiche di Israele a Gerusalemme, l'occupazione dei siti nelle città vecchie palestinesi in tutta la Cisgiordania e la censura delle scuole e università palestinesi.([2]) Tali mosse sono significative non solo per l’affermazione della condanna dell'UNESCO degli atti di Israele, ma anche perché hanno portato l'UNESCO a condizionare la partecipazione di Israele ai programmi dell'UNESCO e agli altri benefici derivanti dalla sua appartenenza, al rispetto dei suoi obblighi. Questo è stato il caso del 1974, per esempio, quando gli scavi di Israele nella Città Vecchia di Gerusalemme, ampiamente condannati, hanno portato l'UNESCO a sospendere tutti gli aiuti a Israele.

L'articolo 1 dello statuto della Commissione del diritto internazionale sulla responsabilità degli Stati prevede che "ogni atto internazionalmente illecito di uno Stato comporta la responsabilità internazionale dello Stato."([3]) Una volta stabilita la responsabilità di uno Stato per un atto internazionalmente illecito, ne seguono diverse conseguenze giuridiche. Molto importante è l'obbligo dello Stato responsabile, di cui all'articolo 31, "di riparare integralmente il pregiudizio causato dall'atto internazionalmente illecito."

Le disposizioni del diritto internazionale hanno più probabilità di essere applicate quando i paesi sono costretti a rispettare i propri impegni e obblighi giuridici, comprese le leggi nazionali che comprendono gli obblighi derivanti dal diritto internazionale. La posizione del Canada in merito ai Rotoli del Mar Morto è un buon esempio di come gli obblighi degli altri stati avrebbero lavorato in favore della Palestina se essa, in quel momento, fosse stata un membro dell'UNESCO. Nel 2010 i Rotoli del Mar Morto, che l'esercito israeliano aveva illecitamente sottratto nel 1967al Museo Archeologico della Palestina a Gerusalemme Est, furono esposti dalla Israel Antiquities Authority presso il Royal Ontario Museum.

Anche se i firmatari della Convenzione dell'Aja del 1954 sono obbligati a trattenere sotto la propria custodia i beni culturali portati nel loro territorio direttamente o indirettamente da un territorio occupato, il Canada si rifiutò di farlo. Secondo la legge nazionale del Canada, solo uno Stato membro dell'UNESCO può chiedere un ordine del tribunale per far rispettare la richiesta di sequestro dei beni culturali importati illecitamente. Così, al momento, la Palestina non poté fare ricorso ai tribunali del Canada. Tuttavia, la successiva ratifica da parte della Palestina della Convenzione dell'Aia del 1954, dei suoi due protocolli e della convenzione sul commercio illecito del 1972, significano che la Palestina oggi può appellarsi alle legislazioni nazionali di diversi Stati membri. Si può chiedere loro di comunicare l’elenco dei manufatti di origine palestinese in loro possesso, di prendere in custodia tali manufatti ed impedire la loro esportazione o esposizione, in attesa del loro ritorno alla propria terra di origine.

Il significato del potenziale di azione non deve sopravvalutato. Il Ministero palestinese del Turismo e delle Antichità e fonti israeliane stimano che, tra il 1967 e il 1992, circa 200.000 reperti ogni anno sono stati rimossi dal territorio palestinese occupato e altri 120.000 o giù di lì sono stati rimossi, ogni anno, dal 1995 ad oggi. Esempi in cui i paesi sono stati in grado di organizzare il ritorno dei propri manufatti includono l'accordo del 1993 tra Israele ed Egitto, che prevedeva che "tutti i manufatti e i reperti provenienti dal Sinai fossero restituiti all’Egitto entro i successivi due anni".( [4]) L’Etiopia è riuscita a recuperare un obelisco di 1.700 anni

dall’Italia senza bisogno di un accordo e sta cercando di recuperare molti altri oggetti e manufatti antichi saccheggiati dalle truppe britanniche e poi messi nei musei britannici.

La Palestina potrebbe anche far valere i propri diritti ai sensi della Convenzione del 2001 sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, che ha ratificato nel 2011, per far valere il controllo sulle acque palestinesi al largo della costa della Striscia di Gaza. Per molti anni Israele ha imposto un blocco navale molto restrittivo, limitando l'accesso palestinese alle sue acque territoriali in uno spazio compreso tra 6 e 9 miglia nautiche.

Questo blocco potrebbe essere contestato attraverso l'elemento centrale della convenzione del 2001: la sua delimitazione delle acque territoriali di ogni Stato. L’articolo 7(1) assegna agli stati il "diritto esclusivo di regolamentare e autorizzare le attività relative al patrimonio culturale subacqueo presente nelle loro acque interne, acque arcipelagiche e acque territoriali" – cioè la parte del territorio sovrano di uno stato che si estende fino a 12 miglia nautiche dalla sua costa così come stabilito ai sensi degli articoli 2 e 3 della Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare. Gli articoli 8 e 23 garantiscono ai suoi membri anche il diritto di "regolamentare e autorizzare le attività dirette al patrimonio culturale subacqueo" entro ulteriori 24 miglia nautiche in cui si esercita la competenza per scopi speciali. Gli stati membri sono anche responsabili della regolamentazione di tutte le attività di esplorazione nella loro zona economica esclusiva e nella piattaforma continentale, che si estende fino a 200 miglia nautiche.

La Palestina potrebbe prendere in considerazione di seguire l'esempio dei Paesi Bassi. Il governo olandese ha istituito una zona contigua per prevenire violazioni dei suoi diritti sul patrimonio culturale ed ha esplicitamente esteso la portata della futura legislazione sui beni culturali alle sue acque territoriali e alla zona contigua. Nel caso della Palestina, misure equivalenti potrebbero creare una zona archeologica di controllo che si estende fino a 24 miglia nautiche al largo della costa di Gaza. Questo potrebbe bloccare le scoperte dei relitti al largo della costa di Gaza fatte Israele e altre attività simili e ristabilire il controllo sul potenziale culturale subacqueo di Gaza ([5]). La Palestina potrebbe anche pretendere il controllo sulle risorse del Mar Morto e di tutta la zona intorno, che è attualmente sotto il controllo quasi esclusivo di Israele.

Chiaramente, se correttamente utilizzato, il quadro UNESCO potrebbe sostenere non solo la capacità della Palestina di riprendere il controllo e il possesso del suo patrimonio culturale, ma anche di esercitare i diritti di sovranità sul suo territorio al fine di amministrare i siti di tale patrimonio. Tali misure potrebbero anche limitare il potere di Israele di presentare all'UNESCO siti palestinesi come parte della lista del proprio patrimonio nazionale. Mobilitando strategicamente la sua nuova posizione politica e giuridica nel sistema internazionale, la Palestina potrebbe trovare il sostegno per imporre a Israele di dare un risarcimento per tutti i torti subiti, tra cui la restituzione e il risarcimento, in particolare nei casi di distruzione o di danni irreparabili al patrimonio culturale palestinese.

Obbligo della Palestina di proteggere il proprio patrimonio culturale

Lo status di Stato e l'adesione alle organizzazioni internazionali ed ai trattati possono dare una tutela dei diritti, ma anche comportare degli obblighi da parte dello Stato membro. Così, la Palestina è tenuta a modificare il suo sistema giuridico nazionale e le istituzioni competenti in conformità con gli obblighi derivanti dalla Costituzione dell'UNESCO e dalle otto convenzioni che ha ratificato.

La normativa attualmente in vigore nei Territori Occupati – composta da leggi ottomane, del mandato britannico, giordane (West Bank), egiziane (Striscia di Gaza), israeliane e dell’Autorità Palestinese (PA) (leggi Consiglio legislativo, decreti presidenziali, regolamenti del Consiglio dei Ministri e direttive ministeriali) - non protegge adeguatamente il patrimonio culturale palestinese. È frammentata, soggetta ai capricci di Israele e non soddisfa gli standard internazionali. Ad esempio, la versione del 1929 dell’Ordinanza N. 51 sulle Antichità che è ancora in vigore nella Striscia di Gaza, e la versione del 1966, in vigore in Cisgiordania, riguardano solo il patrimonio culturale tangibile.

La Legge fondamentale palestinese obbliga il Presidente ad "essere fedele" al "patrimonio nazionale". Eppure il ruolo e il mandato degli organismi ufficialmente responsabile - Il Ministero dell’Autorità palestinese del Turismo e delle Antichità e il Ministero della Cultura, così la Commissione Nazionale per l'Educazione, cultura e scienza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina - non sono ben definiti, riducendo ulteriormente la capacità nazionale di proteggere il proprio patrimonio nazionale.

E, naturalmente, Israele limita la loro area di influenza: ordini militari israeliani esecutivi nell’​​Area C della Cisgiordania conferiscono tutti i poteri regolamentari in materia di beni culturali ad un ufficiale militare. Inoltre, Israele ha esteso l'applicazione del proprio diritto nazionale alla zona occupata di Gerusalemme Est e ha dichiarato tutti i manufatti scoperti in città come propri, in flagrante violazione del diritto internazionale. Tuttavia, come sostenuto alla fine di questa sezione, è importante che le autorità palestinesi approvino la

legislazione necessaria in linea con gli standard internazionali: questo renderà più difficile per Israele continuare a portar via illegalmente il patrimonio palestinese dai territori occupati e consentirà alle autorità palestinesi di portare avanti azioni legali nei paesi terzi per recuperare tali beni culturali.

Con l'assistenza tecnica da parte dell'UNESCO, il Ministero del Turismo e delle Antichità dell’Autorità Palestinese nel 2011 ha ripreso l'iniziativa di elaborare una nuova legislazione. Nel 2012, sono stati preparati due disegni di legge per la tutela del patrimonio culturale materiale e immateriale, a seguito di una consultazione con i soggetti pubblici e privati, che tengono conto degli obblighi internazionali della Palestina in base alla Costituzione e ai trattati dell'UNESCO, nonché alle “buone pratiche” internazionali, comprese le leggi modello preparate dalla World Intellectual Property Organization e dalla Lega araba.

Le principali disposizioni del disegno di legge del 2012 sul patrimonio culturale tangibile comprendono il principio della proprietà pubblica dei beni culturali, il divieto di vendita o di trasferimento di tali proprietà e un meccanismo che consenta alle autorità locali di recuperare i beni culturali usciti illecitamente dal territorio occupato. Il progetto di legge obbliga lo Stato a cercare la ratifica delle convenzioni internazionali volte a tutelare il patrimonio culturale. Tuttavia, la capacità e le risorse per la gestione e la conservazione dei siti in Palestina rimangono limitate, risultando arretrate nella documentazione e nella conservazione. Il progetto di legge cerca di affrontare questo stato di cose istituendo un'Autorità indipendente per conservare, tutelare e sviluppare il patrimonio culturale in Palestina.

Il progetto di legge del 2012 relativo al patrimonio culturale immateriale, che comprende, tra gli altri, la danza palestinese folk, il ricamo e la hikaye (una espressione narrativa praticata da donne) affronta le misure necessarie a salvaguardare tale patrimonio e definisce i reati che possono essere perpetrati contro di esso.

È un peccato che, data l'inattività del Consiglio legislativo palestinese dal 2007 a causa delle restrizioni israeliane e della situazione politica interna palestinese, la promulgazione formale delle leggi "è improbabile che abbia luogo nel prossimo futuro. Né tali leggi sono state presentate al Consiglio dei ministri dell’Autorità Palestinese per la revisione e l'approvazione prima della presentazione al presidente per l’emissione di un decreto, come è stato fatto in altri casi.

Gli obblighi della Palestina, ai sensi dei trattati del diritto internazionale, oltre alla necessità pratica e urgente di migliorare i meccanismi di protezione del patrimonio culturale palestinese di fronte alle minacce, dovrebbero anche incentivarla a garantire la conformità della propria legislazione agli standard internazionali. I progetti di legge potrebbero, se attuati, migliorare in modo significativo il quadro giuridico nazionale della Palestina, scoraggiare le violazioni nazionali e permetterle di costituirsi nei paesi terzi e nelle istituzioni internazionali per contestare, prevenire e prendere provvedimenti contro gli illeciti comportamenti israeliani.

Ad esempio, in una recente sentenza dell'Alta Corte israeliana, un imputato in un caso di rimozione illegale di beni culturali dai Territori Occupati, ha affermato che, poiché la legge attualmente in vigore nei Territori Occupati non dichiara tutti i beni culturali ancora da scoprire come beni di stato (cosa che accade, invece, nella legge israeliana), era responsabilità del pubblico ministero dimostrare che erano stati rubati dei beni culturali. La Corte ha respinto l’accusa e, allo stesso tempo, ha anche ignorato il diritto internazionale che vieta la rimozione dei beni culturali dai Territori Occupati. La questione dimostra solo l'urgenza di emanare una forte ed inequivocabile legge palestinese che dichiari tutti i beni culturali presenti in Palestina come beni di Stato.

Conclusioni e raccomandazioni

Le convenzioni e gli strumenti dell’UNESCO offrono un quadro di controllo e di tutela per il patrimonio culturale della Palestina e l'accesso alla cooperazione internazionale per la protezione del patrimonio culturale, fondata sul diritto codificato. Limitando severamente il ruolo di una potenza occupante in materia di scavi e uso dei beni culturali nel territorio occupato, la Convenzione dell'Aia del 1954, tra gli altri strumenti, tutela i diritti dello Stato legittimo proprietario e della sua gente sui propri beni culturali e sul patrimonio durante un conflitto armato.

Con la sua neo acquisita adesione all’UNESCO e la sua possibilità di aderire a ulteriori trattati, la Palestina oggi è meglio che mai attrezzata per chiedere la restituzione dei beni culturali illecitamente rimossi o commerciati, per affermare il controllo sul suo patrimonio subacqueo nella zona economica esclusiva e nelle acque territoriali al largo di Gaza, per includere i propri siti nazionali sulla lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO, rimuovendoli dall'ordine del giorno dei negoziati politici e assicurando la propria sovranità nazionale su di loro. La Palestina è anche in una posizione migliore per esplorare il potenziale di contenzioso e di altre misure giuridiche da far valere in giurisdizioni straniere per agevolare il ritorno dei manufatti e per portare i funzionari israeliani coinvolti negli scavi illegali di fronte alla giustizia.

La Palestina può rivendicare i suoi diritti, impegnandosi con le istituzioni dell'UNESCO e può cercare di costringere gli Stati terzi e gli attori internazionali a fare pressione su Israele affinché rispetti gli obblighi derivanti dall’essere membro dell’UNESCO. Alla luce del record di atti illeciti di Israele in questo campo (e in altri), i rapporti degli Stati Terzi con Israele dovrebbero essere strutturati in modo da garantire il rispetto del diritto internazionale da parte di Israele stesso al fine di garantire la capacità di uno stato terzo o di un attore internazionale, come l'Unione europea, di rispettare i propri obblighi legali internazionali e nazionali.

A sua volta, la Palestina deve dimostrare il proprio impegno verso il quadro di protezione dell'UNESCO adottando, all’interno del proprio diritto nazionale, le misure giuridiche e amministrative necessarie ed impegnandosi per la loro esecuzione, per quanto possibile, fino a che Israele continuerà a mantenere il controllo sul territorio palestinese. La stessa incapacità delle istituzioni locali palestinesi a far rispettare le proprie leggi e le politiche nazionali dimostra le violazioni di Israele dei suoi obblighi giuridici internazionali, per non parlare del furto, danneggiamento e distruzione del patrimonio palestinese.

È nel migliore interesse della Palestina rispettare gli obblighi giuridici internazionali che derivano dall’adesione, così come considerare le possibilità di promuovere tali obblighi attraverso le sedi internazionali dell'UNESCO e nei sistemi nazionali degli Stati terzi, cosa per la quale è necessario concordare una procedura di notifica nel contesto dell'UNESCO, per facilitare la restituzione dei beni culturali al loro contesto e alle loro origini geografiche.

Un'adeguata protezione giuridica del patrimonio culturale a livello nazionale sosterrà gli sforzi palestinesi per recuperare la proprietà dei beni culturali rubati e i suoi ulteriori sforzi per riguadagnare il controllo sul suo territorio. Una volta che i progetti di legge palestinesi saranno preparati in accordo con tutte le parti interessate, compresi il settore privato e la società civile, dovrebbero essere adottati attraverso il processo legislativo dell’Autorità Palestinese. In parallelo, dovrebbe essere messo a punto un inventario palestinese della documentazione sui manufatti rubati e sugli scavi eseguiti.

Organizzazioni della società civile, locali e internazionali, dovrebbero avere più voce nel chiedere al governo palestinese di adottare misure appropriate per tutelare il proprio patrimonio culturale adottando i disegni di legge e rafforzando le istituzioni nazionali incaricate di salvaguardare tale patrimonio. Le organizzazioni della società civile possono svolgere un ruolo importante nella sensibilizzazione nazionale e internazionale sulla necessità di separare la questione della tutela del patrimonio culturale dalla politica del "processo di pace".

In definitiva, l'effettiva tutela del patrimonio culturale e naturale della Palestina può essere raggiunta solo ricollegando il popolo palestinese a quel patrimonio. Il corretto utilizzo del quadro dell'UNESCO, sia a livello nazionale che internazionale, è un passo fondamentale per la capacità della Palestina di ottenere il controllo sul proprio patrimonio culturale, garantendo che esso sia gestito e governato dalla sua legge sovrana, in conformità con gli standard internazionali.



[1] Questa breve saggio si basa sulla ricerca e sul lavoro degli autori, tra cui "Palestine, UNESCO and Archaeology in Conflict" di Dr. David Keane e Valentina Azarov (Denver Journal of International Law and Policy, Vol 41, No 3 (2013)) e "The Protection of Cultural Property in Occupied East Jerusalem: Archaeological Excavations and Removal of Cultural Property" di Dr. Nidal Sliman (Thesaurus Acroasium: Multiculturalismo e diritto internazionale, Kalliopi Koufa Ed., 2007.)). Sliman ha redatto e rivisto con l'UNESCO e l'Autorità Palestinese la legislazione per la protezione del patrimonio culturale, e Azarov ha condotto la difesa e la ricerca sulle iniziative per la costituzione di uno Stato palestinese all’interno del gruppo per i diritti umani palestinese Al-Haq.

[2] Rispettivamente: Gerusalemme e l’attuazione di 35 C / Risoluzione 49 e 184 EX / Decisione 12, decisione della sessione 185 del Consiglio esecutivo dell'UNESCO (185 EX/14; 185 EX/52 Ap); Attuazione del 184 EX / Decisione 37 su "i due siti palestinesi di al-Haram al-Ibrahimi/Tomb dei Patriarchi a al-Khalil/Hebron e Bilal bin Rabah Mosque / Rachel 's Tomb a Betlemme", decisione della sessione 185 del Consiglio esecutivo dell'UNESCO (185 EX/15; 185 EX/52 Rev.), e attuazione di 35 C / Risoluzione 75 e 184 EX / Decisione 30 relativa alle istituzioni educative e culturali nei territori arabi occupati, decisione della Sessione 185 del Consiglio esecutivo dell'UNESCO (185 EX/36; 185 EX/52 rev.).

[3] Un organismo delle Nazioni Unite che è stato istituito per aiutare l'organizzazione dell'attuazione dell'articolo 13 della Carta delle Nazioni Unite riguardante la codificazione del diritto internazionale consuetudinario.

[4] Citato in Talia Einhorn, “restituzione di reperti archeologici: l'aspetto arabo-israeliano”, 5 International Journal of Beni Culturali (1996) 144.

[5] Vedi Robert Ballard et al., “Iron Age Shipwrecks in Deep Water off Ashkelon, Israel”, 106 American Journal of Archaeology (2002) 151. Secondo la mappa fornita da Ballard et al., il paese più vicino ai relitti è Gaza, se si traccia una linea diretta dai siti indicati alla linea di costa.

(tradotto da barbara gagliardi
per l'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus)

venerdì 29 novembre 2013

Bimbi siriani

Siria, la generazione perduta


Oltre 11 mila bambini vittime del conflitto. Polio, abbandono scolastico e traumi psicologici fanno temere il peggio per i piccoli siriani. A gennaio, forse, Ginevra 2

lunedì 25 novembre 2013 12:19


AGGIORNAMENTO 12.30 - La conferenza di Ginevra 2 si terrà il 22 gennaio. Lo ha appena annunciato l'Onu.

dalla redazione

Roma, 25 novembre 2013, Nena News - Più di undicimila giovani sotto ai 17 anni sono morti nei due anni e mezzo di conflitto in Siria. Arriva come una doccia fredda il rapporto dell'Oxford Research Group, e snocciola le cifre scioccanti della realtà sul campo: delle 11.420 vittime minorenni censite, 2.223 sono morte nella zona di Aleppo, 389 uccise da un cecchino, 764 "sommariamente giustiziate" e più di 100 sono state torturate.

Le cifre tengono conto anche dei 128 piccoli morti nell'attacco chimico di Ghouta, mentre ancora non rientra nelle casistiche una nuova emergenza che colpisce prevalentemente i bambini: la diffusione della poliomielite. L'Organizzazione mondiale della sanità ha confermato i casi di poliomielite nel nord-est della Siria di cui si parlava da alcuni giorni: su un totale di 22 casi sospetti, le analisi hanno confermato che si tratta del virus della polio per dieci casi. E la malattia rischia di raggiungere anche gli Stati confinanti se si tiene conto che migliaia di siriani continuano a lasciare la loro terra per sfuggire alla guerra civile.

Prima del conflitto il tasso di immunizzazione in Siria era di oltre il 95% - l'ultimo caso era stato registrato nel 1999 - ma negli ultimi due anni circa mezzo milione di bambini non sono stati vaccinati contro la polio e altre malattie. Una vasta campagna di vaccinazioni è in corso nel paese con il sostegno dell'Onu e l'obiettivo è quello di immunizzare 2,4 milioni di bambini. Ma, con il perdurare del conflitto e la difficoltà degli operatori delle Nazioni Unite di raggiungere le zone degli scontri più violenti - sarebbero circa 2,5 milioni i prigionieri dei campi di battaglia più isolati - molti altri bambini rischiano di morire.

Inoltre, su cinque milioni di sfollati interni, due sarebbero minori: costretti a vivere in edifici disabitati, case pericolanti, scuole, moschee, parchi o dimore di parenti, saranno i più colpiti dall'inverno alle porte, con l'impossibilità di comprare vestiti più pesanti. Il 49 per cento dei bambini non va più a scuola: l'anno scorso in due milioni non hanno frequentato l'anno scolastico. Un "silenzioso disastro", quello dell'educazione, a cui vanno ad aggiungersi i traumi psicologici: secondo Yusuf Abd el-Jalil, direttore dell'Unicef per la Siria, c'è il serio rischio di una "generazione perduta".

"Sconvolge innanzitutto il numero dei morti - ha dichiarato Hamit Dardagan, uno degli autori dello studio - ma anche il modo in cui bambini innocenti sono stati uccisi. Bombardati nelle loro case, nelle loro comunità, nelle attività di tutti i giorni, mentre ad esempio sono a scuola. Tutte le parti in causa - ha aggiunto Dardagan - devono avere la responsabilità di proteggere i bambini".

Sono numeri destinati a crescere, con le battaglie che continuano a infuriare soprattutto nelle zone riconquistate dall'esercito di Assad negli ultimi mesi. Nel week end si è avuta una nuova escalation di violenza: almeno 160 tra ribelli e soldati sono stati uccisi nei combattimenti che hanno interessato la regione di Ghouta, a est di Damasco, una delle roccaforti degli insorti.

Intanto a Ginevra si è aperta questa mattina una riunione tra rappresentanti americani, russi e delle Nazioni Unite per fissare una nuova data per la conferenza di pace di Ginevra 2. Una fonte diplomatica dell'Onu ha rivelato all'AFP che la conferenza dovrebbe tenersi a gennaio: il segretario generale della Nazioni Unite Ban Ki-Moon dovrebbe annunciare la nuova data oggi, al termine della riunione.

Ancora non è chiaro, però, chi di preciso siederà al tavolo negoziale: l'opposizione siriana, che aveva annunciato più volte di non volersi sedere davanti a Bashar al-Assad, ha accettato l'invito a causa delle pressioni internazionali. Sfiduciata dalla maggior parte dei gruppi di ribelli, la Coalizione non trova però l'accordo su chi mandare a Ginevra. Ed è ancora guerra, tra regime e oppositori, sulla presenza al tavolo negoziale di Arabia Saudita e Iran. Nena News.


domenica 10 novembre 2013

In Israele l’Italia si prepara alla guerra aerea




Manlio Dinucci


I cacciabombardieri italiani Tornado, Eurofighter 2000, F-16 Falcon e altri, che nel 2011 bombardarono la Libia partecipando a 1182 missioni nell’operazione Nato «Unified Protector», sono di nuovo pronti al decollo. Non per una nuova guerra alla Libia, ormai disintegrata e nel caos (anche il terminale del gasdotto per l’Italia è sotto attacco), ma per preparare altre guerre. Parteciperanno in novembre alla più grande esercitazione di guerra aerea mai svoltasi in Israele.
L’esercitazione, denominata «Blue Flag» sul modello di quella della U.S. Air Force, si svolgerà tra due settimane nel Deserto del Negev. Poche e selezionate le forze aeree invitate: quelle di Stati uniti, Italia e Grecia. Complessivamente parteciperanno alla «Blue Flag» oltre 100 aerei e 1000 militari. Sarà una esercitazione a fuoco, con impiego di bombe e missili a guida di precisione. Lo scenario simulerà un attacco in profondità in un territorio nemico dotato di forti difese aeree (come è ad esempio l’Iran): dopo averle neutralizzate, i cacciabolbardieri colpiranno gli obiettivi terrestri rappresentati da bersagli disseminati nel deserto. Nei duelli aerei, l’aviazione nemica sarà impersonificata dall’«Aggressor squadron» delle forze aeree israeliane, i cui piloti vengono addestrati a simulare varie tattiche di combattimento, «in particolare quelle delle forze aeree arabe».
Israele attribuisce grande importanza alla «Blue Flag». Le forze aeree israeliane, ha dichiarato il generale Amikam Norkin, stanno sperimentando nuove procedure «per abbreviare la durata delle future guerre» potenziando la propria capacità distruttiva: ciò permetterà di «accrescere di dieci volte il numero di obiettivi che vengono individuati e distrutti». Ora è il momento di sperimentare tale capacità in una esercitazione congiunta con forze aeree avanzate, come quelle statunitense e italiana.
A riprova delle capacità conseguite, il generale Norkin ha sottolineato, in una intervista a Defense News (21 ottobre), che negli 8 giorni dell’operazione «Pilastro di difesa» effettuata a Gaza nel novembre 2012, l’aviazione israeliana ha attaccato 1.500 obiettivi, il doppio di quelli attaccati nei 34 giorni della guerra in Libano nel 2006. Anche i piloti italiani potranno dunque imparare molto partecipando all’esercitazione di guerra aerea in Israele.
La «Blue Flag» serve allo stesso tempo a integrare le forze aeree israeliane in quelle Nato. Finora esse avevano effettuato esercitazioni congiunte solo con singoli paesi dell’Alleanza, come quelle a Decimomannu con l’aeronautica italiana. In tal modo Israele, anche se ufficialmente non è membro della Nato, viene operativamente a far parte della sua strategia e delle sue operazioni militari.
Ciò rientra nel «Programma di cooperazione individuale» con Israele, ratificato dalla Nato il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell’operazione israeliana «Piombo Fuso» contro Gaza. Esso comprende una vasta gamma di settori in cui «Nato e Israele cooperano pienamente»: scambio di informazioni tra i servizi di intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni militari congiunte; allargamento della cooperazione contro la proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica potenza nucleare della regione, rifiuta di firmare il Trattato di non-proliferazione ed ha respinto la proposta Onu di una conferenza per la denuclearizzazione del Medio Oriente).
A questa operazione parteciperà l’Italia con i suoi cacciabombardieri. Essi decolleranno sulla testa degli oltre 6 milioni di italiani senza lavoro o quasi: non si sa su quale capitolo del bilancio statale sarà addebitata la spesa per trasferire in Israele aerei e personale militare e farli partecipare all’esercitazione di guerra, ma si sa che sarà altro denaro pubblico sottratto alle spese sociali.
Decollerranno i cacciabombardieri sulla testa di un parlamento la cui quasi totalità probabilmente non è stata informata della partecipazione italiana all’esercitazione di guerra aerea in Israele ed è quindi all’oscuro (o noncurante) delle sue implicazioni politiche, militari ed economiche. Proprio mentre a Palazzo Montecitorio si discute delle missioni militari, presentate dalla maggioranza come indispensabili per la pace internazionale, soprattutto in Medio Oriente. Se qualche deputato presenterà una interrogazione sulla partecipazione italiana alla «Blue Flag», il ministro Mauro risponderà che si tratta sì di una esercitazione di guerra aerea, però «umanitaria».

(il manifesto, 7 novembre 2013)

giovedì 7 novembre 2013

STRETTI RAPPORTI TRA FORZE AEREE DI ITALIA E ISRAELE



_Il capo di stato maggiore dell’aeronautica Pasquale Preziosa a Tel Aviv
in vista delle esercitazioni Bandiera Blu. Intanto l’aviazione
israeliana accresce le sue capacita’ di attacco_
DI STEPHANIE WESTBROOK
_Roma, 3 novembre 2013, Nena News _- Un nuovo piano dell’aeronautica israeliana mira ad aumentare di 10 volte il numero di obiettivi che è in grado di rilevare e distruggere. È quanto ha dichiarato il capo delle Operazioni Aeree della Israel Air Force (IAF), Brigadier Generale AMIKAM NORKIN, in un intervista esclusiva con Defense News. Il nuovo piano, EXPANDING ATTACK CAPACITY (EAC), punta ad un uso “massiccio, persistente e punitivo” della cosiddetta “forza aerea di precisione” per ridurre la durata delle guerre future e evitare l’uso di forze di terra, considerato costoso e dannoso in termini diplomatici.
Per sostenere quanto previsto dal programma EAC, è in atto una ristrutturazione detta storica, la più importante negli ultimi 40 anni, dell’aeronautica israeliana che verrà attuata in modo graduale nei prossimi mesi. Il rinnovamento toccherà ogni aspetto delle operazioni aeree e comporterà importanti cambiamenti nella pianificazione delle missioni, nella gestione delle risorse, nella valutazione dei danni dei bombardamenti e nel coordinamento con eventuali forze delle coalizioni occidentali nella regione.
Secondo Norkin, la POTENZA DELLA “MACCHINA” DEVE ESSERE TALE DA “SOSTENERE UN AUMENTO ENORME NELLA QUANTITÀ DI BERSAGLI” che l’IAF rileva e distrugge.
Con miglioramenti significativi nelle capacità di abbinare la continua raccolta di intelligence alle “armi di precisione”, la IAF prevede, infatti, di generare un numero esponenziale di nuovi obiettivi nel corso di ogni giorno di guerre future.
Il generale Norkin fa riferimento all’operazione “PILASTRO DI DIFESA”,l’attacco israeliano a Gaza del novembre 2012, per illustrare questi “miglioramenti” e le ambizioni dell’IAF. “In Pilastro di Difesa, la nostra capacità giornaliera di attacco era il doppio di quello del Libano [del 2006], nonostante il fatto che [Gaza] era un’area molto più piccola e più densamente popolata”, ha detto Norkin. “Ora, quando parliamo della zona nord di operazioni, aspiriamo in un aumento di un ordine di grandezza - forse di più - nel numero di obiettivi da distruggere ogni giorno”.
In appena otto giorni, oltre 170 palestinesi sono stati uccisi sotto la precisione aerea dell’IAF durante “Pilastro di Difesa”. Sono state distrutte circa 450 abitazioni e danneggiate oltre 8000.
Norkin presenta il nuovo piano EAC con descrizioni che spaziano da “un treno espresso di attacchi aerei che rimpiazzerà le tradizionali ondate” ad “un termostato che si può aggiustare in maniera più dura o morbida”.
Nel caso di PIOMBO FUSO, l’attacco israeliano a Gaza del 2008-2009 in cui oltre 1400 PALESTINESI sono stati uccisi in 21 giorni, si vede che il termostato era posizionato su una temperatura, appunto, tale da fondere il piombo.
Il nuovo approccio di Israele si concentrerà su “ferire il nemico dove fa più male”, prendendo di mira la leadership, i comandanti e le infrastrutture significative di combattimento. In particolare, colpendo i nemici del “primo cerchio”, come Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza, in modo da non concedergli il tempo per riprendersi dallo shock iniziale.
“Non saremo in grado di spingere il nemico fino al punto in cui non sarà più in grado di sparare razzi e missili. Perciò dobbiamo spingerlo fino al punto in cui non vuole più sparare razzi e missili”, ha detto Norkin.

È proprio in questo contesto che atterra il Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana, PASQUALE PREZIOSA, ospite personale del Generale Amir Eshel, Comandante dell’IAF e padre del piano EAC. PREZIOSA è arrivato in Israele nei giorni scorsi, in vista della partecipazione dell’Italia nelle prossime esercitazione aeree “BANDIERA BLU”, la prima esercitazione multinazionale di Israele, che prende spunto da “Bandiera Rossa” dell’aviazione statunitense.
PER DUE SETTIMANE, OLTRE 100 AEREI E CIRCA 1000 UFFICIALI, SOLDATI E PILOTI PROVENIENTI DA ALTRE TRE NAZIONI PARTECIPERANNO NELLE ESERCITAZIONI ALLA BASE IAF DI OVDA VICINO A EILAT NEL SUD DI ISRAELE. Bandiera Blu prevede esercitazioni aeree aria-aria e aria-terra, il tutto pianificato da Israele, nelle quali le forze partecipanti saranno in azione contro il “Drago Volante”, lo squadrone aggressore di Israele.

In attesa dell’inizio delle esercitazioni, Preziosa ha visitato le basi israeliane e ha fatto un giro in un F-16 commentando: “Tutto è vicino qui, quindi per qualsiasi tipo di minaccia allo stato, l’IAF deve essere pronta in tempi rapidi e preparare una risposta veloce. SONO IMPRESSIONATO DALLE CAPACITÀ DELL’IAF DI RISPONDERE RAPIDAMENTE ED EFFICACEMENTE A QUALSIASI MINACCIA”.
Il volo era evidentemente per ricambiare il giro che il generale Norkin ha fatto su un M-346 dell’Alenia Aermacchi il 30 aprile durante una visita in Italia che rientrava nel Piano di Cooperazione in corso d’attuazione tra l’aeronautica militare italiana e l’IAF. Secondo il generale Norkin, Bandiera Blu verrà stabilito dall’IAF come un evento biennale “volto a dimostrare le capacità, rafforzare legami diplomatici e prepararsi per i futuri scenari che coinvolgono le forze della coalizione”.
Per l’Italia, fa parte dei sempre più stretti legami tra le forze armate, i governi, i centri di ricerca e le industrie belliche delle due nazioni, che si tratta di esercitazioni militari congiunte, scambi scientifici e tecnologici, che spesso celano scopi bellici, o fornitura di armi.
IN VISTA DEL VERTICE ITALIA-ISRAELE IN PROGRAMMA PER IL 2 DICEMBRE A TORINO, SI PARLA SOPRATTUTTO DI ACCORDI POLITICI, ECONOMICI E CULTURALI.
PIÙ NELL’OMBRA INVECE È LA COOPERAZIONE MILITARE CHE SI STA SVILUPPANDO
CON FLORIDI RISULTATI PER I PRODUTTORI DI ARMI E SISTEMI DI SORVEGLIANZA.
In una nota diffusa dall’ufficio di Tel Aviv dell’Istituto Nazionale del
Commercio Estero, sono state identificati i settori maggiormente
remunerativi per le imprese italiane, tra cui l’aerospazio e la
“cyber-security”, quest’ultimo oggetto DI UN CONVEGNO A LA SAPIENZA DI
ROMA LO SCORSO GIUGNO, ORGANIZZATO DALLA DITTA PRIVATA ISRAELIANA MAGLAN
INSIEME ALLA VITROCISET DI FINMECCANICA, e contestato da chi ha capito che invece si trattava dell’ultima frontiera della guerra tecnologica.
Durante la recente “missione per la crescita” di ANTONIO TAJANI in qualità di Commissario europeo per l’industria e l’imprenditoria, per stringere rapporti più stretti tra Israele e l’Unione Europea, due delle dieci imprese italiane che hanno partecipato erano del gruppo Finmeccanica, Selex e Global Services.
E CON 473 MILIONI DI EURO, ISRAELE SI È AGGIUDICATO IL PRIMO POSTO FRA
GLI ACQUIRENTI DI ARMI ITALIANE, MERITO SOPRATTUTTO DELL’ACQUISTO DI 30 CACCIA DA ADDESTRAMENTO M-346. I velivoli addestratori al combattimento della controllata di Finmeccanica fanno parte di un pacchetto di acquisti “reciproci” però sbilanciato a favore di Israele. Nel pacchetto che vede l’Italia impegnata ad acquistare due velivoli AWACS Gulfstream, c’è anche un satellite ottico ad alta risoluzione, nonostante il fatto che l’Italia ha già accesso ai dati satellitari francesi, fatto che ha portato Defense News a chiedere se l’acquisto del satellite israeliano era opportuno, oppure era un acquisto necessario per la vendita degli M-346.
Il 30 NOVEMBRE A TORINO, in occasione del vertice annuale tra Italia e
Israele, numerose organizzazioni di solidarietà con il popolo
palestinese terranno una manifestazione nazionale per denunciare la
collaborazione tra Roma e Tel Aviv in campo militare, e non solo, e le
politiche di occupazione e discriminazione che sono attuate contro i
palestinesi. Nena News

Links:
[1]
http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=90016&typeb=0&Stretti-rapporti-tra-forze-aree-di-Italia-e-Israele

sabato 26 ottobre 2013

Patto militare Italia-Israele Un accordo scellerato e illegale


di Antonio Mazzeo

ll Medio Oriente è in fiamme. La Siria è in ginocchio, migliaia di profughi fuggono in Libano, in Turchia, in Giordania. Tel Aviv mobilita le forze terrestri, aeree, navali. Minaccia d’intervenire in Golan e di lanciare i suoi missili e i suoi caccia contro decine di “obiettivi strategici” in Iran. Intanto cannoneggia la striscia di Gaza e schiera carri armati e blindati alla frontiera con il Libano. Scenari di guerra che non sembrano intimorire più di tanto le forze politiche e il governo italiano che trova pure il tempo d’inviare a Gerusalemme una delegazione d’eccezione, il premier con sei ministri, per il terzo summit intergovernativo in meno di due anni. Per rafforzare la partnership politica e militare e moltiplicare affari e scambi commerciali.
Il faccia a faccia tra i ministri della guerra – il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola e il suo omologo israeliano Ehud Barak – è stato preceduto da una serie d’incontri tra i massimi rappresentanti delle rispettive Forze armate. Il 7 e l’8 febbraio 2012, il sottocapo di Stato maggiore israeliano, generale Nimrod Sheffer, ha incontrato a Roma i responsabili dell’Aeronautica italiana per «approfondire i processi di trasformazione in atto nelle due aeronautiche, le esperienze maturate nei rispettivi teatri di operazione e le future attività addestrative». Il successivo 14 giugno è stato il comandante delle forze aeree israeliane, generale Ido Nehushtan, a giungere in Italia in missione ufficiale.
Meeting e visite di cortesia si sono sommate a tre importanti esercitazioni aeronavali bilaterali. Le prime due si sono svolte a fine 2011 in Sardegna e nel deserto del Negev. Durante i war games sono stati simulati combattimenti aerei tra cacciabombardieri F-15 ed F-16 israeliani ed Eurofighter e Tornado italiani ed eseguiti veri e propri lanci di missili aria-terra e di bombe a caduta libera. Dal 3 all’8 novembre 2012, nelle acque prospicienti la città di Haifa, si è tenuta invece la prima edizione dell’esercitazione Rising Star a cui hanno partecipato i palombari artificieri del Gruppo operativo subacquei del Comsubin (Comando Subacquei ed Incursori) di La Spezia e i Divers (specialisti sommozzatori) della Marina israeliana.
L’accordo che disciplina la partnership militare tra Italia e Israele risale a 7 anni fa ed è stato ratificato dal Parlamento italiano il 17 maggio 2005. Nella parte pubblica del testo (esisterebbe infatti un memorandum segreto mai sottoposto alla discussione e al voto dei parlamentari) si legge che la cooperazione fra i due Paesi riguarderà in particolare «l’industria della difesa, l’importazione, l’esportazione e il transito di materiali militari, le operazioni umanitarie, l’organizzazione delle Forze armate e la gestione, la formazione e l’addestramento del personale, i servizi medici militari». Le attività si svilupperanno grazie «alle riunioni dei ministri della Difesa, dei comandanti in capo e di altri ufficiali autorizzati, lo scambio di esperienze fra gli esperti delle due parti, l’organizzazione e l’attuazione delle attività di addestramento e delle esercitazioni, le visite di navi, aeromobili militari e impianti, lo scambio di informazioni, pubblicazioni e hardware, la ricerca, lo sviluppo e la produzione di sistemi d’armamento». «Italia e Israele si adopereranno al massimo per contribuire, ove richiesto, a negoziare licenze, royalties ed informazioni tecniche, scambiate con le rispettive industrie». E ancora: «Le Parti faciliteranno inoltre la concessione delle licenze di esportazione necessarie per la presentazione delle offerte o proposte richieste per dare esecuzione al presente memorandum».
Senza troppi giri di parole, l’import e l’export di sistemi d’arma devono essere l’essenza delle consolidate relazioni tra Roma e Tel Aviv, in palese violazione della legge italiana che disciplina il commercio di tecnologie belliche e che vieta le vendite a Paesi belligeranti o i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali dei diritti umani. Israele riassume in sé tutte le caratteristiche per essere posta al bando dal complesso militare industriale italiano: le sue Forze armate sono sistematicamente impegnate su più fronti di guerra e dal 1967 occupano buona parte della Cisgiordania. Inoltre il regime di apartheid instaurato contro la popolazione palestinese e gli stessi cittadini israeliani di origine araba è stigmatizzato dalle principali organizzazioni non governative internazionali. Non ultimo, Tel Aviv non ha mai firmato il Protocollo di non proliferazione nucleare e da tempo immemorabile, anche grazie alla collaborazione tecnico-scientifica di Usa ed Unione europea, a Dimona, nel deserto del Negev, si costruiscono armi nucleari (Israele sarebbe già in possesso di più di 200 testate).
Nonostante la riesplosione della crisi mediorientale, proprio il 2012 ha rappresentato l’anno chiave nei trasferimenti di sistemi d’arma tra i due Paesi. Il 19 luglio il Ministero della Difesa italiano e l’omologo israeliano hanno ratificato la fornitura alle Forze armate israeliane di 30 velivoli da addestramento avanzato M-346 Master prodotti da Alenia Aermacchi. La commessa ha un valore di poco inferiore al miliardo di dollari, ma prevede vantaggiose contropartite per le industrie israeliane. Elbit Systems, azienda specializzata nella produzione di tecnologie avanzate, svilupperà il nuovo software che verrà caricato sugli addestratori. Il Virtual Mission Training System (Vmts) «ingannerà i sensori degli M-346 simulando le funzioni di un moderno radar di scoperta attiva capace di gestire numerose funzioni tattiche, nonché scelte d’armamento complesse», riporta la World Aeronautical Press Agency. «Utilizzando il software una volta in volo, il pilota in addestramento potrà esercitarsi in scenari avanzati, quali la guerra elettronica, la caccia alle installazioni radar e l’uso di sistemi d’arma all’avanguardia». Alle future guerre le forze aeree israeliane si addestreranno cioè con il made in Italy.
In cambio dei caccia, Tel Aviv ha anche imposto che l’aeronautica militare italiana si doti di due velivoli di pronto allarme Gulfstream 550 con relativi centri di comando, controllo e sistemi elettronici, prodotti da Israel Aerospace Industries (Iai) ed Elta Systems (costo complessivo, 800 milioni di dollari circa). Selex Elsag, una controllata di Finmeccanica, s’incaricherà per conto delle aziende israeliane di fornire ai velivoli i sottosistemi di comunicazione e link tattici. Le Forze armate italiane dovranno pure acquistare un sistema satellitare elettro-ottico, anch’esso di produzione Iai ed Elbit Systems (245 milioni di dollari). Prime contractor degli israeliani sarà Telespazio, azienda controllata in parte da Finmeccanica, che assicurerà entro il 2015 la costruzione del segmento terrestre, il lancio e la messa in orbita del nuovo sistema satellitare.
Quest’anno, l’Aeronautica italiana ha pure deciso d’installare sugli elicotteri EH101 e sugli aerei da trasporto C27J Spartan e C130 Hercules un nuovo sistema di contromisure a raggi infrarossi, denominato Dircm - Directional infrared countermeasures, co-prodotto da Elettronica Spa di Roma ed Elbit Systems: 25 milioni e mezzo di euro la spesa, con consegne che saranno fatte entro la fine del 2013. Gli elicotteri d’attacco AW-129 Mangusta di AugustaWestland, in dotazione all’esercito italiano, dal prossimo anno saranno armati invece con i missili aria-terra a corto raggio Spike prodotti da un’altra importante azienda militare israeliana, Rafael. I missili, con una gittata tra gli 8 e i 25 km, potranno essere equipaggiati con tre differenti tipologie di testata bellica a seconda dell’uso: anticarro, antifanteria e per la distruzione di bunker. Roma e Tel Aviv puntano infine a sviluppare congiuntamente nuovi velivoli a pilotaggio remoto Uav (i famigerati droni) e a cooperare nella produzione e nella gestione logistica del nuovo cacciabombardiere F-35.
Mentre i programmi di riarmo italo-israeliani sono condivisi e sostenuti da tutte le forze politiche presenti in Parlamento, si sta rafforzando tra alcune forze sociali e no war la convinzione che la solidarietà al popolo palestinese non può essere disgiunta dalla mobilitazione per ottenere l’embargo militare nei confronti di Israele. Singoli cittadini, associazioni e comitati di base hanno dato vita alla Campagna Bds per «il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni nei confronti di Israele», fino a che esso «non porrà termine all’occupazione e alla colonizzazione di tutte le terre arabe e smantellerà il Muro; riconoscerà i diritti fondamentali dei cittadini arabo-palestinesi di Israele alla piena uguaglianza; rispetterà i diritti dei profughi palestinesi al ritorno nelle loro case come stabilito dall’Onu». E lo scorso 13 ottobre, di fronte allo stabilimento Alenia Aermacchi di Venegono-Varese, si è tenuta la manifestazione nazionale “Nessun M346 a Israele” per chiedere la revoca della vendita dei caccia addestratori alle Forze armate israeliane, a cui hanno partecipato, tra gli altri, Pax Christi e la Commissione Giustizia e Pace dei missionari comboniani. «Quella di Varese è stata una manifestazione anche contro lo scellerato accordo del 2005 di cooperazione militare, economica e scientifica tra il nostro Paese ed Israele», ha spiegato Elio Pagani per il Comitato promotore. «Un accordo che non è stato scalfito neppure dall’Operazione Piombo fuso»: «Un’azione militare brutale, senza giustificazioni, nella quale Israele ha commesso crimini di guerra e contro l’umanità».
Peace-researcher e giornalista, ha realizzato numerose inchieste sui processi di riarmo e militarizzazione. Nel 2010 ha conseguito il Primo premio “Giorgio Bassani” di Italia Nostra per il giornalismo. Per consultare articoli e pubblicazioni: http://antoniomazzeoblog.blogspot.it/

giovedì 24 ottobre 2013

Rete-ECO sulla proposta di legge che definisca reato il negazionismo



4/11/2010

Rete-ECO, la rete degli Ebrei Contro l’Occupazione è decisamente contraria ad una legge, proposta dal presidente della Comunità Ebraica di Roma (sul quotidiano La Repubblica) che dichiari reato la negazione della persecuzione degli Ebrei da parte del nazifascismo, culminata con lo sterminio di 6 milioni di Ebrei e di 500 mila Zingari.

Come ha fatto rilevare bene Stefano Levi Della Torre, lo stabilire per legge che una opinione, per quanto odiosa ed aberrante come quella del “negazionismo”, sia dichiarata reato, implica che l’autorità dello Stato stabilisca ciò che è falso e quindi inevitabilmente anche ciò che è vero. Questo è inaccettabile: significherebbe la soppressione della libertà di pensiero e di parola, cioè l’instaurarsi di un regime fascista. Mentre non meraviglia che uomini politici fascisti come Gasparri ed altri abbiano accolto con favore la proposta, stupisce che quelli che si dichiarano democratici, come Fassino, prendano parte al coro favorevole; ci si chiede se per ricerca del favore delle Comunità Ebraiche o per incapacità di ragionamento critico.

Siamo convinti, come ben dice Stefano Levi Della Torre, che le opinioni aberranti si combattano dicendo la verità, documentandola ed argomentando a suo favore. “Negazionisti”in Italia sono alcuni docenti universitari di storia, divenuti seguaci di loro omologhi di altri Paesi, ed un certo numero di persone sprovvedute, disposte ad ascoltarli.

Vorremmo veder scomparire dal costume dal nostro Paese leggi e pronunciamenti delle autorità dello Stato a favore, o a sfavore, di volta in volta degli Ebrei, o dei Mussulmani, o dei Cattolici o Protestanti, o comunque di insiemi di persone definiti da caratteristiche culturali o per origine etnica.

Questa legge “discrimina” tra i razzismi, condanna, letteralmente come reato, solo il razzismo contro gli Ebrei; implicitamente vuol dire che è quello il solo vero razzismo da condannare. Gli altri razzismi, quello oggi di gran lunga più diffuso in Italia contro i "marocchini" e tutti gli islamici, ma anche gli africani neri, non sono condannati penalmente e non sono condannati affatto.

Questa legge, richiesta da un esponente di rilievo delle Comunità Ebraiche, servirebbe alla destra al potere per legittimarsi nel suo ormai ventennale progetto di ripulirsi dalla cattiva reputazione di antisemitismo fascista. E servirebbe a quella parte degli Ebrei italiani che hanno scelto il nazionalismo israeliano come bandiera, qualsiasi atto perverso lo Stato Ebraico commetta, per ottenere favori e vantaggi da chi governa.

Un altro effetto perverso ricercato da simile legge è di proteggere gli Ebrei e, incoerentemente, lo stato di Israele che pretende rappresentarli, per lasciare invece che il razzismo più becero si sfoghi contro i numerosi Mussulmani immigrati in Italia in condizioni particolarmente precarie ed esposte ad ogni angheria da parte delle autorità che governano questo Paese e di una parte non trascurabile della popolazione convertita al costume razzista.


giovedì 17 ottobre 2013

Lettera al Presidente della Repubblica



Oggi abbiamo restituito al Presidente della Repubblica le medaglie al valore che avevamo ricevuto nel 2011 e 2012. Gli abbiamo scritto anche una lettera che pubblichiamo di seguito:
“Egregio Sig. Presidente della Repubblica,
A seguito di nostre richieste alla presidenza della Repubblica per avere dei fondi con i quali finanziare la manifestazione culturale Lampedusainfestival, che si svolge dal 2009 a Lampedusa, abbiamo ricevuto, nel 2011 e nel 2012 due medaglie al valore, per la stessa manifestazione.

Dopo i drammatici eventi avvenuti a Lampedusa negli ultimi giorni sentiamo l’esigenza di inviarLe questa comunicazione. Era da tempo, in realtà, che molti di noi sentivano il bisogno di comunicarLe quanto segue; ma il dolore, la rabbia e lo strazio di questi giorni hanno fatto sì che non fosse più possibile indugiare oltre.
Rifiutiamo la spettacolarizzazione mediatica con cui il naufragio del 3 ottobre scorso è stato rappresentato e diffuso dall’industria dell’intrattenimento: dietro la morbosità con cui la fabbrica delle lacrime e del cordoglio del “lutto nazionale” provano a confezionare il format della rappresentazione della tragedia, dietro i riflettori, le conferenze stampa, le visite ufficiali, crediamo ci sia molto altro che vada denunciato.
Di fronte ad una strage come quella appena consumatasi, di fronte alle centinaia di corpi ancora ostaggio di un mare che certo non ha colpe pari a quelle della società umana, non accettiamo che ci sia chi venga sull’isola promettendo e assicurando. Non accettiamo più che ci si riempia la bocca di promesse, che si diano in pasto alle televisioni le lacrime di circostanza, le commozioni di rito, le figure degli “eroi” e dei salvatori, lasciando poi che le prime pagine si occupino d’altro, che i riflettori si spengano, che i giornalisti ripartano, lasciando tutto così come era prima.
A partire dalla legge 40/1998, legge che sicuramente Lei conoscerà bene dato che porta anche il Suo nome, l’Italia ha avviato una prassi di vero e proprio stato di eccezione, sancendo la detenzione ed il trattenimento di quanti non avevano commesso alcun reato. Con l’inasprirsi delle norme in materia di immigrazione la situazione è andata via via peggiorando. Il business dell’ “accoglienza” si articola oggi lungo una rete di strutture e di centri detentivi che, appaltati a strutture varie, rendono i migranti materia prima di un processo di produzione di profitto che ha luogo in una costante dinamica emergenziale. Come all’Aquila, come in Val di Susa: militarizzazione, gestione di emergenze alimentate ad arte, sospensione dei diritti e stato d’eccezione per creare laboratori di controllo sociale e di repressione.
L’ingerenza imperialista e neo-coloniale dei paesi cosiddetti occidentali destabilizza e rende subalterne intere aree geopolitiche, generando così fenomeni di emigrazione sempre più consistente. Una emigrazione necessaria al capitalismo finanziario dei nostri giorni, il cui conflitto con il lavoro vivo necessita che si impongano nuove forme di governo e di istituzioni e che il mercato stesso del lavoro delle società europee venga stravolto. Occorrono dunque gli immigrati, come manodopera di riserva, clandestina, sommersa, ricattabile, come marginalità sociale su cui far poggiare una riforma in senso neo-oligarchico delle società europee. Accanto alla marginalità migrante si colloca infatti il disagio sociale di quanti, italiani, vivono ormai processi espulsivi di subordinazione, di impoverimento, di negazione della dignità, di quanti lasciano il nostro paese vestendo ancora una volta, anche loro, i panni che in passato abbiamo dovuto troppo spesso vestire, quelli degli emigranti. E come ben saprà non si tratta solo della famigerata fuga dei cervelli: qui parliamo di migliaia che ogni anno lasciano il paese per poter anche solo avere la speranza di un lavoro che garantisca la sussistenza.
Così, sullo stesso scoglio di terra, nel canale di Sicilia, il migrante detenuto in un centro indegno, destinato a divenire un ingranaggio del motore del grande sfruttamento continentale, respira la stessa area della donna di Lampedusa che non può partorire sull’isola, perché non vi sono le strutture sanitarie adeguate, di chi rischierà di morire durante un disperato trasferimento in elicottero sulla terraferma per una emergenza che un ospedale avrebbe potuto benissimo affrontare, del bambino costretto in strutture scolastiche inadeguate, di un cittadino che è costretto a pagare i carburanti più cari d’Europa e che magari, essendo pescatore, è costretto a demolire la barca, perché il carburante è troppo caro.
La tragedia del 3 ottobre fa allora venire al pettine moltissimi nodi politici dei nostri tempi. Chi è che governa davvero questo paese? Quale quota di sovranità ancora mantengono le sue istituzioni? Assistiamo ad un continuo scarica barile tra i vari “rappresentanti delle istituzioni”. Quegli stessi che negli ultimi anni sono stati colpevolmente muti rispetto alla situazione di Lampedusa, che solo dopo il grande fatto di sangue è stata oggetto di una qualche grottesca attenzione, così come lo era stata esclusivamente in occasione delle emergenze più eclatanti come la vergogna accaduta nel 2011.
Riteniamo che la crisi politica delle società europee stia sempre più privando l’Italia della propria sovranità. Abbiamo perduto quella monetaria e siamo sempre più esposti ad un’erosione dell’autonomia e della capacità decisionale delle nostre istituzioni politiche. Una governance economico-politica, espressione delle élite tecnocratiche finanziarie e bancarie, impone ormai le proprie direttive e i propri selezionati referenti alle società europee ed alle loro istituzioni, senza che i loro cittadini siano in grado di opporvisi. Per di più l’Italia è succube ed asservita agli interessi militari e di ingerenza imperiale degli USA. Il nostro territorio, alla stregua di una colonia, è disseminato di istallazioni e basi militari e la vicenda del MUOS di Niscemi è solo l’ultima grottesca dimostrazione di uno svuotamento di senso dell’intero apparato politico-istituzionale del paese.
A cosa servono e che senso avrebbero queste medaglie, dopo aver sottoscritto un golpe costituzionale, voluto dai poteri economici e finanziari, quale quello del pareggio di bilancio, che strozzerà qualunque possibilità di un futuro per il paese intero? A cosa servirebbero dopo aver appoggiato la criminale aggressione della Libia, dopo aver condiviso e avallato un’operazione criminosa come la destabilizzazione della Siria, dopo aver sottoscritto il commissariamento da parte dell’oligarchia finanziaria di un intero paese che era un tempo la seconda forza manifatturiera del continente?
Quelle stesse istituzioni che vorrebbero appuntarci medaglie sul petto sono quelle che alimentano la macchina infame dei CIE, della militarizzazione della Val di Susa, della dislocazione coatta de L’Aquila, delle infinite emergenze dei rifiuti, dei legami organici e strutturali con le mafie, del pareggio di bilancio, della politica neo-coloniale che produce migrazioni, delle missioni di guerra spacciate per umanitarie e delle riforme del mercato del lavoro che generalizzano precarietà e marginalità.
Noi proseguiremo sul nostro cammino, convinti che la crisi epocale che stiamo vivendo può ospitare, in sé, i germi potenziali di un futuro altro e diverso, di una società rinnovata. Ma non abbiamo bisogno né vogliamo che siano queste medaglie a poter fungere da conferma e da riconoscimento di quanto da noi tentato. Perché se ad appuntarle è la stessa politica che, dopo una tragedia come quella di giovedì scorso, invoca rafforzamenti di Frontex, approfittando ancora una volta della questione migratoria per implementare la stretta militare sul Nord Africa, siamo convinti che la nostra strada vada in tutt’altra direzione.”
Associazione Culturale Askavusa - Lampedusa, lì 14/10/2013
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martedì 15 ottobre 2013

SPAGNA: PROTESTE CONTRO L’ONORIFICENZA DI UN’UNIVERSITÀ CATTOLICA A NETANYAHU

ADISTA NOTIZIE 33/2013
Certo non è paragonabile al Premio Nobel per la pace assegnato a Kissinger e ad Obama, ma fa pur sempre specie che l’Università cattolica di Sant’Antonio di Murcia (Ucam), in Spagna, abbia deciso di conferire la laurea honoris causa in Etica Politica e Scienze umane al premier israeliano Benjamin Netanyahu. La cerimonia avrà luogo ai primi di ottobre, sotto gli auspici dell’ex premier spagnolo José María Aznar che dirige la cattedra in questione, ma la decisione è stata suggellata già a fine luglio dal presidente dell’Ucam, José Luis Mendoza, durante una visita in Israele – in compagnia tra gli altri del card. Antonio Cañizares, prefetto della Congregazione per il Culto Divino – al cospetto dello stesso Netanyahu, il quale, ben contento, ha dichiarato che si impegnerà personalmente nel coordinamento delle nascenti relazioni tra l’Ucam e le università israeliane.
Molto meno contenti i teologi e le teologhe dell’Associazione spagnola Giovanni XXIII e i Comitati spagnoli Oscar Romero, i quali hanno espresso la loro più netta ripulsa nei confronti di questa iniziativa, che definiscono «un insulto e un’offesa al popolo palestinese, un attentato contro i diritti umani e una negazione della dignità di questo popolo». «Ci sembra scandaloso che un’università che si proclama cattolica agisca contro i più elementari principi di etica umanitaria e diritto internazionale, legittimando azioni che ledono i diritti legittimi del popolo palestinese», scrivono in un comunicato congiunto. «Se l’Università cattolica di Murcia non vuole essere complice della sistematica aggressione del governo israeliano contro il popolo palestinese, deve rinunciare a conferire questa onorificenza al primo ministro israeliano. È ancora in tempo».
Stesse considerazioni della Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI), dell’Associazione dei Professori Universitari e della Federazione Palestinese dei Sindacati dei Professori e degli Impiegati Universitari (PFUUPE) che hanno accolto con grande preoccupazione la notizia. «Negli ultimi anni Israele, per salvaguardare la sua immagine che andava macchiandosi, ha raddoppiato gli sforzi per autopromuoversi come un’illuminata democrazia liberale. L’assegnazione di simili onorificenze – scrivono le tre associazioni – gioca un ruolo fondamentale in questo tipo di partita e, conferendo tale riconoscimento al primo ministro di Israele, voi state in realtà aiutando il governo israeliano nelle sue politiche di promozione della propria immagine, assegnandogli lo status di membro nel privilegiato club occidentale delle democrazie liberali». «I criminali di guerra di Israele – è la loro conclusione – dovrebbero essere boicottati, non premiati».

L’UE tenga il punto!
Di diverso avviso evidentemente il segretario di Stato statunitense John Kerry che si è molto speso nelle scorse settimane per esercitare pressioni sull’Unione Europea affinché revochi o ammorbidisca le linee guida approvate nel luglio scorso che escludono le entità israeliane attive nei Territori occupati, compresa Gerusalemme Est, dal sostegno che l’UE può concedere sotto forma di sovvenzioni, premi o strumenti finanziari (v. Adista Documenti n. 31/13).
Un’ingerenza che non è passata inosservata, determinando la reazione, oltre che di moltissime realtà palestinesi, di 500 tra docenti e ricercatori universitari europei, i quali l’11 settembre hanno scritto una lettera all’Alto Rappresentante della Politica Estera dell’Unione Europea, Catherine Ashton, incoraggiando l’UE a non annacquare le linee guida e a far sì che vengano applicate anche al nuovo programma quadro europeo per la ricerca e l’innovazione, “Horizon 2020”, per il quale si stimano investimenti per diversi miliardi di euro tra il 2014 e il 2020, e che vede la partnership di Israele (che però fin dall’emanazione delle linee guida in questione ha minacciato il proprio ritiro).
Le stesse sollecitazioni sono contenute in un’analoga lettera inviata il 16 settembre a tutti i ministri degli Esteri dell’UE da 15 figure di spicco della politica europea come l’ex ministro degli Esteri francese Hubert Védrine, l’ex vice ministro degli Esteri tedesco Wolfgang Ischinger e l’ex ambasciatore britannico all’ONU Jeremy Greenstock; e ancora Javier Solana, ex responsabile della politica estera dell’UE, Benita Ferrero-Waldner, ex commissario europeo per le relazioni esterne ed ex ministra degli Esteri austriaca, John Bruton, ex primo ministro irlandese, Andreas Van Agt, ex primo ministro olandese e Hans Van den Broek, ex ministro degli Esteri olandese.
Ma, a sorpresa, un sostegno alle linee guida europee è arrivato anche da ben 600 intellettuali, docenti universitari e artisti israeliani, tra cui sette vincitori del prestigioso Israel Prize (Dani Karavan, Alex Levac, David Tartakover, Shimon Sandbank, Zeev Sternhell, Yehoshua Kolodny e David Harel): «Consideriamo questo annuncio dell’UE come un atto di amicizia e di sostegno allo Stato di Israele all’interno dei suoi confini riconosciuti». «Se tale decisione sarà pienamente attuata – proseguono –, accelererà i negoziati di pace tra Israele e l’Autorità palestinese e aumenterà le possibilità di portare entrambe le parti al tavolo dei negoziati verso un accordo che comprenda il riconoscimento della green line come base per la definizione del confine politico tra Israele e Palestina». «Ci auguriamo che questa decisione sarà attuata al più presto da parte di tutti gli Stati europei, e convincerà altri Paesi, come Stati Uniti, Russia, Cina e India, ad accogliere ed aderire all’iniziativa europea. Chiediamo al governo di Israele – concludono – di evitare qualsiasi attività e reazione che possa danneggiare i nostri rapporti con l’Europa e di cessare il sostegno finanziario e le attività oltre la green line, per il bene di tutti i cittadini israeliani». (ingrid colanicchia)


sabato 12 ottobre 2013

Tutti sull’Isola - Scriviamo insieme la Carta di Lampedusa

di Progetto Melting Pot Europa
Tutti sull’Isola - Scriviamo insieme la Carta di Lampedusa
Un sogno, una suggestione e già una proposta. Ripartiamo da Lampedusa per disegnare una nuova Europa

Da troppi anni si strumentalizzano Lampedusa e lo “spettacolo” della sua frontiera per alimentare ansie da “invasione”, per raccontare che l’unica soluzione sono il controllo e l’approccio securitario alle migrazioni, per non parlare mai, paradossalmente, delle ragioni e delle storie di quelle migliaia di donne e uomini che migrano fuggendo da quell’ingiustizia sociale e globale che li rende le ultime e gli ultimi della terra.

E ancora oggi, mentre dopo la morte di 300 persone si accendono finalmente i riflettori anche sulle altre 20.000 inghiottite dal Mediterraneo negli ultimi anni, per l’ennesima volta troppe voci stanno usando Lampedusa in modo strumentale, come accade con il susseguirsi di passerelle di politici sull’Isola che sta scatenando nuovamente la giusta rabbia degli abitanti.
Parlare di Lampedusa, ripartire da Lampedusa, deve avere adesso invece un significato completamente diverso.
In questo senso dalle pagine de Il Manifesto il Sindaco Giusy Nicolini, invoca un cambiamento vero delle norme, della politica, dell’Europa intera, proponendo di ospitare questo auspicato processo proprio nell’Isola.

Dal canto nostro sappiamo che la scrittura di nuove regole può avere segni differenti. E se proprio da Lampedusa ripartisse dal basso una spinta per cambiare radicalmente l’Europa, questo Paese, le sue norme e la sua politica?

Dopo la strage di giovedì scorso, anche grazie all’appello per un canale umanitario che insieme a tantissimi abbiamo promosso dalle pagine di Melting Pot Europa, si è aperto un dibattito inedito, impensabile fino a pochi giorni fa. Cosa ci dice la petizione on-line proposta da La Repubblica per cancellare la legge Bossi-Fini se non questo? Di cosa ci parla la proposta di cancellazione del reato di clandestinità?
Agire questo spazio, mantenerlo aperto, provare a lavorare affinché si trasformi in azioni concrete, è, crediamo, un dovere di noi tutti.
Ma per farlo abbiamo bisogno di metterci in cammino abbandonando l’idea che qualcuno possa farlo al posto nostro.

Perché pur essendone stati i promotori, siamo consapevoli del fatto che nonostante questi appelli abbiano contribuito ad aprire una discussione, non sono sufficiente a produrre invece una trasformazione reale delle regole che disegnano lo scenario in cui si consumano le stragi del Mediterraneo e le violazione dei diritti di milioni di cittadini non riconosciuti all’interno dei confini europei. Migliaia di firme insomma non si trasformeranno automaticamente in decisioni politiche.

C’è poi un secondo aspetto, estremamente delicato, su cui è necessario fare chiarezza. Lo spazio di discussione che si è aperto e l’idea di rivisitazione delle regole di cui oggi parlano tutti, da Napolitano a Barroso, da Alfano a Letta, non ha certo una direzione scontata. La discussione verte tutta intorno al potenziamento dei pattugliamenti di Frontex, alla riscrittura degli accordi bilaterali, all’appalto delle domande d’asilo ai Paesi Terzi, al recepimento delle direttive UE, il cui termine di recepimento era stato fatto abbondantemente scadere, a qualche aggiustamento normativo. Tutto condito dalla retorica della lotta ai trafficanti, del rispetto dei diritti umani, della solidarietà europea.

Il dramma di Lampedusa ha di fatto messo in discussione la legittimità delle politiche europee ed italiane in materia di immigrazione. Di conseguenza le istituzioni europee e nazionali si trovano di fronte alla necessità di riscriverne le regole, o alcune di queste, di raffinarne i meccanismi, di annunciarne la cancellazione di attenuarne le spigolature, con lo scopo di poter riaffermare, nella sostanza, l’impianto stesso dell’Europa Fortezza.
Anche la paventata abolizione del reato di ingresso e soggiorno irregolare (che da sola cambia poco o nulla) parla lo stesso linguaggio. Per la politica istituzionale è urgente l’abbandono della simbologia e delle retoriche del pugno di ferro per mostrarsi oggi commossa, così da recuperare sul terreno della governance quel consenso che le morti di Lampedusa hanno affievolito. Ma come sappiamo l’abito non fa il monaco e vi è il rischio concreto che la politica istituzionale dica di voler cambiare tutto per poi invece non cambiare in concreto nulla, affogando nuovamente le speranze di milioni di donne e uomini nelle acque torbide delle larghe intese e degli egoismi europei.

Tocca a tutti noi giocare la partita che si è aperta perché ogni discorso di cambiamento prenda un’altra traiettoria.

Non esistono scorciatoie. Esiste invece la possibilità di ripartire insieme perché l’incredibile disponibilità a mettersi in gioco che abbiamo registrato da parte di molti dopo i tragici avvenimenti di giovedì scorso, possa trasformarsi in un percorso di migliaia di persone, in una riscrittura delle regole attraverso un’elaborazione giuridica, politica, culturale, che sia veramente collettiva.
In questi anni ci abbiamo provato in molti. Ma oggi abbiamo la possibilità di farlo in tantissimi.

E’ una suggestione, un sogno, ma può diventare una proposta concreta se ci lavoriamo insieme.
A partire da Lampedusa. Ritrovandoci a stretto giro insieme sull’Isola, con chi sull’Isola oggi chiede un cambiamento, insieme a chi ha sottoscritto gli appelli di questi giorni, insieme a chi in questi anni ha elaborato proposte, a chi vuole giocare questa sfida fino in fondo, per dare vita ad un grande meeting, un momento di discussione aperto, tra associazioni, collettivi, organizzazioni e singoli. Per un momento di elaborazione di proposte ma anche di costruzione di una campagna nazionale ed europea per un’Italia senza la legge Bossi-Fini, per un’Europa diversa, senza detenzione, respingimenti, cittadinanze negate e diritti violati. Per metterci a disposizione degli abitanti di Lampedusa e diffondere in tutto il continente le loro istanze.
Per far si che proprio il luogo che in questi anni ha dovuto subire le scelte della politica europea, diventi invece motore di un’ipotesi di cambiamento.
Ritroviamoci a Lampedusa per scrivere insieme la Carta di Lampedusa.

Progetto Melting Pot Europa
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