sabato 26 ottobre 2013
Patto militare Italia-Israele Un accordo scellerato e illegale
di Antonio Mazzeo
ll Medio Oriente è in fiamme. La Siria è in ginocchio, migliaia di profughi fuggono in Libano, in Turchia, in Giordania. Tel Aviv mobilita le forze terrestri, aeree, navali. Minaccia d’intervenire in Golan e di lanciare i suoi missili e i suoi caccia contro decine di “obiettivi strategici” in Iran. Intanto cannoneggia la striscia di Gaza e schiera carri armati e blindati alla frontiera con il Libano. Scenari di guerra che non sembrano intimorire più di tanto le forze politiche e il governo italiano che trova pure il tempo d’inviare a Gerusalemme una delegazione d’eccezione, il premier con sei ministri, per il terzo summit intergovernativo in meno di due anni. Per rafforzare la partnership politica e militare e moltiplicare affari e scambi commerciali.
Il faccia a faccia tra i ministri della guerra – il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola e il suo omologo israeliano Ehud Barak – è stato preceduto da una serie d’incontri tra i massimi rappresentanti delle rispettive Forze armate. Il 7 e l’8 febbraio 2012, il sottocapo di Stato maggiore israeliano, generale Nimrod Sheffer, ha incontrato a Roma i responsabili dell’Aeronautica italiana per «approfondire i processi di trasformazione in atto nelle due aeronautiche, le esperienze maturate nei rispettivi teatri di operazione e le future attività addestrative». Il successivo 14 giugno è stato il comandante delle forze aeree israeliane, generale Ido Nehushtan, a giungere in Italia in missione ufficiale.
Meeting e visite di cortesia si sono sommate a tre importanti esercitazioni aeronavali bilaterali. Le prime due si sono svolte a fine 2011 in Sardegna e nel deserto del Negev. Durante i war games sono stati simulati combattimenti aerei tra cacciabombardieri F-15 ed F-16 israeliani ed Eurofighter e Tornado italiani ed eseguiti veri e propri lanci di missili aria-terra e di bombe a caduta libera. Dal 3 all’8 novembre 2012, nelle acque prospicienti la città di Haifa, si è tenuta invece la prima edizione dell’esercitazione Rising Star a cui hanno partecipato i palombari artificieri del Gruppo operativo subacquei del Comsubin (Comando Subacquei ed Incursori) di La Spezia e i Divers (specialisti sommozzatori) della Marina israeliana.
L’accordo che disciplina la partnership militare tra Italia e Israele risale a 7 anni fa ed è stato ratificato dal Parlamento italiano il 17 maggio 2005. Nella parte pubblica del testo (esisterebbe infatti un memorandum segreto mai sottoposto alla discussione e al voto dei parlamentari) si legge che la cooperazione fra i due Paesi riguarderà in particolare «l’industria della difesa, l’importazione, l’esportazione e il transito di materiali militari, le operazioni umanitarie, l’organizzazione delle Forze armate e la gestione, la formazione e l’addestramento del personale, i servizi medici militari». Le attività si svilupperanno grazie «alle riunioni dei ministri della Difesa, dei comandanti in capo e di altri ufficiali autorizzati, lo scambio di esperienze fra gli esperti delle due parti, l’organizzazione e l’attuazione delle attività di addestramento e delle esercitazioni, le visite di navi, aeromobili militari e impianti, lo scambio di informazioni, pubblicazioni e hardware, la ricerca, lo sviluppo e la produzione di sistemi d’armamento». «Italia e Israele si adopereranno al massimo per contribuire, ove richiesto, a negoziare licenze, royalties ed informazioni tecniche, scambiate con le rispettive industrie». E ancora: «Le Parti faciliteranno inoltre la concessione delle licenze di esportazione necessarie per la presentazione delle offerte o proposte richieste per dare esecuzione al presente memorandum».
Senza troppi giri di parole, l’import e l’export di sistemi d’arma devono essere l’essenza delle consolidate relazioni tra Roma e Tel Aviv, in palese violazione della legge italiana che disciplina il commercio di tecnologie belliche e che vieta le vendite a Paesi belligeranti o i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali dei diritti umani. Israele riassume in sé tutte le caratteristiche per essere posta al bando dal complesso militare industriale italiano: le sue Forze armate sono sistematicamente impegnate su più fronti di guerra e dal 1967 occupano buona parte della Cisgiordania. Inoltre il regime di apartheid instaurato contro la popolazione palestinese e gli stessi cittadini israeliani di origine araba è stigmatizzato dalle principali organizzazioni non governative internazionali. Non ultimo, Tel Aviv non ha mai firmato il Protocollo di non proliferazione nucleare e da tempo immemorabile, anche grazie alla collaborazione tecnico-scientifica di Usa ed Unione europea, a Dimona, nel deserto del Negev, si costruiscono armi nucleari (Israele sarebbe già in possesso di più di 200 testate).
Nonostante la riesplosione della crisi mediorientale, proprio il 2012 ha rappresentato l’anno chiave nei trasferimenti di sistemi d’arma tra i due Paesi. Il 19 luglio il Ministero della Difesa italiano e l’omologo israeliano hanno ratificato la fornitura alle Forze armate israeliane di 30 velivoli da addestramento avanzato M-346 Master prodotti da Alenia Aermacchi. La commessa ha un valore di poco inferiore al miliardo di dollari, ma prevede vantaggiose contropartite per le industrie israeliane. Elbit Systems, azienda specializzata nella produzione di tecnologie avanzate, svilupperà il nuovo software che verrà caricato sugli addestratori. Il Virtual Mission Training System (Vmts) «ingannerà i sensori degli M-346 simulando le funzioni di un moderno radar di scoperta attiva capace di gestire numerose funzioni tattiche, nonché scelte d’armamento complesse», riporta la World Aeronautical Press Agency. «Utilizzando il software una volta in volo, il pilota in addestramento potrà esercitarsi in scenari avanzati, quali la guerra elettronica, la caccia alle installazioni radar e l’uso di sistemi d’arma all’avanguardia». Alle future guerre le forze aeree israeliane si addestreranno cioè con il made in Italy.
In cambio dei caccia, Tel Aviv ha anche imposto che l’aeronautica militare italiana si doti di due velivoli di pronto allarme Gulfstream 550 con relativi centri di comando, controllo e sistemi elettronici, prodotti da Israel Aerospace Industries (Iai) ed Elta Systems (costo complessivo, 800 milioni di dollari circa). Selex Elsag, una controllata di Finmeccanica, s’incaricherà per conto delle aziende israeliane di fornire ai velivoli i sottosistemi di comunicazione e link tattici. Le Forze armate italiane dovranno pure acquistare un sistema satellitare elettro-ottico, anch’esso di produzione Iai ed Elbit Systems (245 milioni di dollari). Prime contractor degli israeliani sarà Telespazio, azienda controllata in parte da Finmeccanica, che assicurerà entro il 2015 la costruzione del segmento terrestre, il lancio e la messa in orbita del nuovo sistema satellitare.
Quest’anno, l’Aeronautica italiana ha pure deciso d’installare sugli elicotteri EH101 e sugli aerei da trasporto C27J Spartan e C130 Hercules un nuovo sistema di contromisure a raggi infrarossi, denominato Dircm - Directional infrared countermeasures, co-prodotto da Elettronica Spa di Roma ed Elbit Systems: 25 milioni e mezzo di euro la spesa, con consegne che saranno fatte entro la fine del 2013. Gli elicotteri d’attacco AW-129 Mangusta di AugustaWestland, in dotazione all’esercito italiano, dal prossimo anno saranno armati invece con i missili aria-terra a corto raggio Spike prodotti da un’altra importante azienda militare israeliana, Rafael. I missili, con una gittata tra gli 8 e i 25 km, potranno essere equipaggiati con tre differenti tipologie di testata bellica a seconda dell’uso: anticarro, antifanteria e per la distruzione di bunker. Roma e Tel Aviv puntano infine a sviluppare congiuntamente nuovi velivoli a pilotaggio remoto Uav (i famigerati droni) e a cooperare nella produzione e nella gestione logistica del nuovo cacciabombardiere F-35.
Mentre i programmi di riarmo italo-israeliani sono condivisi e sostenuti da tutte le forze politiche presenti in Parlamento, si sta rafforzando tra alcune forze sociali e no war la convinzione che la solidarietà al popolo palestinese non può essere disgiunta dalla mobilitazione per ottenere l’embargo militare nei confronti di Israele. Singoli cittadini, associazioni e comitati di base hanno dato vita alla Campagna Bds per «il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni nei confronti di Israele», fino a che esso «non porrà termine all’occupazione e alla colonizzazione di tutte le terre arabe e smantellerà il Muro; riconoscerà i diritti fondamentali dei cittadini arabo-palestinesi di Israele alla piena uguaglianza; rispetterà i diritti dei profughi palestinesi al ritorno nelle loro case come stabilito dall’Onu». E lo scorso 13 ottobre, di fronte allo stabilimento Alenia Aermacchi di Venegono-Varese, si è tenuta la manifestazione nazionale “Nessun M346 a Israele” per chiedere la revoca della vendita dei caccia addestratori alle Forze armate israeliane, a cui hanno partecipato, tra gli altri, Pax Christi e la Commissione Giustizia e Pace dei missionari comboniani. «Quella di Varese è stata una manifestazione anche contro lo scellerato accordo del 2005 di cooperazione militare, economica e scientifica tra il nostro Paese ed Israele», ha spiegato Elio Pagani per il Comitato promotore. «Un accordo che non è stato scalfito neppure dall’Operazione Piombo fuso»: «Un’azione militare brutale, senza giustificazioni, nella quale Israele ha commesso crimini di guerra e contro l’umanità».
Peace-researcher e giornalista, ha realizzato numerose inchieste sui processi di riarmo e militarizzazione. Nel 2010 ha conseguito il Primo premio “Giorgio Bassani” di Italia Nostra per il giornalismo. Per consultare articoli e pubblicazioni: http://antoniomazzeoblog.blogspot.it/
giovedì 24 ottobre 2013
Rete-ECO sulla proposta di legge che definisca reato il negazionismo
4/11/2010
Rete-ECO, la rete degli Ebrei Contro l’Occupazione è decisamente contraria ad una legge, proposta dal presidente della Comunità Ebraica di Roma (sul quotidiano La Repubblica) che dichiari reato la negazione della persecuzione degli Ebrei da parte del nazifascismo, culminata con lo sterminio di 6 milioni di Ebrei e di 500 mila Zingari.
Come ha fatto rilevare bene Stefano Levi Della Torre, lo stabilire per legge che una opinione, per quanto odiosa ed aberrante come quella del “negazionismo”, sia dichiarata reato, implica che l’autorità dello Stato stabilisca ciò che è falso e quindi inevitabilmente anche ciò che è vero. Questo è inaccettabile: significherebbe la soppressione della libertà di pensiero e di parola, cioè l’instaurarsi di un regime fascista. Mentre non meraviglia che uomini politici fascisti come Gasparri ed altri abbiano accolto con favore la proposta, stupisce che quelli che si dichiarano democratici, come Fassino, prendano parte al coro favorevole; ci si chiede se per ricerca del favore delle Comunità Ebraiche o per incapacità di ragionamento critico.
Siamo convinti, come ben dice Stefano Levi Della Torre, che le opinioni aberranti si combattano dicendo la verità, documentandola ed argomentando a suo favore. “Negazionisti”in Italia sono alcuni docenti universitari di storia, divenuti seguaci di loro omologhi di altri Paesi, ed un certo numero di persone sprovvedute, disposte ad ascoltarli.
Vorremmo veder scomparire dal costume dal nostro Paese leggi e pronunciamenti delle autorità dello Stato a favore, o a sfavore, di volta in volta degli Ebrei, o dei Mussulmani, o dei Cattolici o Protestanti, o comunque di insiemi di persone definiti da caratteristiche culturali o per origine etnica.
Questa legge “discrimina” tra i razzismi, condanna, letteralmente come reato, solo il razzismo contro gli Ebrei; implicitamente vuol dire che è quello il solo vero razzismo da condannare. Gli altri razzismi, quello oggi di gran lunga più diffuso in Italia contro i "marocchini" e tutti gli islamici, ma anche gli africani neri, non sono condannati penalmente e non sono condannati affatto.
Questa legge, richiesta da un esponente di rilievo delle Comunità Ebraiche, servirebbe alla destra al potere per legittimarsi nel suo ormai ventennale progetto di ripulirsi dalla cattiva reputazione di antisemitismo fascista. E servirebbe a quella parte degli Ebrei italiani che hanno scelto il nazionalismo israeliano come bandiera, qualsiasi atto perverso lo Stato Ebraico commetta, per ottenere favori e vantaggi da chi governa.
Un altro effetto perverso ricercato da simile legge è di proteggere gli Ebrei e, incoerentemente, lo stato di Israele che pretende rappresentarli, per lasciare invece che il razzismo più becero si sfoghi contro i numerosi Mussulmani immigrati in Italia in condizioni particolarmente precarie ed esposte ad ogni angheria da parte delle autorità che governano questo Paese e di una parte non trascurabile della popolazione convertita al costume razzista.
giovedì 17 ottobre 2013
Lettera al Presidente della Repubblica
Oggi abbiamo restituito al Presidente della Repubblica le medaglie al valore che avevamo ricevuto nel 2011 e 2012. Gli abbiamo scritto anche una lettera che pubblichiamo di seguito:
“Egregio Sig. Presidente della Repubblica,
A seguito di nostre richieste alla presidenza della Repubblica per avere dei fondi con i quali finanziare la manifestazione culturale Lampedusainfestival, che si svolge dal 2009 a Lampedusa, abbiamo ricevuto, nel 2011 e nel 2012 due medaglie al valore, per la stessa manifestazione.
Dopo i drammatici eventi avvenuti a Lampedusa negli ultimi giorni sentiamo l’esigenza di inviarLe questa comunicazione. Era da tempo, in realtà, che molti di noi sentivano il bisogno di comunicarLe quanto segue; ma il dolore, la rabbia e lo strazio di questi giorni hanno fatto sì che non fosse più possibile indugiare oltre.
Rifiutiamo la spettacolarizzazione mediatica con cui il naufragio del 3 ottobre scorso è stato rappresentato e diffuso dall’industria dell’intrattenimento: dietro la morbosità con cui la fabbrica delle lacrime e del cordoglio del “lutto nazionale” provano a confezionare il format della rappresentazione della tragedia, dietro i riflettori, le conferenze stampa, le visite ufficiali, crediamo ci sia molto altro che vada denunciato.
Di fronte ad una strage come quella appena consumatasi, di fronte alle centinaia di corpi ancora ostaggio di un mare che certo non ha colpe pari a quelle della società umana, non accettiamo che ci sia chi venga sull’isola promettendo e assicurando. Non accettiamo più che ci si riempia la bocca di promesse, che si diano in pasto alle televisioni le lacrime di circostanza, le commozioni di rito, le figure degli “eroi” e dei salvatori, lasciando poi che le prime pagine si occupino d’altro, che i riflettori si spengano, che i giornalisti ripartano, lasciando tutto così come era prima.
A partire dalla legge 40/1998, legge che sicuramente Lei conoscerà bene dato che porta anche il Suo nome, l’Italia ha avviato una prassi di vero e proprio stato di eccezione, sancendo la detenzione ed il trattenimento di quanti non avevano commesso alcun reato. Con l’inasprirsi delle norme in materia di immigrazione la situazione è andata via via peggiorando. Il business dell’ “accoglienza” si articola oggi lungo una rete di strutture e di centri detentivi che, appaltati a strutture varie, rendono i migranti materia prima di un processo di produzione di profitto che ha luogo in una costante dinamica emergenziale. Come all’Aquila, come in Val di Susa: militarizzazione, gestione di emergenze alimentate ad arte, sospensione dei diritti e stato d’eccezione per creare laboratori di controllo sociale e di repressione.
L’ingerenza imperialista e neo-coloniale dei paesi cosiddetti occidentali destabilizza e rende subalterne intere aree geopolitiche, generando così fenomeni di emigrazione sempre più consistente. Una emigrazione necessaria al capitalismo finanziario dei nostri giorni, il cui conflitto con il lavoro vivo necessita che si impongano nuove forme di governo e di istituzioni e che il mercato stesso del lavoro delle società europee venga stravolto. Occorrono dunque gli immigrati, come manodopera di riserva, clandestina, sommersa, ricattabile, come marginalità sociale su cui far poggiare una riforma in senso neo-oligarchico delle società europee. Accanto alla marginalità migrante si colloca infatti il disagio sociale di quanti, italiani, vivono ormai processi espulsivi di subordinazione, di impoverimento, di negazione della dignità, di quanti lasciano il nostro paese vestendo ancora una volta, anche loro, i panni che in passato abbiamo dovuto troppo spesso vestire, quelli degli emigranti. E come ben saprà non si tratta solo della famigerata fuga dei cervelli: qui parliamo di migliaia che ogni anno lasciano il paese per poter anche solo avere la speranza di un lavoro che garantisca la sussistenza.
Così, sullo stesso scoglio di terra, nel canale di Sicilia, il migrante detenuto in un centro indegno, destinato a divenire un ingranaggio del motore del grande sfruttamento continentale, respira la stessa area della donna di Lampedusa che non può partorire sull’isola, perché non vi sono le strutture sanitarie adeguate, di chi rischierà di morire durante un disperato trasferimento in elicottero sulla terraferma per una emergenza che un ospedale avrebbe potuto benissimo affrontare, del bambino costretto in strutture scolastiche inadeguate, di un cittadino che è costretto a pagare i carburanti più cari d’Europa e che magari, essendo pescatore, è costretto a demolire la barca, perché il carburante è troppo caro.
La tragedia del 3 ottobre fa allora venire al pettine moltissimi nodi politici dei nostri tempi. Chi è che governa davvero questo paese? Quale quota di sovranità ancora mantengono le sue istituzioni? Assistiamo ad un continuo scarica barile tra i vari “rappresentanti delle istituzioni”. Quegli stessi che negli ultimi anni sono stati colpevolmente muti rispetto alla situazione di Lampedusa, che solo dopo il grande fatto di sangue è stata oggetto di una qualche grottesca attenzione, così come lo era stata esclusivamente in occasione delle emergenze più eclatanti come la vergogna accaduta nel 2011.
Riteniamo che la crisi politica delle società europee stia sempre più privando l’Italia della propria sovranità. Abbiamo perduto quella monetaria e siamo sempre più esposti ad un’erosione dell’autonomia e della capacità decisionale delle nostre istituzioni politiche. Una governance economico-politica, espressione delle élite tecnocratiche finanziarie e bancarie, impone ormai le proprie direttive e i propri selezionati referenti alle società europee ed alle loro istituzioni, senza che i loro cittadini siano in grado di opporvisi. Per di più l’Italia è succube ed asservita agli interessi militari e di ingerenza imperiale degli USA. Il nostro territorio, alla stregua di una colonia, è disseminato di istallazioni e basi militari e la vicenda del MUOS di Niscemi è solo l’ultima grottesca dimostrazione di uno svuotamento di senso dell’intero apparato politico-istituzionale del paese.
A cosa servono e che senso avrebbero queste medaglie, dopo aver sottoscritto un golpe costituzionale, voluto dai poteri economici e finanziari, quale quello del pareggio di bilancio, che strozzerà qualunque possibilità di un futuro per il paese intero? A cosa servirebbero dopo aver appoggiato la criminale aggressione della Libia, dopo aver condiviso e avallato un’operazione criminosa come la destabilizzazione della Siria, dopo aver sottoscritto il commissariamento da parte dell’oligarchia finanziaria di un intero paese che era un tempo la seconda forza manifatturiera del continente?
Quelle stesse istituzioni che vorrebbero appuntarci medaglie sul petto sono quelle che alimentano la macchina infame dei CIE, della militarizzazione della Val di Susa, della dislocazione coatta de L’Aquila, delle infinite emergenze dei rifiuti, dei legami organici e strutturali con le mafie, del pareggio di bilancio, della politica neo-coloniale che produce migrazioni, delle missioni di guerra spacciate per umanitarie e delle riforme del mercato del lavoro che generalizzano precarietà e marginalità.
Noi proseguiremo sul nostro cammino, convinti che la crisi epocale che stiamo vivendo può ospitare, in sé, i germi potenziali di un futuro altro e diverso, di una società rinnovata. Ma non abbiamo bisogno né vogliamo che siano queste medaglie a poter fungere da conferma e da riconoscimento di quanto da noi tentato. Perché se ad appuntarle è la stessa politica che, dopo una tragedia come quella di giovedì scorso, invoca rafforzamenti di Frontex, approfittando ancora una volta della questione migratoria per implementare la stretta militare sul Nord Africa, siamo convinti che la nostra strada vada in tutt’altra direzione.”
Associazione Culturale Askavusa - Lampedusa, lì 14/10/2013
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martedì 15 ottobre 2013
SPAGNA: PROTESTE CONTRO L’ONORIFICENZA DI UN’UNIVERSITÀ CATTOLICA A NETANYAHU
ADISTA NOTIZIE 33/2013
Certo non è paragonabile al Premio Nobel per la pace assegnato a Kissinger e ad Obama, ma fa pur sempre specie che l’Università cattolica di Sant’Antonio di Murcia (Ucam), in Spagna, abbia deciso di conferire la laurea honoris causa in Etica Politica e Scienze umane al premier israeliano Benjamin Netanyahu. La cerimonia avrà luogo ai primi di ottobre, sotto gli auspici dell’ex premier spagnolo José María Aznar che dirige la cattedra in questione, ma la decisione è stata suggellata già a fine luglio dal presidente dell’Ucam, José Luis Mendoza, durante una visita in Israele – in compagnia tra gli altri del card. Antonio Cañizares, prefetto della Congregazione per il Culto Divino – al cospetto dello stesso Netanyahu, il quale, ben contento, ha dichiarato che si impegnerà personalmente nel coordinamento delle nascenti relazioni tra l’Ucam e le università israeliane.
Molto meno contenti i teologi e le teologhe dell’Associazione spagnola Giovanni XXIII e i Comitati spagnoli Oscar Romero, i quali hanno espresso la loro più netta ripulsa nei confronti di questa iniziativa, che definiscono «un insulto e un’offesa al popolo palestinese, un attentato contro i diritti umani e una negazione della dignità di questo popolo». «Ci sembra scandaloso che un’università che si proclama cattolica agisca contro i più elementari principi di etica umanitaria e diritto internazionale, legittimando azioni che ledono i diritti legittimi del popolo palestinese», scrivono in un comunicato congiunto. «Se l’Università cattolica di Murcia non vuole essere complice della sistematica aggressione del governo israeliano contro il popolo palestinese, deve rinunciare a conferire questa onorificenza al primo ministro israeliano. È ancora in tempo».
Stesse considerazioni della Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI), dell’Associazione dei Professori Universitari e della Federazione Palestinese dei Sindacati dei Professori e degli Impiegati Universitari (PFUUPE) che hanno accolto con grande preoccupazione la notizia. «Negli ultimi anni Israele, per salvaguardare la sua immagine che andava macchiandosi, ha raddoppiato gli sforzi per autopromuoversi come un’illuminata democrazia liberale. L’assegnazione di simili onorificenze – scrivono le tre associazioni – gioca un ruolo fondamentale in questo tipo di partita e, conferendo tale riconoscimento al primo ministro di Israele, voi state in realtà aiutando il governo israeliano nelle sue politiche di promozione della propria immagine, assegnandogli lo status di membro nel privilegiato club occidentale delle democrazie liberali». «I criminali di guerra di Israele – è la loro conclusione – dovrebbero essere boicottati, non premiati».
L’UE tenga il punto!
Di diverso avviso evidentemente il segretario di Stato statunitense John Kerry che si è molto speso nelle scorse settimane per esercitare pressioni sull’Unione Europea affinché revochi o ammorbidisca le linee guida approvate nel luglio scorso che escludono le entità israeliane attive nei Territori occupati, compresa Gerusalemme Est, dal sostegno che l’UE può concedere sotto forma di sovvenzioni, premi o strumenti finanziari (v. Adista Documenti n. 31/13).
Un’ingerenza che non è passata inosservata, determinando la reazione, oltre che di moltissime realtà palestinesi, di 500 tra docenti e ricercatori universitari europei, i quali l’11 settembre hanno scritto una lettera all’Alto Rappresentante della Politica Estera dell’Unione Europea, Catherine Ashton, incoraggiando l’UE a non annacquare le linee guida e a far sì che vengano applicate anche al nuovo programma quadro europeo per la ricerca e l’innovazione, “Horizon 2020”, per il quale si stimano investimenti per diversi miliardi di euro tra il 2014 e il 2020, e che vede la partnership di Israele (che però fin dall’emanazione delle linee guida in questione ha minacciato il proprio ritiro).
Le stesse sollecitazioni sono contenute in un’analoga lettera inviata il 16 settembre a tutti i ministri degli Esteri dell’UE da 15 figure di spicco della politica europea come l’ex ministro degli Esteri francese Hubert Védrine, l’ex vice ministro degli Esteri tedesco Wolfgang Ischinger e l’ex ambasciatore britannico all’ONU Jeremy Greenstock; e ancora Javier Solana, ex responsabile della politica estera dell’UE, Benita Ferrero-Waldner, ex commissario europeo per le relazioni esterne ed ex ministra degli Esteri austriaca, John Bruton, ex primo ministro irlandese, Andreas Van Agt, ex primo ministro olandese e Hans Van den Broek, ex ministro degli Esteri olandese.
Ma, a sorpresa, un sostegno alle linee guida europee è arrivato anche da ben 600 intellettuali, docenti universitari e artisti israeliani, tra cui sette vincitori del prestigioso Israel Prize (Dani Karavan, Alex Levac, David Tartakover, Shimon Sandbank, Zeev Sternhell, Yehoshua Kolodny e David Harel): «Consideriamo questo annuncio dell’UE come un atto di amicizia e di sostegno allo Stato di Israele all’interno dei suoi confini riconosciuti». «Se tale decisione sarà pienamente attuata – proseguono –, accelererà i negoziati di pace tra Israele e l’Autorità palestinese e aumenterà le possibilità di portare entrambe le parti al tavolo dei negoziati verso un accordo che comprenda il riconoscimento della green line come base per la definizione del confine politico tra Israele e Palestina». «Ci auguriamo che questa decisione sarà attuata al più presto da parte di tutti gli Stati europei, e convincerà altri Paesi, come Stati Uniti, Russia, Cina e India, ad accogliere ed aderire all’iniziativa europea. Chiediamo al governo di Israele – concludono – di evitare qualsiasi attività e reazione che possa danneggiare i nostri rapporti con l’Europa e di cessare il sostegno finanziario e le attività oltre la green line, per il bene di tutti i cittadini israeliani». (ingrid colanicchia)
Certo non è paragonabile al Premio Nobel per la pace assegnato a Kissinger e ad Obama, ma fa pur sempre specie che l’Università cattolica di Sant’Antonio di Murcia (Ucam), in Spagna, abbia deciso di conferire la laurea honoris causa in Etica Politica e Scienze umane al premier israeliano Benjamin Netanyahu. La cerimonia avrà luogo ai primi di ottobre, sotto gli auspici dell’ex premier spagnolo José María Aznar che dirige la cattedra in questione, ma la decisione è stata suggellata già a fine luglio dal presidente dell’Ucam, José Luis Mendoza, durante una visita in Israele – in compagnia tra gli altri del card. Antonio Cañizares, prefetto della Congregazione per il Culto Divino – al cospetto dello stesso Netanyahu, il quale, ben contento, ha dichiarato che si impegnerà personalmente nel coordinamento delle nascenti relazioni tra l’Ucam e le università israeliane.
Molto meno contenti i teologi e le teologhe dell’Associazione spagnola Giovanni XXIII e i Comitati spagnoli Oscar Romero, i quali hanno espresso la loro più netta ripulsa nei confronti di questa iniziativa, che definiscono «un insulto e un’offesa al popolo palestinese, un attentato contro i diritti umani e una negazione della dignità di questo popolo». «Ci sembra scandaloso che un’università che si proclama cattolica agisca contro i più elementari principi di etica umanitaria e diritto internazionale, legittimando azioni che ledono i diritti legittimi del popolo palestinese», scrivono in un comunicato congiunto. «Se l’Università cattolica di Murcia non vuole essere complice della sistematica aggressione del governo israeliano contro il popolo palestinese, deve rinunciare a conferire questa onorificenza al primo ministro israeliano. È ancora in tempo».
Stesse considerazioni della Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI), dell’Associazione dei Professori Universitari e della Federazione Palestinese dei Sindacati dei Professori e degli Impiegati Universitari (PFUUPE) che hanno accolto con grande preoccupazione la notizia. «Negli ultimi anni Israele, per salvaguardare la sua immagine che andava macchiandosi, ha raddoppiato gli sforzi per autopromuoversi come un’illuminata democrazia liberale. L’assegnazione di simili onorificenze – scrivono le tre associazioni – gioca un ruolo fondamentale in questo tipo di partita e, conferendo tale riconoscimento al primo ministro di Israele, voi state in realtà aiutando il governo israeliano nelle sue politiche di promozione della propria immagine, assegnandogli lo status di membro nel privilegiato club occidentale delle democrazie liberali». «I criminali di guerra di Israele – è la loro conclusione – dovrebbero essere boicottati, non premiati».
L’UE tenga il punto!
Di diverso avviso evidentemente il segretario di Stato statunitense John Kerry che si è molto speso nelle scorse settimane per esercitare pressioni sull’Unione Europea affinché revochi o ammorbidisca le linee guida approvate nel luglio scorso che escludono le entità israeliane attive nei Territori occupati, compresa Gerusalemme Est, dal sostegno che l’UE può concedere sotto forma di sovvenzioni, premi o strumenti finanziari (v. Adista Documenti n. 31/13).
Un’ingerenza che non è passata inosservata, determinando la reazione, oltre che di moltissime realtà palestinesi, di 500 tra docenti e ricercatori universitari europei, i quali l’11 settembre hanno scritto una lettera all’Alto Rappresentante della Politica Estera dell’Unione Europea, Catherine Ashton, incoraggiando l’UE a non annacquare le linee guida e a far sì che vengano applicate anche al nuovo programma quadro europeo per la ricerca e l’innovazione, “Horizon 2020”, per il quale si stimano investimenti per diversi miliardi di euro tra il 2014 e il 2020, e che vede la partnership di Israele (che però fin dall’emanazione delle linee guida in questione ha minacciato il proprio ritiro).
Le stesse sollecitazioni sono contenute in un’analoga lettera inviata il 16 settembre a tutti i ministri degli Esteri dell’UE da 15 figure di spicco della politica europea come l’ex ministro degli Esteri francese Hubert Védrine, l’ex vice ministro degli Esteri tedesco Wolfgang Ischinger e l’ex ambasciatore britannico all’ONU Jeremy Greenstock; e ancora Javier Solana, ex responsabile della politica estera dell’UE, Benita Ferrero-Waldner, ex commissario europeo per le relazioni esterne ed ex ministra degli Esteri austriaca, John Bruton, ex primo ministro irlandese, Andreas Van Agt, ex primo ministro olandese e Hans Van den Broek, ex ministro degli Esteri olandese.
Ma, a sorpresa, un sostegno alle linee guida europee è arrivato anche da ben 600 intellettuali, docenti universitari e artisti israeliani, tra cui sette vincitori del prestigioso Israel Prize (Dani Karavan, Alex Levac, David Tartakover, Shimon Sandbank, Zeev Sternhell, Yehoshua Kolodny e David Harel): «Consideriamo questo annuncio dell’UE come un atto di amicizia e di sostegno allo Stato di Israele all’interno dei suoi confini riconosciuti». «Se tale decisione sarà pienamente attuata – proseguono –, accelererà i negoziati di pace tra Israele e l’Autorità palestinese e aumenterà le possibilità di portare entrambe le parti al tavolo dei negoziati verso un accordo che comprenda il riconoscimento della green line come base per la definizione del confine politico tra Israele e Palestina». «Ci auguriamo che questa decisione sarà attuata al più presto da parte di tutti gli Stati europei, e convincerà altri Paesi, come Stati Uniti, Russia, Cina e India, ad accogliere ed aderire all’iniziativa europea. Chiediamo al governo di Israele – concludono – di evitare qualsiasi attività e reazione che possa danneggiare i nostri rapporti con l’Europa e di cessare il sostegno finanziario e le attività oltre la green line, per il bene di tutti i cittadini israeliani». (ingrid colanicchia)
sabato 12 ottobre 2013
Tutti sull’Isola - Scriviamo insieme la Carta di Lampedusa
di Progetto Melting Pot Europa
Tutti sull’Isola - Scriviamo insieme la Carta di Lampedusa
Un sogno, una suggestione e già una proposta. Ripartiamo da Lampedusa per disegnare una nuova Europa
Da troppi anni si strumentalizzano Lampedusa e lo “spettacolo” della sua frontiera per alimentare ansie da “invasione”, per raccontare che l’unica soluzione sono il controllo e l’approccio securitario alle migrazioni, per non parlare mai, paradossalmente, delle ragioni e delle storie di quelle migliaia di donne e uomini che migrano fuggendo da quell’ingiustizia sociale e globale che li rende le ultime e gli ultimi della terra.
E ancora oggi, mentre dopo la morte di 300 persone si accendono finalmente i riflettori anche sulle altre 20.000 inghiottite dal Mediterraneo negli ultimi anni, per l’ennesima volta troppe voci stanno usando Lampedusa in modo strumentale, come accade con il susseguirsi di passerelle di politici sull’Isola che sta scatenando nuovamente la giusta rabbia degli abitanti.
Parlare di Lampedusa, ripartire da Lampedusa, deve avere adesso invece un significato completamente diverso.
In questo senso dalle pagine de Il Manifesto il Sindaco Giusy Nicolini, invoca un cambiamento vero delle norme, della politica, dell’Europa intera, proponendo di ospitare questo auspicato processo proprio nell’Isola.
Dal canto nostro sappiamo che la scrittura di nuove regole può avere segni differenti. E se proprio da Lampedusa ripartisse dal basso una spinta per cambiare radicalmente l’Europa, questo Paese, le sue norme e la sua politica?
Dopo la strage di giovedì scorso, anche grazie all’appello per un canale umanitario che insieme a tantissimi abbiamo promosso dalle pagine di Melting Pot Europa, si è aperto un dibattito inedito, impensabile fino a pochi giorni fa. Cosa ci dice la petizione on-line proposta da La Repubblica per cancellare la legge Bossi-Fini se non questo? Di cosa ci parla la proposta di cancellazione del reato di clandestinità?
Agire questo spazio, mantenerlo aperto, provare a lavorare affinché si trasformi in azioni concrete, è, crediamo, un dovere di noi tutti.
Ma per farlo abbiamo bisogno di metterci in cammino abbandonando l’idea che qualcuno possa farlo al posto nostro.
Perché pur essendone stati i promotori, siamo consapevoli del fatto che nonostante questi appelli abbiano contribuito ad aprire una discussione, non sono sufficiente a produrre invece una trasformazione reale delle regole che disegnano lo scenario in cui si consumano le stragi del Mediterraneo e le violazione dei diritti di milioni di cittadini non riconosciuti all’interno dei confini europei. Migliaia di firme insomma non si trasformeranno automaticamente in decisioni politiche.
C’è poi un secondo aspetto, estremamente delicato, su cui è necessario fare chiarezza. Lo spazio di discussione che si è aperto e l’idea di rivisitazione delle regole di cui oggi parlano tutti, da Napolitano a Barroso, da Alfano a Letta, non ha certo una direzione scontata. La discussione verte tutta intorno al potenziamento dei pattugliamenti di Frontex, alla riscrittura degli accordi bilaterali, all’appalto delle domande d’asilo ai Paesi Terzi, al recepimento delle direttive UE, il cui termine di recepimento era stato fatto abbondantemente scadere, a qualche aggiustamento normativo. Tutto condito dalla retorica della lotta ai trafficanti, del rispetto dei diritti umani, della solidarietà europea.
Il dramma di Lampedusa ha di fatto messo in discussione la legittimità delle politiche europee ed italiane in materia di immigrazione. Di conseguenza le istituzioni europee e nazionali si trovano di fronte alla necessità di riscriverne le regole, o alcune di queste, di raffinarne i meccanismi, di annunciarne la cancellazione di attenuarne le spigolature, con lo scopo di poter riaffermare, nella sostanza, l’impianto stesso dell’Europa Fortezza.
Anche la paventata abolizione del reato di ingresso e soggiorno irregolare (che da sola cambia poco o nulla) parla lo stesso linguaggio. Per la politica istituzionale è urgente l’abbandono della simbologia e delle retoriche del pugno di ferro per mostrarsi oggi commossa, così da recuperare sul terreno della governance quel consenso che le morti di Lampedusa hanno affievolito. Ma come sappiamo l’abito non fa il monaco e vi è il rischio concreto che la politica istituzionale dica di voler cambiare tutto per poi invece non cambiare in concreto nulla, affogando nuovamente le speranze di milioni di donne e uomini nelle acque torbide delle larghe intese e degli egoismi europei.
Tocca a tutti noi giocare la partita che si è aperta perché ogni discorso di cambiamento prenda un’altra traiettoria.
Non esistono scorciatoie. Esiste invece la possibilità di ripartire insieme perché l’incredibile disponibilità a mettersi in gioco che abbiamo registrato da parte di molti dopo i tragici avvenimenti di giovedì scorso, possa trasformarsi in un percorso di migliaia di persone, in una riscrittura delle regole attraverso un’elaborazione giuridica, politica, culturale, che sia veramente collettiva.
In questi anni ci abbiamo provato in molti. Ma oggi abbiamo la possibilità di farlo in tantissimi.
E’ una suggestione, un sogno, ma può diventare una proposta concreta se ci lavoriamo insieme.
A partire da Lampedusa. Ritrovandoci a stretto giro insieme sull’Isola, con chi sull’Isola oggi chiede un cambiamento, insieme a chi ha sottoscritto gli appelli di questi giorni, insieme a chi in questi anni ha elaborato proposte, a chi vuole giocare questa sfida fino in fondo, per dare vita ad un grande meeting, un momento di discussione aperto, tra associazioni, collettivi, organizzazioni e singoli. Per un momento di elaborazione di proposte ma anche di costruzione di una campagna nazionale ed europea per un’Italia senza la legge Bossi-Fini, per un’Europa diversa, senza detenzione, respingimenti, cittadinanze negate e diritti violati. Per metterci a disposizione degli abitanti di Lampedusa e diffondere in tutto il continente le loro istanze.
Per far si che proprio il luogo che in questi anni ha dovuto subire le scelte della politica europea, diventi invece motore di un’ipotesi di cambiamento.
Ritroviamoci a Lampedusa per scrivere insieme la Carta di Lampedusa.
Progetto Melting Pot Europa
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Tutti sull’Isola - Scriviamo insieme la Carta di Lampedusa
Un sogno, una suggestione e già una proposta. Ripartiamo da Lampedusa per disegnare una nuova Europa
Da troppi anni si strumentalizzano Lampedusa e lo “spettacolo” della sua frontiera per alimentare ansie da “invasione”, per raccontare che l’unica soluzione sono il controllo e l’approccio securitario alle migrazioni, per non parlare mai, paradossalmente, delle ragioni e delle storie di quelle migliaia di donne e uomini che migrano fuggendo da quell’ingiustizia sociale e globale che li rende le ultime e gli ultimi della terra.
E ancora oggi, mentre dopo la morte di 300 persone si accendono finalmente i riflettori anche sulle altre 20.000 inghiottite dal Mediterraneo negli ultimi anni, per l’ennesima volta troppe voci stanno usando Lampedusa in modo strumentale, come accade con il susseguirsi di passerelle di politici sull’Isola che sta scatenando nuovamente la giusta rabbia degli abitanti.
Parlare di Lampedusa, ripartire da Lampedusa, deve avere adesso invece un significato completamente diverso.
In questo senso dalle pagine de Il Manifesto il Sindaco Giusy Nicolini, invoca un cambiamento vero delle norme, della politica, dell’Europa intera, proponendo di ospitare questo auspicato processo proprio nell’Isola.
Dal canto nostro sappiamo che la scrittura di nuove regole può avere segni differenti. E se proprio da Lampedusa ripartisse dal basso una spinta per cambiare radicalmente l’Europa, questo Paese, le sue norme e la sua politica?
Dopo la strage di giovedì scorso, anche grazie all’appello per un canale umanitario che insieme a tantissimi abbiamo promosso dalle pagine di Melting Pot Europa, si è aperto un dibattito inedito, impensabile fino a pochi giorni fa. Cosa ci dice la petizione on-line proposta da La Repubblica per cancellare la legge Bossi-Fini se non questo? Di cosa ci parla la proposta di cancellazione del reato di clandestinità?
Agire questo spazio, mantenerlo aperto, provare a lavorare affinché si trasformi in azioni concrete, è, crediamo, un dovere di noi tutti.
Ma per farlo abbiamo bisogno di metterci in cammino abbandonando l’idea che qualcuno possa farlo al posto nostro.
Perché pur essendone stati i promotori, siamo consapevoli del fatto che nonostante questi appelli abbiano contribuito ad aprire una discussione, non sono sufficiente a produrre invece una trasformazione reale delle regole che disegnano lo scenario in cui si consumano le stragi del Mediterraneo e le violazione dei diritti di milioni di cittadini non riconosciuti all’interno dei confini europei. Migliaia di firme insomma non si trasformeranno automaticamente in decisioni politiche.
C’è poi un secondo aspetto, estremamente delicato, su cui è necessario fare chiarezza. Lo spazio di discussione che si è aperto e l’idea di rivisitazione delle regole di cui oggi parlano tutti, da Napolitano a Barroso, da Alfano a Letta, non ha certo una direzione scontata. La discussione verte tutta intorno al potenziamento dei pattugliamenti di Frontex, alla riscrittura degli accordi bilaterali, all’appalto delle domande d’asilo ai Paesi Terzi, al recepimento delle direttive UE, il cui termine di recepimento era stato fatto abbondantemente scadere, a qualche aggiustamento normativo. Tutto condito dalla retorica della lotta ai trafficanti, del rispetto dei diritti umani, della solidarietà europea.
Il dramma di Lampedusa ha di fatto messo in discussione la legittimità delle politiche europee ed italiane in materia di immigrazione. Di conseguenza le istituzioni europee e nazionali si trovano di fronte alla necessità di riscriverne le regole, o alcune di queste, di raffinarne i meccanismi, di annunciarne la cancellazione di attenuarne le spigolature, con lo scopo di poter riaffermare, nella sostanza, l’impianto stesso dell’Europa Fortezza.
Anche la paventata abolizione del reato di ingresso e soggiorno irregolare (che da sola cambia poco o nulla) parla lo stesso linguaggio. Per la politica istituzionale è urgente l’abbandono della simbologia e delle retoriche del pugno di ferro per mostrarsi oggi commossa, così da recuperare sul terreno della governance quel consenso che le morti di Lampedusa hanno affievolito. Ma come sappiamo l’abito non fa il monaco e vi è il rischio concreto che la politica istituzionale dica di voler cambiare tutto per poi invece non cambiare in concreto nulla, affogando nuovamente le speranze di milioni di donne e uomini nelle acque torbide delle larghe intese e degli egoismi europei.
Tocca a tutti noi giocare la partita che si è aperta perché ogni discorso di cambiamento prenda un’altra traiettoria.
Non esistono scorciatoie. Esiste invece la possibilità di ripartire insieme perché l’incredibile disponibilità a mettersi in gioco che abbiamo registrato da parte di molti dopo i tragici avvenimenti di giovedì scorso, possa trasformarsi in un percorso di migliaia di persone, in una riscrittura delle regole attraverso un’elaborazione giuridica, politica, culturale, che sia veramente collettiva.
In questi anni ci abbiamo provato in molti. Ma oggi abbiamo la possibilità di farlo in tantissimi.
E’ una suggestione, un sogno, ma può diventare una proposta concreta se ci lavoriamo insieme.
A partire da Lampedusa. Ritrovandoci a stretto giro insieme sull’Isola, con chi sull’Isola oggi chiede un cambiamento, insieme a chi ha sottoscritto gli appelli di questi giorni, insieme a chi in questi anni ha elaborato proposte, a chi vuole giocare questa sfida fino in fondo, per dare vita ad un grande meeting, un momento di discussione aperto, tra associazioni, collettivi, organizzazioni e singoli. Per un momento di elaborazione di proposte ma anche di costruzione di una campagna nazionale ed europea per un’Italia senza la legge Bossi-Fini, per un’Europa diversa, senza detenzione, respingimenti, cittadinanze negate e diritti violati. Per metterci a disposizione degli abitanti di Lampedusa e diffondere in tutto il continente le loro istanze.
Per far si che proprio il luogo che in questi anni ha dovuto subire le scelte della politica europea, diventi invece motore di un’ipotesi di cambiamento.
Ritroviamoci a Lampedusa per scrivere insieme la Carta di Lampedusa.
Progetto Melting Pot Europa
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Lacrime e commozione non fermano le stragi - Due nuovi naufragi nel Mediterraneo
Lacrime e commozione non fermano le stragi - Due nuovi naufragi nel Mediterraneo
Un natante si rovescia nel Canale di Sicilia, a 70 miglia da Lampedusa, in acque maltesi, l’altro in acque egiziane. Muoiono oltre 60 persone. Tra loro donne e bambini
Commozione, lacrime, emergenza, funerali di stato, richiami all’Europa, annunci, bagarre parlamentari. Questa è in concreto la reazione della politica alla strage di Lampedusa. E mentre ancora si recuperano i cadaveri inghiottiti dal mare lo scorso 3 ottobre, in mare si consumano nuove tragedie. Questa volta in acque maltesi, a circa settanta miglia dalle coste di Lampedusa. Ancora un barcone carico di eritrei e somali, ancora corpi inghiottiti dalla frontiera europea, ancora donne e bambini.
Un natante con a bordo circa 250 persone si è rovesciato al passaggio di un arero militare. Duecento persone sono state tratte in salvo dalla Guardia Costiera e dalla Marina maltese, per gli altri invece il destino è lo stesso toccato a quei 339 migranti in fuga che ancora giaciono senza vita all’interno dell’hangar di Lampedusa.
L’altro naufragio è avvenuto in acque maltesi dove una barca diretta in Europa con a bordo circa 150 cittadini siriani e palestinesi è affondata. Le vittime sono probabilmente dodici.
Intanto l’Europa che si inginocchia di fronte alle bare di Lampedusa ha saputo solo discutere di rinforzare i pattugliamenti di Frontex, di aumentare i controlli, di redistribuire i superstiti per far fronte all’emergenza, di ritoccare le norme, di abolire alcuni provvedimenti simbolo (come il reato di clandestinità) per poi in fondo non cambiare nulla.
Ma è un’emergenza?
Si, se di emergenza si tratta è quella di una quotidiana tragedia che si consuma al largo di Lampedusa e che i suoi abitanti vivono sul molo dell’Isola. Quella che anche quando i riflettori accesi vede quasi un morto al giorno approdare sull’Isola.
Se ne esiste una di emergenza, non è certo quella che vede gli Stati impegnati a far fronte ad una "ondata" di sbarchi. Se esiste un’emergenza non è quella che si risolve con la speranza di essere più fortunati al prossimo allarme lanciato da una barca in mezzo al Mar Mediterraneo.
Se esiste un’emergenza è quella di smetterla di desiderare che si muoia lo stesso, ma lontano da noi. E’ quella per l’apertura immediata di un canale umanitario, un canale di ingresso che permetta a chi fugge da guerra e torture, da violenze e persecuzioni, di non morire nel tentativo di raggiungere l’Europa. E’ quella di una nuova Europa che abbandoni l’ossessione per il controllo delle sue frontiere, tanto violento quanto evidentemente dannoso ed inutile al suo stesso scopo dichiarato.
E’ quella di smetterla di essere soddisfatti per le gloriose operazioni che hanno portato la Guardia Costiera a salvare 50 persone, mentre altre 50 sono state inghiottite dalle acque. E’ quella di chi non vuole che ci sia più alcuna vita da salvare in mare perché l’Europa ha imparato a rispettare i diritti riconosciuti come sacrosanti dalle carte costituenti e dai trattati, quelli che animano le cerimonie e poi invece vengono dimenticati in mezzo al mare e nei luoghi in cui si scrivono le regole.
Perché non accada più, perché queste emergenze diventino le nostre urgenze, è necessario mettersi in cammino e non stare a guardare, mettersi in moto tutti insieme senza pensare che qualcuno possa farlo al posto nostro.
Difficilmente l’Europa Fortezza smetterà di imporre confini mortali se non saremo noi tutti, cittadini europei, a dare un’altra direzione a questa Europa: la rotta dei diritti.
venerdì 11 ottobre 2013
La destra Israeliana prende di mira i libri di testo.
I partiti conservatori fanno pressione per rimuovere la storia palestinese dal programma scolastico.
di Jonathan Cook
Nazareth, Israele – Il governo di destra israeliano e i suoi sostenitori sono accusati di fomentare un clima di crescente intimidazione e intolleranza nelle scuole e tra i gruppi che lavorano per una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese.
Gli ultimi tentativi della destra di soffocare il dissenso hanno incluso la censura dei libri di testo e il tentativo di mettere a tacere le organizzazioni che sollevano inquietanti interrogativi su Israele e il suo passato – in quello che sembra essere l’intensificarsi di una guerra per le menti degli israeliani.
Gruppi alleati al governo hanno cercato di impedire la recente programmazione a Tel Aviv di una conferenza internazionale che esaminava gli avvenimenti che circondano la creazione di Israele nel 1948 – conosciuti come “Guerra di Indipendenza” dagli israeliani e “Nakba”, o catastrofe, dai palestinesi.
Allo stesso tempo, è venuto alla luce che uno dei gruppi di estrema destra coinvolti, Im Tirtzu, aveva avviato una campagna per chiudere l’organizzazione responsabile della conferenza, Zochrot, accusandola di aver violato la legge israeliana per “rifiuto dell’esistenza di Israele”.
Zochrot ha sfidato il più grande tabù di Israele: il diritto di milioni di palestinesi di ritornare nelle case da cui loro e i loro antenati furono espulsi nel 1948. Molti israeliani si oppongono con forza a tale iniziativa in quanto ritengono che essa comporti la fine dell’ebraicità del loro stato.
Eitan Bronstein, fondatore di Zochrot, ha detto che la conferenza di due giorni ha subito particolari minacce dalla destra. “Per la prima volta abbiamo ipotizzato il diritto al ritorno più che solo teorico,” ha dichiarato.
“Questa volta ha avuto grande risalto considerare come possiamo implementare il ritorno. I profughi ci hanno fornito perfino modelli simulati al computer di come potrebbe essere realizzato in pratica.”
La tempistica è imbarazzante per Israele in quanto i colloqui di pace con i palestinesi, a lungo in fase di stallo, sono stati rilanciati di recente sotto la pressione degli Stati Uniti. Una delle questioni chiave per giungere a una soluzione è se sarebbe stato permesso ai profughi di ritornare ai più di 500 villaggi successivamente distrutti da Israele
Più in generale, i gruppi di estrema destra vicini al governo di Benjamin Netanyahu hanno cercato i modi per bloccare i finanziamenti alle organizzazioni che sono ritenute essere troppo critiche nei confronti di Israele o che operano per la tutela dei diritti umani dei palestinesi sotto occupazione.
Apprendimento politicizzato
Durante l’estate, uno dei partiti della coalizione di governo ha introdotto una legislazione per bloccare quei finanziamenti per quella che definisce attività “anti-israeliana”.
Un gruppo di destra che ha contribuito a redigere la legislazione, la ONG Monitor, ha usato la conferenza di Zochrot per mettere in risalto l’illegittimità del finanziamento estero.
Yitzhak Santis, un funzionario della ONG Monitor, ha dichiarato che i sostenitori europei della conferenza avevano cospirato in un evento che equivale a un “appello per la eliminazione di Israele come stato-nazione del popolo ebraico”.
Pure il governo è finito nel mirino per i suoi tentativi crescenti di vigilare il programma scolastico al fine di rimuovere i riferimenti alla Nakba e sminuire i diritti dei cittadini palestinesi di Israele che costituiscono un quinto della popolazione.
Le revisioni al programma di educazione civica che tutti gli studenti devono studiare per passare l’esame di maturità, sono stati criticati in un rapporto che ha messo in dubbio che l’approccio ultranazionalistico del ministero dell’istruzione sia “compatibile pure con un regime democratico.”
I nuovi libri di testo riprendono la legislazione in corso di elaborazione da parte dei membri della coalizione di governo per definire il carattere di Israele come patria esclusiva del popolo ebraico e per porre l’accento sul fatto che solo gli ebrei in Israele hanno il diritto dell’autodeterminazione.
Halleli Pinson, una professoressa di pedagogia alla Università Ben Gurion di Beersheva che ha condotto lo studio, ha detto che sempre di più emergeva all’interno delle scuole israeliane un “regime di terrore”.
“I valori democratici, liberali, umani vengono considerati ora irragionevoli tra i funzionari dell’istruzione,” ha ammesso. “Viene ritenuto che essi compromettano lo status di Israele come stato ebraico. Ora l’unica prospettive che viene promossa nel campo dell’istruzione è di destra.”
Alla recente conferenza per il diritto al ritorno, studiosi locali e internazionali hanno discusso piani concreti per riportare in Israele i profughi palestinesi.
Le restrizioni all’accesso in Israele, stanno a significare che pochi profughi palestinesi provenienti da fuori Israele hanno potuto partecipare. Però vi hanno preso parte diversi profughi palestinesi interni, con la cittadinanza israeliana. Nonostante la loro cittadinanza, come agli altri profughi viene loro sbarrato il ritorno ai propri villaggi. La conferenza è stata tenuta all’Eretz Israel Museum, un prestigioso museo archeologico di Tel Aviv.
“Ricordare”
Zochrot, che significa “ricordare” in ebraico, è la prima organizzazione che cerca di educare i giovani israeliani riguardo la Nakba. Fin dalla sua fondazione nel 2002, ha condotto migliaia di israeliani a visitare i villaggi distrutti lasciando cartelli in ebraico e in arabo che identificano strade, cimiteri ed edifici perduti come moschee, chiese e scuole, suscitando spesso l’ostilità dei residenti ebrei del posto.
Come parte della sua missione, Zochrot ha realizzato dei kit per insegnanti sulla Nakba, anche se i funzionari dell’istruzione hanno impedito loro l’accesso alla aule scolastiche. Il ministero ha pure cercato di impedire agli insegnanti di prendere parte a tempo perso ai seminari di Zochrot.
Lo scorso anno Zochrot ha costituito un archivio di film che documentano le testimonianze dei veterani israeliani della guerra del 1948. Nelle riprese molti parlano per la prima volta dei crimini di guerra commessi e di aver effettuato operazioni di pulizia etnica.
Il lavoro dell’organizzazione è una diretta sfida ai tentativi del governo di sopprimere la discussione sugli eventi che circondano la fondazione di Israele.
Nel 2008, poco prima di diventare primo ministro, Benjamin Netanyahu dichiarò che avrebbe messo uno stop a che gli israeliani vengano a conoscenza della Nakba. Facendo riferimento al programma scolastico, egli disse [in ebraico]: “La prima cosa che faremo è quella di rimuovere la Nakba.”
Tre anni dopo, il governo di Netanyahu ha approvato una legge che esclude le pubbliche istituzioni, comprese scuole e biblioteche, dal beneficio dei finanziamenti statali se fanno riferimento alla Nakba.
Bronstein ha detto che la crescente importanza e combattività di Zochrot nel mettere in discussione la tradizionale narrativa di Israele riguardo al 1948 gli ha inimicato il governo e i suoi sostenitori.
“Dato che diventa più difficile ignorare il nostro lavoro e noi diveniamo più conosciuti, la destra è divenuta più aggressiva nei metodi che usa nei nostri confronti.
Lo scorso anno, la polizia circondò gli uffici di Zochrot a Tel Aviv nel giorno in cui gli israeliani celebrano la loro “indipendenza” e i palestinesi commemorano la Nakba per impedire che il personale partecipasse a un evento in una piazza centrale durante il quale avrebbero letto i nomi dei villaggi palestinesi distrutti.
La polizia, che arrestò tre membri di Zochrot che avevano cercato di liberarsi dal cordone, giustificò l’azione in base al fatto che il gruppo in piazza avrebbe corso il rischio di essere aggredito dalla folla.
A guidare l’attacco a Zochrot fu un movimento giovanile di estrema destra noto come Im Tirtzu. Bronstein ha detto che il gruppo aveva lavorato a stretto contatto con il governo nella stesura della legge sulla Nakba.
Le indagini dei media israeliani hanno evidenziato che parte del finanziamento di Im Tirtzu proviene dall’Agenzia Ebraica, che, in Israele, gode di uno status semigovernativo. Il gruppo è noto per essere vicino ai principali ministri del governo, tra cui il ministro dell’interno, Gideon Saar, che è stato il relatore principale alla sua conferenza annuale del 2010. Egli ha descritto il lavoro di Im Tirtzu come “benedetto” ed “estremamente vitale”.
E’ stato riferito che gruppi di estrema destra, compreso Im Tirtzu, abbiano fatto forti pressioni politiche sull’Erez Museum perché cancellasse la conferenza di Zochrot, includendo una campagna di boicottaggio contro il museo nel caso in cui l’evento fosse andato avanti.
All’ultimo minuto, i funzionari del museo, tesi, hanno cercato di cambiare le condizioni di svolgimento della conferenza. Hanno richiesto a Zochrot di finanziare guardie di sicurezza extra per proteggere il luogo dalle proteste della destra e di oscurare sul poster e sugli inviti i riferimenti a “Sheikh Muwannis”, il villaggio palestinese distrutto sul cui terreno è costruito il museo.
Zochrot si è rifiutato e il museo ha ceduto solo dopo che gli avvocati hanno minacciato di citarlo in giudizio per violazione contrattuale. Michael Sfard, rappresentante di Zochrot, ha definito le richieste del museo “illegali” e ha detto che costituivano una “discriminazione intellettuale e ideologica”.
Gruppo “fascista”
Gli sforzi di Im Tirtzu di bloccare la conferenza hanno fatto seguito alle rivelazioni dei inizi di questo anno secondo cui il suo direttore, Ronen Shoval, aveva reclutato investigatori privati per spiare le organizzazioni di sinistra quale Zochrot. Gli investigatori avevano fatto irruzione negli uffici di Michael Sfard, un eminente avvocato per i diritti umani, e avevano rubato documenti relativi a queste organizzazioni.
Le rivelazioni sono emerse nel corso di un caso giudiziario in cui Im Tirtzu aveva denunciato otto attivisti per averlo definito “fascista” su Facebook. In una situazione umiliante per il movimento e il governo, il giudice del caso ha avallato gli attivisti dopo aver ascoltato gli esperti israeliani sul fascismo sostenere che la descrizione era giustificata.
Un altro gruppo di estrema destra, la ONG Monitor, ha lavorato a stretto contatto con il governo per cercare di bloccare la principale fonte di finanziamento, dovuta ai governi europei, per le organizzazioni di sinistra e dei diritti umani in Israele.
Bronstein ha affermato che, lo scorso anno, la ONG Monitor aveva persuaso un finanziatore tedesco, la Fondazione EVZ, a ritirare il suo denaro.
Un tentativo del governo di redigere la legislazione per bloccare i finanziamenti esteri è stato abbandonato nel 2011, senza fare storie, per la pressione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.
Tuttavia, uno dei partner della coalizione di governo di Netanyahu, il Partito della Casa Ebraica, in estate ha annunciato che avrebbe riportato in auge la legislazione. Le organizzazioni che mettono in discussione le istanze democratiche di Israele o supportano indagini contro soldati israeliani per crimini di guerra avranno davanti a sé la prospettiva della chiusura.
Jafar Farah, direttore di Mossala, un gruppo di pressione politica della minoranza palestinese in Israele, ha detto che molti finanziatori ora “erano impauriti” a causa della campagna.
“Dato l’obiettivo di questa campagna di intimidire i donatori riscuote successo, per le organizzazioni dei diritti umani e per le organizzazioni arabe in Israele il finanziamento inizia a esaurirsi,” ha affermato.
Ha fatto riferimento alla decisione di uno dei principali donatori, la Fondazione Ford, di interrompere i progetti di finanziamento in Israele a causa della pressione.
“pregiudizi liberali”
Nel frattempo, il governo è stato di recente duramente criticato per la concessione data a un altro gruppo di estrema destra, l’Istituto per le Strategie Sioniste, di rivedere i libri di testo usati nelle scuole per preparare gli allievi all’esame di maturità, come parte delle iniziative per rendere il programma di studi più apertamente nazionalista.
Il ministero dell’istruzione ha svolto una revisione dei libri di testo alla ricerca di segni di “pregiudizio liberale”, tra cui libri di storia che fanno riferimento alla Nakba.
Il campo di battaglia principale, tuttavia, è stato quello dei corsi di educazione civica, l’unica parte del programma che affronta temi come la democrazia, i diritti umani, l’uguaglianza e i principi universali di cittadinanza.
L’anno scorso il supervisore del ministero dell’istruzione del programma di educazione civica, Adar Cohen, è stato licenziato nonostante una petizione di centinaia di insegnanti di educazione civica che si opponeva alla decisione.
Era stato criticato dalla destra per la pubblicazione di un libro di testo che conteneva riferimenti al Rapporto Golstone, una missione di inchiesta delle Nazioni Unite che ha criticato Israele per il compimento di quelli che sembravano essere crimini di guerra durante l’attacco a Gaza dell’inverno 2008-2009.
Asher Cohen, un membro di alto grado dell’Istituto per le Strategie Sioniste, è stato nominato a capo della commissione educazione civica del ministero. Fondato da leader dei coloni, l’Istituto è fortemente dipendente dai finanziamenti dei gruppi neoconservatori di Washington.
A un altro membro dell’Istituto, Aviad Bakshi, è stata data la supervisione esclusiva sulla riscrittura del principale testo di educazione civica, Essere Cittadini di Israele, dopo che la destra si era lamentata che era troppo critico nei confronti del paese.
Lo studio della Pinson della Ben Gurion University ha trovato che la nuova edizione propendeva pesantemente verso una concezione nazionalistica di Israele che promuoveva le caratteristiche di uno stato ebraico a scapito dei principi democratici.
“L’influenza dell’Istituto per le Strategie Sioniste è evidente nel nuovo libro di testo. La prospettiva è molto inquietante, in quanto le minoranze in Israele non dovrebbero avere il diritto di influenzare la sfera pubblica.”
Il ministero dell’istruzione non si è reso disponibile per un commento.
Yousef Jabareen, direttore di Dirasat, un centro di politica sociale di Nazareth che ha commissionato il rapporto, ha dichiarato di aver ricevuto numerose denunce da parte di insegnanti nelle scuole arabe di Israele.
“Riferiscono che trovano impossibile insegnare il programma di studi in quanto il suo messaggio è contrario alla parità e all’integrazione,” ha affermato. ”E’ particolarmente problematico perché questi argomenti sono obbligatori e gli alunni non possono immatricolarsi senza aver superato l’esame di educazione civica”.
La Pinson ha detto che il libro ha pure implicitamente accusato i cittadini palestinesi del paese della discriminazione cui sono esposti, tra cui la difficoltà di trovare lavoro. Ha riferito che il messaggio implicito era “come se la minoranza araba stessa fosse responsabile per la sua scarsa partecipazione alla forza lavoro.”
(tradotto da mariano mingar
domenica 6 ottobre 2013
UN RACCONTO PER NON DIMENTICARE
-QUATTRO FRATELLI
Suleyman non sapeva come si era ritrovato sulla sabbia umida. Era come se il ricordo della traversata si fosse cancellato nella sua memoria lasciando solo quel buio e quell’umido. Lo sciacquio delle onde sulla battigia era un canto funebre lugubre e solenne.
Erano venti, forse trenta uomini, avrebbero potuto fuggire prima dell’arrivo della guardia costiera o della polizia. Ne avrebbero avuto il tempo. Però nessuno si era mosso. La morte li aveva sfiorati con la sua fredda lama e ne erano ancora agghiacciati.
Tutti fissavano i dieci corpi distesi sulla battigia, uno accanto all’altro nella pace della morte. Dieci corpi di giovani dai sedici ai vent’anni. Avrebbero riempito nuove fosse che i becchini dell’isola continuavano e continuavano a scavare, quando il mare non tratteneva i morti, stretti nel suo abbraccio, ma li restituiva sputandoli sulla riva.
Gli uomini erano quasi tutti giovani, ma qualcuno c’era, più anziano. Un uomo i cui capelli tendevano al bianco si era coperto il volto con le mani. Dagli spazi vuoti tra le dita cadevano come lacrime smozzicate parole. Tutti guardavano il loro futuro annegato.
Li portarono via allucinati e muti, nessuno tentò la minima resistenza. Nell’amaro tragitto Suleyman non riusciva a smettere di pensare:
-E’ per questo che sono partito?-
Adel, il secondo fratello, arrivò di giorno. Non c’era l’acqua nera, il cielo nero, non c’erano morti sulla riva. Il sole splendeva alto come un inno alla vita, si sentiva il profumo del mare e un leggero vento di brezza sulla pelle. I giovani non ebbero esitazioni, si sparpagliarono in ogni direzione con grande velocità.
Presto Adel sentì la macchina della polizia che lo inseguiva mentre correva tra i campi. L’ansia cresceva metro per metro, no, non doveva farsi prendere. Era come se il tempo si fosse fermato assieme al respiro nella gola, era ancora libero, voleva restare libero più di quanto volesse restare vivo ma le gambe diventavano sempre più legnose, più dolenti. Adel non aveva neppure il vantaggio della velocità che ha la lepre sui predatori, restò libero ancora per pochi metri.
Anìs, il terzo fratello, sbarcò anch’egli con la luce del mattino. Quel giorno non c’era nessuno a spiare gli sventurati che venivano dal mare. Anis era bello e i suoi vestiti non erano stazzonati. Respirò l’aria fresca e si avviò con calma. Si mescolò ai bagnanti che scorazzavano per la strada. Voleva godersi la giornata senza pensare a niente per il momento. Entrò in un bar e fece colazione. Al barista che lo aveva squadrato con sospetto si era rivolto in francese.
–Sono un turista francese –
aveva detto tranquillamente.
Qualcuno però aveva notato il giovane.
-Francese? Semmai sarà un algerino!- E mise mano al cellulare. Un albergatore, in quei giorni di sbarchi, aveva promesso un lauto compenso a chi avesse scoperto e denunciato un clandestino. Anìs non sapeva che sul suo capo pendesse una taglia.
Quando giunse al CPT, Adel ne stava partendo. Non s’incontrarono. Non seppero nulla l’uno dell’altro.
Appena ebbe oltrepassato il cancello che si chiuse alle sue spalle, si sentì mancare. Un vuoto allo stomaco, un senso di vertigine, che diavolo aveva fatto perché lo portassero in un posto simile? Era in trappola.
Intanto Suleyman, trasferito da tempo in un altro centro, era andato fuori di sé quando aveva saputo che volevano rimpatriarlo con un volo charter. Aveva paura di volare. Non avrebbe sopportato un altro naufragio, non avrebbe sopportato di naufragare in cielo, perciò cominciò a gridare fino a diventare cianotico ed anche a sferrare calci quando cercarono di afferrarlo. Suleyman però non era portatore di alcun diritto umano e nessuno si curò di capire cosa stava urlando. Non capivano la sua lingua né importava loro di capirla e lo legarono stretto alla sua paura e lo caricarono a forza sul velivolo.
I suoi compagni di sventura camminavano in fila scortati dalla polizia. Tutti avevano la testa bassa e i polsi stretti nelle manette. Il triste corteo dei deportati sarebbe stato caricato sull’aereo e ognuno saldamente assicurato con doppie cinghie ai sedili senza che le manette venissero loro tolte.
Impacchettato come un salame e fornito di pannolone, tante volte gli scappasse di urinare, Suleyman era stretto tra due agenti che gli davano prontamente una botta di manganello ogni volta che riprendeva a urlare. Quando si stufarono gli legarono un bavaglio sulla bocca per non sentirlo più. Solo all’arrivo si accorsero che il prigioniero non era più nei suoi legacci, era morto soffocato. Non era scampato a questo nuovo e più amaro naufragio.
Adel era stato trasferito al “Regina pacis” e presto capì di essere caduto dalla padella alla brace. All’inizio si era lasciato ingannare dalla bellezza del posto. La costa rocciosa, il mare di un azzurro profondo e intenso, la stessa costruzione del CPT, bianca e celeste…ma il cancello era pesante, il muricciolo sormontato da alte inferriate e i militari erano dappertutto.
Due giorni dopo il suo arrivo c’era stata la rivolta. La causa scatenante era stato il suicidio di un giovane cui era stato notificato il respingimento della sua domanda di asilo e il conseguente rimpatrio. La rivolta lo aveva colto di sorpresa perché all’inizio era rimasto molto colpito dalla calma malata dei detenuti, o ospiti, come li chiamava il direttore del lager. Aveva visto giovani della sua età aggirarsi strascicando i piedi, lo sguardo vacuo, assente. Sembravano zombi. Erano gli effetti delle dosi massicce di psicofarmaci che venivano messi nel cibo dei prigionieri per tenerli calmi, che lo volessero o che non lo volessero. Una camicia di forza chimica. Quando però quel ragazzo s’impiccò per la disperazione di dover tornare nelle mani dei torturatori cui aveva tentato di fuggire, non vi furono psicofarmaci bastanti per contenere il dilagare della rabbia, della ribellione a tanta ingiustizia.
Gli “ospiti” si chiedevano per quale ragione dovevano essere reclusi senza aver fatto niente, senza che nessun tribunale li avesse condannati.
Nella confusione Adel e un altro giovane tentarono la fuga. L’altro ragazzo si buttò da un punto troppo alto e si ruppe una gamba ma Adel toccò terra incolume e si mise a correre. Era ancora libero, libero come la volpe inseguita dai cani. Dentro il CPT infuriava la repressione.
Le teste sbattute contro il muro con violenza s’insanguinavano e di sangue erano macchiati muri e pavimenti, un malcapitato giovane era stato arrotolato in una specie di lercio tappeto e i militi si erano accaniti selvaggiamente su di lui pestando a più non posso.
Adel fu riacciuffato ben presto. E pestato a sangue. Era mezzo rintronato dal dolore, col sangue che gli entrava negli occhi, spinto in malo modo da due poliziotti che gli avevano legato le mani dietro la schiena, mentre lo trascinavano di nuovo in prigione quando vide il suo amico Marwan con gli occhi fuori dalla testa afferrato da un aguzzino mentre un altro gli spingeva in gola della carne di maiale cruda, aiutandosi con un manganello.
Dopo, nessuno fu curato, quali che fossero le sue ferite, né portato in ospedale.
Lo stesso giorno che Anìs, assieme ai suoi compagni, uscì dal CPT per essere imbarcato per porto Empedocle, entravano nel porto di Lampedusa due motovedette della guardia costiera e una della guardia di finanza, trascinando un peschereccio con un centinaio di persone a bordo. Un salvataggio a undici miglia dalla costa.
Sul molo turisti e gente del posto erano venuti a vedere lo sbarco. I migranti arrivarono, facce sconvolte, qualcuno crollò a terra, dal molo si sentì urlare:
-Devono andare a casa di Berlusconi o in Vaticano!-
Un albergatore si lamentava delle scarse prenotazioni a causa di tutti quegli sbarchi, con un elegante signora.
Un uomo domandò a una ragazza in pareo:
non ha paura di tutti questi morti in mare?-
Lei rispose:
-veramente, neppure ci penso…-
Intanto Anìs e gli altri erano arrivati al porto. Li imbarcarono e li confinarono tutti sotto coperta.
Sul ponte pieno di turisti, risate e schiamazzi. Senza un pensiero al mondo gli allegri vacanzieri cantavano in coro qualche stupida canzone.
Ma che ne era stato del quarto fratello? Fawzi, il più anziano, era partito per primo. Aveva preso la decisione alla nascita di suo figlio Alex. Lo aveva chiamato così perché non si sentisse a disagio con un nome arabo in Europa, dove la gente chiamava gli arabi Mustafà o Mohammed qualunque fosse il loro nome. A Londra Fawzi ci viveva già da dieci anni, non aveva ancora il permesso di soggiorno, ma lavorava regolarmente. Il permesso era solo una questione di tempo, per il resto era tutto a posto. Aveva perso sua moglie durante la traversata, c’erano stati dieci morti, lei era una delle vittime. Alex però era cresciuto a Londra ed era molto inserito. Spesso i suoi compagni di scuola venivano a trovarlo e passavano lunghe ore nella sua camera a navigare in internet con il computer che Fawzi aveva comprato, con gran sacrificio, a suo figlio perché non si sentisse da meno degli altri. Alex non si sentiva da meno. Era bello e intelligente, le sue compagne di scuola lo adoravano, ma piaceva a tutti e a Fawzi si gonfiava il cuore dall’orgoglio.
Di notte parlava con la moglie morta a proposito del loro figlio. A volte lei gli rimproverava di tenere il ragazzo lontano dalla propria cultura, Alex stava rischiando di dimenticare l’arabo. Effettivamente parlava uno strano arabo con accento inglese.
Fawzi era triste. Il suo matrimonio era durato solo tre anni e quando aveva cercato di migliorare la vita della sua famiglia aveva tirato sul suo capo il drappo nero di una disperata solitudine che si attenuava la notte quando il buio apriva una strada verso la porta del mondo di là. Ma la tristezza se ne andava davanti al fresco e spensierato sorriso di Alex. Si sentiva in pace, come un uomo che ha realizzato un compito del destino: suo figlio avrebbe avuta una vita diversa.
Tutto cambiò dopo l’attentato alla metropolitana. L’assordante ripercussione di quel boato arrivò fino alle ultime case in periferia, fino alla casa di Fawzi. Accadde tutto di sera e senza preavviso.
Alex stava facendo i compiti in camera sua, mentre Fawzi preparava la cena. Ancora per qualche minuto durò un’atmosfera di pace familiare, poi il tocco crudele alla porta. Ignaro, Fawzi andò ad aprire e un brivido gelato entrò assieme ai quattro uomini armati.
Alex si precipitò in cucina allarmato e vide quegli uomini che mettevano le manette a suo padre, che cercavano di trascinarlo via. Sul fuoco c’era ancora la pentola con il cus-cus e le verdure. Spaventato a morte il ragazzo corse verso il telefono, sollevò la cornetta gridando:
-Non aver paura papà adesso chiamo la polizia!-
In mezzo a due uomini che lo tenevano per le braccia, Fawzi si voltò e con la faccia stravolta rispose:
-Lascia perdere Alex, sono loro la polizia-.
Arrivarono a notte nel Cpt, faceva freddo. Alex pensava ai suoi dischi, al suo computer, ai compiti lasciati sul tavolo. Pensò all’interrogazione di matematica che aveva il giorno dopo, all’appuntamento con la sua compagna di banco. Non era possibile, ci doveva essere un errore, loro non dovevano trovarsi lì!
Il secondino ordinò agli ultimi arrivati di sedersi sul pavimento. Alex esitò, il pavimento era sudicio e coperto di liquami che fuoriuscivano dai bagni. Guardò incredulo il carceriere che urlava di sedersi
–Ma sta scherzando?- domandò, l’energumeno lo colpì così forte che cadde a terra con il labbro insanguinato, imbrattandosi di residui puzzolenti.
La notte tremando di freddo, sul materasso semisventrato Alex pianse sulla spalla di suo padre:
-come faccio papà, domani ho l’interrogazione…-
Li avrebbero rispediti a casa. A casa dove, dopo dieci anni? A casa da chi? La sua Salwa ormai non c’era più. E cosa avrebbe fatto Alex? Era cresciuto a Londra, sarebbe stato un pesce fuor d’acqua, quale avvenire avrebbe avuto? Era stato dunque tutto inutile? Aveva affrontato quel viaggio infernale per il futuro e ora il passato lo aggrediva alle spalle. Quanto coraggio per affrontare la vita giorno per giorno, quanto lavoro, quanti sforzi, quanti sacrifici vanificati in una manciata di minuti…Fawzi si sentiva tutto bagnato non sapeva se di sudore o di lacrime.
Alex dormiva sopraffatto dalla stanchezza. Per dieci, dei suoi dodici anni, era stato un ragazzino come tanti a Londra e ora tutt’a un tratto veniva preso e strappato dal caldo della sua casa, gettato in un lager con il freddo e la paura, perché suo padre era un arabo e non era nato a Londra, sebbene avesse a Londra spremuto il suo quotidiano sudore per dieci anni. A che serviva essere lì con lui se non poteva proteggere il suo bambino? Si era sentito morire quando il secondino aveva alzato la mano su di lui.
Fawzi vegliava nel buio puzzolente di stantio. Doveva fare qualcosa che cambiasse la situazione. Non poteva permettere che a suo figlio strappassero il futuro, quel futuro per cui aveva tanto lottato.
Sapeva che se Alex fosse stato solo, come minorenne, avrebbe avuto il diritto di rimanere. Ma non era solo, aveva quel padre magro e le spalle già cascanti che non lo sapeva proteggere, che era incapace di difenderlo dai violenti, di dargli un avvenire diverso. Quel padre avrebbe potuto solo trascinarlo con sé nel suo buio destino.
A un tratto Fawzi ebbe un’idea. Ma certo. Questo pover’uomo incapace di cambiare la sua sorte poteva ancora fare molto per quella di suo figlio. Si, era l’unica cosa da fare. Alex avrebbe pianto, avrebbe sofferto, ma poi la sua vita sarebbe tornata quasi come prima. Lo avrebbero tolto da lì, sarebbe tornato a scuola, sarebbe rimasto e poco a poco avrebbe dimenticato tutto quel dolore. Fawzi era quasi contento di se, non si sentiva più uno straccio inutile, ma un uomo pieno d’amore, un padre nel senso più compiuto mentre strappava, piano per non svegliare Alex, la camicia, e farne un nodo scorsoio.
-
Suleyman non sapeva come si era ritrovato sulla sabbia umida. Era come se il ricordo della traversata si fosse cancellato nella sua memoria lasciando solo quel buio e quell’umido. Lo sciacquio delle onde sulla battigia era un canto funebre lugubre e solenne.
Erano venti, forse trenta uomini, avrebbero potuto fuggire prima dell’arrivo della guardia costiera o della polizia. Ne avrebbero avuto il tempo. Però nessuno si era mosso. La morte li aveva sfiorati con la sua fredda lama e ne erano ancora agghiacciati.
Tutti fissavano i dieci corpi distesi sulla battigia, uno accanto all’altro nella pace della morte. Dieci corpi di giovani dai sedici ai vent’anni. Avrebbero riempito nuove fosse che i becchini dell’isola continuavano e continuavano a scavare, quando il mare non tratteneva i morti, stretti nel suo abbraccio, ma li restituiva sputandoli sulla riva.
Gli uomini erano quasi tutti giovani, ma qualcuno c’era, più anziano. Un uomo i cui capelli tendevano al bianco si era coperto il volto con le mani. Dagli spazi vuoti tra le dita cadevano come lacrime smozzicate parole. Tutti guardavano il loro futuro annegato.
Li portarono via allucinati e muti, nessuno tentò la minima resistenza. Nell’amaro tragitto Suleyman non riusciva a smettere di pensare:
-E’ per questo che sono partito?-
Adel, il secondo fratello, arrivò di giorno. Non c’era l’acqua nera, il cielo nero, non c’erano morti sulla riva. Il sole splendeva alto come un inno alla vita, si sentiva il profumo del mare e un leggero vento di brezza sulla pelle. I giovani non ebbero esitazioni, si sparpagliarono in ogni direzione con grande velocità.
Presto Adel sentì la macchina della polizia che lo inseguiva mentre correva tra i campi. L’ansia cresceva metro per metro, no, non doveva farsi prendere. Era come se il tempo si fosse fermato assieme al respiro nella gola, era ancora libero, voleva restare libero più di quanto volesse restare vivo ma le gambe diventavano sempre più legnose, più dolenti. Adel non aveva neppure il vantaggio della velocità che ha la lepre sui predatori, restò libero ancora per pochi metri.
Anìs, il terzo fratello, sbarcò anch’egli con la luce del mattino. Quel giorno non c’era nessuno a spiare gli sventurati che venivano dal mare. Anis era bello e i suoi vestiti non erano stazzonati. Respirò l’aria fresca e si avviò con calma. Si mescolò ai bagnanti che scorazzavano per la strada. Voleva godersi la giornata senza pensare a niente per il momento. Entrò in un bar e fece colazione. Al barista che lo aveva squadrato con sospetto si era rivolto in francese.
–Sono un turista francese –
aveva detto tranquillamente.
Qualcuno però aveva notato il giovane.
-Francese? Semmai sarà un algerino!- E mise mano al cellulare. Un albergatore, in quei giorni di sbarchi, aveva promesso un lauto compenso a chi avesse scoperto e denunciato un clandestino. Anìs non sapeva che sul suo capo pendesse una taglia.
Quando giunse al CPT, Adel ne stava partendo. Non s’incontrarono. Non seppero nulla l’uno dell’altro.
Appena ebbe oltrepassato il cancello che si chiuse alle sue spalle, si sentì mancare. Un vuoto allo stomaco, un senso di vertigine, che diavolo aveva fatto perché lo portassero in un posto simile? Era in trappola.
Intanto Suleyman, trasferito da tempo in un altro centro, era andato fuori di sé quando aveva saputo che volevano rimpatriarlo con un volo charter. Aveva paura di volare. Non avrebbe sopportato un altro naufragio, non avrebbe sopportato di naufragare in cielo, perciò cominciò a gridare fino a diventare cianotico ed anche a sferrare calci quando cercarono di afferrarlo. Suleyman però non era portatore di alcun diritto umano e nessuno si curò di capire cosa stava urlando. Non capivano la sua lingua né importava loro di capirla e lo legarono stretto alla sua paura e lo caricarono a forza sul velivolo.
I suoi compagni di sventura camminavano in fila scortati dalla polizia. Tutti avevano la testa bassa e i polsi stretti nelle manette. Il triste corteo dei deportati sarebbe stato caricato sull’aereo e ognuno saldamente assicurato con doppie cinghie ai sedili senza che le manette venissero loro tolte.
Impacchettato come un salame e fornito di pannolone, tante volte gli scappasse di urinare, Suleyman era stretto tra due agenti che gli davano prontamente una botta di manganello ogni volta che riprendeva a urlare. Quando si stufarono gli legarono un bavaglio sulla bocca per non sentirlo più. Solo all’arrivo si accorsero che il prigioniero non era più nei suoi legacci, era morto soffocato. Non era scampato a questo nuovo e più amaro naufragio.
Adel era stato trasferito al “Regina pacis” e presto capì di essere caduto dalla padella alla brace. All’inizio si era lasciato ingannare dalla bellezza del posto. La costa rocciosa, il mare di un azzurro profondo e intenso, la stessa costruzione del CPT, bianca e celeste…ma il cancello era pesante, il muricciolo sormontato da alte inferriate e i militari erano dappertutto.
Due giorni dopo il suo arrivo c’era stata la rivolta. La causa scatenante era stato il suicidio di un giovane cui era stato notificato il respingimento della sua domanda di asilo e il conseguente rimpatrio. La rivolta lo aveva colto di sorpresa perché all’inizio era rimasto molto colpito dalla calma malata dei detenuti, o ospiti, come li chiamava il direttore del lager. Aveva visto giovani della sua età aggirarsi strascicando i piedi, lo sguardo vacuo, assente. Sembravano zombi. Erano gli effetti delle dosi massicce di psicofarmaci che venivano messi nel cibo dei prigionieri per tenerli calmi, che lo volessero o che non lo volessero. Una camicia di forza chimica. Quando però quel ragazzo s’impiccò per la disperazione di dover tornare nelle mani dei torturatori cui aveva tentato di fuggire, non vi furono psicofarmaci bastanti per contenere il dilagare della rabbia, della ribellione a tanta ingiustizia.
Gli “ospiti” si chiedevano per quale ragione dovevano essere reclusi senza aver fatto niente, senza che nessun tribunale li avesse condannati.
Nella confusione Adel e un altro giovane tentarono la fuga. L’altro ragazzo si buttò da un punto troppo alto e si ruppe una gamba ma Adel toccò terra incolume e si mise a correre. Era ancora libero, libero come la volpe inseguita dai cani. Dentro il CPT infuriava la repressione.
Le teste sbattute contro il muro con violenza s’insanguinavano e di sangue erano macchiati muri e pavimenti, un malcapitato giovane era stato arrotolato in una specie di lercio tappeto e i militi si erano accaniti selvaggiamente su di lui pestando a più non posso.
Adel fu riacciuffato ben presto. E pestato a sangue. Era mezzo rintronato dal dolore, col sangue che gli entrava negli occhi, spinto in malo modo da due poliziotti che gli avevano legato le mani dietro la schiena, mentre lo trascinavano di nuovo in prigione quando vide il suo amico Marwan con gli occhi fuori dalla testa afferrato da un aguzzino mentre un altro gli spingeva in gola della carne di maiale cruda, aiutandosi con un manganello.
Dopo, nessuno fu curato, quali che fossero le sue ferite, né portato in ospedale.
Lo stesso giorno che Anìs, assieme ai suoi compagni, uscì dal CPT per essere imbarcato per porto Empedocle, entravano nel porto di Lampedusa due motovedette della guardia costiera e una della guardia di finanza, trascinando un peschereccio con un centinaio di persone a bordo. Un salvataggio a undici miglia dalla costa.
Sul molo turisti e gente del posto erano venuti a vedere lo sbarco. I migranti arrivarono, facce sconvolte, qualcuno crollò a terra, dal molo si sentì urlare:
-Devono andare a casa di Berlusconi o in Vaticano!-
Un albergatore si lamentava delle scarse prenotazioni a causa di tutti quegli sbarchi, con un elegante signora.
Un uomo domandò a una ragazza in pareo:
non ha paura di tutti questi morti in mare?-
Lei rispose:
-veramente, neppure ci penso…-
Intanto Anìs e gli altri erano arrivati al porto. Li imbarcarono e li confinarono tutti sotto coperta.
Sul ponte pieno di turisti, risate e schiamazzi. Senza un pensiero al mondo gli allegri vacanzieri cantavano in coro qualche stupida canzone.
Ma che ne era stato del quarto fratello? Fawzi, il più anziano, era partito per primo. Aveva preso la decisione alla nascita di suo figlio Alex. Lo aveva chiamato così perché non si sentisse a disagio con un nome arabo in Europa, dove la gente chiamava gli arabi Mustafà o Mohammed qualunque fosse il loro nome. A Londra Fawzi ci viveva già da dieci anni, non aveva ancora il permesso di soggiorno, ma lavorava regolarmente. Il permesso era solo una questione di tempo, per il resto era tutto a posto. Aveva perso sua moglie durante la traversata, c’erano stati dieci morti, lei era una delle vittime. Alex però era cresciuto a Londra ed era molto inserito. Spesso i suoi compagni di scuola venivano a trovarlo e passavano lunghe ore nella sua camera a navigare in internet con il computer che Fawzi aveva comprato, con gran sacrificio, a suo figlio perché non si sentisse da meno degli altri. Alex non si sentiva da meno. Era bello e intelligente, le sue compagne di scuola lo adoravano, ma piaceva a tutti e a Fawzi si gonfiava il cuore dall’orgoglio.
Di notte parlava con la moglie morta a proposito del loro figlio. A volte lei gli rimproverava di tenere il ragazzo lontano dalla propria cultura, Alex stava rischiando di dimenticare l’arabo. Effettivamente parlava uno strano arabo con accento inglese.
Fawzi era triste. Il suo matrimonio era durato solo tre anni e quando aveva cercato di migliorare la vita della sua famiglia aveva tirato sul suo capo il drappo nero di una disperata solitudine che si attenuava la notte quando il buio apriva una strada verso la porta del mondo di là. Ma la tristezza se ne andava davanti al fresco e spensierato sorriso di Alex. Si sentiva in pace, come un uomo che ha realizzato un compito del destino: suo figlio avrebbe avuta una vita diversa.
Tutto cambiò dopo l’attentato alla metropolitana. L’assordante ripercussione di quel boato arrivò fino alle ultime case in periferia, fino alla casa di Fawzi. Accadde tutto di sera e senza preavviso.
Alex stava facendo i compiti in camera sua, mentre Fawzi preparava la cena. Ancora per qualche minuto durò un’atmosfera di pace familiare, poi il tocco crudele alla porta. Ignaro, Fawzi andò ad aprire e un brivido gelato entrò assieme ai quattro uomini armati.
Alex si precipitò in cucina allarmato e vide quegli uomini che mettevano le manette a suo padre, che cercavano di trascinarlo via. Sul fuoco c’era ancora la pentola con il cus-cus e le verdure. Spaventato a morte il ragazzo corse verso il telefono, sollevò la cornetta gridando:
-Non aver paura papà adesso chiamo la polizia!-
In mezzo a due uomini che lo tenevano per le braccia, Fawzi si voltò e con la faccia stravolta rispose:
-Lascia perdere Alex, sono loro la polizia-.
Arrivarono a notte nel Cpt, faceva freddo. Alex pensava ai suoi dischi, al suo computer, ai compiti lasciati sul tavolo. Pensò all’interrogazione di matematica che aveva il giorno dopo, all’appuntamento con la sua compagna di banco. Non era possibile, ci doveva essere un errore, loro non dovevano trovarsi lì!
Il secondino ordinò agli ultimi arrivati di sedersi sul pavimento. Alex esitò, il pavimento era sudicio e coperto di liquami che fuoriuscivano dai bagni. Guardò incredulo il carceriere che urlava di sedersi
–Ma sta scherzando?- domandò, l’energumeno lo colpì così forte che cadde a terra con il labbro insanguinato, imbrattandosi di residui puzzolenti.
La notte tremando di freddo, sul materasso semisventrato Alex pianse sulla spalla di suo padre:
-come faccio papà, domani ho l’interrogazione…-
Li avrebbero rispediti a casa. A casa dove, dopo dieci anni? A casa da chi? La sua Salwa ormai non c’era più. E cosa avrebbe fatto Alex? Era cresciuto a Londra, sarebbe stato un pesce fuor d’acqua, quale avvenire avrebbe avuto? Era stato dunque tutto inutile? Aveva affrontato quel viaggio infernale per il futuro e ora il passato lo aggrediva alle spalle. Quanto coraggio per affrontare la vita giorno per giorno, quanto lavoro, quanti sforzi, quanti sacrifici vanificati in una manciata di minuti…Fawzi si sentiva tutto bagnato non sapeva se di sudore o di lacrime.
Alex dormiva sopraffatto dalla stanchezza. Per dieci, dei suoi dodici anni, era stato un ragazzino come tanti a Londra e ora tutt’a un tratto veniva preso e strappato dal caldo della sua casa, gettato in un lager con il freddo e la paura, perché suo padre era un arabo e non era nato a Londra, sebbene avesse a Londra spremuto il suo quotidiano sudore per dieci anni. A che serviva essere lì con lui se non poteva proteggere il suo bambino? Si era sentito morire quando il secondino aveva alzato la mano su di lui.
Fawzi vegliava nel buio puzzolente di stantio. Doveva fare qualcosa che cambiasse la situazione. Non poteva permettere che a suo figlio strappassero il futuro, quel futuro per cui aveva tanto lottato.
Sapeva che se Alex fosse stato solo, come minorenne, avrebbe avuto il diritto di rimanere. Ma non era solo, aveva quel padre magro e le spalle già cascanti che non lo sapeva proteggere, che era incapace di difenderlo dai violenti, di dargli un avvenire diverso. Quel padre avrebbe potuto solo trascinarlo con sé nel suo buio destino.
A un tratto Fawzi ebbe un’idea. Ma certo. Questo pover’uomo incapace di cambiare la sua sorte poteva ancora fare molto per quella di suo figlio. Si, era l’unica cosa da fare. Alex avrebbe pianto, avrebbe sofferto, ma poi la sua vita sarebbe tornata quasi come prima. Lo avrebbero tolto da lì, sarebbe tornato a scuola, sarebbe rimasto e poco a poco avrebbe dimenticato tutto quel dolore. Fawzi era quasi contento di se, non si sentiva più uno straccio inutile, ma un uomo pieno d’amore, un padre nel senso più compiuto mentre strappava, piano per non svegliare Alex, la camicia, e farne un nodo scorsoio.
-
BASTA CON LA BOSSI-FINI!
BASTA CON LA BOSSI-FINI!
Nemmeno 300 morti sono bastati a cancellare immediatamente la Bossi-Fini ex Turco -Napolitano. Politici e governanti piagnucolano e proclamano il lutto nazionale, domani dimenticheranno continuando le loro politiche assassine. Io non dimentico e il lutto lo sento per davvero. Dall'88 ad oggi i morti sono ormai 20mila. Chi può dimenticare gli atroci episodi che si sono susseguiti in questi anni? speronamento del barcone da parte di una motovedetta con 81 morti,naufragi negati, la Cap Anamur bloccata in mezzo al mare, sotto il tiro dei fucili, ogni volta centinaia di morti e i pescatori di Lampedusa pescavano più cadaveri che pesci ma se salvavano qualcuno venivano puniti. Proibito soccorrere! E poi i CPT, i CIE, l'inferno dove era proibito a tutti andare a vedere che succedeva all'interno. Nulla si sapeva, ma poi trapelò quanto era accaduto al "Regina Pacis" senza che però le vittime ottenessero giustizia. Alcune persone non posseggono nessun diritto. A volte la solidarietà dei compagni sfondava i muri da dove uscivano i migranti rinchiusi al grido di Hourria, un grido che accomunava i prigionieri innocenti e quelli fuori.
Le persone che si spostavano con un viaggio da incubo erano accolte dal carcere come delinquenti e chiamati clandestini. I media commentavano questi eventi come "Invasione". L'opinione pubblica era indotta al razzismo, i leghisti proponevano di sparargli addosso e leggi che prevedevano multe salatissime o l'arresto per chi era "recidivo" cioè si faceva trovare di nuovo in giro dopo il respingimento. E i respingimenti avvenivano con violenza, i migranti venivano ammanettati come delinquenti, spesso senza verificare se avevano diritto all'asilo politico. Erano, sono, gente senza importanza, umanità eccedente, di seconda categoria, scarti umani. A volte sono utilizzabili le loro braccia, ma non accettate le loro persone, la loro dignità, i loro diritti. Perfino a chi è stato riconosciuto il diritto d'asilo non viene fornito aiuto.
Ma non solo l'Italia, tutta l'Europa si è chiusa come una fortezza trattando le immigrazioni come un fatto di ordine pubblico. I provvedimenti che hanno preso sono stati solo per intercettare e impedire che queste persone giungessero ai nostri porti. L'occidente che ha prodotto e fomentato guerre, povertà, carestie, che ha colonizzato, rubato e depredato queste popolazioni, quando poi esse si spostano nella ricerca di una vita decente le respinge, le incarcera, le criminalizza, le uccide.
La Bossi-Fini è una legge assassina, costringe la gente ad affrontare la morte per poter vivere ed è responsabile di un lento e incessante genocidio. E ridicolo che se la prendano con i trafficanti e gli scafisti, visto che sono loro che costringono le persone a spostarsi in questo modo disperato. Ma si devono capacitare che nulla può impedire questi flussi, perchè non sono generati dalla voglia di venire a fare turismo ma dalla necessità. E' ora che la smettano di spendere soldi per il Frontex, non servono i controlli di frontiera, ma una politica di solidarietà e di accoglienza. L'occidente ha inventato i diritti umani e poi calpesta quelli degli altri popoli. Questa tragedia non è la prima e non sarà l'ultima se non cambieranno le politiche assassine dell'Europa. Con l'ipocrisia che li contraddistingue hanno proclamato i morti di Lampedusa cittadini italiani. Ma che può importare più ai morti della loro cittadinanza? Quelli che invece hanno avuto il cattivo gusto di non morire saranno indagati per immigrazione clandestina. Un atto duvuto: L'UNICO ATTO DOVUTO È L'ABROGAZIONE SUBITO DELLA BOSSI FINI EX TURCO NAPOLITANO.
La nostra solidarietà è un dovere, tutto questo avviene nel nostro paese e sotto i nostri occhi. Se vogliamo conservare la nostra umanità e la nostra dignità non ci dimentichiamo di loro, attiviamoci per l'abrogazione della Bossi-Fini e per chiudere tutti i centri di detenzione, per una politica dell'accoglienza. Ricordiamo ai nostri politici che i migranti non sono scarti, ma nostri fratelli e sono una risorsa e una ricchezza. La libera circolazione delle persone è un diritto inalienabile!
Nemmeno 300 morti sono bastati a cancellare immediatamente la Bossi-Fini ex Turco -Napolitano. Politici e governanti piagnucolano e proclamano il lutto nazionale, domani dimenticheranno continuando le loro politiche assassine. Io non dimentico e il lutto lo sento per davvero. Dall'88 ad oggi i morti sono ormai 20mila. Chi può dimenticare gli atroci episodi che si sono susseguiti in questi anni? speronamento del barcone da parte di una motovedetta con 81 morti,naufragi negati, la Cap Anamur bloccata in mezzo al mare, sotto il tiro dei fucili, ogni volta centinaia di morti e i pescatori di Lampedusa pescavano più cadaveri che pesci ma se salvavano qualcuno venivano puniti. Proibito soccorrere! E poi i CPT, i CIE, l'inferno dove era proibito a tutti andare a vedere che succedeva all'interno. Nulla si sapeva, ma poi trapelò quanto era accaduto al "Regina Pacis" senza che però le vittime ottenessero giustizia. Alcune persone non posseggono nessun diritto. A volte la solidarietà dei compagni sfondava i muri da dove uscivano i migranti rinchiusi al grido di Hourria, un grido che accomunava i prigionieri innocenti e quelli fuori.
Le persone che si spostavano con un viaggio da incubo erano accolte dal carcere come delinquenti e chiamati clandestini. I media commentavano questi eventi come "Invasione". L'opinione pubblica era indotta al razzismo, i leghisti proponevano di sparargli addosso e leggi che prevedevano multe salatissime o l'arresto per chi era "recidivo" cioè si faceva trovare di nuovo in giro dopo il respingimento. E i respingimenti avvenivano con violenza, i migranti venivano ammanettati come delinquenti, spesso senza verificare se avevano diritto all'asilo politico. Erano, sono, gente senza importanza, umanità eccedente, di seconda categoria, scarti umani. A volte sono utilizzabili le loro braccia, ma non accettate le loro persone, la loro dignità, i loro diritti. Perfino a chi è stato riconosciuto il diritto d'asilo non viene fornito aiuto.
Ma non solo l'Italia, tutta l'Europa si è chiusa come una fortezza trattando le immigrazioni come un fatto di ordine pubblico. I provvedimenti che hanno preso sono stati solo per intercettare e impedire che queste persone giungessero ai nostri porti. L'occidente che ha prodotto e fomentato guerre, povertà, carestie, che ha colonizzato, rubato e depredato queste popolazioni, quando poi esse si spostano nella ricerca di una vita decente le respinge, le incarcera, le criminalizza, le uccide.
La Bossi-Fini è una legge assassina, costringe la gente ad affrontare la morte per poter vivere ed è responsabile di un lento e incessante genocidio. E ridicolo che se la prendano con i trafficanti e gli scafisti, visto che sono loro che costringono le persone a spostarsi in questo modo disperato. Ma si devono capacitare che nulla può impedire questi flussi, perchè non sono generati dalla voglia di venire a fare turismo ma dalla necessità. E' ora che la smettano di spendere soldi per il Frontex, non servono i controlli di frontiera, ma una politica di solidarietà e di accoglienza. L'occidente ha inventato i diritti umani e poi calpesta quelli degli altri popoli. Questa tragedia non è la prima e non sarà l'ultima se non cambieranno le politiche assassine dell'Europa. Con l'ipocrisia che li contraddistingue hanno proclamato i morti di Lampedusa cittadini italiani. Ma che può importare più ai morti della loro cittadinanza? Quelli che invece hanno avuto il cattivo gusto di non morire saranno indagati per immigrazione clandestina. Un atto duvuto: L'UNICO ATTO DOVUTO È L'ABROGAZIONE SUBITO DELLA BOSSI FINI EX TURCO NAPOLITANO.
La nostra solidarietà è un dovere, tutto questo avviene nel nostro paese e sotto i nostri occhi. Se vogliamo conservare la nostra umanità e la nostra dignità non ci dimentichiamo di loro, attiviamoci per l'abrogazione della Bossi-Fini e per chiudere tutti i centri di detenzione, per una politica dell'accoglienza. Ricordiamo ai nostri politici che i migranti non sono scarti, ma nostri fratelli e sono una risorsa e una ricchezza. La libera circolazione delle persone è un diritto inalienabile!
Nella doppia morsa israeliana e egiziana
I palestinesi senza scuole, sanità, medicine, senza diritto di lavorara e nemmeno pescare Dal golpe anti-Morsi il valico di Rafah è blindato e Hamas è accusata di legami con i jihadisti
di Michele Giorgio
GERUSALEMME - Un salto indietro di quasi tre anni. Ai giorni neri in cui Gaza viveva stretta tra due assedi. Di Israele e dell'Egitto del presidente-faraone Hosni Mubarak. Di settimana in settimana si aggrava la condizione della Striscia dove la popolazione civile aveva potuto godere nell'ultimo anno e mezzo di un allentamento delle restrizioni, soprattutto sulla frontiera meridionale con l'Egitto. Caduto, per il golpe militare del 3 luglio, il presidente islamista Mohammed Morsi, tutta Gaza si è improvvisamente ritrovata sotto accusa solo per aver ricevuto aiuti e riconoscimenti dai Fratelli musulmani egiziani, allontanati con la forza dal potere tre mesi fa. Il Cairo peraltro accusa Hamas, che controlla Gaza dal 2007, di «aiutare» i jihadisti che agiscono nella Penisola del Sinai senza però avere prodotto, sino ad oggi, una sola prova concreta delle responsabilità del movimento islamico palestinese. Anche un avversario storico di Hamas, il generale Jibril Rajoub, fino a qualche anno fa esponente di primo piano dell'Autorità nazionale palestinese, di recente ha definito «esagerate» le accuse rivolte al movimento islamico palestinese.
Le condizioni di vita a Gaza si aggravano nel disinteresse della comunità internazionale. Eppure oltre agli effetti devastanti della chiusura, quasi perenne, del valico di Rafah con l'Egitto e alla distruzione di molti dei tunnel clandestini con il Sinai che garantivano l'ingresso di merci di ogni tipo, la popolazione di Gaza deve sempre fare i conti con lo stillicidio di vite umane causato dal fuoco dei soldati israeliani lungo il confine. Ieri si sono svolti i funerali di Houshab Abu Houshab, 36 anni, ucciso due giorni fa nei pressi di Beit Hanoun, nel nord di Gaza. Secondo il portavoce militare israeliano, l'uomo si aggirava «in modo sospetto» lungo le recinzioni di confine. Per i palestinesi Abu Houshab era un civile disarmato che, con ogni probabilità, stava tentando di passare in Israele, come tanti altri manovali, alla ricerca di un lavoro. L'11 agosto, le truppe israeliane avevano ucciso un altro palestinese, sostenendo, anche in quel caso, che era stato visto comportarsi «in modo sospetto».
Le proteste palestinesi per la chiusura del valico di Rafah continuano a non avere effetti sulle autorità egiziane. Domenica centinaia di studenti e di ammalati gravi hanno manifestato a Rafah contro la chiusura del valico spiegando che l'apertura intermittente della frontiera colpisce civili senza colpa. Sabato scorso solo 62 persone sono riuscite a lasciare Gaza. Prima del colpo di stato in Egitto ogni giorno una media di 1.200 persone lasciavano Gaza attraverso Rafah. Non hanno miglior fortuna i pescatori colpiti dalle restrizioni israeliane e ora anche da quelle egiziane. A settembre i giudici egiziani hanno condannato a un anno di prigione 5 pescatori con l'accusa di essere entrati con le loro barche nelle acque territoriali egiziane. Eppure fino a qualche mese fa era una pratica frequente. A causa delle imposizioni israeliane i pescatori di Gaza sono spesso costretti a muoversi verso le acque egiziane dove però ora incontrano motovedette pronte anche ad aprire il fuoco.
Ocha, l'Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari dell'Onu, è preoccupato per le recenti misure adottate che colpiscono i civili palestinesi. Ma le autorità egiziane non ascoltano e si dicono soddisfatte, in particolare dello stop quasi completo del traffico clandestino del carburante diretto a Gaza. Si è passati da un milione di litri al giorno a 200mila litri. Gli effetti si sono fatti sentire subito negli ospedali costretti a lavorare spesso con i generatori autonomi. Il dottor Hussein Ashour, direttore generale dell'ospedale Shifa di Gaza City, ha riferito nei giorni scorsi dei rischi per i pazienti ricoverati in terapia intensiva o in dialisi. Nell'ospedale Shifa ci sono una ventina di sale operatorie ma l'energia intermittente consente l'utilizzo solo della metà. A ciò si aggiunge la penuria cronica di alcuni medicinali. Il ministero della salute ha lanciato l'allarme: oltre 100 tipi di farmaci sono introvabili a Gaza e circa 1000 pazienti non possono ricevere cure adeguate. E questi sono soltanto alcuni dei problemi che la popolazione deve affrontare ogni giorno.
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