CISGIORDANIA, 60MILA PALESTINESI SENZA ACQUA
http://www.nena-news.com/?p=2419
Vivono nella cosiddetta Area C, sotto il completo controllo dell’esercito israeliano. Per loro un po’ d’acqua che sgorga da un rubinetto è un sogno. Roma, 17 luglio 2010, Nena News – E’ una estate più secca del solito per 60 mila palestinesi della Cisgiordania. E non solo per la carenza del prezioso liquido a causa della siccità che ormai da anni afflige questa parte del Vicino Oriente. Per queste decine di migliaia di persone il «problema» è legato alla loro residenza nella cosiddetta «Area C», ossia in quella ampia porzione (circa il 60%) della Cisgiordania sotto il pieno controllo delle autorità di occupazione israeliane.
Intervistata da Irin, l’agenzia stampa delle Nazioni Unite, Cara Flowers, una funzionaria di Emergency Water, Sanitation and Hygiene Group (Ewash), ha avvertito che le condizioni di vita di questi palestinesi stanno rapidamente peggiorando per la mancanza di acqua e per l’impossibilità di osservare le regole igieniche basilari. «Ci sono comunità palestinesi nell’Area C che riescono a procurarsi l’acqua solo comprandola a 40 km di distanza dalle loro case, una situazione che rende molto complicata la loro esistenza», ha spiegato Flowers. Occorrono interventi immediati, ha aggiunto, ma Israele non concede i permessi necessari per realizzarli.
Dopo gli Accordi di Oslo I e II (1993/1995) tra Israele e l’Olp dello scomparso presidente palestinese Yasser Arafat la Cisgiordania venne suddivisa in tre zone: Area A, sotto il pieno controllo dell’Autorità nazionale palestinese; Area B, con amministrazione civile palestinese e gestione della sicurezza da parte di Israele; Area C, totalmente sotto l’autorità militare israeliana.
In quest’ultima zona la popolazione palestinese è limitata a poche decine di migliaia ma queste persone sono costrette a far riferimento per ogni aspetto della loro esistenza all’esercito israeliano (nelle aree A e B vive il 95% dei palestinesi della Cisgiordania). Questa situazione comporta la mancanza o il ritardo (spesso di anni) nell’avvio di qualsiasi progetto di sviluppo delle infrastrutture civili e dei servizi pubblici di base. Occorre tenere in considerazione che Israele non nasconde di volersi annettere, nel quadro di un futuro accordo con l’Anp, una fetta consistente dell’Area C, dove si trovano le principali concentrazioni di colonie ebraiche (costruite in violazione della legge internazionale) e dove è stato edificato gran parte del «muro di separazione».
L’acquifero della Cisgiordania è l’unic fonte accessibile dai palestinesi ma a controllarla è solo Israele che nella distribuzione favorisce ampiamente i suoi cittadini e gli abitanti delle colonie. Ai palestinesi resta una quantità di acqua, (il 20%) non in grado di coprire il fabbisogno di una popolazione peraltro in forte crescita. Questa politica israeliana è stata condannata da vari organismi internazionali e, più di recente, anche da Amnesty International [http://www.amnesty.org/en/library/asset/MDE15/028/2009/en/634f6762-d603-4efb-98ba-42a02acd3f46/mde150282009en.pdf).
I più penalizzati, denuncia Ewash, sono i palestinesi che vivono nell’Area C. Si tratta in molti casi di abitanti di piccoli villaggi, non collegati alla rete idrica, che l’esercito israeliano (attraverso la sua «Amministrazione civile») è tenuto a tutelare ed assistere e che invece non tiene in alcuna considerazione. Un caso emblematico è quello delle cento famiglie beduine del villaggio di Ras al-Awja, vicino Gerico, che sono costrette a comprare l’acqua a prezzi molto elevati mentre i coloni israeliani degli insediamenti circostanti hanno a disposizione quantitativi sufficienti di acqua, proveniente dall’acquifero della Cisgiordania, per irrigare i campi coltivati e persino i loro giardini. (red) Nena News
(Il rapporto di Ewash sulla crisi idrica in Cisgiordania è disponibile a questo indirizzo http://www.ewash.org/files/library/5Factsheet5-AccesstoWASHinAreaC.pdf)
sabato 31 luglio 2010
venerdì 16 luglio 2010
Shin-bet e destra estrema accordo criminale
PERLMAN: RAPPORTI TRA SHIN BET E DESTRA ESTREMA
Il caso del colono accusato di aver assassinato quattro palestinesi, fa emergere manovre oscure dei servizi di sicurezza israeliani. Volevano fargli uccidere lo sceicco Raed Salah
Gerusalemme, 16 luglio 2010 (foto dal sito www.ynetnews.com), Nena News – Il colono israeliano Haim Perlman nei giorni scorsi è stato arrestato dal servizio di sicurezza interno (Shin Bet) perché sospettato dell’assassinio di alcuni palestinesi. Ma proprio dai suoi interrogatori stanno emergendo i rapporti che l’uomo ha avuto con agenti segreti che, stando a quanto racconta, lo avrebbero spinto a pianificare omicidi.
Perlman dice di essere stato manovrato dallo Shin Bet e oggi un sito web israeliano pubblica la foto di «Dede», un presunto agente dei servizi segreti che a giugno avrebbe cercato di convincere il colono ad assassinare lo sceicco Raed Salah, leader del Movimento islamico in Galilea e considerato un «nemico» dall’establishment politico-militare israeliano. Alcuni quotidiani propongono anche la registrazione fatta in segreto di un colloquio tra Perlman e «Dede» di cui lo Shin Bet non ha potuto negare la autenticità.
Trent’anni, padre di tre figli, Perlman è un ex studente del Collegio rabbinico “Ha-Reayon ha-Yehudi”, un laboratorio dell’estremismo di destra in Israele fondato dal rabbino Meir Kahane (assassinato negli Stati Uniti), leader del disciolto (ma solo sulla carta) gruppo anti-arabo Kach. E’ accusato di aver ucciso due palestinesi e sospettato dell’omicidio di altri due. Dalla detenzione Perlman è riuscito a far arrivare alla stampa informazioni sui rapporti che ha avuto con lo Shin Bet. La radio dei coloni «Canale 7» ha riferito che agenti del servizio di sicurezza la scorsa notte hanno perquisito l’abitazione dei genitori di Perlman, a Tekoa, una colonia a qualche chilometro da Betlemme nota come una roccaforte del sionismo ultranazionalista.
Non è la prima volta che emergono in modo clamoroso le manovre sotterranee che lo Shin Bet compie nel nome della «sicurezza nazionale». Yigal Amir, l’assassino dell’ex premier israeliano Yitzhak Rabin, rivelò di aver avuto per anni rapporti con il servizio segreto israeliano allo scopo di colpire i palestinesi e i pacifisti israeliani. (red) Nena News
Il caso del colono accusato di aver assassinato quattro palestinesi, fa emergere manovre oscure dei servizi di sicurezza israeliani. Volevano fargli uccidere lo sceicco Raed Salah
Gerusalemme, 16 luglio 2010 (foto dal sito www.ynetnews.com), Nena News – Il colono israeliano Haim Perlman nei giorni scorsi è stato arrestato dal servizio di sicurezza interno (Shin Bet) perché sospettato dell’assassinio di alcuni palestinesi. Ma proprio dai suoi interrogatori stanno emergendo i rapporti che l’uomo ha avuto con agenti segreti che, stando a quanto racconta, lo avrebbero spinto a pianificare omicidi.
Perlman dice di essere stato manovrato dallo Shin Bet e oggi un sito web israeliano pubblica la foto di «Dede», un presunto agente dei servizi segreti che a giugno avrebbe cercato di convincere il colono ad assassinare lo sceicco Raed Salah, leader del Movimento islamico in Galilea e considerato un «nemico» dall’establishment politico-militare israeliano. Alcuni quotidiani propongono anche la registrazione fatta in segreto di un colloquio tra Perlman e «Dede» di cui lo Shin Bet non ha potuto negare la autenticità.
Trent’anni, padre di tre figli, Perlman è un ex studente del Collegio rabbinico “Ha-Reayon ha-Yehudi”, un laboratorio dell’estremismo di destra in Israele fondato dal rabbino Meir Kahane (assassinato negli Stati Uniti), leader del disciolto (ma solo sulla carta) gruppo anti-arabo Kach. E’ accusato di aver ucciso due palestinesi e sospettato dell’omicidio di altri due. Dalla detenzione Perlman è riuscito a far arrivare alla stampa informazioni sui rapporti che ha avuto con lo Shin Bet. La radio dei coloni «Canale 7» ha riferito che agenti del servizio di sicurezza la scorsa notte hanno perquisito l’abitazione dei genitori di Perlman, a Tekoa, una colonia a qualche chilometro da Betlemme nota come una roccaforte del sionismo ultranazionalista.
Non è la prima volta che emergono in modo clamoroso le manovre sotterranee che lo Shin Bet compie nel nome della «sicurezza nazionale». Yigal Amir, l’assassino dell’ex premier israeliano Yitzhak Rabin, rivelò di aver avuto per anni rapporti con il servizio segreto israeliano allo scopo di colpire i palestinesi e i pacifisti israeliani. (red) Nena News
Oslo addio!
ISRAELE UTILIZZA SHIN BET PER SORVEGLIARE ATTIVISTI STRANIERI
“Ignorata” la sovranità dell'ANP nella zona A della West Bank
Gerusalemme, 05 maggio 2010 (foto dal sito www.brightonpalestinecampaign.org) Nena-News - In una deposizione alla Corte di Giustizia israeliana, il servizio di sicurezza interno dello Shin Bet ha ammesso di aver condotto tra il 2009 e il 2010 la sorveglianza di un’attivista australiana dell’ International Solidarity Movement, Bridgette Chappell. L’australiana, a partire dall’agosto del 2009, aveva preso parte a Bir Zeit, vicino a Ramallah, ad alcune manifestazioni di protesta contro l’occupazione, fino all’inizio dello scorso febbraio, quando è stata arrestata assieme ad un altro attivista, un cittadino spagnolo. L’avvocato di Chappell, Omar Shatz, rivolgendosi all’Alta Corte di Giustizia, ha definito l’arresto della cittadina australiana “illegale”, in quanto le autorità israeliane non hanno giurisdizione nella zona A della West Bank, che in base agli Accordi di Oslo rimane sotto il controllo palestinese, sia civile che militare. Da parte israeliana si contesta a Bridgette Chappell di aver violato un’ordinanza che vieta a persone non autorizzate la permanenza nella West Bank per oltre 48 ore e di aver violato anche un divieto dell’esercito israeliano in vigore a partire dal novembre del 2000 proprio nella zona A. E’ per “motivi di sicurezza”, hanno affermato le autorità israeliane citando anche alcune sentenze precedenti dell’Alta Corte, che l’apparato di sicurezza israeliano può operare in quella zona. Lo confermerebbe, secondo Israele, la testimonianza di un agente dello Shin Bet da cui è stato facile dedurre che l’attività di Bridgette Chappell è stata posta sotto sorveglianza dei servizi segreti. Secondo la dichiarazione dell’agente, la continua sorveglianza dei movimenti di Bridgette Chappell, e il suo arresto, sono giustificati dalle ordinanze militari israeliane, che avrebbero permesso di ignorare la sovranità dell’ANP. “Siamo lieti che lo Stato ha finalmente ammesso di avere esercitato la propria autorità nella zona A – ha detto ad Haaretz l’avvocato Shatz – come se gli accordi di Oslo fossero spariti e come se l’Autorità Palestinese non avesse alcun significato. Questa situazione interesserà certamente il Segretario di Stato Usa in vista della ripresa dei negoziati”, ha concluso Shatz. “Il mio arresto a Ramallah a febbraio e la sorveglianza dei miei movimenti da parte dello Shin Bet nella zona A – ha detto Bridgette Chappell – serve a smontare il “mito” del controllo palestinese nella West Bank. E’ chiaro che Israele esercita un controllo sui territori palestinesi, e questo è apartheid” – ha affermato ancora l’attivista australiana dell’ISM, che ha aggiunto – “la matrice di controllo israeliana, inoltre, si estende non solo a tutta la popolazione palestinese, ma anche agli attivisti internazionali coinvolti nella resistenza popolare. Il tentativo è quello di reprimere e di distogliere gli occhi dal mondo da ogni sostegno alla lotta di liberazione palestinese. Quanto avvenuto dimostra che Israele sta tentando di eseguire una furtiva ma sistematica “bantustanizzazione” della Palestina ” ha concluso Bridgette Chappell. (red) Nena-News
“Ignorata” la sovranità dell'ANP nella zona A della West Bank
Gerusalemme, 05 maggio 2010 (foto dal sito www.brightonpalestinecampaign.org) Nena-News - In una deposizione alla Corte di Giustizia israeliana, il servizio di sicurezza interno dello Shin Bet ha ammesso di aver condotto tra il 2009 e il 2010 la sorveglianza di un’attivista australiana dell’ International Solidarity Movement, Bridgette Chappell. L’australiana, a partire dall’agosto del 2009, aveva preso parte a Bir Zeit, vicino a Ramallah, ad alcune manifestazioni di protesta contro l’occupazione, fino all’inizio dello scorso febbraio, quando è stata arrestata assieme ad un altro attivista, un cittadino spagnolo. L’avvocato di Chappell, Omar Shatz, rivolgendosi all’Alta Corte di Giustizia, ha definito l’arresto della cittadina australiana “illegale”, in quanto le autorità israeliane non hanno giurisdizione nella zona A della West Bank, che in base agli Accordi di Oslo rimane sotto il controllo palestinese, sia civile che militare. Da parte israeliana si contesta a Bridgette Chappell di aver violato un’ordinanza che vieta a persone non autorizzate la permanenza nella West Bank per oltre 48 ore e di aver violato anche un divieto dell’esercito israeliano in vigore a partire dal novembre del 2000 proprio nella zona A. E’ per “motivi di sicurezza”, hanno affermato le autorità israeliane citando anche alcune sentenze precedenti dell’Alta Corte, che l’apparato di sicurezza israeliano può operare in quella zona. Lo confermerebbe, secondo Israele, la testimonianza di un agente dello Shin Bet da cui è stato facile dedurre che l’attività di Bridgette Chappell è stata posta sotto sorveglianza dei servizi segreti. Secondo la dichiarazione dell’agente, la continua sorveglianza dei movimenti di Bridgette Chappell, e il suo arresto, sono giustificati dalle ordinanze militari israeliane, che avrebbero permesso di ignorare la sovranità dell’ANP. “Siamo lieti che lo Stato ha finalmente ammesso di avere esercitato la propria autorità nella zona A – ha detto ad Haaretz l’avvocato Shatz – come se gli accordi di Oslo fossero spariti e come se l’Autorità Palestinese non avesse alcun significato. Questa situazione interesserà certamente il Segretario di Stato Usa in vista della ripresa dei negoziati”, ha concluso Shatz. “Il mio arresto a Ramallah a febbraio e la sorveglianza dei miei movimenti da parte dello Shin Bet nella zona A – ha detto Bridgette Chappell – serve a smontare il “mito” del controllo palestinese nella West Bank. E’ chiaro che Israele esercita un controllo sui territori palestinesi, e questo è apartheid” – ha affermato ancora l’attivista australiana dell’ISM, che ha aggiunto – “la matrice di controllo israeliana, inoltre, si estende non solo a tutta la popolazione palestinese, ma anche agli attivisti internazionali coinvolti nella resistenza popolare. Il tentativo è quello di reprimere e di distogliere gli occhi dal mondo da ogni sostegno alla lotta di liberazione palestinese. Quanto avvenuto dimostra che Israele sta tentando di eseguire una furtiva ma sistematica “bantustanizzazione” della Palestina ” ha concluso Bridgette Chappell. (red) Nena-News
Protesta di Greenpeace
ISRAELE: GREENPEACE OCCUPA CENTRALE ELETTRICA
E' stata una protesta contro l'utilizzo del carbone per la produzione di energia elettrica
Hedera (Israele), 16 luglio 2010 (foto dal sito www.cache3.asset-cache.net), Nena News – Spettacolare protesta della organizzazione ecologista internazionale Greenpeace oggi nel nord di Israele.17 ambientalisti sono stati arrestati dalla polizia dopo che si erano infiltrati nella centrale elettrica della città costiera di Hedera, ad una quarantina di chilometri da Haifa, superando con incredibile facilità i sistemi di sicurezza.
Gli attivisti si sono avvicinati alla centrale a bordo di gommoni e si sono arrampicati con delle funi su una banchina dove hanno issato uno striscione con la scritta «IL CARBONE UCCIDE». Sei sono stati arrestati subito, altri nove, risaliti sui gommoni, sono stati bloccati poco più tardi, quando la nave madre, la celebre “Rainbow Warrior”, ha raggiunto il porto di Haifa.
Hila Krupsky, portavoce di Greenpeace, ha spiegato l’azione come una protesta contro l’utilizzo del carbone come combustibile per gli impianti di generazione dell’energia elettrica. Una produzione altamente inquinante, come rivelano le indagini svolte nella zona in questi ultimi anni, contro la quale già all’inizio di luglio Greenpaece aveva protestato cercando di fermare un mercantile carico di carbone. In quell’occasione vennero arrestati tre attivisti.(red) Nena News
E' stata una protesta contro l'utilizzo del carbone per la produzione di energia elettrica
Hedera (Israele), 16 luglio 2010 (foto dal sito www.cache3.asset-cache.net), Nena News – Spettacolare protesta della organizzazione ecologista internazionale Greenpeace oggi nel nord di Israele.17 ambientalisti sono stati arrestati dalla polizia dopo che si erano infiltrati nella centrale elettrica della città costiera di Hedera, ad una quarantina di chilometri da Haifa, superando con incredibile facilità i sistemi di sicurezza.
Gli attivisti si sono avvicinati alla centrale a bordo di gommoni e si sono arrampicati con delle funi su una banchina dove hanno issato uno striscione con la scritta «IL CARBONE UCCIDE». Sei sono stati arrestati subito, altri nove, risaliti sui gommoni, sono stati bloccati poco più tardi, quando la nave madre, la celebre “Rainbow Warrior”, ha raggiunto il porto di Haifa.
Hila Krupsky, portavoce di Greenpeace, ha spiegato l’azione come una protesta contro l’utilizzo del carbone come combustibile per gli impianti di generazione dell’energia elettrica. Una produzione altamente inquinante, come rivelano le indagini svolte nella zona in questi ultimi anni, contro la quale già all’inizio di luglio Greenpaece aveva protestato cercando di fermare un mercantile carico di carbone. In quell’occasione vennero arrestati tre attivisti.(red) Nena News
La sporca politica israeliana in America latina
www.resistenze.org - popoli resistenti - nicaragua - 13-07-10 - n. 327
da www.info-palestine.net/article.php3?id_article=9066 - fonte: www.thirdworldtraveler.com/Middle_East/Israel_Nicaragua_Contras.html
Traduzione dal francese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Nicaragua: quando Israele appoggiava la dittatura di Somoza...
09/07/2010
Con pochi scrupoli ed un minimo di critiche dall'esterno, Israele si lanciava in soccorso del dittatore nicaraguense Anastasio Somoza Debayle e, dal settembre 1978 al luglio 1979, lo aiutava ad opporsi alla Storia.
Più tardi, verrà rimproverato a Israele - mentre Washington e pressoché tutti gli altri governi del mondo avevano deciso di boicottare Somoza - di essersi mostrato disposto a fornirgli armi.
Somoza è stato iniziato alle armi israeliane nel 1974, all'epoca di un'esposizione speciale per lui predisposta a Managua. Aveva acquistato delle motovedette classe Dabur e degli aerei Arava Stoi; nel momento della sua ultima battaglia, disponeva di 14 Arava per trasportare le sue truppe da un luogo all'altro.
Poco tempo dopo il blocco dell'aiuto degli Stati Uniti a Somoza, l'insurrezione esplose. Nel settembre 1978 i combattimenti si svolsero nella maggior parte delle città del Nicaragua ed un imponente sciopero generale, sostenuto dalla quasi totalità della comunità degli affari, aveva luogo a Managua. Somoza intravide il modo per uscirne. La sua Guardia nazionale [Guardia] [1] utilizzava 1000 mitra Uzi e fucili Galil provenienti da Israele, e Somoza si attendeva "altre migliaia" di Galil. Sebbene la maggior parte dei dirigenti latinoamericani speravano nella sua caduta, Somoza superò la prova di settembre. "Le armi made in Israel hanno contribuito a salvare la dinastia Somoza", recitava un titolo di giornale.
L'autunno dello stesso anno, fucili e munizioni israeliane arrivarono in grandi quantità. Alcuni di questi fucili Galil "sono stati inviati direttamente ad un'unità speciale terroristica, comandata dal figlio di Somoza, che si è resa colpevole degli assassini di oppositori politici, donne e bambini". Anche la Guardia ha utilizzato le nuove armi israeliane all'epoca delle sue operazioni di "pulizia" svoltesi nell'ottobre 1978 in mezza dozzina di città. La maggioranza delle vittime - molte di loro abbattute dalla Guardia davanti alla loro porta di casa - avevano tra 14 e 21 anni e sono state assassinate semplicemente perché vivevano nei quartieri dove era attivo il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN).
Un consigliere israeliano "che si è presentato come un ufficiale dell'esercito israeliano", era presente in Nicaragua lavorando nel bunker di Somoza a Managua. Il consigliere avrebbe rappresentato David Marcus Katz, il mercante d'armi israeliano che risiedeva in Messico e strettamente legato all'ala più estremista del movimento di coloni israeliani, Gush Emunim.
Le consegne di armi israeliane continuarono. Parecchi trasferimenti vennero effettuati per via aerea, la notte durante il coprifuoco. Tra le armi fatte arrivare in questo modo si trovavano dei missili terra-aria (benché i Sandinisti non avessero aeronautica militare). Israele aveva un primo momento dato la sua parola che non avrebbe mandato armi a Somoza. Poi gli israeliani negarono di averlo fatto, ma secondo dichiarazioni americane, le armi israeliane continuavano ad arrivare in Nicaragua. "Il nostro personale a Managua ci informa che la Guardia nazionale [Guardia] indossa addirittura i baschi israeliani", dichiarava un responsabile statunitense.
La primavera seguente, Israele mandò a Somoza del materiale notevole: nove aerei da combattimento armati Cessna e due elicotteri Sikorsky. Il FSLN abbatté sette dei Cessna. Somoza fece un migliore utilizzo degli elicotteri, che battezzò "Skyraiders. " Le sue guardie li utilizzavano come piattaforme per le mitragliatrici e da un'altezza di 3000 piedi, i soldati facevano rotolare giù le bombe dalle porte degli elicotteri.
"Il governo lancia delle bombe da 250 chili dagli elicotteri sulle baraccopoli controllate dai rivoluzionari, ed avrebbero ucciso fino a 600 persone in una giornata. I soldati uccidono sistematicamente i supposti ribelli che catturano", scriveva il corrispondente del New York Times a Managua nelle ultime settimane di guerra. Dopo avere distrutto cinque città ed una grande parte dell'infrastruttura industriale del Nicaragua, il 17 Luglio 1979 Somoza svuotava le casse pubbliche e fuggiva dal paese.
Israele e i Contras
Certi avvenimenti fanno risalire l'aiuto israeliano ai contras [2] fin dalla loro apparizione nel 1979. È anche possibile che Israele abbia compiuto una transizione senza scossoni da Somoza ai contras attraverso i suoi contatti con alcune di queste figure presenti nella rete privata che fu svelata all'epoca dello scandalo Iran-contra, o Irangate [3] e che esplose nel novembre 1986. Una parte di questa rete cominciò "a canalizzare l'aiuto a Somoza via Israele e EATSCO", una compagnia di trasporti creata da altri membri della rete per trarre vantaggio dalle armi che l'Egitto doveva ricevere dagli Stati Uniti in seguito agli accordi di Camp David, dopo che l'amministrazione Carter aveva tagliato gli aiuti al Nicaragua.
Quando il dittatore fu rovesciato, la rete associata all'ex agente CIA Edwin Wilson - che ora sconta il carcere per una vendita di esplosivi alla Libia – e l'ex agente CIA Thomas Clines trasferì un "programma di assistenza alla sicurezza" predisposto per Somoza direttamente ai contras. Questo implicava il coinvolgimento della parte peggiore della polizia segreta di Somoza in Honduras, un'operazione cinica proseguita fino nel gennaio 1981, quando prese avvio l'amministrazione Reagan.
Una delle prime mosse dell'amministrazione Reagan fu di accordarsi con l'Argentina per l'addestramento dei contras. I veterani della "sporca guerra" [4] in Argentina furono entusiasti all'idea di esportare le loro competenze e le loro pratiche. Hanno formato i contras fino a quando Washington e Buenos Aires si sono scontrati dopo che l'amministrazione Reagan si era allineata alla Gran Bretagna durante la guerra delle Malvine/Falklands [5].
Durante il periodo argentino, l'ambasciatore di Israele in Costa Rica fornì i contras di passaporti e nomi falsi affinché potessero viaggiare attraverso l'America Centrale. Nel corso di questi loro viaggi di "affari", almeno un contra fu implicato nell'assassinio dell'arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero [6].
Nello stesso tempo, l'amministrazione propose a Israele di imbarcarsi nella guerra contro il Nicaragua: secondo uno schema che sarebbe apparso dopo come la raison d'etre dello scandalo Iran-contra, poco tempo prima del giugno 1981 Israele ricevette delle immagini satellitari del reattore nucleare di Osirak in Iraq "all'interno di un appello a Israele per l'aiuto ai contras". Israele ha utilizzato queste foto per distruggere il reattore. Non si sa in quale misura e circostanze, Tel Aviv rispose all'appello dell'amministrazione. Alla fine del 1982, tuttavia, il Nicaragua ha accusato Israele di armare e aiutare le bande criminali della Guardia nazionale [somozista] in Honduras.
Il fatto più ragguardevole nell'entrata in guerra di Israele contro il Nicaragua è il suo accordo con la CIA del 1981 o 1982, per fornire di armi provenienti dal blocco dell'est [patto di Varsavia] le operazione allora segrete dei mercenari. Dopo essere stata un poco "contenuta" dal Congresso negli anni 1970, la CIA ha avuto delle difficoltà a procurare delle armi "non tracciabili" ai contras ed era in imbarazzo quando all'inizio del 1982 in televisione alcuni mercenari brandivano le armi provenienti dagli Stati Uniti. All'insegna della prudenza, che ha segnato l'insieme delle sue relazioni con i contras, il governo israeliano finse di rifiutare questa richiesta degli Stati Uniti "attraverso le normali vie diplomatiche", mentre alcuni ex funzionari dell'intelligence israeliana si mettevano in contatto con la CIA con un'offerta di armi provenienti dal blocco dell'est, di cui avevano disponibilità. La CIA supponeva che l'offerta avesse l'appoggio, il consenso o il patrocinio del governo israeliano.
Rimane la questione di sapere se la CIA abbia accettato questa particolare offerta, ma una sistemazione si raggiunse all'inizio degli anni 1980 rifornendo i contras con armi leggere dell'est e piccoli missili portabili, vendendole attraverso la CIA, che a sua volta ha rifornito i contras ed i ribelli afgani. Questa particolare disposizione è continuata apparentemente fino al 1986. "Quando gli israeliani hanno presentato il conto di 50 milioni di dollari e la CIA, adducendo mancanza di fondi, ne pagò 30 milioni in armi e non in contanti".
Il vecchio capo del FDN [7] Edgard Chamorro ha dichiarato che nel 1982 i contras parlavano di Israele come uno dei loro sostenitori a livello internazionale. Il 7 dicembre di quello stesso anno, la direzione del FDN incontrò Ariel Sharon, allora ministro della Difesa di Israele, mentre questi era in visita in Honduras. In quell'occasione venne trovata una soluzione per convogliare via Honduras le armi degli israeliani ai contras.
Note:
[1] La Guardia nazionale somozista era il braccio armato della dittatura. I suoi rapimenti, assassini, atti di tortura sono innumerevoli e l'apice della violenza repressiva venne raggiunta quando la popolazione nicaraguese insorse massicciamente con l'aiuto del FSLN [Frente Sandinista di Liberación Nacional].
[2] Opposizione armata anti-sandinista finanziata e sostenuta dagli Stati Uniti, con la complicità diretta o indiretta delle dittature che imperversavano in America Centrale ed in Sudamerica (Honduras, Guatemala, Argentina, Cile). Il tanto democratico e tanto vantato Costa-Rica prestava ugualmente una mano... I contras avevano una sinistra reputazione di violenza, di omicidi ed estorsioni contro i civili delle province del nord del Nicaragua.
[3] L'amministrazione dell'allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, ha venduto armi all'Iran (nemico dichiarato di questo paese) tramite Israele, altro paese nemico dell'Iran. Il denaro così raccolto serviva a finanziare i contras.
[4] Una giunta militare governa l'Argentina dal 1976 al 1983, rendendo pratica quotidiana le scomparse forzate [desaparecidos], le incarcerazioni arbitrarie e l'uso della tortura contro gli oppositori politici, le loro famiglie, ivi compresi i bambini, gli amici, i vicini, eccetera..., con una rete di più di 500 centri di detenzione clandestini. Si stima a più di 30.000 il numero di scomparsi. Tutta una generazione intellettuale, militante, politica è stata decimata in quegli anni.
[5] Il 2 aprile 1982, la dittatura in Argentina, scaturita dal colpo di stato militare del marzo 1976 fece invadere le isole Falkland (Malvinas in spagnolo), colonia britannica dal 1833. L'obiettivo era manifestamente di trarre beneficio politico da una rivendicazione storica sulle Malvine. Il governo britannico [sotto la direzione di Margaret Tatcher] reagì con un'estrema violenza e riconquistò le isole, sfruttando senza vergogna un delirio nazionalista, profondamente sciovinista.
[6] Il 24 marzo 1980, il Monsignor Oscar A. Romero, arcivescovo di San Salvador, capitale di El Salvador, viene assassinato in chiesa a causa della sua opposizione alla violenza e del suo appello per un compromesso nella guerra insurrezionale che infuria nel paese. Romero si era soprattutto attirato l'odio dei gruppi paramilitari di estrema destra facendo conoscere la sua opposizione agli arresti arbitrari.
[7] Fuerza Democrática Nicaragüense, una delle organizzazioni anti-sandiniste con base in Honduras e sostenuta dagli Stati Uniti
da www.info-palestine.net/article.php3?id_article=9066 - fonte: www.thirdworldtraveler.com/Middle_East/Israel_Nicaragua_Contras.html
Traduzione dal francese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Nicaragua: quando Israele appoggiava la dittatura di Somoza...
09/07/2010
Con pochi scrupoli ed un minimo di critiche dall'esterno, Israele si lanciava in soccorso del dittatore nicaraguense Anastasio Somoza Debayle e, dal settembre 1978 al luglio 1979, lo aiutava ad opporsi alla Storia.
Più tardi, verrà rimproverato a Israele - mentre Washington e pressoché tutti gli altri governi del mondo avevano deciso di boicottare Somoza - di essersi mostrato disposto a fornirgli armi.
Somoza è stato iniziato alle armi israeliane nel 1974, all'epoca di un'esposizione speciale per lui predisposta a Managua. Aveva acquistato delle motovedette classe Dabur e degli aerei Arava Stoi; nel momento della sua ultima battaglia, disponeva di 14 Arava per trasportare le sue truppe da un luogo all'altro.
Poco tempo dopo il blocco dell'aiuto degli Stati Uniti a Somoza, l'insurrezione esplose. Nel settembre 1978 i combattimenti si svolsero nella maggior parte delle città del Nicaragua ed un imponente sciopero generale, sostenuto dalla quasi totalità della comunità degli affari, aveva luogo a Managua. Somoza intravide il modo per uscirne. La sua Guardia nazionale [Guardia] [1] utilizzava 1000 mitra Uzi e fucili Galil provenienti da Israele, e Somoza si attendeva "altre migliaia" di Galil. Sebbene la maggior parte dei dirigenti latinoamericani speravano nella sua caduta, Somoza superò la prova di settembre. "Le armi made in Israel hanno contribuito a salvare la dinastia Somoza", recitava un titolo di giornale.
L'autunno dello stesso anno, fucili e munizioni israeliane arrivarono in grandi quantità. Alcuni di questi fucili Galil "sono stati inviati direttamente ad un'unità speciale terroristica, comandata dal figlio di Somoza, che si è resa colpevole degli assassini di oppositori politici, donne e bambini". Anche la Guardia ha utilizzato le nuove armi israeliane all'epoca delle sue operazioni di "pulizia" svoltesi nell'ottobre 1978 in mezza dozzina di città. La maggioranza delle vittime - molte di loro abbattute dalla Guardia davanti alla loro porta di casa - avevano tra 14 e 21 anni e sono state assassinate semplicemente perché vivevano nei quartieri dove era attivo il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN).
Un consigliere israeliano "che si è presentato come un ufficiale dell'esercito israeliano", era presente in Nicaragua lavorando nel bunker di Somoza a Managua. Il consigliere avrebbe rappresentato David Marcus Katz, il mercante d'armi israeliano che risiedeva in Messico e strettamente legato all'ala più estremista del movimento di coloni israeliani, Gush Emunim.
Le consegne di armi israeliane continuarono. Parecchi trasferimenti vennero effettuati per via aerea, la notte durante il coprifuoco. Tra le armi fatte arrivare in questo modo si trovavano dei missili terra-aria (benché i Sandinisti non avessero aeronautica militare). Israele aveva un primo momento dato la sua parola che non avrebbe mandato armi a Somoza. Poi gli israeliani negarono di averlo fatto, ma secondo dichiarazioni americane, le armi israeliane continuavano ad arrivare in Nicaragua. "Il nostro personale a Managua ci informa che la Guardia nazionale [Guardia] indossa addirittura i baschi israeliani", dichiarava un responsabile statunitense.
La primavera seguente, Israele mandò a Somoza del materiale notevole: nove aerei da combattimento armati Cessna e due elicotteri Sikorsky. Il FSLN abbatté sette dei Cessna. Somoza fece un migliore utilizzo degli elicotteri, che battezzò "Skyraiders. " Le sue guardie li utilizzavano come piattaforme per le mitragliatrici e da un'altezza di 3000 piedi, i soldati facevano rotolare giù le bombe dalle porte degli elicotteri.
"Il governo lancia delle bombe da 250 chili dagli elicotteri sulle baraccopoli controllate dai rivoluzionari, ed avrebbero ucciso fino a 600 persone in una giornata. I soldati uccidono sistematicamente i supposti ribelli che catturano", scriveva il corrispondente del New York Times a Managua nelle ultime settimane di guerra. Dopo avere distrutto cinque città ed una grande parte dell'infrastruttura industriale del Nicaragua, il 17 Luglio 1979 Somoza svuotava le casse pubbliche e fuggiva dal paese.
Israele e i Contras
Certi avvenimenti fanno risalire l'aiuto israeliano ai contras [2] fin dalla loro apparizione nel 1979. È anche possibile che Israele abbia compiuto una transizione senza scossoni da Somoza ai contras attraverso i suoi contatti con alcune di queste figure presenti nella rete privata che fu svelata all'epoca dello scandalo Iran-contra, o Irangate [3] e che esplose nel novembre 1986. Una parte di questa rete cominciò "a canalizzare l'aiuto a Somoza via Israele e EATSCO", una compagnia di trasporti creata da altri membri della rete per trarre vantaggio dalle armi che l'Egitto doveva ricevere dagli Stati Uniti in seguito agli accordi di Camp David, dopo che l'amministrazione Carter aveva tagliato gli aiuti al Nicaragua.
Quando il dittatore fu rovesciato, la rete associata all'ex agente CIA Edwin Wilson - che ora sconta il carcere per una vendita di esplosivi alla Libia – e l'ex agente CIA Thomas Clines trasferì un "programma di assistenza alla sicurezza" predisposto per Somoza direttamente ai contras. Questo implicava il coinvolgimento della parte peggiore della polizia segreta di Somoza in Honduras, un'operazione cinica proseguita fino nel gennaio 1981, quando prese avvio l'amministrazione Reagan.
Una delle prime mosse dell'amministrazione Reagan fu di accordarsi con l'Argentina per l'addestramento dei contras. I veterani della "sporca guerra" [4] in Argentina furono entusiasti all'idea di esportare le loro competenze e le loro pratiche. Hanno formato i contras fino a quando Washington e Buenos Aires si sono scontrati dopo che l'amministrazione Reagan si era allineata alla Gran Bretagna durante la guerra delle Malvine/Falklands [5].
Durante il periodo argentino, l'ambasciatore di Israele in Costa Rica fornì i contras di passaporti e nomi falsi affinché potessero viaggiare attraverso l'America Centrale. Nel corso di questi loro viaggi di "affari", almeno un contra fu implicato nell'assassinio dell'arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero [6].
Nello stesso tempo, l'amministrazione propose a Israele di imbarcarsi nella guerra contro il Nicaragua: secondo uno schema che sarebbe apparso dopo come la raison d'etre dello scandalo Iran-contra, poco tempo prima del giugno 1981 Israele ricevette delle immagini satellitari del reattore nucleare di Osirak in Iraq "all'interno di un appello a Israele per l'aiuto ai contras". Israele ha utilizzato queste foto per distruggere il reattore. Non si sa in quale misura e circostanze, Tel Aviv rispose all'appello dell'amministrazione. Alla fine del 1982, tuttavia, il Nicaragua ha accusato Israele di armare e aiutare le bande criminali della Guardia nazionale [somozista] in Honduras.
Il fatto più ragguardevole nell'entrata in guerra di Israele contro il Nicaragua è il suo accordo con la CIA del 1981 o 1982, per fornire di armi provenienti dal blocco dell'est [patto di Varsavia] le operazione allora segrete dei mercenari. Dopo essere stata un poco "contenuta" dal Congresso negli anni 1970, la CIA ha avuto delle difficoltà a procurare delle armi "non tracciabili" ai contras ed era in imbarazzo quando all'inizio del 1982 in televisione alcuni mercenari brandivano le armi provenienti dagli Stati Uniti. All'insegna della prudenza, che ha segnato l'insieme delle sue relazioni con i contras, il governo israeliano finse di rifiutare questa richiesta degli Stati Uniti "attraverso le normali vie diplomatiche", mentre alcuni ex funzionari dell'intelligence israeliana si mettevano in contatto con la CIA con un'offerta di armi provenienti dal blocco dell'est, di cui avevano disponibilità. La CIA supponeva che l'offerta avesse l'appoggio, il consenso o il patrocinio del governo israeliano.
Rimane la questione di sapere se la CIA abbia accettato questa particolare offerta, ma una sistemazione si raggiunse all'inizio degli anni 1980 rifornendo i contras con armi leggere dell'est e piccoli missili portabili, vendendole attraverso la CIA, che a sua volta ha rifornito i contras ed i ribelli afgani. Questa particolare disposizione è continuata apparentemente fino al 1986. "Quando gli israeliani hanno presentato il conto di 50 milioni di dollari e la CIA, adducendo mancanza di fondi, ne pagò 30 milioni in armi e non in contanti".
Il vecchio capo del FDN [7] Edgard Chamorro ha dichiarato che nel 1982 i contras parlavano di Israele come uno dei loro sostenitori a livello internazionale. Il 7 dicembre di quello stesso anno, la direzione del FDN incontrò Ariel Sharon, allora ministro della Difesa di Israele, mentre questi era in visita in Honduras. In quell'occasione venne trovata una soluzione per convogliare via Honduras le armi degli israeliani ai contras.
Note:
[1] La Guardia nazionale somozista era il braccio armato della dittatura. I suoi rapimenti, assassini, atti di tortura sono innumerevoli e l'apice della violenza repressiva venne raggiunta quando la popolazione nicaraguese insorse massicciamente con l'aiuto del FSLN [Frente Sandinista di Liberación Nacional].
[2] Opposizione armata anti-sandinista finanziata e sostenuta dagli Stati Uniti, con la complicità diretta o indiretta delle dittature che imperversavano in America Centrale ed in Sudamerica (Honduras, Guatemala, Argentina, Cile). Il tanto democratico e tanto vantato Costa-Rica prestava ugualmente una mano... I contras avevano una sinistra reputazione di violenza, di omicidi ed estorsioni contro i civili delle province del nord del Nicaragua.
[3] L'amministrazione dell'allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, ha venduto armi all'Iran (nemico dichiarato di questo paese) tramite Israele, altro paese nemico dell'Iran. Il denaro così raccolto serviva a finanziare i contras.
[4] Una giunta militare governa l'Argentina dal 1976 al 1983, rendendo pratica quotidiana le scomparse forzate [desaparecidos], le incarcerazioni arbitrarie e l'uso della tortura contro gli oppositori politici, le loro famiglie, ivi compresi i bambini, gli amici, i vicini, eccetera..., con una rete di più di 500 centri di detenzione clandestini. Si stima a più di 30.000 il numero di scomparsi. Tutta una generazione intellettuale, militante, politica è stata decimata in quegli anni.
[5] Il 2 aprile 1982, la dittatura in Argentina, scaturita dal colpo di stato militare del marzo 1976 fece invadere le isole Falkland (Malvinas in spagnolo), colonia britannica dal 1833. L'obiettivo era manifestamente di trarre beneficio politico da una rivendicazione storica sulle Malvine. Il governo britannico [sotto la direzione di Margaret Tatcher] reagì con un'estrema violenza e riconquistò le isole, sfruttando senza vergogna un delirio nazionalista, profondamente sciovinista.
[6] Il 24 marzo 1980, il Monsignor Oscar A. Romero, arcivescovo di San Salvador, capitale di El Salvador, viene assassinato in chiesa a causa della sua opposizione alla violenza e del suo appello per un compromesso nella guerra insurrezionale che infuria nel paese. Romero si era soprattutto attirato l'odio dei gruppi paramilitari di estrema destra facendo conoscere la sua opposizione agli arresti arbitrari.
[7] Fuerza Democrática Nicaragüense, una delle organizzazioni anti-sandiniste con base in Honduras e sostenuta dagli Stati Uniti
Una lunga lista di aggressioni
Aggressioni contro manifestanti o personalità attive nella solidarietà con il popolo palestinese
tra il 2002 ed il 2010
nella città di Roma
2002
9 marzo - Largo Arenula e Largo Torre Argentina
Aggressione contro i manifestanti che tornavano dal corteo per la Palestina a piazza Navona.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario.
8 aprile - manifestazione sotto la direzione del PRC.
Ferito un agente di polizia in borghese che scattava fotografie.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario.
10 aprile - davanti agli studi Rai dove si era girata una ripresa di Sciuscià
Alle ore 23.30 all'uscita degli studi RAI una trentina di persone circondano l'auto su cui era salita l' europarlamentare Luisa Morgantini, appena tornata dalla Palestina, che aveva partecipato alla trasmissione 'Sciuscià' e tentano di bloccarla e di sfondarne i vetri. Fortunatamente il tentativo non riesce per la pronta azione dell'autista.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario.
10 giugno – al Portico di Ottavia
All'uscita di un ristorante e poi all'uscita del Sant'Ambrogio occupato dove si era svolto un social forum: aggressione contro Vittorio Agnoletto e Rossana Rossanda. Le foto sui giornali e nei telegiornali mostrano Agnoletto e Rossanda uscire protetti dalla polizia con gli scudi.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario.
11 dicembre - Libreria Mondadori in v. S. Vincenzo 10
Un gruppo di persone non identificate devasta la mostra sulla Palestina di Medici Senza Frontiere sulla grave condizione della popolazione civile palestinese e sulle attività dei volontari di Medici Senza Frontiere nei Territori Occupati, rimuovendo le fotografie e i pannelli esplicativi mediante il taglio dei cavi d'acciaio che le sostenevano. Medici Senza Frontiere fu costretta a chiudere la mostra che sarebbe altrimenti rimasta aperta al pubblico fino al 26 dicembre.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario.
2008
25 aprile - Porta San Paolo.
In occasione della manifestazione per il 25 aprile, gruppo di curdi con bandiere stanno tranquillamente in piazza. Uno di loro indossa la kefia. Passano una signora e una ragazza che aggrediscono il ragazzo con la kefia, insultandolo e strappandogli o la kefia di dosso. Giungono altre persone che sostengono le due donne e accusano il kurdo – incredulo - di averle aggredite.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario.
2010
31 maggio 2010. Via delle Botteghe oscure
Sfila il corteo promosso dalla Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese per protestare contro il sanguinoso attacco delle forze armate israeliane alla Freedom Flottilla diretta a Gaza. La coda del corteo viene affrontata fortunatamente solo con slogan da un nutrito gruppo di giovani sbucati da una traversa di via delle Botteghe Oscure dove erano rimasti in attesa.. Il tutto si risolve fortunatamente a colpi di slogan contrapposti. Il corteo arriva a Montecitorio. Una delegazione è ricevuta dal sottosegretario Gianni Letta. Conclusa la manifestazione i manifestanti vengono invitati dalle forze dell'ordine a defluire evitando Largo Torre Argentina dove vengono segnalati gruppi che li attendono minacciosamente.
4 giugno via Barberini
Due donne palestinesi (con bambini) che avevano partecipato al corteo promosso dalla Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese e conclusosi a Trinità dei Monti contro l’attacco alla Freedom Flotilla sono oggetto di un tentativo di aggressione da parte di due giovani in motorino, che però vengono messi in fuga dall'intervento di altri manifestanti reduci dal corteo, accorsi in difesa delle due donne.
4 giugno Largo Santa Susanna
Una persona che aveva partecipato al corteo promosso dalla Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese e conclusosi a Trinità dei Monti contro l’attacco alla Freedom Flotilla viene aggredito a colpi di casco, calci e pugni da quattro persone a bordo di due moto. La denuncia di Costanza Pasquali Lasagni (moglie dell’aggredito e testimone dell’aggressione) finisce anche su alcuni giornali.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario. .
24 giugno Scalinata del Campidoglio.
Aggressione squadristica ai danni di una manifestazione pacifica e non violenta per ricordare anche
i detenuti palestinesi nella carceri israeliane e le vittime dell'operazione e dell'attacco alla Freedom Flotilla. Risultato dell'aggressione: sei feriti, di cui tre costretti al ricovero ospedaliero; uno dei quali sarà operato nel reparto maxillo facciale dell'Ospedale San Giovanni. Altri sono stati refertati.
Le indagini dovrebbero essere in corso.
tra il 2002 ed il 2010
nella città di Roma
2002
9 marzo - Largo Arenula e Largo Torre Argentina
Aggressione contro i manifestanti che tornavano dal corteo per la Palestina a piazza Navona.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario.
8 aprile - manifestazione sotto la direzione del PRC.
Ferito un agente di polizia in borghese che scattava fotografie.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario.
10 aprile - davanti agli studi Rai dove si era girata una ripresa di Sciuscià
Alle ore 23.30 all'uscita degli studi RAI una trentina di persone circondano l'auto su cui era salita l' europarlamentare Luisa Morgantini, appena tornata dalla Palestina, che aveva partecipato alla trasmissione 'Sciuscià' e tentano di bloccarla e di sfondarne i vetri. Fortunatamente il tentativo non riesce per la pronta azione dell'autista.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario.
10 giugno – al Portico di Ottavia
All'uscita di un ristorante e poi all'uscita del Sant'Ambrogio occupato dove si era svolto un social forum: aggressione contro Vittorio Agnoletto e Rossana Rossanda. Le foto sui giornali e nei telegiornali mostrano Agnoletto e Rossanda uscire protetti dalla polizia con gli scudi.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario.
11 dicembre - Libreria Mondadori in v. S. Vincenzo 10
Un gruppo di persone non identificate devasta la mostra sulla Palestina di Medici Senza Frontiere sulla grave condizione della popolazione civile palestinese e sulle attività dei volontari di Medici Senza Frontiere nei Territori Occupati, rimuovendo le fotografie e i pannelli esplicativi mediante il taglio dei cavi d'acciaio che le sostenevano. Medici Senza Frontiere fu costretta a chiudere la mostra che sarebbe altrimenti rimasta aperta al pubblico fino al 26 dicembre.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario.
2008
25 aprile - Porta San Paolo.
In occasione della manifestazione per il 25 aprile, gruppo di curdi con bandiere stanno tranquillamente in piazza. Uno di loro indossa la kefia. Passano una signora e una ragazza che aggrediscono il ragazzo con la kefia, insultandolo e strappandogli o la kefia di dosso. Giungono altre persone che sostengono le due donne e accusano il kurdo – incredulo - di averle aggredite.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario.
2010
31 maggio 2010. Via delle Botteghe oscure
Sfila il corteo promosso dalla Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese per protestare contro il sanguinoso attacco delle forze armate israeliane alla Freedom Flottilla diretta a Gaza. La coda del corteo viene affrontata fortunatamente solo con slogan da un nutrito gruppo di giovani sbucati da una traversa di via delle Botteghe Oscure dove erano rimasti in attesa.. Il tutto si risolve fortunatamente a colpi di slogan contrapposti. Il corteo arriva a Montecitorio. Una delegazione è ricevuta dal sottosegretario Gianni Letta. Conclusa la manifestazione i manifestanti vengono invitati dalle forze dell'ordine a defluire evitando Largo Torre Argentina dove vengono segnalati gruppi che li attendono minacciosamente.
4 giugno via Barberini
Due donne palestinesi (con bambini) che avevano partecipato al corteo promosso dalla Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese e conclusosi a Trinità dei Monti contro l’attacco alla Freedom Flotilla sono oggetto di un tentativo di aggressione da parte di due giovani in motorino, che però vengono messi in fuga dall'intervento di altri manifestanti reduci dal corteo, accorsi in difesa delle due donne.
4 giugno Largo Santa Susanna
Una persona che aveva partecipato al corteo promosso dalla Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese e conclusosi a Trinità dei Monti contro l’attacco alla Freedom Flotilla viene aggredito a colpi di casco, calci e pugni da quattro persone a bordo di due moto. La denuncia di Costanza Pasquali Lasagni (moglie dell’aggredito e testimone dell’aggressione) finisce anche su alcuni giornali.
Non risulta che vi siano state conseguenze d'ordine giudiziario. .
24 giugno Scalinata del Campidoglio.
Aggressione squadristica ai danni di una manifestazione pacifica e non violenta per ricordare anche
i detenuti palestinesi nella carceri israeliane e le vittime dell'operazione
Le indagini dovrebbero essere in corso.
mercoledì 14 luglio 2010
Discriminazioni e violenza in Israele
ANAT HOFFMAN E LE DONNE DEL MURO
Anat Hoffman, leader delle Donne del Muro, e’ stata arrestata il 12 luglio dalla polizia israeliana davanti al Muro del Pianto: colpevole di tenere in mano la Torah.
DI BARBARA ANTONELLI, Gerusalemme 14 luglio 2010 – Nena News (foto dal sito www.frumsatire.net) – Mute e invisibili. Cosi le regole di vita e i codici religiosi degli haredim vorrebbero le donne ebree in preghiera al muro del pianto. Ma loro, le Donne del Muro, “the Women of the Wall” (WOW), non ci stanno e dal 1988, anno in cui il gruppo ha preso vita nel corso della prima conferenza internazionale sul femminismo ebraico, chiedono che le donne possano godere degli stessi diritti religiosi accordati agli uomini.
Ogni mese di Rosh Chodesh (il primo giorno di ogni mese secondo il calendario ebraico), decine di donne religiose si ritrovano in una preghiera di gruppo al Kotel, il muro del pianto: leggono la Torah, cantano, indossano il talled (lo scialle), i tefillin (piccole scatole nere che contengono versi della Torah) e la kippah, indumenti di preghiera relegati al solo uso degli uomini. Provocando l’ira degli haredim e le critiche dei rabbini di Gerusalemme. Gli haredim infatti si oppongono fortemente al canto delle donne in presenza degli uomini, alla preghiera di gruppo delle donne, al fatto che possano tenere in mano i rotoli della Torah, come pure all’uso di oggetti di preghiera tradizionalmente utilizzati dagli uomini.
Cosi le Donne del Muro vengono regolarmente assalite sia verbalmente che fisicamente. I piu’ fanatici urlano loro “naziste”, “andate via di qui.” In piu’ occasioni sono volate su di loro sedie, sassi e perfino escrementi. Secondo quanto deciso dalla Corte Suprema israeliana possono ritrovarsi nella spianata antistante al muro, ma non nella sezione pubblica destinata alle donne, piuttosto devono rimanere nascoste, lontane dalla vista misogina degli haredim. In realta’ per ben due volte la Corte Suprema israeliana ha legiferato sul movimento femminile e una serie di accesi dibattiti si sono avuti all’interno della Knesset, il parlamento israeliano. La prima decisione della Corte del maggio 2002, stabiliva che le Donne del Muro potessero pregare in gruppo e leggere ad alta voce la Torah anche nella sezione destinata alle donne, quella antistante al vero e proprio muro del pianto. Facendo scaturire la rabbia dei partiti degli haredim che hanno subito proposto in sede parlamentare di introdurre severe contromisure per contrastare la decisione della Corte: punire le provocazioni inaccettabili delle donne con l’accusa di pubblica offesa e 7 anni di carcere. La proposta di legge di fatto non e’ mai stata approvata ma la Corte ha ceduto alle pressioni del fanatismo religioso, riconsiderando la precedente regolamentazione e proibendo alle donne di leggere la Torah, indossare talled e tefillin nella zona antistante al Muro, definendo tali pratiche “una minaccia per la pubblica sicurezza” e destinando loro un altro sito, l’Arco di Robinson, sul lato a sud ovest della spianata.
Li’ le donne continuano a ritrovarsi e continuano ad essere insultate e aggredite.”Quando preghiamo veniamo costantemente assalite, sia verbalmente che fisicamente – dice Phyllis Chesler – abbiamo chiesto allo stato di Israele di proteggerci e proteggere il nostro diritto alla liberta’ religiosa, all’uguaglianza. Lo Stato ci risponde ogni volta che siamo noi a disturbare la quiete pubblica, provocando i fedeli e offendendo la loro sensibilita’.” Ovviamente la sensibilita’ degli haredim di sesso maschile. La cui rabbia, deriva oltre che da un evidente maschilismo e dal fanatismo religioso, anche dal fatto che leggono una sorta di manifesto politico dietro alle richieste di WOW, prima ancora che solo come un desiderio di svolgere la propria preghiera in gruppo. Non e’ un caso che il rabbino Moshe Feinstein, noto semplicemente con il nome di Rav Moshe, punto di riferimento degli ortodossi e esperto di Halakha, l’insieme delle normative religiose ebraiche (una specie di codice di diritto), si sia pronunciato in merito, dichiarando che le preghiere di gruppo delle WOW sono permesse solo se “ritenute sincere dagli stessi rabbini (uomini ovviamente) e non influenzate dal femminismo”.
Proprio a pochi metri dal muro del pianto, Anat Hoffman, leader del movimento per la riforma dell’ebraismo in Israele e direttrice delle Donne del Muro, e’ stata arrestata lo scorso12 luglio dalla polizia israeliana, che le ha letteralmente strappato dalle mani i rotoli della Torah, mentre la donna si stava recando all’arco di Robinson. Anat Hoffman era gia’ stata arrestata e interrogata (con tanto di rilevamento delle impronte digitali) nel gennaio del 2010: uno dei tanti atti intimidatori nei suoi confronti. Questa volta la polizia le ha dato 5000 shekel di multa (circa 1300 dollari), imponendole il divieto di recarsi al Kotel per i prossimi 30 giorni. “Non abbiamo fatto nulla di sbagliato – ha dichiarato Anat alla stampa – eravamo nel pieno rispetto di quanto deciso dalla Corte Suprema, io tenevo in mano la Torah ma non stavo leggendo, solo pregando mentre con le altre ci stavamo avvicinando all’arco di Robinson”. Una versione dei fatti contestata dal portavoce della polizia israeliana Micky Rosenfeld. Del resto il ruolo passivo o per meglio dire connivente delle forze di polizia e’ alla luce del sole. Quando vengono aggredite, insultate o infastidite, la polizia non fa un solo passo. A marzo del 2010 un gruppo di haredim tiro’ delle sedie contro le donne, prima ancora che iniziassero le preghiere, un episodio filmato casualmente da una delle partecipanti e che ha fatto il giro del web: nessuno e’ stato perseguito dalla legge.
Prima di Anat Hoffman, nel 2009 anche un’altra donna del gruppo, Nofrat Frenkel, e’ stata arrestata, colpevole di indossare un talled sotto il cappotto.
Le aggressioni al gruppo hanno provocato numerose reazioni di protesta all’interno dei gruppi della disapora ebraica statunitente e il movimento riformista sta valutando anche azioni legali contro il governo israeliano. La conferenza centrale dei rabbini americani ha condannato l’arresto di Anat Hoffman e riaffermato la necessita’ che le donne possano godere di uguale liberta’ di espressione religiosa nel giudaismo. Anche perche’ nonostante i tentativi del partito religioso dello Shas di far varare leggi alla Knesset che equiparassero lo status del muro del pianto a quello di una sinagoga, tale luogo rimane invece un sito nazionale.
Nel documentario che ripercorre la storia delle Donne del Muro, “Praying in Her Own Voice”, Sharon Brous, della comunita’ ebraica di Ikar di Los Agelges (California) dichiara “ho girato tutto il mondo pregando con tefillin e talled, ovunque, e l’unico posto in cui ho avuto paura a mettermi un talled sul capo e’ stato il Kotel”.
Le Donne del Muro sfidano l’intollerenza e la misoginia dell’ultra-ortodossia ebraica, per riaffermare anche che il legame alla tradizione ebraica non puo’ e non deve essere solo maschile, ma al contrario appartiene a chiunque si consideri ebreo o ebrea. “Il ruolo delle donne nella religione si modifica in tutto il mondo, ovunque, tranne che in Israele”, ha dichiarato Anat.
Eroina della riforma sociale, 14 anni trascorsi nel Consiglio municipale di Gerusalemme, Anat combatte da sempre contro il monopolio maschile imposto alle pratiche religiose ma anche contro il monopolio imposto dagli haredim alla vita religiosa, politica e sociale a Gerusalemme e in Israele. Lo stesso monopolio che consente l’esistenza di linee dei bus ultra-ortodossi (finanziate dallo Stato), linee speciali nate oltre 10 anni fa, dove uomini e donne siedono separati.
“Nel 2050 gli haredim saranno il 37% della popolazione – ha dichiarato in una recente intervista alla stampa israeliana- fino a quando l’attuale formula economica che regola la vita degli haredim e li esonera dal lavoro sara’ sostenibile per lo stato di Isreale?” (Nena-News)
Anat Hoffman, leader delle Donne del Muro, e’ stata arrestata il 12 luglio dalla polizia israeliana davanti al Muro del Pianto: colpevole di tenere in mano la Torah.
DI BARBARA ANTONELLI, Gerusalemme 14 luglio 2010 – Nena News (foto dal sito www.frumsatire.net) – Mute e invisibili. Cosi le regole di vita e i codici religiosi degli haredim vorrebbero le donne ebree in preghiera al muro del pianto. Ma loro, le Donne del Muro, “the Women of the Wall” (WOW), non ci stanno e dal 1988, anno in cui il gruppo ha preso vita nel corso della prima conferenza internazionale sul femminismo ebraico, chiedono che le donne possano godere degli stessi diritti religiosi accordati agli uomini.
Ogni mese di Rosh Chodesh (il primo giorno di ogni mese secondo il calendario ebraico), decine di donne religiose si ritrovano in una preghiera di gruppo al Kotel, il muro del pianto: leggono la Torah, cantano, indossano il talled (lo scialle), i tefillin (piccole scatole nere che contengono versi della Torah) e la kippah, indumenti di preghiera relegati al solo uso degli uomini. Provocando l’ira degli haredim e le critiche dei rabbini di Gerusalemme. Gli haredim infatti si oppongono fortemente al canto delle donne in presenza degli uomini, alla preghiera di gruppo delle donne, al fatto che possano tenere in mano i rotoli della Torah, come pure all’uso di oggetti di preghiera tradizionalmente utilizzati dagli uomini.
Cosi le Donne del Muro vengono regolarmente assalite sia verbalmente che fisicamente. I piu’ fanatici urlano loro “naziste”, “andate via di qui.” In piu’ occasioni sono volate su di loro sedie, sassi e perfino escrementi. Secondo quanto deciso dalla Corte Suprema israeliana possono ritrovarsi nella spianata antistante al muro, ma non nella sezione pubblica destinata alle donne, piuttosto devono rimanere nascoste, lontane dalla vista misogina degli haredim. In realta’ per ben due volte la Corte Suprema israeliana ha legiferato sul movimento femminile e una serie di accesi dibattiti si sono avuti all’interno della Knesset, il parlamento israeliano. La prima decisione della Corte del maggio 2002, stabiliva che le Donne del Muro potessero pregare in gruppo e leggere ad alta voce la Torah anche nella sezione destinata alle donne, quella antistante al vero e proprio muro del pianto. Facendo scaturire la rabbia dei partiti degli haredim che hanno subito proposto in sede parlamentare di introdurre severe contromisure per contrastare la decisione della Corte: punire le provocazioni inaccettabili delle donne con l’accusa di pubblica offesa e 7 anni di carcere. La proposta di legge di fatto non e’ mai stata approvata ma la Corte ha ceduto alle pressioni del fanatismo religioso, riconsiderando la precedente regolamentazione e proibendo alle donne di leggere la Torah, indossare talled e tefillin nella zona antistante al Muro, definendo tali pratiche “una minaccia per la pubblica sicurezza” e destinando loro un altro sito, l’Arco di Robinson, sul lato a sud ovest della spianata.
Li’ le donne continuano a ritrovarsi e continuano ad essere insultate e aggredite.”Quando preghiamo veniamo costantemente assalite, sia verbalmente che fisicamente – dice Phyllis Chesler – abbiamo chiesto allo stato di Israele di proteggerci e proteggere il nostro diritto alla liberta’ religiosa, all’uguaglianza. Lo Stato ci risponde ogni volta che siamo noi a disturbare la quiete pubblica, provocando i fedeli e offendendo la loro sensibilita’.” Ovviamente la sensibilita’ degli haredim di sesso maschile. La cui rabbia, deriva oltre che da un evidente maschilismo e dal fanatismo religioso, anche dal fatto che leggono una sorta di manifesto politico dietro alle richieste di WOW, prima ancora che solo come un desiderio di svolgere la propria preghiera in gruppo. Non e’ un caso che il rabbino Moshe Feinstein, noto semplicemente con il nome di Rav Moshe, punto di riferimento degli ortodossi e esperto di Halakha, l’insieme delle normative religiose ebraiche (una specie di codice di diritto), si sia pronunciato in merito, dichiarando che le preghiere di gruppo delle WOW sono permesse solo se “ritenute sincere dagli stessi rabbini (uomini ovviamente) e non influenzate dal femminismo”.
Proprio a pochi metri dal muro del pianto, Anat Hoffman, leader del movimento per la riforma dell’ebraismo in Israele e direttrice delle Donne del Muro, e’ stata arrestata lo scorso12 luglio dalla polizia israeliana, che le ha letteralmente strappato dalle mani i rotoli della Torah, mentre la donna si stava recando all’arco di Robinson. Anat Hoffman era gia’ stata arrestata e interrogata (con tanto di rilevamento delle impronte digitali) nel gennaio del 2010: uno dei tanti atti intimidatori nei suoi confronti. Questa volta la polizia le ha dato 5000 shekel di multa (circa 1300 dollari), imponendole il divieto di recarsi al Kotel per i prossimi 30 giorni. “Non abbiamo fatto nulla di sbagliato – ha dichiarato Anat alla stampa – eravamo nel pieno rispetto di quanto deciso dalla Corte Suprema, io tenevo in mano la Torah ma non stavo leggendo, solo pregando mentre con le altre ci stavamo avvicinando all’arco di Robinson”. Una versione dei fatti contestata dal portavoce della polizia israeliana Micky Rosenfeld. Del resto il ruolo passivo o per meglio dire connivente delle forze di polizia e’ alla luce del sole. Quando vengono aggredite, insultate o infastidite, la polizia non fa un solo passo. A marzo del 2010 un gruppo di haredim tiro’ delle sedie contro le donne, prima ancora che iniziassero le preghiere, un episodio filmato casualmente da una delle partecipanti e che ha fatto il giro del web: nessuno e’ stato perseguito dalla legge.
Prima di Anat Hoffman, nel 2009 anche un’altra donna del gruppo, Nofrat Frenkel, e’ stata arrestata, colpevole di indossare un talled sotto il cappotto.
Le aggressioni al gruppo hanno provocato numerose reazioni di protesta all’interno dei gruppi della disapora ebraica statunitente e il movimento riformista sta valutando anche azioni legali contro il governo israeliano. La conferenza centrale dei rabbini americani ha condannato l’arresto di Anat Hoffman e riaffermato la necessita’ che le donne possano godere di uguale liberta’ di espressione religiosa nel giudaismo. Anche perche’ nonostante i tentativi del partito religioso dello Shas di far varare leggi alla Knesset che equiparassero lo status del muro del pianto a quello di una sinagoga, tale luogo rimane invece un sito nazionale.
Nel documentario che ripercorre la storia delle Donne del Muro, “Praying in Her Own Voice”, Sharon Brous, della comunita’ ebraica di Ikar di Los Agelges (California) dichiara “ho girato tutto il mondo pregando con tefillin e talled, ovunque, e l’unico posto in cui ho avuto paura a mettermi un talled sul capo e’ stato il Kotel”.
Le Donne del Muro sfidano l’intollerenza e la misoginia dell’ultra-ortodossia ebraica, per riaffermare anche che il legame alla tradizione ebraica non puo’ e non deve essere solo maschile, ma al contrario appartiene a chiunque si consideri ebreo o ebrea. “Il ruolo delle donne nella religione si modifica in tutto il mondo, ovunque, tranne che in Israele”, ha dichiarato Anat.
Eroina della riforma sociale, 14 anni trascorsi nel Consiglio municipale di Gerusalemme, Anat combatte da sempre contro il monopolio maschile imposto alle pratiche religiose ma anche contro il monopolio imposto dagli haredim alla vita religiosa, politica e sociale a Gerusalemme e in Israele. Lo stesso monopolio che consente l’esistenza di linee dei bus ultra-ortodossi (finanziate dallo Stato), linee speciali nate oltre 10 anni fa, dove uomini e donne siedono separati.
“Nel 2050 gli haredim saranno il 37% della popolazione – ha dichiarato in una recente intervista alla stampa israeliana- fino a quando l’attuale formula economica che regola la vita degli haredim e li esonera dal lavoro sara’ sostenibile per lo stato di Isreale?” (Nena-News)
Di nuovo all'opera i pirati israeliani
NAVE LIBICA, PARTITA A SCACCHI IN ALTO MARE
Il cargo è circondato da unità israeliane. Ieri cannonata ha ucciso donna palestinese a Burej. La Knesset ha punito la deputata arabo israeliana Hanin Zuabi che era sulla Mavi Marmara
Gaza, 14 luglio 2010, Nena News – Continua la partita a scacchi nel mare davanti alla costa di Gaza. La nave Amal, noleggiata dalla Fondazione Ghaddafi per portare 2mila tonnellate di aiuti alla popolazione palestinese sotto assedio, si muove lentamente ai limiti delle acque territoriali di Gaza seguita da unità della Marina militare israeliana. Dove si dirigerà il suo comandante, un cubano di nome Antonio, nessuno è in grado di prevederlo.
Da Tripoli la Fondazione Ghaddafi ripete che non ci saranno cambiamenti di rotta e che a rallentare durante la notte la navigazione è stato solo un guasto ad uno dei motori. La meta era e rimane il porto di Gaza city. «La marina israeliana ci impedisce di muoverci. Otto navi da guerra israeliane circondano il cargo e gli impediscono di procedere verso Gaza», ha spiegato il direttore esecutivo della Fondazione Gheddafi, Youssef Sawan. La radio israeliana al contrario ripete che la Amal farà rotta per il porto egiziano di El Arish e rivela che in queste ore l’uomo d’affari ebreo austriaco Martin Schlaff sarebbe impegnato in una trattativa con dirigenti libici per evitare una escalation in mare.
Lo scorso 31 maggio un commando israeliano uccise nove cittadini turchi durante l’operazione in acque internazionali volta a bloccare le sei navi della Freedom Flotilla dirette Gaza con 10mila tonnellate di aiuti umanitari. Su una di quelle navi, la Mavi marmara, si trovava anche la deputata araba israeliana (palestinese con cittadinanza israeliana) Hanin Zuabi alla quale ieri, a scopo punitivo, la Knesset ha revocato tre importanti privilegi parlamentari: il diritto di uscire dal Paese, il passaporto diplomatico e il diritto di poter disporre degli appositi fondi della Knesset per coprire eventuali spese legali. «Mi state punendo per vendetta – ha replicato Zuabi – io ho il diritto e il dovere di lottare per i miei diritti e i valori in cui credo».
Il rischio di un nuovo bagno di sangue esiste, nonostante le critiche subite da Israele dopo l’uccisione dei nove turchi. Un portavoce militare dello Stato ebraico ha riferito che «la marina ha cominciato i preparativi per fermare la nave se tenta di violare il blocco marittimo» di Gaza imposto unilateralmente da Israele. Stamani in sostegno dei palestinesi il sindacato comunista greco “Pame” ha bloccato all’aeroporto di Atene il cancello di imbarco di un volo della compagnia aerea israeliana El Al, per «esprimere solidarietà al popolo di Gaza» sotto embargo.Il volo è partito con alcune ore di ritardo.
Ieri sera una donna palestinese è stata uccisa e altre cinque persone sono state ferite quando l’esercito israeliano ha sparato un colpo di cannone sul campo profighi di al Boureij, al centro della Striscia di Gaza. (red) Nena News
Il cargo è circondato da unità israeliane. Ieri cannonata ha ucciso donna palestinese a Burej. La Knesset ha punito la deputata arabo israeliana Hanin Zuabi che era sulla Mavi Marmara
Gaza, 14 luglio 2010, Nena News – Continua la partita a scacchi nel mare davanti alla costa di Gaza. La nave Amal, noleggiata dalla Fondazione Ghaddafi per portare 2mila tonnellate di aiuti alla popolazione palestinese sotto assedio, si muove lentamente ai limiti delle acque territoriali di Gaza seguita da unità della Marina militare israeliana. Dove si dirigerà il suo comandante, un cubano di nome Antonio, nessuno è in grado di prevederlo.
Da Tripoli la Fondazione Ghaddafi ripete che non ci saranno cambiamenti di rotta e che a rallentare durante la notte la navigazione è stato solo un guasto ad uno dei motori. La meta era e rimane il porto di Gaza city. «La marina israeliana ci impedisce di muoverci. Otto navi da guerra israeliane circondano il cargo e gli impediscono di procedere verso Gaza», ha spiegato il direttore esecutivo della Fondazione Gheddafi, Youssef Sawan. La radio israeliana al contrario ripete che la Amal farà rotta per il porto egiziano di El Arish e rivela che in queste ore l’uomo d’affari ebreo austriaco Martin Schlaff sarebbe impegnato in una trattativa con dirigenti libici per evitare una escalation in mare.
Lo scorso 31 maggio un commando israeliano uccise nove cittadini turchi durante l’operazione in acque internazionali volta a bloccare le sei navi della Freedom Flotilla dirette Gaza con 10mila tonnellate di aiuti umanitari. Su una di quelle navi, la Mavi marmara, si trovava anche la deputata araba israeliana (palestinese con cittadinanza israeliana) Hanin Zuabi alla quale ieri, a scopo punitivo, la Knesset ha revocato tre importanti privilegi parlamentari: il diritto di uscire dal Paese, il passaporto diplomatico e il diritto di poter disporre degli appositi fondi della Knesset per coprire eventuali spese legali. «Mi state punendo per vendetta – ha replicato Zuabi – io ho il diritto e il dovere di lottare per i miei diritti e i valori in cui credo».
Il rischio di un nuovo bagno di sangue esiste, nonostante le critiche subite da Israele dopo l’uccisione dei nove turchi. Un portavoce militare dello Stato ebraico ha riferito che «la marina ha cominciato i preparativi per fermare la nave se tenta di violare il blocco marittimo» di Gaza imposto unilateralmente da Israele. Stamani in sostegno dei palestinesi il sindacato comunista greco “Pame” ha bloccato all’aeroporto di Atene il cancello di imbarco di un volo della compagnia aerea israeliana El Al, per «esprimere solidarietà al popolo di Gaza» sotto embargo.Il volo è partito con alcune ore di ritardo.
Ieri sera una donna palestinese è stata uccisa e altre cinque persone sono state ferite quando l’esercito israeliano ha sparato un colpo di cannone sul campo profighi di al Boureij, al centro della Striscia di Gaza. (red) Nena News
martedì 13 luglio 2010
NAVE LIBICA RESPINGE INTIMIDAZIONI
La nave libica respinge le intimazioni della marina israeliana
Gaza, 13 luglio 2010 (foto dal sito www.haaretz.com), Nena News - Il comandante della nave Al Amal, diretta a Gaza con 2mila tonnellate di aiuti umanitari raccolti dalla Ghaddafi International Charity and Development Foundation, ha respinto lordine israeliano di cambiare rotta. La Marina militare israeliana, che mantiene uno stretto blocco navale nelle acque di fronte a Gaza, si prepara ad arrembare limbarcazione intercettata ad un centinaio di miglia dalla sua destinazione e circondata da unita' da guerra. L'assalto potrebbe scattare dopo mezzanotte, alla scadenza dell'ultimatum lanciato al comandante e all'equipaggio della Amal. Sono queste le ultime notizie diffuse dai donatori, che fanno cap! o a Saif al Islam, secondogenito del leader libico Muammar Ghaddafi e dai mezzi d'informazione israeliani. «L'equipaggio della nave militare israeliana ha chiesto al capitano della nave di dirigersi verso al Arish, insistendo che non gli sarà permesso di arrivare a Gaza», ha scritto la fondazione libica sul suo sito. Larrembaggio della nave da parte di un commando israeliano appare scontato, tenendo conto che domenica scorsa il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman aveva escluso categoricamente la possibilità dellarrivo a Gaza da parte del cargo inviato dalla Libia ma di proprietà greca e battente bandiera moldava. Lo scorso 31 maggio nove civili turchi vennero uccisi dai soldati israeliani durante larrembaggio alle navi della Freedom Flotilla dirette a Gaza con aiuti umanitari. Proprio tenendo conto dell'impatto internazionale di quella strage  il ministero degli esteri israeliano ha consigliato alla m! arina militare di assaltare la Amal solo dopo che sara' entrat! a nelle acque territoriali di Gaza per evitare l' accusa di violazione del diritto internazionale. Sarebbe in ogni caso una grave violazione del diritto poiche' Israele attua in modo unilaterale il blocco della Striscia di Gaza giustificandolo con motivi di sicurezza. (red) Nena News
Gaza, 13 luglio 2010 (foto dal sito www.haaretz.com), Nena News - Il comandante della nave Al Amal, diretta a Gaza con 2mila tonnellate di aiuti umanitari raccolti dalla Ghaddafi International Charity and Development Foundation, ha respinto lordine israeliano di cambiare rotta. La Marina militare israeliana, che mantiene uno stretto blocco navale nelle acque di fronte a Gaza, si prepara ad arrembare limbarcazione intercettata ad un centinaio di miglia dalla sua destinazione e circondata da unita' da guerra. L'assalto potrebbe scattare dopo mezzanotte, alla scadenza dell'ultimatum lanciato al comandante e all'equipaggio della Amal. Sono queste le ultime notizie diffuse dai donatori, che fanno cap! o a Saif al Islam, secondogenito del leader libico Muammar Ghaddafi e dai mezzi d'informazione israeliani. «L'equipaggio della nave militare israeliana ha chiesto al capitano della nave di dirigersi verso al Arish, insistendo che non gli sarà permesso di arrivare a Gaza», ha scritto la fondazione libica sul suo sito. Larrembaggio della nave da parte di un commando israeliano appare scontato, tenendo conto che domenica scorsa il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman aveva escluso categoricamente la possibilità dellarrivo a Gaza da parte del cargo inviato dalla Libia ma di proprietà greca e battente bandiera moldava. Lo scorso 31 maggio nove civili turchi vennero uccisi dai soldati israeliani durante larrembaggio alle navi della Freedom Flotilla dirette a Gaza con aiuti umanitari. Proprio tenendo conto dell'impatto internazionale di quella strage  il ministero degli esteri israeliano ha consigliato alla m! arina militare di assaltare la Amal solo dopo che sara' entrat! a nelle acque territoriali di Gaza per evitare l' accusa di violazione del diritto internazionale. Sarebbe in ogni caso una grave violazione del diritto poiche' Israele attua in modo unilaterale il blocco della Striscia di Gaza giustificandolo con motivi di sicurezza. (red) Nena News
AUTOASSOLUZIONE
STRAGE DI PACIFISTI SULLA MAVI MARMARA, ISRAELE SI AUTOASSOLVE
Il rapporto che presenteranno oggi le forze armate dello Stato ebraico sull’arrembaggio alla nave turca non prevede provvedimenti contro i militari che uccisero nove civili
Gerusalemme, 12 luglio 2010, Nena News – Come avvento con l’inchiesta svolta dall’esercito israeliano sull’offensiva Piombo fuso a Gaza (dicembre 2008-gennaio 2009), Tel Aviv si autoassolve da ogni colpa per l’uccisione, compiuta dai suoi soldati lo scorso 31 maggio, di nove civili turchi sulla nave «Mavi Marmara» assaltata in acque internazionali mentre con altre cinque imbarcazioni della «Freedom Flotilla» faceva rotta verso Gaza. Non prevede punizioni o provvedimenti disciplinari il rapporto che presentarenno oggi le Forze Armate israeliane sull’attacco alla Freedom Flotilla. Lo anticipa questa mattina il sito del quotidiano Haaretz.
Israele ha già messo in chiaro da tempo che la «colpa» della strage dei nove civili turchi deve essere attribuita solo agli attivisti a bordo della «Mavi Marmara» e che i suoi soldati furono «costretti» ad aprire il fuoco «per legittima difesa» di fronte alla «resistenza violenta» incontrata durante l’assalto alla nave. Una versione smentita in buona parte dalle testimonianze di diversi passeggeri e respinta seccamente dalla Turchia che ha chiesto, invano, che venga formata la commissione d’inchiesta internazionale votata un mese fa dalle Nazioni Unite. Il premier israeliano Netanyahu si rifiuta di presentare le scuse del suo governo ad Ankara ed ha escluso un risarcimento per le famiglie delle vittime, nonostante la minaccia turca di una interruzione dei rapporti diplomatici. Israele, con l’appoggio degli Stati Uniti, ha imposto che a svolgere l’indagine (peraltro con forti limitazioni) su una «possibile» violazione della legge internazionale lo scorso 31 maggio sia soltanto una sua commissione, formata da tre «saggi», con il monitoraggio di due «osservatori esterni».
Non sorprende perciò che il documento che si prepara a rendere noto oggi la commissione militare israeliana, presieduta dal generale Giora Eiland, si limiti ad accusare la Marina di non aver pianificato il suo arrembaggio alla «Freedom Flotilla» con accuratezza e considerano la possibilità che il commando inviato sulle navi pacifiste potesse confrontarsi con una «resistenza violenta». La commissione militare, aggiunge Haaretz, avrebbe accertato inoltre una scarsa collaborazione tra la Marina e il servizio segreto Mossad. In ogni caso agli ufficiali responsabili dell’operazione viene rivolto solo un blando rimprovero.
Il rapporto che presenteranno oggi le forze armate dello Stato ebraico sull’arrembaggio alla nave turca non prevede provvedimenti contro i militari che uccisero nove civili
Gerusalemme, 12 luglio 2010, Nena News – Come avvento con l’inchiesta svolta dall’esercito israeliano sull’offensiva Piombo fuso a Gaza (dicembre 2008-gennaio 2009), Tel Aviv si autoassolve da ogni colpa per l’uccisione, compiuta dai suoi soldati lo scorso 31 maggio, di nove civili turchi sulla nave «Mavi Marmara» assaltata in acque internazionali mentre con altre cinque imbarcazioni della «Freedom Flotilla» faceva rotta verso Gaza. Non prevede punizioni o provvedimenti disciplinari il rapporto che presentarenno oggi le Forze Armate israeliane sull’attacco alla Freedom Flotilla. Lo anticipa questa mattina il sito del quotidiano Haaretz.
Israele ha già messo in chiaro da tempo che la «colpa» della strage dei nove civili turchi deve essere attribuita solo agli attivisti a bordo della «Mavi Marmara» e che i suoi soldati furono «costretti» ad aprire il fuoco «per legittima difesa» di fronte alla «resistenza violenta» incontrata durante l’assalto alla nave. Una versione smentita in buona parte dalle testimonianze di diversi passeggeri e respinta seccamente dalla Turchia che ha chiesto, invano, che venga formata la commissione d’inchiesta internazionale votata un mese fa dalle Nazioni Unite. Il premier israeliano Netanyahu si rifiuta di presentare le scuse del suo governo ad Ankara ed ha escluso un risarcimento per le famiglie delle vittime, nonostante la minaccia turca di una interruzione dei rapporti diplomatici. Israele, con l’appoggio degli Stati Uniti, ha imposto che a svolgere l’indagine (peraltro con forti limitazioni) su una «possibile» violazione della legge internazionale lo scorso 31 maggio sia soltanto una sua commissione, formata da tre «saggi», con il monitoraggio di due «osservatori esterni».
Non sorprende perciò che il documento che si prepara a rendere noto oggi la commissione militare israeliana, presieduta dal generale Giora Eiland, si limiti ad accusare la Marina di non aver pianificato il suo arrembaggio alla «Freedom Flotilla» con accuratezza e considerano la possibilità che il commando inviato sulle navi pacifiste potesse confrontarsi con una «resistenza violenta». La commissione militare, aggiunge Haaretz, avrebbe accertato inoltre una scarsa collaborazione tra la Marina e il servizio segreto Mossad. In ogni caso agli ufficiali responsabili dell’operazione viene rivolto solo un blando rimprovero.
sabato 10 luglio 2010
DALLA TRAGEDIA AL GROTTESCO
MAVI MARMARA, DIVENTERA’ UN HOTEL?
Lo propone il sindaco israeliano di Haifa dove è ancorata l’imbarcazione assaltata dai commandos
DAL QUOTIDIANO “IL MANIFESTO”
Roma, 10 luglio 2010, Nena News – E’ passato poco più di un mese dall’uccisione di nove civili turchi sulla nave «Mavi Marmara», compiuta in acque internazionali da un commando di 13 soldati israeliani, e non solo il premier Benyamin Netanyahu non ha alcuna intenzione di presentare le scuse ad Ankara e di accettare l’avvio di un’inchiesta internazionale, ma l’intera vicenda sta assumendo contorni grotteschi. Per gli israeliani i soldati non commisero alcun crimine ma spararono «per legittima difesa» e così il sindaco di Haifa, Yona Yahav, ha prontamente inviato una lettera al ministero della difesa per chiedere che la «Mavi Marmara», sequestrata in mare e costretta a dirigersi proprio verso Haifa, non venga restituita alla Turchia ma fatta ormeggiare stabilmente nel porto della sua città e trasformata in un hotel galleggiante o in un centro di divertimento e svago per turisti.
Il «suggerimento» di Yahav è stato rivelato due giorni fa dal quotidiano di Tel Aviv Maariv che riferisce anche dell’indecisione del governo Netanyahu su cosa fare della nave dove si è consumata la strage dei nove cittadini turchi. Yahav spiega la sua proposta con l’idea di trasformare la nave del bagno di sangue del 31 maggio in un «simbolo di coesistenza e riconciliazione». L’intraprendente sindaco di Haifa non si è posto il problema dello stato d’animo dei familiari delle vittime (una aveva solo 19 anni) e dei feriti, e neppure del parere dei proprietari della «Mavi Marmara» abbordata, particolare non insignificante, in acque internazionali.
La proposta di Yahav aggiunge una pennellata di colore nero allo sviluppo di una crisi internazionale che, dopo essere esplosa in tutta la sua drammaticità nei giorni successivi al 31 maggio, ora sta scivolando nell’oblio. La stessa Assemblea Generale dell’Onu ha annullato, per il momento, la prevista seduta sull’attacco israeliano alle navi della Freedom Flotilla dirette a Gaza con aiuti umanitari, a quanto pare anche per le perplessità di alcuni paesi arabi sull’opportunità di tenere adesso il dibattito sull’accaduto. E all’orizzonte non si vedono le tanti navi – libanesi, iraniane, malesi, indonesiane e di altri paesi – date in partenza per Gaza, alcune addirittura già in navigazione. In realtà nessuna ha lasciato il proprio porto. In questo quadro surreale che ha preso il posto del dramma, politico ed umano, dei nove civili turchi uccisi dai commando israeliani, non poteva mancare la Libia dell’imprevedibile colonnello Moammar Gadhafi. Suo figlio, Saif al Islam, presidente della “Gadhafi International Charity and Development Association” ha annunciato la partenza, forse già oggi, dal porto di Atene del cargo «Amalthea» con 2mila tonnellate di cibo e medicine per Gaza. Pochi gli attivisti a bordo, soltanto 27, ma il loro leader, Adburaufel Jaziri, ieri ha fatto sapere che «gli israeliani saranno liberi di fermare ed ispezionare la nave» e anche di prelevare e consegnare il carico attraverso i valichi terrestri con Gaza. La missione navale libica quindi si svolgerà nel rispetto delle regole per il passaggio delle merci e degli aiuti per Gaza stabilite da Israele, con l’approvazione di Usa e Ue. Nena News
Lo propone il sindaco israeliano di Haifa dove è ancorata l’imbarcazione assaltata dai commandos
DAL QUOTIDIANO “IL MANIFESTO”
Roma, 10 luglio 2010, Nena News – E’ passato poco più di un mese dall’uccisione di nove civili turchi sulla nave «Mavi Marmara», compiuta in acque internazionali da un commando di 13 soldati israeliani, e non solo il premier Benyamin Netanyahu non ha alcuna intenzione di presentare le scuse ad Ankara e di accettare l’avvio di un’inchiesta internazionale, ma l’intera vicenda sta assumendo contorni grotteschi. Per gli israeliani i soldati non commisero alcun crimine ma spararono «per legittima difesa» e così il sindaco di Haifa, Yona Yahav, ha prontamente inviato una lettera al ministero della difesa per chiedere che la «Mavi Marmara», sequestrata in mare e costretta a dirigersi proprio verso Haifa, non venga restituita alla Turchia ma fatta ormeggiare stabilmente nel porto della sua città e trasformata in un hotel galleggiante o in un centro di divertimento e svago per turisti.
Il «suggerimento» di Yahav è stato rivelato due giorni fa dal quotidiano di Tel Aviv Maariv che riferisce anche dell’indecisione del governo Netanyahu su cosa fare della nave dove si è consumata la strage dei nove cittadini turchi. Yahav spiega la sua proposta con l’idea di trasformare la nave del bagno di sangue del 31 maggio in un «simbolo di coesistenza e riconciliazione». L’intraprendente sindaco di Haifa non si è posto il problema dello stato d’animo dei familiari delle vittime (una aveva solo 19 anni) e dei feriti, e neppure del parere dei proprietari della «Mavi Marmara» abbordata, particolare non insignificante, in acque internazionali.
La proposta di Yahav aggiunge una pennellata di colore nero allo sviluppo di una crisi internazionale che, dopo essere esplosa in tutta la sua drammaticità nei giorni successivi al 31 maggio, ora sta scivolando nell’oblio. La stessa Assemblea Generale dell’Onu ha annullato, per il momento, la prevista seduta sull’attacco israeliano alle navi della Freedom Flotilla dirette a Gaza con aiuti umanitari, a quanto pare anche per le perplessità di alcuni paesi arabi sull’opportunità di tenere adesso il dibattito sull’accaduto. E all’orizzonte non si vedono le tanti navi – libanesi, iraniane, malesi, indonesiane e di altri paesi – date in partenza per Gaza, alcune addirittura già in navigazione. In realtà nessuna ha lasciato il proprio porto. In questo quadro surreale che ha preso il posto del dramma, politico ed umano, dei nove civili turchi uccisi dai commando israeliani, non poteva mancare la Libia dell’imprevedibile colonnello Moammar Gadhafi. Suo figlio, Saif al Islam, presidente della “Gadhafi International Charity and Development Association” ha annunciato la partenza, forse già oggi, dal porto di Atene del cargo «Amalthea» con 2mila tonnellate di cibo e medicine per Gaza. Pochi gli attivisti a bordo, soltanto 27, ma il loro leader, Adburaufel Jaziri, ieri ha fatto sapere che «gli israeliani saranno liberi di fermare ed ispezionare la nave» e anche di prelevare e consegnare il carico attraverso i valichi terrestri con Gaza. La missione navale libica quindi si svolgerà nel rispetto delle regole per il passaggio delle merci e degli aiuti per Gaza stabilite da Israele, con l’approvazione di Usa e Ue. Nena News
lunedì 5 luglio 2010
La favola del lupo e l'agnello
di Ireo Bono
Da oltre 60 anni lo Stato di Israele, utilizzando lo scudo della Shoah ed assumendo strategicamente il ruolo di vittima ed aggredito, attua una politica di aggressione coloniale con la frammentazione e con l’appropriazione di tante terre palestinesi, al punto da rendere praticamente impossibile la nascita di un vero Stato palestinese e lasciare, con un effetto boomerang, come via di scelta obbligata per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, la soluzione più logica e giusta, ma temuta ed avversata dalla maggior parte degli israeliani : uno Stato unico, democratico, laico, israelo-palestinese. Di ciò si sono accorti, per quanto tardivamente, quegli intellettuali israeliani e quelle personalità della diaspora ebraica che in Europa hanno lanciato l’appello Jcall al governo israeliano per un arresto della colonizzazione, purtroppo inascoltato.
Quasi tutte le guerre tra israeliani ed arabi sono state iniziate da Israele, il ritiro dei coloni da Gaza nel 2005 non ha dato la libertà agli abitanti della Striscia ma ne ha accentuato l’isolamento e l’assedio, la tanto decantata democrazia israeliana è tale solo nei confronti dei cittadini ebrei perché quelli arabi e cristiani non godono degli stessi diritti ed ora il governo Netanyahu rende anche assai difficile l’attività delle associazioni israeliane che difendono i diritti umani in amicizia con il popolo palestinese e si prepara a metterle fuori legge. Il movimento di Hamas è nella lista dei terroristi ma i dodici morti causati in dieci anni dai missili Kassam sono un terrorismo artigianale se paragonato al terrorismo di Stato israeliano , su base industriale e ben più grave, che tra il 27/12/2008 ed il 18/1/2009, anche con l’impiego di armi proibite, ha ucciso circa 1400 persone, causato centinaia di invalidi e distrutto l’economia della Striscia di Gaza per dare una lezione alla popolazione e far cadere il governo di Hamas, eletto dai palestinesi. Il governo israeliano denuncia il rapimento del soldato Gilad Shalit che però è stato catturato con un’azione militare ed è lo Stato israeliano che tenendo prigionieri circa 7500 palestinesi, alcuni dei quali sottoposti a tortura, decide la sorte di Shalit. Per l’attuale governo israeliano perfino l’uccisione calcolata dei nove attivisti umanitari disarmati da parte di un commando israeliano sulla nave turca Mavi Marmara, che ha destato indignazione nel mondo, viene giustificato come un atto di difesa ed i militari partecipanti all’azione sono considerati eroi.
Il fatto è che Israele non vuole rispettare le risoluzioni Onu, non riconosce il diritto al ritorno dei profughi e degli esuli, ha già deciso che Gerusalemme, città indivisibile, è la capitale dello Stato d’Israele, rifiuta il ritorno ai confini del 1967, continua l’assedio di Gaza e la colonizzazione della Cisgiordania con un’occupazione violenta ed oppressiva nei confronti della popolazione, degli agricoltori, degli studenti, dei malati, dei pacifisti che difendono i diritti umani e che si oppongono all’ illegale costruzione del Muro.
Lo Stato d’Israele ha ignorato il piano di pace dell’Arabia Saudita del 2002 che garantiva il riconoscimento di Israele da parte di tutti i paesi arabi in cambio della fine dell’occupazione, rifiuta qualunque trattativa con Hamas nonostante le recenti aperture di Khaled Meshal “Riconoscere lo Stato di Israele ? Apriamo i negoziati e se ne parlerà”. Israele non vuole la pace e pur essendo una potenza nucleare che non rispetta alcun trattato, sta preparando, con la complicità degli Stati Uniti e la sudditanza dell’Europa, una guerra preventiva contro l’Iran, che l’atomica non ce l’ha, con la stessa pretestuosità usata dalle potenze occidentali contro l’Iraq di Saddam Hussein.
Nonostante i disastri provocati dalle guerre dell’imperialismo occidentale dal 1989, sembra quasi inevitabile una nuova guerra contro l’Iran, non perchè questa nazione rappresenti un pericolo reale per Israele e l’Occidente ma in quanto unica potenza che si oppone alla completa egemonia statunitense ed israeliana in un’area importante geopoliticamente e per le risorse energetiche.
Oggi il popolo a rischio di genocidio è quello palestinese ed il pericolo per la pace nel mondo non viene dall’Iran ma da Stati Uniti ed Israele e ciò viene denunciato solo da piccoli giornali di sinistra, mentre i grandi mezzi d’informazione, televisivi e cartacei, e gli opinionisti più noti, tranne qualche rara eccezione, hanno lo stesso atteggiamento di inevitabilità e giustificazione tenuto in occasione della guerra contro la Serbia, l’Afganistan, l’Iraq e le guerre scatenate da Israele contro il Libano nel 2006 e la Striscia di Gaza alla fine del 2008. Tutte guerre giustificate come guerre umanitarie, contro il terrorismo, per la democrazia e che invece hanno determinato distruzione e morte, soprattutto fra i civili, e peggiorato la situazione di interi popoli e dell’economia occidentale.
Da oltre 60 anni lo Stato di Israele, utilizzando lo scudo della Shoah ed assumendo strategicamente il ruolo di vittima ed aggredito, attua una politica di aggressione coloniale con la frammentazione e con l’appropriazione di tante terre palestinesi, al punto da rendere praticamente impossibile la nascita di un vero Stato palestinese e lasciare, con un effetto boomerang, come via di scelta obbligata per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, la soluzione più logica e giusta, ma temuta ed avversata dalla maggior parte degli israeliani : uno Stato unico, democratico, laico, israelo-palestinese. Di ciò si sono accorti, per quanto tardivamente, quegli intellettuali israeliani e quelle personalità della diaspora ebraica che in Europa hanno lanciato l’appello Jcall al governo israeliano per un arresto della colonizzazione, purtroppo inascoltato.
Quasi tutte le guerre tra israeliani ed arabi sono state iniziate da Israele, il ritiro dei coloni da Gaza nel 2005 non ha dato la libertà agli abitanti della Striscia ma ne ha accentuato l’isolamento e l’assedio, la tanto decantata democrazia israeliana è tale solo nei confronti dei cittadini ebrei perché quelli arabi e cristiani non godono degli stessi diritti ed ora il governo Netanyahu rende anche assai difficile l’attività delle associazioni israeliane che difendono i diritti umani in amicizia con il popolo palestinese e si prepara a metterle fuori legge. Il movimento di Hamas è nella lista dei terroristi ma i dodici morti causati in dieci anni dai missili Kassam sono un terrorismo artigianale se paragonato al terrorismo di Stato israeliano , su base industriale e ben più grave, che tra il 27/12/2008 ed il 18/1/2009, anche con l’impiego di armi proibite, ha ucciso circa 1400 persone, causato centinaia di invalidi e distrutto l’economia della Striscia di Gaza per dare una lezione alla popolazione e far cadere il governo di Hamas, eletto dai palestinesi. Il governo israeliano denuncia il rapimento del soldato Gilad Shalit che però è stato catturato con un’azione militare ed è lo Stato israeliano che tenendo prigionieri circa 7500 palestinesi, alcuni dei quali sottoposti a tortura, decide la sorte di Shalit. Per l’attuale governo israeliano perfino l’uccisione calcolata dei nove attivisti umanitari disarmati da parte di un commando israeliano sulla nave turca Mavi Marmara, che ha destato indignazione nel mondo, viene giustificato come un atto di difesa ed i militari partecipanti all’azione sono considerati eroi.
Il fatto è che Israele non vuole rispettare le risoluzioni Onu, non riconosce il diritto al ritorno dei profughi e degli esuli, ha già deciso che Gerusalemme, città indivisibile, è la capitale dello Stato d’Israele, rifiuta il ritorno ai confini del 1967, continua l’assedio di Gaza e la colonizzazione della Cisgiordania con un’occupazione violenta ed oppressiva nei confronti della popolazione, degli agricoltori, degli studenti, dei malati, dei pacifisti che difendono i diritti umani e che si oppongono all’ illegale costruzione del Muro.
Lo Stato d’Israele ha ignorato il piano di pace dell’Arabia Saudita del 2002 che garantiva il riconoscimento di Israele da parte di tutti i paesi arabi in cambio della fine dell’occupazione, rifiuta qualunque trattativa con Hamas nonostante le recenti aperture di Khaled Meshal “Riconoscere lo Stato di Israele ? Apriamo i negoziati e se ne parlerà”. Israele non vuole la pace e pur essendo una potenza nucleare che non rispetta alcun trattato, sta preparando, con la complicità degli Stati Uniti e la sudditanza dell’Europa, una guerra preventiva contro l’Iran, che l’atomica non ce l’ha, con la stessa pretestuosità usata dalle potenze occidentali contro l’Iraq di Saddam Hussein.
Nonostante i disastri provocati dalle guerre dell’imperialismo occidentale dal 1989, sembra quasi inevitabile una nuova guerra contro l’Iran, non perchè questa nazione rappresenti un pericolo reale per Israele e l’Occidente ma in quanto unica potenza che si oppone alla completa egemonia statunitense ed israeliana in un’area importante geopoliticamente e per le risorse energetiche.
Oggi il popolo a rischio di genocidio è quello palestinese ed il pericolo per la pace nel mondo non viene dall’Iran ma da Stati Uniti ed Israele e ciò viene denunciato solo da piccoli giornali di sinistra, mentre i grandi mezzi d’informazione, televisivi e cartacei, e gli opinionisti più noti, tranne qualche rara eccezione, hanno lo stesso atteggiamento di inevitabilità e giustificazione tenuto in occasione della guerra contro la Serbia, l’Afganistan, l’Iraq e le guerre scatenate da Israele contro il Libano nel 2006 e la Striscia di Gaza alla fine del 2008. Tutte guerre giustificate come guerre umanitarie, contro il terrorismo, per la democrazia e che invece hanno determinato distruzione e morte, soprattutto fra i civili, e peggiorato la situazione di interi popoli e dell’economia occidentale.
FORUM SOCIALE EUROPEO
DAL FORUM SOCIALE EUROPEO RISPOSTA ALLA CRISI
Cambiamento sistemico, demilitarizzazione e resistenza, tagli delle spese sociali. Sostegno a curdi e palestinesi.
DI MARTINA PIGNATTI*
Istanbul, 5 luglio 2010, Nena News - Si è chiuso ieri a Istanbul il Forum Sociale Europeo, che ha visto la partecipazione di circa 2000 delegati di associazioni e movimenti di tutta Europa e che sabato ha portato circa 10.000 persone nelle strade di Istanbul per difendere pratiche sociali, traiettorie politiche ed economiche alternative al modello che ha prodotto la crisi economica mondiale. Il comunicato finale invita alla convergenza delle lotte di sindacati e movimenti per resistere ai tagli delle spese sociali e ai licenziamenti, nelle giornate vicine allo sciopero generale del 29 settembre. La rete dei movimenti per la giustizia climatica e sociale chiede un cambiamento sistemico che dia alle comunità il controllo delle fonti di energia tramite le rinnovabili, che garantisca sovranità alimentare e servizi sociali pubblici per tutti. Ma non è mancata la solidarietà internazionale, con un forte sostegno dell’intera assemblea alla richiesta di pace e diritti del popolo kurdo e alla campagna proposta dalla società civile palestinese per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni su Israele finchè continueranno le violazioni del diritto internazionale.
Fondamentale è stato l’incontro tra i popoli d’Europa e Kurdi, Arabi, Armeni, in una fusione di problematiche e campagne che supera i confini etnici e nazionali. La delegazione italiana di Un ponte per… sottolinea che proprio il Mesopotamia Social Forum aveva segnato a Diyarbakir l’anno scorso la possibilità di immaginare un nuovo processo del Forum Sociale Mondiale che si espandesse in Medioriente e superasse una visione Euro-centrica delle questioni politico-sociali. Serhat Resul, referente kurdo dei movimenti per l’acqua e dell’iniziativa contro la diga di Ilisu, commenta: “forse in Europa oggi il problema del lavoro e le questioni sindacali hanno un’importanza preponderante ma qui la gestione delle risorse idriche, la demilitarizzazione della società, sono questioni urgenti che incidono sulla vita della persone. Nella manifestazione di chiusura del forum gli spezzoni più intensi, in cui si percepiva la forza della mobilitazione popolare, erano quelli degli abitanti dei villaggi che verranno spazzati via dalle dighe, e delle Madri della Pace kurde e turche che hanno perso mariti e figli nel conflitto e che lottano per una soluzione pacifica alla questione kurda”.
Alla fine della manifestazione, dopo i discorsi dal palco, un gruppo di musica tradizionale kurda ha intonato canzoni popolari e si sono formati nella piazza centrale di Istanbul, Taksim, cerchi di persone ballando danze kurde. Per la prima volta nella loro vita attivisti kurdi come Serhat hanno sentito canzoni nella propria lingua amplificate in questa piazza, su cui sventola un’enorme bandiera turca, e hanno ballato senza alcuna interruzione da parte della polizia. Gli stessi cerchi che erano stati spezzati dagli agenti durante la manifestazione delle donne, pochi giorni prima, si sono allargati inframmezzando kurdi, internazionali e giovani turchi che hanno gridato in kurdo: “Viva la fratellanza dei popoli”.
E’ stata una delle magie di questo Forum Sociale, che non dimostra più la capacità di mobilitazione popolare che aveva a Firenze nel 2002 ma rimane un prezioso luogo di incontro tra reti e attivisti e una testimonianza dell’importanza della solidarietà internazionale tra popoli. Si è rafforzato il legame con associazioni e sindacati iracheni grazie all’Iniziativa di Solidarietà con la Società Civile Irachena che costruisce alleanze internazionali per difendere libertà di espressione e di sciopero per chi lotta per i diritti, fine dell’occupazione e piena autodeterminazione del popolo iracheno. Forte è stata inoltre la vicinanza dimostrata al popolo palestinese nei seminari organizzati dal Coordinamento Europeo dei Comitati per la Palestina, con l’espansione di coalizioni europee come quella per il boicottaggio dell’impresa israeliana Carmel-Agrexco. In Palestina si terrà il prossimo Forum Sociale Mondiale tematico sull’Educazione, che si svolgerà a Gerusalemme, Ramallah, Haifa e Gaza tra il 28 e il 31 ottobre e che verrà celebrato anche nei campi profughi del Libano. E’ un appuntamento importante nel processo dei Forum Sociali, che forse in Europa hanno perso la loro spinta propulsiva, ma nel Mediterraneo e in Medioriente hanno appena iniziato un percorso promettente con nuove generazioni di attivisti. (red) Nena News
Cambiamento sistemico, demilitarizzazione e resistenza, tagli delle spese sociali. Sostegno a curdi e palestinesi.
DI MARTINA PIGNATTI*
Istanbul, 5 luglio 2010, Nena News - Si è chiuso ieri a Istanbul il Forum Sociale Europeo, che ha visto la partecipazione di circa 2000 delegati di associazioni e movimenti di tutta Europa e che sabato ha portato circa 10.000 persone nelle strade di Istanbul per difendere pratiche sociali, traiettorie politiche ed economiche alternative al modello che ha prodotto la crisi economica mondiale. Il comunicato finale invita alla convergenza delle lotte di sindacati e movimenti per resistere ai tagli delle spese sociali e ai licenziamenti, nelle giornate vicine allo sciopero generale del 29 settembre. La rete dei movimenti per la giustizia climatica e sociale chiede un cambiamento sistemico che dia alle comunità il controllo delle fonti di energia tramite le rinnovabili, che garantisca sovranità alimentare e servizi sociali pubblici per tutti. Ma non è mancata la solidarietà internazionale, con un forte sostegno dell’intera assemblea alla richiesta di pace e diritti del popolo kurdo e alla campagna proposta dalla società civile palestinese per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni su Israele finchè continueranno le violazioni del diritto internazionale.
Fondamentale è stato l’incontro tra i popoli d’Europa e Kurdi, Arabi, Armeni, in una fusione di problematiche e campagne che supera i confini etnici e nazionali. La delegazione italiana di Un ponte per… sottolinea che proprio il Mesopotamia Social Forum aveva segnato a Diyarbakir l’anno scorso la possibilità di immaginare un nuovo processo del Forum Sociale Mondiale che si espandesse in Medioriente e superasse una visione Euro-centrica delle questioni politico-sociali. Serhat Resul, referente kurdo dei movimenti per l’acqua e dell’iniziativa contro la diga di Ilisu, commenta: “forse in Europa oggi il problema del lavoro e le questioni sindacali hanno un’importanza preponderante ma qui la gestione delle risorse idriche, la demilitarizzazione della società, sono questioni urgenti che incidono sulla vita della persone. Nella manifestazione di chiusura del forum gli spezzoni più intensi, in cui si percepiva la forza della mobilitazione popolare, erano quelli degli abitanti dei villaggi che verranno spazzati via dalle dighe, e delle Madri della Pace kurde e turche che hanno perso mariti e figli nel conflitto e che lottano per una soluzione pacifica alla questione kurda”.
Alla fine della manifestazione, dopo i discorsi dal palco, un gruppo di musica tradizionale kurda ha intonato canzoni popolari e si sono formati nella piazza centrale di Istanbul, Taksim, cerchi di persone ballando danze kurde. Per la prima volta nella loro vita attivisti kurdi come Serhat hanno sentito canzoni nella propria lingua amplificate in questa piazza, su cui sventola un’enorme bandiera turca, e hanno ballato senza alcuna interruzione da parte della polizia. Gli stessi cerchi che erano stati spezzati dagli agenti durante la manifestazione delle donne, pochi giorni prima, si sono allargati inframmezzando kurdi, internazionali e giovani turchi che hanno gridato in kurdo: “Viva la fratellanza dei popoli”.
E’ stata una delle magie di questo Forum Sociale, che non dimostra più la capacità di mobilitazione popolare che aveva a Firenze nel 2002 ma rimane un prezioso luogo di incontro tra reti e attivisti e una testimonianza dell’importanza della solidarietà internazionale tra popoli. Si è rafforzato il legame con associazioni e sindacati iracheni grazie all’Iniziativa di Solidarietà con la Società Civile Irachena che costruisce alleanze internazionali per difendere libertà di espressione e di sciopero per chi lotta per i diritti, fine dell’occupazione e piena autodeterminazione del popolo iracheno. Forte è stata inoltre la vicinanza dimostrata al popolo palestinese nei seminari organizzati dal Coordinamento Europeo dei Comitati per la Palestina, con l’espansione di coalizioni europee come quella per il boicottaggio dell’impresa israeliana Carmel-Agrexco. In Palestina si terrà il prossimo Forum Sociale Mondiale tematico sull’Educazione, che si svolgerà a Gerusalemme, Ramallah, Haifa e Gaza tra il 28 e il 31 ottobre e che verrà celebrato anche nei campi profughi del Libano. E’ un appuntamento importante nel processo dei Forum Sociali, che forse in Europa hanno perso la loro spinta propulsiva, ma nel Mediterraneo e in Medioriente hanno appena iniziato un percorso promettente con nuove generazioni di attivisti. (red) Nena News
Un'analisi di Giulietto Chiesa
di Giulietto Chiesa - ANTIMAFIADuemila N°65
Israele è pronta ad attaccare l’Iran. Una crisi annunciata della quale Washington, contrariamente a quanto vorrebbe far credere, non è affatto all’oscuro.
Anche la Russia e la Cina, a sorpresa, sembrano dare il via libera all’attacco in fede a inediti e non meglio precisati “scambi di favori”. Accettando un rischio di proporzioni non ancora prevedibili.
C’è da chiedersi: perché lo fanno?
Se siamo a 5 minuti, a 5 giorni, a 5 mesi, non possiamo saperlo. Ma che siamo a 5 anni possiamo escluderlo. Da dove? Dal momento in cui Israele attaccherà militarmente l’Iran e darà avvio a una crisi militare di così vaste proporzioni da modificare per una lunga fase i già precari equilibri mondiali restanti.
Questa crisi - annunciatissima ma che quasi nessuno vuole vedere - si aggiungerà, aggravandole drammaticamente, a tutte le altre crisi già in atto. Israele vi si accinge, incoraggiata da potenti circoli internazionali che sono interessati a un grande incendio: l’unico nel quale potranno essere bruciati tutti i libri contabili degli organizzatori della fine di un’epoca intera della storia umana.
Inutile rispondere alle obiezioni che di solito promanano da ogni sorta di anime belle: hanno tutte lo stesso difetto originario, consistente nell’applicare le regole del politically correct a Israele.
Quelle regole non sono usate da Israele essendo esse state inventate per i paesi normali, mentre Israele è un paese eletto. La sostanza di questo pensiero è che Dio sta dalla sua parte, è “con Israele”. E, quindi, ogni forma di analisi politically correct del comportamento di Israele appare insensata, essendo Dio estraneo a criteri del genere.
Quindi, invece di prevenire le obiezioni politically corrected mi limiterò ad elencare i fatti. Che sono molto più vasti, con le loro implicazioni, dei confini di Israele e conducono tutti, inequivocabilmente, ad un esito, dove Israele svolgerà un ruolo principale: quello detto all’inizio. Se poi quell’esito sembrerà dimostrare che Dio è con loro, non potremo che invocare quel Dio chiedendogli che “ce la mandi buona”.
Vediamo dunque i fatti. A cominciare dall’assalto al convoglio di navi pacifiste che, alla fine di maggio, intendeva rompere il blocco di Gaza. Sappiamo – fu chiaro fin dal primo momento della tragedia – che non è stato un malaugurato errore, ma una sanguinosa provocazione ideata a freddo per aprire uno scandalo internazionale di enormi proporzioni. Lo scopo era quello di punire la Turchia. Un segnale dunque.
Alle anime belle che si sono affannate a scrivere che l’attacco dei commandos israeliani ha provocato gravi danni alla causa israeliana, isolando ulteriormente quel paese perfino da molti dei suoi amici europei, si dovrà suggerire di guardare la faccenda da un altro angolo visuale. Israele non ha bisogno di alleati terreni, salvo uno, che è terreno solo in un senso particolare, sentendosi investito, da circa 100 anni a questa parte, di una missione divina anch’esso: gli Stati Uniti d’America.
E questo alleato non lo ha perduto e non lo perderà mai.
Si capirà meglio così che la violenza contro i pacifisti non è stata un incidente ma è stata organizzata proprio per spaccare la comunità occidentale e per costringere tutti a scoprire le loro carte. Del resto - secondo fatto da elencare – Ankara e Brasilia (new entry, quest’ultima, a sorpresa in questa partita planetaria) dovevano essere punite (il Brasile si aspetti il suo turno) per avere rotto il fronte dell’Occidente mandando i rispettivi presidenti a trattare con Ahmadi Nejad una soluzione che consentisse all’Iran di procedere senza essere disturbato con il suo programma nucleare civile.
Dunque occorre non perdere d’occhio il cospicuo movimento tettonico di cui è protagonista la Turchia. Esso procede con scosse di assestamento sempre più potenti e si ripete, il 9 giugno (una decina di giorni dopo la crisi della flottiglia pacifista) con il voto contrario (di nuovo la Turchia e il Brasile agiscono di concerto) alle sanzioni decise dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro l’Iran. Sanzioni, come sappiamo, promosse dagli Stati Uniti e accolte da Russia e Cina: ecco due novità di vaste implicazioni, piene di interrogativi come funesti vasi di Pandora.
Tra i fatti da tenere presenti, perché senza queste pennellate altrimenti il quadro non sarebbe completo, c’è la circostanza che, fino a ieri, gli aerei israeliani che sarebbero destinati ad attaccare l’Iran, come prima onda d’urto, si trovavano in una base Nato in territorio turco. Lo scopo era chiaro: disporre di una traiettoria di volo breve. Non mi stupirei adesso che quella traiettoria breve, senza rifornimenti in volo, non sia più disponibile e che quei caccia bombardieri siano già stati trasferiti, o siano in via di trasferimento in qualche altra base segreta, sicuramente non più in Turchia.
Per scoprire quale essa sia basta fare un piccolo esercizio di Risiko, carta alla mano, e elenco dei paesi Nato nell’area, senza trascurare qualche paese, più piccolo e ben piazzato, che è amico degli Stati Uniti e di Israele e che si trova nelle vicinanze dell’Iran. Altra buona ragione per punire Erdogan.
Ma altri fatti si accavallano in rapida successione. Il 7 giugno, due giorni prima del voto Onu, The International Herald Tribune, nella sua pagina di opinioni editoriali, pubblica un articolo di Richard V. Allen, che fu consigliere per la Sicurezza nazionale di Ronald Reagan nel biennio 1981-82. Allen, dopo avere esordito con queste parole (“con le notizie controverse che circolano a proposito di un attacco israeliano”), ricostruisce l’altro attacco israeliano di 29 anni fa contro l’impianto nucleare iracheno di Osirak, ancora in costruzione in quel momento. Curiosamente l’intero articolo sembra concepito per dimostrare che Washington non sapeva nulla di nulla di ciò che Tel Aviv aveva organizzato.
Lo stesso Reagan, apparentemente cadendo dal pero, chiede infatti a Allen: “Perché secondo te l’hanno fatto?”. Verrebbe da dire: beata ingenuità.
Il giorno dopo, nella Sala Ovale, si terrà una accesa riunione, mentre le polemiche dilagano nel mondo a proposito delle rovine ancora fumanti di Osirak. Rovine dell’allora alleato degli Stati Uniti Saddam Hussein. In quella riunione il vice-presidente di allora George H.W.Bush, George Baker, capo dello staff presidenziale, Michael Deaver, aiutante del presidente, si schierano per punire Israele, mentre il generale Alexander Haig, segretario di stato, e il capo della Cia William J.Casey sono per appoggiare Israele.
Se crediamo alla versione di Allen, il presidente Reagan fece il pesce in barile e rimase, in sostanza, ad ascoltare la disputa. Ma il finale è noto: alla fine di quell’anno gli Stati Uniti e Israele firmarono un accordo di cooperazione strategica.
Allora Dio era con loro, senza dubbio alcuno. Ma la domanda è questa (e spiega bene perché l’autorevole quotidiano americano abbia pubblicato proprio quell’articolo e proprio in quei giorni): 29 anni dopo sarebbe ancora possibile (anche se prendessimo per buono il racconto di Richard V. Allen) un attacco israeliano contro l’Iran senza che il Pentagono, la Cia e gli altri servizi segreti statunitensi ne sappiano nulla? Ovvio che Washington non è affatto all’oscuro di ciò che è già stato preparato. Neanche se lo volesse potrebbe ignorarlo. Perché i primi a non fare mistero delle loro intenzioni sono proprio i capi israeliani.
Lo stesso 9 giugno (che è poi il giorno delle sanzioni del Consiglio di Sicurezza), lo stesso International Herald Tribune rivela, in prima pagina, con un articolo da Gerusalemme di Andrew Jacobs, che una delegazione israeliana è andata a Pechino per far sapere ai cinesi, “senza melensaggini diplomatiche”, che Israele intende attaccare militarmente l’Iran.
L’esplicito proposito della visita, scrive Jacobs, era di “spiegare con precisi dettagli l’impatto economico che la Cina subirebbe nel caso di un colpo israeliano contro l’Iran”. Ipotesi che Israele “considera probabile quando dovesse ritenere che l’Iran potrebbe riuscire a mettere insieme un’arma nucleare”.
Si noti la formulazione: l’attacco avverrà quando Israele pensa che l’Iran “potrebbe riuscire...” non quando ci sarà riuscito. Cioè prima ancora che il pericolo si delinei e molto prima che esso sia attuabile, poiché una bomba che non può essere portata sul bersaglio non costituisce un pericolo reale e l’Iran non dispone di vettori per la bisogna e, ove si avvicinasse a questo obiettivo, non potrebbe tenerlo nascosto alle osservazioni dall’esterno e dall’interno cui è sottoposto incessantemente da tutti i servizi segreti occidentali e orientali.
Non viene detto come i cinesi abbiano reagito ai chiarimenti israeliani. Si sa solo che hanno votato le sanzioni, seppure mantenendo, come ha fatto Mosca, alcuni distinguo. Ma – ecco un altro fatto - tre giorni dopo l’articolo citato, tre giorni dopo il voto all’Onu, ecco la notizia che la Russia non onorerà più il contratto che aveva già firmato con l’Iran per la fornitura di 300 missili terra-aria. La perdita della commessa – rivela Russia Today quel giorno – vale oltre un miliardo e 200 milioni di dollari: un colpo per Rosvooruzhenie, eppure il Cremlino non muove un ciglio e getta via il tesoro.
Si tratta di armi cruciali per la difesa contro un attacco aereo e mediante missili di crociera. Anche qui il significato è inequivocabile: Mosca concede il via libera. Lo stesso giorno 12 giugno le agenzie riferiscono che l’Arabia Saudita, dopo avere informato il governo di Washington, concede il proprio spazio aereo al passaggio dei bombardieri israeliani. Negli stessi giorni fonti iraniane rendono noto che tre sommergibili israeliani, con missili da crociera a bordo, sono entrati nel Golfo Persico, sicuramente non all’insaputa del comando strategico degli Stati Uniti.
E, segnale apparentemente soltanto tangenziale rispetto a questo scenario, sempre lo stesso giorno a Bruxelles il ministro degli esteri russo, Lavrov, insieme ai suoi colleghi di Kazakhstan e Uzbekistan, annuncia la decisione di aprire la strada per il transito dei convogli della Nato (non più soltanto di quelli americani) che trasportino armi, uomini e logistica verso l’Afghanistan.
Quale sia l’interesse russo in questo “affaire” non è chiaro. Ovvio che stiamo assistendo a un grande “scambio” di favori, ma non ne conosciamo i termini. Mosca e Pechino accettano il rischio.
Perchè lo fanno? Né l’una né l’altra hanno qualche cosa da temere dall’Iran e, a prima vista, entrambe hanno qualche cosa da perdere. La Russia, per esempio, corre il rischio di vedere affacciarsi sulle rive del Mar Caspio un altro governo filo americano. Sicuramente in caso di una grande crisi militare – se l’Iran riuscirà a resistere e a infliggere colpi a sua volta – il prezzo del petrolio potrebbe balzare in alto. E, se questo sarebbe un bel regalo per Mosca, sarebbe invece un brutto colpo per la Cina.
Certo Mosca potrebbe guardare con sospetto non minore di quello americano, al sorgere di una alleanza Turchia- Iran. Ma può essere anche che Cina e Russia ritengano che l’avventura iraniana si risolverà strategicamente in un nuovo disastro per gli Stati Uniti: la classica immagine di chi sta seduto sulla riva del fiume per aspettare il passaggio del cadavere del nemico. Per giunta avendo ricevuto dal nemico agonizzante qualche regalo. Ma dev’essere stato un grande regalo davvero.
Certo è che l’operazione Teheran comporta un grande scenario preparatorio. Grande quanto il fuoco che ci si prepara ad accendere. E non dopo, ma durante, la presidenza del premio Nobel per la pace Barack Obama.
Tratto da: ANTIMAFIADuemila N°65
Israele è pronta ad attaccare l’Iran. Una crisi annunciata della quale Washington, contrariamente a quanto vorrebbe far credere, non è affatto all’oscuro.
Anche la Russia e la Cina, a sorpresa, sembrano dare il via libera all’attacco in fede a inediti e non meglio precisati “scambi di favori”. Accettando un rischio di proporzioni non ancora prevedibili.
C’è da chiedersi: perché lo fanno?
Se siamo a 5 minuti, a 5 giorni, a 5 mesi, non possiamo saperlo. Ma che siamo a 5 anni possiamo escluderlo. Da dove? Dal momento in cui Israele attaccherà militarmente l’Iran e darà avvio a una crisi militare di così vaste proporzioni da modificare per una lunga fase i già precari equilibri mondiali restanti.
Questa crisi - annunciatissima ma che quasi nessuno vuole vedere - si aggiungerà, aggravandole drammaticamente, a tutte le altre crisi già in atto. Israele vi si accinge, incoraggiata da potenti circoli internazionali che sono interessati a un grande incendio: l’unico nel quale potranno essere bruciati tutti i libri contabili degli organizzatori della fine di un’epoca intera della storia umana.
Inutile rispondere alle obiezioni che di solito promanano da ogni sorta di anime belle: hanno tutte lo stesso difetto originario, consistente nell’applicare le regole del politically correct a Israele.
Quelle regole non sono usate da Israele essendo esse state inventate per i paesi normali, mentre Israele è un paese eletto. La sostanza di questo pensiero è che Dio sta dalla sua parte, è “con Israele”. E, quindi, ogni forma di analisi politically correct del comportamento di Israele appare insensata, essendo Dio estraneo a criteri del genere.
Quindi, invece di prevenire le obiezioni politically corrected mi limiterò ad elencare i fatti. Che sono molto più vasti, con le loro implicazioni, dei confini di Israele e conducono tutti, inequivocabilmente, ad un esito, dove Israele svolgerà un ruolo principale: quello detto all’inizio. Se poi quell’esito sembrerà dimostrare che Dio è con loro, non potremo che invocare quel Dio chiedendogli che “ce la mandi buona”.
Vediamo dunque i fatti. A cominciare dall’assalto al convoglio di navi pacifiste che, alla fine di maggio, intendeva rompere il blocco di Gaza. Sappiamo – fu chiaro fin dal primo momento della tragedia – che non è stato un malaugurato errore, ma una sanguinosa provocazione ideata a freddo per aprire uno scandalo internazionale di enormi proporzioni. Lo scopo era quello di punire la Turchia. Un segnale dunque.
Alle anime belle che si sono affannate a scrivere che l’attacco dei commandos israeliani ha provocato gravi danni alla causa israeliana, isolando ulteriormente quel paese perfino da molti dei suoi amici europei, si dovrà suggerire di guardare la faccenda da un altro angolo visuale. Israele non ha bisogno di alleati terreni, salvo uno, che è terreno solo in un senso particolare, sentendosi investito, da circa 100 anni a questa parte, di una missione divina anch’esso: gli Stati Uniti d’America.
E questo alleato non lo ha perduto e non lo perderà mai.
Si capirà meglio così che la violenza contro i pacifisti non è stata un incidente ma è stata organizzata proprio per spaccare la comunità occidentale e per costringere tutti a scoprire le loro carte. Del resto - secondo fatto da elencare – Ankara e Brasilia (new entry, quest’ultima, a sorpresa in questa partita planetaria) dovevano essere punite (il Brasile si aspetti il suo turno) per avere rotto il fronte dell’Occidente mandando i rispettivi presidenti a trattare con Ahmadi Nejad una soluzione che consentisse all’Iran di procedere senza essere disturbato con il suo programma nucleare civile.
Dunque occorre non perdere d’occhio il cospicuo movimento tettonico di cui è protagonista la Turchia. Esso procede con scosse di assestamento sempre più potenti e si ripete, il 9 giugno (una decina di giorni dopo la crisi della flottiglia pacifista) con il voto contrario (di nuovo la Turchia e il Brasile agiscono di concerto) alle sanzioni decise dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro l’Iran. Sanzioni, come sappiamo, promosse dagli Stati Uniti e accolte da Russia e Cina: ecco due novità di vaste implicazioni, piene di interrogativi come funesti vasi di Pandora.
Tra i fatti da tenere presenti, perché senza queste pennellate altrimenti il quadro non sarebbe completo, c’è la circostanza che, fino a ieri, gli aerei israeliani che sarebbero destinati ad attaccare l’Iran, come prima onda d’urto, si trovavano in una base Nato in territorio turco. Lo scopo era chiaro: disporre di una traiettoria di volo breve. Non mi stupirei adesso che quella traiettoria breve, senza rifornimenti in volo, non sia più disponibile e che quei caccia bombardieri siano già stati trasferiti, o siano in via di trasferimento in qualche altra base segreta, sicuramente non più in Turchia.
Per scoprire quale essa sia basta fare un piccolo esercizio di Risiko, carta alla mano, e elenco dei paesi Nato nell’area, senza trascurare qualche paese, più piccolo e ben piazzato, che è amico degli Stati Uniti e di Israele e che si trova nelle vicinanze dell’Iran. Altra buona ragione per punire Erdogan.
Ma altri fatti si accavallano in rapida successione. Il 7 giugno, due giorni prima del voto Onu, The International Herald Tribune, nella sua pagina di opinioni editoriali, pubblica un articolo di Richard V. Allen, che fu consigliere per la Sicurezza nazionale di Ronald Reagan nel biennio 1981-82. Allen, dopo avere esordito con queste parole (“con le notizie controverse che circolano a proposito di un attacco israeliano”), ricostruisce l’altro attacco israeliano di 29 anni fa contro l’impianto nucleare iracheno di Osirak, ancora in costruzione in quel momento. Curiosamente l’intero articolo sembra concepito per dimostrare che Washington non sapeva nulla di nulla di ciò che Tel Aviv aveva organizzato.
Lo stesso Reagan, apparentemente cadendo dal pero, chiede infatti a Allen: “Perché secondo te l’hanno fatto?”. Verrebbe da dire: beata ingenuità.
Il giorno dopo, nella Sala Ovale, si terrà una accesa riunione, mentre le polemiche dilagano nel mondo a proposito delle rovine ancora fumanti di Osirak. Rovine dell’allora alleato degli Stati Uniti Saddam Hussein. In quella riunione il vice-presidente di allora George H.W.Bush, George Baker, capo dello staff presidenziale, Michael Deaver, aiutante del presidente, si schierano per punire Israele, mentre il generale Alexander Haig, segretario di stato, e il capo della Cia William J.Casey sono per appoggiare Israele.
Se crediamo alla versione di Allen, il presidente Reagan fece il pesce in barile e rimase, in sostanza, ad ascoltare la disputa. Ma il finale è noto: alla fine di quell’anno gli Stati Uniti e Israele firmarono un accordo di cooperazione strategica.
Allora Dio era con loro, senza dubbio alcuno. Ma la domanda è questa (e spiega bene perché l’autorevole quotidiano americano abbia pubblicato proprio quell’articolo e proprio in quei giorni): 29 anni dopo sarebbe ancora possibile (anche se prendessimo per buono il racconto di Richard V. Allen) un attacco israeliano contro l’Iran senza che il Pentagono, la Cia e gli altri servizi segreti statunitensi ne sappiano nulla? Ovvio che Washington non è affatto all’oscuro di ciò che è già stato preparato. Neanche se lo volesse potrebbe ignorarlo. Perché i primi a non fare mistero delle loro intenzioni sono proprio i capi israeliani.
Lo stesso 9 giugno (che è poi il giorno delle sanzioni del Consiglio di Sicurezza), lo stesso International Herald Tribune rivela, in prima pagina, con un articolo da Gerusalemme di Andrew Jacobs, che una delegazione israeliana è andata a Pechino per far sapere ai cinesi, “senza melensaggini diplomatiche”, che Israele intende attaccare militarmente l’Iran.
L’esplicito proposito della visita, scrive Jacobs, era di “spiegare con precisi dettagli l’impatto economico che la Cina subirebbe nel caso di un colpo israeliano contro l’Iran”. Ipotesi che Israele “considera probabile quando dovesse ritenere che l’Iran potrebbe riuscire a mettere insieme un’arma nucleare”.
Si noti la formulazione: l’attacco avverrà quando Israele pensa che l’Iran “potrebbe riuscire...” non quando ci sarà riuscito. Cioè prima ancora che il pericolo si delinei e molto prima che esso sia attuabile, poiché una bomba che non può essere portata sul bersaglio non costituisce un pericolo reale e l’Iran non dispone di vettori per la bisogna e, ove si avvicinasse a questo obiettivo, non potrebbe tenerlo nascosto alle osservazioni dall’esterno e dall’interno cui è sottoposto incessantemente da tutti i servizi segreti occidentali e orientali.
Non viene detto come i cinesi abbiano reagito ai chiarimenti israeliani. Si sa solo che hanno votato le sanzioni, seppure mantenendo, come ha fatto Mosca, alcuni distinguo. Ma – ecco un altro fatto - tre giorni dopo l’articolo citato, tre giorni dopo il voto all’Onu, ecco la notizia che la Russia non onorerà più il contratto che aveva già firmato con l’Iran per la fornitura di 300 missili terra-aria. La perdita della commessa – rivela Russia Today quel giorno – vale oltre un miliardo e 200 milioni di dollari: un colpo per Rosvooruzhenie, eppure il Cremlino non muove un ciglio e getta via il tesoro.
Si tratta di armi cruciali per la difesa contro un attacco aereo e mediante missili di crociera. Anche qui il significato è inequivocabile: Mosca concede il via libera. Lo stesso giorno 12 giugno le agenzie riferiscono che l’Arabia Saudita, dopo avere informato il governo di Washington, concede il proprio spazio aereo al passaggio dei bombardieri israeliani. Negli stessi giorni fonti iraniane rendono noto che tre sommergibili israeliani, con missili da crociera a bordo, sono entrati nel Golfo Persico, sicuramente non all’insaputa del comando strategico degli Stati Uniti.
E, segnale apparentemente soltanto tangenziale rispetto a questo scenario, sempre lo stesso giorno a Bruxelles il ministro degli esteri russo, Lavrov, insieme ai suoi colleghi di Kazakhstan e Uzbekistan, annuncia la decisione di aprire la strada per il transito dei convogli della Nato (non più soltanto di quelli americani) che trasportino armi, uomini e logistica verso l’Afghanistan.
Quale sia l’interesse russo in questo “affaire” non è chiaro. Ovvio che stiamo assistendo a un grande “scambio” di favori, ma non ne conosciamo i termini. Mosca e Pechino accettano il rischio.
Perchè lo fanno? Né l’una né l’altra hanno qualche cosa da temere dall’Iran e, a prima vista, entrambe hanno qualche cosa da perdere. La Russia, per esempio, corre il rischio di vedere affacciarsi sulle rive del Mar Caspio un altro governo filo americano. Sicuramente in caso di una grande crisi militare – se l’Iran riuscirà a resistere e a infliggere colpi a sua volta – il prezzo del petrolio potrebbe balzare in alto. E, se questo sarebbe un bel regalo per Mosca, sarebbe invece un brutto colpo per la Cina.
Certo Mosca potrebbe guardare con sospetto non minore di quello americano, al sorgere di una alleanza Turchia- Iran. Ma può essere anche che Cina e Russia ritengano che l’avventura iraniana si risolverà strategicamente in un nuovo disastro per gli Stati Uniti: la classica immagine di chi sta seduto sulla riva del fiume per aspettare il passaggio del cadavere del nemico. Per giunta avendo ricevuto dal nemico agonizzante qualche regalo. Ma dev’essere stato un grande regalo davvero.
Certo è che l’operazione Teheran comporta un grande scenario preparatorio. Grande quanto il fuoco che ci si prepara ad accendere. E non dopo, ma durante, la presidenza del premio Nobel per la pace Barack Obama.
Tratto da: ANTIMAFIADuemila N°65
sabato 3 luglio 2010
UN APPELLO DA FIRMARE SUBITO
ROMA CITTA’ APERTA, PALESTINA LIBERA
Giovedi 1 luglio è stato operato alla mandibola il giovane palestinese di Gaza rimasto ferito – insieme ad altri per fortuna meno gravi - nell’aggressione di una settimana fa sulla scalinata del Campidoglio.
Che un palestinese sfuggito all’inferno di Gaza venga ferito nella capitale del nostro paese da parte di un gruppo paramilitare, appartenente ad una minoranza oltranzista della comunità ebraica romana, suscita in noi un sentimento di vergogna ed indignazione, ma non quello della rassegnazione. Al contrario.
Riteniamo che su quanto avvenuto non sia accettabile che scenda una comoda cortina di silenzio o una colpevole rimozione, né che si affermi una sorta di impunità per gli aggressori.
Sono state fatte le dovute denunce in sede penale, è stato richiesto un incontro al Prefetto e al Sindaco di Roma, ma la questione non presenta solo problemi di carattere giuridico e penale.
Con questo appello, intendiamo denunciare con forza le responsabilità e le connivenze con gruppi squadristici che da anni aggrediscono e intimidiscono attivisti, esponenti politici e della società civile impegnati nella solidarietà e nell’informazione sulla situazione palestinese. I numerosi e ripetuti episodi di aggressione sono stati ricostruiti e denunciati, anche recentemente.
L’agibilità democratica delle piazze e del dibattito politico sulla situazione in Medio Oriente non può essere messa in discussione da gruppi ultrasionisti che importano nel nostro paese una logica di scontro militare e che ritengono applicabile anche nel nostro paese l’ impunità consentita – purtroppo - alle azioni del governo israeliano.
In questo senso, se non condividiamo sul piano politico la subalternità del governo italiano alla politica delle autorità israeliane (il voto negativo dell’Italia sul Rapporto Goldstone e sulla commissione internazionale di inchiesta sul massacro della nave Navi Marmara sono indicativi), ci preoccupa altrettanto la subalternità delle istituzioni locali alle scelte israeliane.
Due esempi aiutano a comprendere quanto intendiamo denunciare con questo appello.
Il Sindaco di Roma Alemanno ha affermato che la foto del soldato Shalit tiene lontano i sostenitori della causa palestinese dal Campidoglio (e mezz’ora dopo un gruppo di picchiatori appartenenti alla minoranza più aggressiva della comunità ebraica ha reso coerente questa affermazione sulle scale del Campidoglio).
La Regione Lazio ha avviato iniziative per l’acquisto di tecnologia di una azienda israeliana nel trattamento rifiuti che impiega tecnologie già esistenti e prodotte da aziende italiane con costi e ricadute occupazionali ovviamente molto diversi.
Riteniamo innanzitutto che la piazza del Campidoglio sia di tutti i cittadini e non solo di alcuni e che criteri di opportunità politica nelle relazioni con un altro paese non possano sostituirsi a quelli del vantaggio per l’economia delle istituzioni pubbliche.
L’aggressione squadrista avvenuta giovedì 24 giugno sulle scale del Campidoglio è solo l’ultimo di una serie di episodi che urgono essere affrontati nel merito e che il silenzio, l’inerzia, la connivenza delle istituzioni locali e nazionali rischiano di aggravare pesantemente, sia nelle relazioni interne alla nostra società, sia nelle relazioni internazionali.
Con questo appello vogliamo impedire la rimozione su quanto avvenuto, sia sul piano politico sia sul piano legale e siamo determinati a tornare in piazza al fianco del popolo palestinese, pretendendo dalle istituzioni la garanzia della piena agibilità democratica nella nostra città.
Luglio 2010
Per adesioni collettive (associazioni, reti, comitati, partiti) o individuali scrivere a:
romaperlapalestina@libero.it
Giovedi 1 luglio è stato operato alla mandibola il giovane palestinese di Gaza rimasto ferito – insieme ad altri per fortuna meno gravi - nell’aggressione di una settimana fa sulla scalinata del Campidoglio.
Che un palestinese sfuggito all’inferno di Gaza venga ferito nella capitale del nostro paese da parte di un gruppo paramilitare, appartenente ad una minoranza oltranzista della comunità ebraica romana, suscita in noi un sentimento di vergogna ed indignazione, ma non quello della rassegnazione. Al contrario.
Riteniamo che su quanto avvenuto non sia accettabile che scenda una comoda cortina di silenzio o una colpevole rimozione, né che si affermi una sorta di impunità per gli aggressori.
Sono state fatte le dovute denunce in sede penale, è stato richiesto un incontro al Prefetto e al Sindaco di Roma, ma la questione non presenta solo problemi di carattere giuridico e penale.
Con questo appello, intendiamo denunciare con forza le responsabilità e le connivenze con gruppi squadristici che da anni aggrediscono e intimidiscono attivisti, esponenti politici e della società civile impegnati nella solidarietà e nell’informazione sulla situazione palestinese. I numerosi e ripetuti episodi di aggressione sono stati ricostruiti e denunciati, anche recentemente.
L’agibilità democratica delle piazze e del dibattito politico sulla situazione in Medio Oriente non può essere messa in discussione da gruppi ultrasionisti che importano nel nostro paese una logica di scontro militare e che ritengono applicabile anche nel nostro paese l’ impunità consentita – purtroppo - alle azioni del governo israeliano.
In questo senso, se non condividiamo sul piano politico la subalternità del governo italiano alla politica delle autorità israeliane (il voto negativo dell’Italia sul Rapporto Goldstone e sulla commissione internazionale di inchiesta sul massacro della nave Navi Marmara sono indicativi), ci preoccupa altrettanto la subalternità delle istituzioni locali alle scelte israeliane.
Due esempi aiutano a comprendere quanto intendiamo denunciare con questo appello.
Il Sindaco di Roma Alemanno ha affermato che la foto del soldato Shalit tiene lontano i sostenitori della causa palestinese dal Campidoglio (e mezz’ora dopo un gruppo di picchiatori appartenenti alla minoranza più aggressiva della comunità ebraica ha reso coerente questa affermazione sulle scale del Campidoglio).
La Regione Lazio ha avviato iniziative per l’acquisto di tecnologia di una azienda israeliana nel trattamento rifiuti che impiega tecnologie già esistenti e prodotte da aziende italiane con costi e ricadute occupazionali ovviamente molto diversi.
Riteniamo innanzitutto che la piazza del Campidoglio sia di tutti i cittadini e non solo di alcuni e che criteri di opportunità politica nelle relazioni con un altro paese non possano sostituirsi a quelli del vantaggio per l’economia delle istituzioni pubbliche.
L’aggressione squadrista avvenuta giovedì 24 giugno sulle scale del Campidoglio è solo l’ultimo di una serie di episodi che urgono essere affrontati nel merito e che il silenzio, l’inerzia, la connivenza delle istituzioni locali e nazionali rischiano di aggravare pesantemente, sia nelle relazioni interne alla nostra società, sia nelle relazioni internazionali.
Con questo appello vogliamo impedire la rimozione su quanto avvenuto, sia sul piano politico sia sul piano legale e siamo determinati a tornare in piazza al fianco del popolo palestinese, pretendendo dalle istituzioni la garanzia della piena agibilità democratica nella nostra città.
Luglio 2010
Per adesioni collettive (associazioni, reti, comitati, partiti) o individuali scrivere a:
romaperlapalestina@libero.it
venerdì 2 luglio 2010
Estonia e Israele
L'Estonia onora criminali nazisti (in quanto antirussi (!)). Il presidente dell'Estonia va in visita ufficiale in Israele, residenza ufficiale di Peres compresa, e nessuno - non il direttore di Yad Vashem, non Lieberman, non Peres - trova alcunché da obiettare. Ultimi due paragrafi di http://www.haaretz.com/print-edition/opinion/the-holocaust-distorter-from-estonia-1.299613
(e quindi la leadership israeliana non solo è stata capace per decenni di negare lo sterminio armeno, onde aver buoni rapporti con la Turchia - è pure capace, oggi, di ascoltare chi equipara i criminali nazisti e le loro vittime. No comment)
Quanto sopra dimostra da solo quanto è strumentale l'accusa di antisemitismo che i filoisraeliani lanciano contro chi si oppone loro. Circa il comportamento della leadership israeliana di fronte al presidente dell'Estonia il commento migliore secondo me è
li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando starai seduto in casa tua, camminando per via, coricandoti e alzandoti (Dt 6,7. Nonché nello Shemà Israel)
(e quindi la leadership israeliana non solo è stata capace per decenni di negare lo sterminio armeno, onde aver buoni rapporti con la Turchia - è pure capace, oggi, di ascoltare chi equipara i criminali nazisti e le loro vittime. No comment)
Quanto sopra dimostra da solo quanto è strumentale l'accusa di antisemitismo che i filoisraeliani lanciano contro chi si oppone loro. Circa il comportamento della leadership israeliana di fronte al presidente dell'Estonia il commento migliore secondo me è
li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando starai seduto in casa tua, camminando per via, coricandoti e alzandoti (Dt 6,7. Nonché nello Shemà Israel)
ARRESTATATO PERICOLOSO TERRORISTA DI 7 ANNI
VOICES FROM THE OCCUPATION, THE ARREST OF A 7 YEARS OLD BOY
SPECIAL REPORT BY DCI - DEFENCE FOR CHILDREN INTERNATIONAL
At around 2:45am, on the morning of 10 June 2010, Israeli soldiers deliver a summons to the family of a 7-year-old boy from Beit Ummar, near Hebron, in the Occupied Palestinian Territory.
„We woke up to banging on the front door of our house accompanied by people shouting in Hebrew: “open the door, it‟s the IDF,”‟ recalls ‘Alia, the mother of 7-year-old M. „My husband answered the door and three Israeli soldiers stormed the house. One of the soldiers asked my husband, in mixed Arabic and Hebrew, for our son M, our youngest child.
‘Alia’s husband informed the soldier that M was seven years old, and showed the soldier his birth certificate. „The officer read the date of birth, which is on 17 September 2002, and laughed, but still handed him the summons „inviting‟ my son to Etzion Interrogation and Detention Centre the next morning because he is “wanted for interview,”‟ recalls ‘Alia.
The document handed to ‘Alia’s husband is a standard form document printed in Hebrew and Arabic with specific details filled in handwritten Hebrew. The unsigned document appears to have been issued by the Israeli District Coordination Office on behalf of the ‘Israeli Defense Forces’ at Etzion. The document is an ‘invitation’ for M ‘to attend to meet Captain Tamir at ‘Etzion Centre’ at 2:00pm, later on the same day. Etzion Centre is a place well known to the local residents as an Israeli Interrogation and Detention Centre, located inside the settlement of Gush Etzion, halfway between Hebron and Bethlehem, in the Occupied Palestinian Territory.
Seven year old M slept through the night time raid by the Israeli army, but was told what had happened the next morning by his mother. „My siblings and my mother were shocked to know that the soldiers wanted me to go to Etzion Centre because I am very young,‟ recalls M, „I am still in the second grade and after the summer break I‟ll be in the third grade. I don‟t want my father to take me to the Centre because I know, and hear people saying, that it is a prison, and if I go there, they will take me away from my family.‟
M’s father had to visit a relative in hospital later that day and did not take his son to the interrogation centre as requested. „I still don‟t know if my father will take me there or not,‟ worries M, „my family doesn‟t know whether the soldiers will come back to the house and ask me why I haven‟t gone. Israeli soldiers often come to our town. Six months ago they came and took my uncle, and he‟s still in prison. They also took my cousin, and he‟s still in prison. Prison has rooms surrounded with bars and its doors are always closed so that prisoners can‟t leave the rooms and so stay trapped inside.‟
The Israeli army routinely arrests and serves documentation written in Hebrew on the families of Palestinian children during the night. In 2009, children were arrested between midnight and 4am in 65 percent of cases handled by DCI-Palestine. Night time raids conducted by the Israeli army into Palestinian villages in occupied territory, creates fear and uncertainty within the local population, and especially among the children. It transpires that the summons was not intended for 7-year-old M, and the name on the document, written in Hebrew, is that of another person. It appears the Israeli army delivered the summons to the wrong house, in the wrong village. The family has not received an explanation or apology from the Israeli authorities. END
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SPECIAL REPORT BY DCI - DEFENCE FOR CHILDREN INTERNATIONAL
At around 2:45am, on the morning of 10 June 2010, Israeli soldiers deliver a summons to the family of a 7-year-old boy from Beit Ummar, near Hebron, in the Occupied Palestinian Territory.
„We woke up to banging on the front door of our house accompanied by people shouting in Hebrew: “open the door, it‟s the IDF,”‟ recalls ‘Alia, the mother of 7-year-old M. „My husband answered the door and three Israeli soldiers stormed the house. One of the soldiers asked my husband, in mixed Arabic and Hebrew, for our son M, our youngest child.
‘Alia’s husband informed the soldier that M was seven years old, and showed the soldier his birth certificate. „The officer read the date of birth, which is on 17 September 2002, and laughed, but still handed him the summons „inviting‟ my son to Etzion Interrogation and Detention Centre the next morning because he is “wanted for interview,”‟ recalls ‘Alia.
The document handed to ‘Alia’s husband is a standard form document printed in Hebrew and Arabic with specific details filled in handwritten Hebrew. The unsigned document appears to have been issued by the Israeli District Coordination Office on behalf of the ‘Israeli Defense Forces’ at Etzion. The document is an ‘invitation’ for M ‘to attend to meet Captain Tamir at ‘Etzion Centre’ at 2:00pm, later on the same day. Etzion Centre is a place well known to the local residents as an Israeli Interrogation and Detention Centre, located inside the settlement of Gush Etzion, halfway between Hebron and Bethlehem, in the Occupied Palestinian Territory.
Seven year old M slept through the night time raid by the Israeli army, but was told what had happened the next morning by his mother. „My siblings and my mother were shocked to know that the soldiers wanted me to go to Etzion Centre because I am very young,‟ recalls M, „I am still in the second grade and after the summer break I‟ll be in the third grade. I don‟t want my father to take me to the Centre because I know, and hear people saying, that it is a prison, and if I go there, they will take me away from my family.‟
M’s father had to visit a relative in hospital later that day and did not take his son to the interrogation centre as requested. „I still don‟t know if my father will take me there or not,‟ worries M, „my family doesn‟t know whether the soldiers will come back to the house and ask me why I haven‟t gone. Israeli soldiers often come to our town. Six months ago they came and took my uncle, and he‟s still in prison. They also took my cousin, and he‟s still in prison. Prison has rooms surrounded with bars and its doors are always closed so that prisoners can‟t leave the rooms and so stay trapped inside.‟
The Israeli army routinely arrests and serves documentation written in Hebrew on the families of Palestinian children during the night. In 2009, children were arrested between midnight and 4am in 65 percent of cases handled by DCI-Palestine. Night time raids conducted by the Israeli army into Palestinian villages in occupied territory, creates fear and uncertainty within the local population, and especially among the children. It transpires that the summons was not intended for 7-year-old M, and the name on the document, written in Hebrew, is that of another person. It appears the Israeli army delivered the summons to the wrong house, in the wrong village. The family has not received an explanation or apology from the Israeli authorities. END
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VELENO E DEVASTAZIONE AMBIENTALE
IL VELENO DELLE COLONIE STRISCIA SOTTOTERRA
Le acque reflue prodotte dai coloni in Cisgiordania si riversano nelle terre palestinesi, distruggendo i campi, inquinando le sorgenti, danneggiando la terra e il paesaggio.
REPORTAGE DI BARBARA ANTONELLI E NICOLAS HELM-GROVAS, Gerusalemme, 1 luglio 2010, Nena News (foto da www.palestinemonitor.org)- Le acque reflue prodotte in Cisgiordania, sia dalle colonie israeliane che dalle comunita’ palestinesi, ammontano a circa 91 milioni di metri cubi ogni anno: l’equivalente dell’acqua contenuta in 36.400 piscine olimpiche. La maggior parte di queste acque di scarico non riceve alcun trattamento di depurazione. Gli agenti contaminanti -sia organici che inorganici- si riversano direttamente in Cisgiordania, con conseguenze devastanti per l’inquinamento sia del territorio che del Massiccio Acquifero, la piu’ importante risorsa di approvvigionamento idrico per israeliani e palestinesi. In 43 anni di occupazione le autorita’ israeliane non si sono curate minimamente di installare impianti per il trattamento delle acque di scarico nelle 121 colonie sparse in tutta la Cisgiordania: le colonie soltanto producono 17,5 metri cubi all’anno di acque impure. Secondo un dettagliato report dell’organizzazione israeliana Bt’selem del 2009, su 121 colonie solo 81 sono dotate di impianti per il trattamento delle acque reflue. Alcuni dei quali usano metodologie superate, non seguono gli standard adottati in Israele o sono inadatti a coprire le necessita’ di colonie, la cui popolazione ha subito in pochi anni un boom demografico impressionante.
Altre strutture non funzionano a pieno regime o sono state parzialmente o del tutto disattivate, con la conseguenza che 5,5 milioni di metri cubi di acque reflue prodotte dalle colonie non ricevono alcun trattamento, riversandosi nelle vallate palestinesi. Le leggi a tutela dell’ambiente, in vigore in Israele, vengono ignorate nelle colonie. Cosi capita che le abitazioni degli insediamenti siano occupate da intere famiglie prima che i sistemi di depurazione e fognari siano completamente funzionanti o che industrie costruite su territorio occupato, inizino a funzionare a pieno regime, senza che siano dotate di sistemi di smaltimento a norma per le sostanze tossiche e i rifiuti. E’ indicativo che il Ministero israeliano per la tutela dell’ambiente abbia seguito – dal 2000 al 2009 – solo 53 casi per il malfunzionamento degli impianti nelle colonie, mentre lo stesso Ministero ha preso in esame 230 casi in Israele, solo nel 2006. Un farwest di leggi selvagge imperversa nelle colonie in Cisgiordania e al Ministero dell’ambiente fa comodo che sia cosi.
Anche il 90% delle acque reflue prodotte dai palestinesi non viene trattato. E anche qui le regole del gioco le decide Israele: l’amministrazione civile negli ultimi 15 anni non ha approvato progetti per gli impianti di depurazione dei liquami urbani, presentati da istituzioni palestinesi, con i fondi europei o internazionali; in altri casi li avrebbe approvati solo con la condizione di poter collegare a quegli stessi impianti anche le colonie.
Sempre Israele ha imposto all’Autorita’ Palestinese di costruire impianti all’avanguardia (non usati nemmeno in Israele) che rispondono a parametri che neanche l’Organizzazione Mondiale della Sanita’ richiede; cosa che fa aumentare i costi di costruzione, operativi e di mantenimento. Con la conseguenza che sia USA che Germania, principali finaziatori di tali impianti, hanno ridotto in modo considerevole i finanziamenti all’ANP per questo tipo di progetti.
Il sistema che rifornisce acqua alle colonie e’ inoltre gestito direttamente da Israele, quindi, che le acque reflue inquinino o meno l’ambiente palestinese circostante, non intacca minimamente la qualita’ dell’acqua potabile destinata ai coloni. Al contrario, villaggi o intere comunita’ palestinesi fanno affidamento sulle risorse idriche naturali; pertanto l’inquinamento delle falde acquifere prodotto dalle colonie, aggrava ulteriormente le gia’ drammatiche condizioni dell’accesso all’acqua potabile per i palestinesi. Con devastanti conseguenze anche per l’agricoltura, dato che le acque reflue inquinano il terreno, contaminano i campi, diminuiscono la fertilita’della terra.
Il problema si aggrava nelle aree industriali israeliane costruite in Cisgiordania. La piu’ estesa, quella di Barkan nel distretto di Nablus, vede almeno 80 industrie operative, che producono alluminio, vetroresina, pesticidi, componenti per l’industria militare. Dal 1982, Israele ha ricollocato le industrie piu’ inquinanti all’interno della Cisgiordania, danneggiando interee aree palestinesi. Un esempio tra tutte, la Geshuri industries, un’industria di pesticidi ricollocata nel 1987 in un’area adiacente a Tulkarem. Industrie che scaricano nelle vallate sottostanti rifiuti chimici non trattati.
Con l’ associazione israeliana Yesh Din, abbiamo preso in esame tre diversi casi, in tre diverse colonie, indicativi delle problematiche legate al mancato trattamento delle acque reflue, ma anche delle contraddizioni legate a un sistema di occupazione che si e’ ormai cristallizzato.
Elqana
Proprio a nord della statale 5, vicino Qalqilya a nord della Cisgiordania, nella vallata che dalla colonia scende giu’, un tubo di scarico pompa liquami urbani direttamente nelle terre palestinesi e nel piccolo torrente, principale risorsa idrica della vicina Az-Zawiya, a cui appartengono quelle terre.
Sulla collina, due grandi contenitori in allestimento indicano che l’impianto di purificazione dell’acqua della colonia e’ in fase di costruzione. Un’impresa che e’ il frutto della Compagnia per l’Economia dell’amministrazione locale e che dovrebbe mettere un freno al libero rifluire dei liquami nelle terre palestinesi. L’impianto e’ stato costruito illegalmente anche secondo la giurisdizione israeliana, al di fuori del perimetro della colonia, espropriando due ‘dunum’ di terra ai legittimi proprietari palestinesi.
La ONG Yesh Din segue diversi casi, per conto di comunita’ palestinesi, contro le attivita’ di costruzioni illegali anche secondo la legge di Israele, le uniche per le quali ci si puo’ appellare al sistema giuridico israeliano. Un anno fa, in una situazione simile riguardante la colonia di Ofra, vicino Silwad, gli avvocati di Yesh Din sono riusciti a congelare la costruzione di un impianto per il trattamento delle acque, ricorrendo alla Corte. Un impianto costruito senza permesso regolare e su terra espropriata a due famiglie palestinesi, rappresentate da Yesh Din. La Corte ha deciso l’immediato stop dei lavori della struttura, completata quasi al 90%. Dal momento dell’interruzione dei lavori, la colonia continua a riversare i liquami di scarico nelle terre palestinesi circostanti. Un caso che illustra bene il dilemma tra applicazione del diritto e pragmatismo: se le colonie si dotano di strutture per lo smaltimento delle acque reflue, consolidano ancora di più sul terreno il sistema illegale dell’occupazione. Se invece ci si appella al diritto israeliano, qualora possibile, si lascia però che l’inquinamento ambientale sia perpetrato impunemente, a scapito ancora una volta delle comunita’ palestinesi.
Nel caso della colonia di Elqana, il team di Yesh Din ha prima consultato la comunità palestinese, per verificare se fosse intenzionata a intraprendere un procedimento legale. La comunità ha scelto la strada del pragmatismo: consentire la costruzione illegale dell’impianto e rinunciare alla terra espropriata, per fermare il devastante inquinamento del terreno e sperare che la terra rimasta ritorni ad essere fertile. Non certo una vittoria, ma forse il male minore.
Ariel
La situazione di Ariel, a est di Elqana è molto simile. L’impianto per il trattamento delle acque qui è operativo ma non funziona a pieno regime, soprattutto non copre le reali necessita’ della colonia, che ha subito – da quando è stata costruita nei primi anni Novanta – un boom demografico a ritmi serrati, con un aumento della popolazione da 10.000 a oltre 60.000 coloni. In aggiunta, anche gli scarichi di rifiuti tossici e fanghi attivi esausti prodotti dalla vicina area industriale di Barkan, si riversano nella vallata palestinese. Ancora una volta le procedure di smaltimento dei rifiuti industriali in Cisgiordania seguono una legislazione meno ferrea rispetto a quella in vigore in Israele, cosa che ha favorito il trasferimento di molte aziende proprio in territorio occupato.
Sia Ariel che Barkan scaricano i loro rifiuti nella vicina Salfit, palestinese, avvelenando i campi e inquinando l’ambiente. L’area presentava gia’ preoccupanti problematiche per il trattamento delle acque reflue palestinesi, dato che Salfit stessa non è dotata di alcun impianto. Tra i 60 e i 70 milioni di shekel sono stati dati al municipio di Salfit dal governo tedesco per l’installazione di un efficace sistema di smaltimento. L’amministrazione civile israeliana, che ha pieno controllo sull’area C della Cisgiordania, ha richiesto che Ariel potesse essere allacciata allo stesso sistema e quando l’amministrazione di Salfit ha rifiutato, e’ stata costretta a restituire al governo tedesco il denaro gia’versato. Attualmente, sia i liquami di Salfit che di Ariel, si riversano nell’ambiente circostante.
Revava
Revava è un altra colonia con infrastrutture insufficienti per coprire il trattamento di depurazione dei liquami. Le acque di scarico scorrono abbondantemente nella vallata fino a uno o due miglia lontano dalla colonia. All’interno della colonia, un lavoratore palestinese (ironicamente molti lavoratori palestinesi sono costretti a lavorare proprio nelle colonie, non avendo altra scelta) ci ha spiegato che Revava e’ dotata di una cisterna per il raccoglimento delle acque reflue: la cisterna si riempie in tempi brevi perche’ insufficiente a coprire le esigenze di tutti i coloni, tanto che periodicamente le acque si riversano nella vallata. I residenti palestinesi del vicino uliveto hanno rinunciato a venire qui, sia per l’odore nausenate che per la presenza degli insetti.
Quando abbiamo visitato la vallata l’abbiamo trovata asciutta. Ad una più attenta indagine, ci siamo resi conto che, proprio tutto intorno all’insediamento, i coloni hanno scavato profonde voragini, per fare da contenimento alle acque di scarico ed evitare che rifluiscano direttamente nella vallata, in modo da non destare l’attenzione o i reclami dei residenti palestinesi.
“L’occupazione crea una realta’ ecologica che non è sostenibile”, dice Dror Etkes diYesh Din. “Non si tratta solo di un outpost o di una colonia da cui fuoriesce acqua inquinata.” E’ evidente che per il singolo residente palestinese o la singola comunita’, la cui terra è stata espropriata o inquinata, anche una minima iniziativa legale assume un significato capitale. “La realta’ pero’ – prosegue Dror Etkes – e’ che la ‘grande architettura’ messa in piedi dall’occupazione, oltre ad essere illegale, non e’ a lungo termine sostenibile.” Le colonie solo in alcuni casi rispondono ad un aumento demografico accelerato: e’ vero che le abitazioni negli insediamenti sono spesso incomplete quando i coloni vi si trasferiscono. Ma come tutto il sistema politico dell’occupazione, la priorità è accelerare la costruzione per creare una realta’ di fatto sul terreno, che difficilmente potra’ essere modificata in seguito. Paradossalmente, Yesh Din è stata accusata dalle organizzazioni di coloni di “non essere interessata anzi di impedire la tutela dell’ambiente”, come nel caso dello stop ai lavori di costruzione dell’impianto di Ofra, “bloccata – a detta dei coloni – a spese dell’ambiente”.
Oggi il cartello (in ebraico) dell’impianto ancora incompleto, ma presto funzionante, di Elqana recita: “l’impianto e’ costruito a vantaggio dei residenti.” Come sempre, il ‘vantaggio’ e’ sempre e solo quello dei coloni. (Nena-news)
Le acque reflue prodotte dai coloni in Cisgiordania si riversano nelle terre palestinesi, distruggendo i campi, inquinando le sorgenti, danneggiando la terra e il paesaggio.
REPORTAGE DI BARBARA ANTONELLI E NICOLAS HELM-GROVAS, Gerusalemme, 1 luglio 2010, Nena News (foto da www.palestinemonitor.org)- Le acque reflue prodotte in Cisgiordania, sia dalle colonie israeliane che dalle comunita’ palestinesi, ammontano a circa 91 milioni di metri cubi ogni anno: l’equivalente dell’acqua contenuta in 36.400 piscine olimpiche. La maggior parte di queste acque di scarico non riceve alcun trattamento di depurazione. Gli agenti contaminanti -sia organici che inorganici- si riversano direttamente in Cisgiordania, con conseguenze devastanti per l’inquinamento sia del territorio che del Massiccio Acquifero, la piu’ importante risorsa di approvvigionamento idrico per israeliani e palestinesi. In 43 anni di occupazione le autorita’ israeliane non si sono curate minimamente di installare impianti per il trattamento delle acque di scarico nelle 121 colonie sparse in tutta la Cisgiordania: le colonie soltanto producono 17,5 metri cubi all’anno di acque impure. Secondo un dettagliato report dell’organizzazione israeliana Bt’selem del 2009, su 121 colonie solo 81 sono dotate di impianti per il trattamento delle acque reflue. Alcuni dei quali usano metodologie superate, non seguono gli standard adottati in Israele o sono inadatti a coprire le necessita’ di colonie, la cui popolazione ha subito in pochi anni un boom demografico impressionante.
Altre strutture non funzionano a pieno regime o sono state parzialmente o del tutto disattivate, con la conseguenza che 5,5 milioni di metri cubi di acque reflue prodotte dalle colonie non ricevono alcun trattamento, riversandosi nelle vallate palestinesi. Le leggi a tutela dell’ambiente, in vigore in Israele, vengono ignorate nelle colonie. Cosi capita che le abitazioni degli insediamenti siano occupate da intere famiglie prima che i sistemi di depurazione e fognari siano completamente funzionanti o che industrie costruite su territorio occupato, inizino a funzionare a pieno regime, senza che siano dotate di sistemi di smaltimento a norma per le sostanze tossiche e i rifiuti. E’ indicativo che il Ministero israeliano per la tutela dell’ambiente abbia seguito – dal 2000 al 2009 – solo 53 casi per il malfunzionamento degli impianti nelle colonie, mentre lo stesso Ministero ha preso in esame 230 casi in Israele, solo nel 2006. Un farwest di leggi selvagge imperversa nelle colonie in Cisgiordania e al Ministero dell’ambiente fa comodo che sia cosi.
Anche il 90% delle acque reflue prodotte dai palestinesi non viene trattato. E anche qui le regole del gioco le decide Israele: l’amministrazione civile negli ultimi 15 anni non ha approvato progetti per gli impianti di depurazione dei liquami urbani, presentati da istituzioni palestinesi, con i fondi europei o internazionali; in altri casi li avrebbe approvati solo con la condizione di poter collegare a quegli stessi impianti anche le colonie.
Sempre Israele ha imposto all’Autorita’ Palestinese di costruire impianti all’avanguardia (non usati nemmeno in Israele) che rispondono a parametri che neanche l’Organizzazione Mondiale della Sanita’ richiede; cosa che fa aumentare i costi di costruzione, operativi e di mantenimento. Con la conseguenza che sia USA che Germania, principali finaziatori di tali impianti, hanno ridotto in modo considerevole i finanziamenti all’ANP per questo tipo di progetti.
Il sistema che rifornisce acqua alle colonie e’ inoltre gestito direttamente da Israele, quindi, che le acque reflue inquinino o meno l’ambiente palestinese circostante, non intacca minimamente la qualita’ dell’acqua potabile destinata ai coloni. Al contrario, villaggi o intere comunita’ palestinesi fanno affidamento sulle risorse idriche naturali; pertanto l’inquinamento delle falde acquifere prodotto dalle colonie, aggrava ulteriormente le gia’ drammatiche condizioni dell’accesso all’acqua potabile per i palestinesi. Con devastanti conseguenze anche per l’agricoltura, dato che le acque reflue inquinano il terreno, contaminano i campi, diminuiscono la fertilita’della terra.
Il problema si aggrava nelle aree industriali israeliane costruite in Cisgiordania. La piu’ estesa, quella di Barkan nel distretto di Nablus, vede almeno 80 industrie operative, che producono alluminio, vetroresina, pesticidi, componenti per l’industria militare. Dal 1982, Israele ha ricollocato le industrie piu’ inquinanti all’interno della Cisgiordania, danneggiando interee aree palestinesi. Un esempio tra tutte, la Geshuri industries, un’industria di pesticidi ricollocata nel 1987 in un’area adiacente a Tulkarem. Industrie che scaricano nelle vallate sottostanti rifiuti chimici non trattati.
Con l’ associazione israeliana Yesh Din, abbiamo preso in esame tre diversi casi, in tre diverse colonie, indicativi delle problematiche legate al mancato trattamento delle acque reflue, ma anche delle contraddizioni legate a un sistema di occupazione che si e’ ormai cristallizzato.
Elqana
Proprio a nord della statale 5, vicino Qalqilya a nord della Cisgiordania, nella vallata che dalla colonia scende giu’, un tubo di scarico pompa liquami urbani direttamente nelle terre palestinesi e nel piccolo torrente, principale risorsa idrica della vicina Az-Zawiya, a cui appartengono quelle terre.
Sulla collina, due grandi contenitori in allestimento indicano che l’impianto di purificazione dell’acqua della colonia e’ in fase di costruzione. Un’impresa che e’ il frutto della Compagnia per l’Economia dell’amministrazione locale e che dovrebbe mettere un freno al libero rifluire dei liquami nelle terre palestinesi. L’impianto e’ stato costruito illegalmente anche secondo la giurisdizione israeliana, al di fuori del perimetro della colonia, espropriando due ‘dunum’ di terra ai legittimi proprietari palestinesi.
La ONG Yesh Din segue diversi casi, per conto di comunita’ palestinesi, contro le attivita’ di costruzioni illegali anche secondo la legge di Israele, le uniche per le quali ci si puo’ appellare al sistema giuridico israeliano. Un anno fa, in una situazione simile riguardante la colonia di Ofra, vicino Silwad, gli avvocati di Yesh Din sono riusciti a congelare la costruzione di un impianto per il trattamento delle acque, ricorrendo alla Corte. Un impianto costruito senza permesso regolare e su terra espropriata a due famiglie palestinesi, rappresentate da Yesh Din. La Corte ha deciso l’immediato stop dei lavori della struttura, completata quasi al 90%. Dal momento dell’interruzione dei lavori, la colonia continua a riversare i liquami di scarico nelle terre palestinesi circostanti. Un caso che illustra bene il dilemma tra applicazione del diritto e pragmatismo: se le colonie si dotano di strutture per lo smaltimento delle acque reflue, consolidano ancora di più sul terreno il sistema illegale dell’occupazione. Se invece ci si appella al diritto israeliano, qualora possibile, si lascia però che l’inquinamento ambientale sia perpetrato impunemente, a scapito ancora una volta delle comunita’ palestinesi.
Nel caso della colonia di Elqana, il team di Yesh Din ha prima consultato la comunità palestinese, per verificare se fosse intenzionata a intraprendere un procedimento legale. La comunità ha scelto la strada del pragmatismo: consentire la costruzione illegale dell’impianto e rinunciare alla terra espropriata, per fermare il devastante inquinamento del terreno e sperare che la terra rimasta ritorni ad essere fertile. Non certo una vittoria, ma forse il male minore.
Ariel
La situazione di Ariel, a est di Elqana è molto simile. L’impianto per il trattamento delle acque qui è operativo ma non funziona a pieno regime, soprattutto non copre le reali necessita’ della colonia, che ha subito – da quando è stata costruita nei primi anni Novanta – un boom demografico a ritmi serrati, con un aumento della popolazione da 10.000 a oltre 60.000 coloni. In aggiunta, anche gli scarichi di rifiuti tossici e fanghi attivi esausti prodotti dalla vicina area industriale di Barkan, si riversano nella vallata palestinese. Ancora una volta le procedure di smaltimento dei rifiuti industriali in Cisgiordania seguono una legislazione meno ferrea rispetto a quella in vigore in Israele, cosa che ha favorito il trasferimento di molte aziende proprio in territorio occupato.
Sia Ariel che Barkan scaricano i loro rifiuti nella vicina Salfit, palestinese, avvelenando i campi e inquinando l’ambiente. L’area presentava gia’ preoccupanti problematiche per il trattamento delle acque reflue palestinesi, dato che Salfit stessa non è dotata di alcun impianto. Tra i 60 e i 70 milioni di shekel sono stati dati al municipio di Salfit dal governo tedesco per l’installazione di un efficace sistema di smaltimento. L’amministrazione civile israeliana, che ha pieno controllo sull’area C della Cisgiordania, ha richiesto che Ariel potesse essere allacciata allo stesso sistema e quando l’amministrazione di Salfit ha rifiutato, e’ stata costretta a restituire al governo tedesco il denaro gia’versato. Attualmente, sia i liquami di Salfit che di Ariel, si riversano nell’ambiente circostante.
Revava
Revava è un altra colonia con infrastrutture insufficienti per coprire il trattamento di depurazione dei liquami. Le acque di scarico scorrono abbondantemente nella vallata fino a uno o due miglia lontano dalla colonia. All’interno della colonia, un lavoratore palestinese (ironicamente molti lavoratori palestinesi sono costretti a lavorare proprio nelle colonie, non avendo altra scelta) ci ha spiegato che Revava e’ dotata di una cisterna per il raccoglimento delle acque reflue: la cisterna si riempie in tempi brevi perche’ insufficiente a coprire le esigenze di tutti i coloni, tanto che periodicamente le acque si riversano nella vallata. I residenti palestinesi del vicino uliveto hanno rinunciato a venire qui, sia per l’odore nausenate che per la presenza degli insetti.
Quando abbiamo visitato la vallata l’abbiamo trovata asciutta. Ad una più attenta indagine, ci siamo resi conto che, proprio tutto intorno all’insediamento, i coloni hanno scavato profonde voragini, per fare da contenimento alle acque di scarico ed evitare che rifluiscano direttamente nella vallata, in modo da non destare l’attenzione o i reclami dei residenti palestinesi.
“L’occupazione crea una realta’ ecologica che non è sostenibile”, dice Dror Etkes diYesh Din. “Non si tratta solo di un outpost o di una colonia da cui fuoriesce acqua inquinata.” E’ evidente che per il singolo residente palestinese o la singola comunita’, la cui terra è stata espropriata o inquinata, anche una minima iniziativa legale assume un significato capitale. “La realta’ pero’ – prosegue Dror Etkes – e’ che la ‘grande architettura’ messa in piedi dall’occupazione, oltre ad essere illegale, non e’ a lungo termine sostenibile.” Le colonie solo in alcuni casi rispondono ad un aumento demografico accelerato: e’ vero che le abitazioni negli insediamenti sono spesso incomplete quando i coloni vi si trasferiscono. Ma come tutto il sistema politico dell’occupazione, la priorità è accelerare la costruzione per creare una realta’ di fatto sul terreno, che difficilmente potra’ essere modificata in seguito. Paradossalmente, Yesh Din è stata accusata dalle organizzazioni di coloni di “non essere interessata anzi di impedire la tutela dell’ambiente”, come nel caso dello stop ai lavori di costruzione dell’impianto di Ofra, “bloccata – a detta dei coloni – a spese dell’ambiente”.
Oggi il cartello (in ebraico) dell’impianto ancora incompleto, ma presto funzionante, di Elqana recita: “l’impianto e’ costruito a vantaggio dei residenti.” Come sempre, il ‘vantaggio’ e’ sempre e solo quello dei coloni. (Nena-news)
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