ISRAELE: NO COMMENT SULLA RIVOLUZIONE D’EGITTO
Il premier Netanyahu ha imposto un totale silenzio stampa a ministri, diplomati e personale governativo sugli avvenimenti in Egitto.
Gerusalemme, 29 giugno 2011 – Una situazione volatile, dicono da Tel Aviv. Ma sulla quale il premier Netanyahu ha imposto un totale silenzio stampa a ministri, diplomati e personale governativo. No comment, afferma il premier.
Si sa che il governo israeliano sta in queste ore tifando per Mubarak «pedina – dice qualcuno – fondamentale del sistema di sicurezza regionale», e parte attiva non solo nel tenere sotto il tallone i Fratelli Musulmani in Egitto ma anche nell’assedio di 1,5 milioni di palestinesi della Striscia di Gaza dove è al potere Hamas. L’Egitto non è la Tunisia, sintetizzava ieri l’ex ambasciatore israeliano al Cairo, Gideon Ben-Ami, certo che il sistema repressivo di Mubarak abbia i mezzi per sfuggire all’epilogo di Tunisi, segnato dalla precipitosa fuga del presidente Ben Ali. «In Egitto – ha spiegato Ben Ami – ci sono forze di sicurezza e servizi d’intelligence che sanno far fronte alla situazione nel caso d’una minaccia alla sopravvivenza (del regime). E hanno già cominciato ad agire di conseguenza».
Dal ministero degli Esteri israeliano rimangono sotto costante monitoraggio, ora dopo ora, gli avvenimenti in Egitto. Liebermann, in stretto contatto con l’ambasciatore israeliano al Cairo, rassicura i turisti israeliani e il personale diplomatico presente in Egitto. Ma secondo il Jerusalem Post, la compagnia El Al sta cercando in queste ore di far rientrare almeno 200 turisti israeliani nel paese, organizzando un volo speciale dall’aeroporto della capitale.
Intanto sulla stampa israeliana e non solo si aprono i possibili scenari di allenaze tra Israele e i paesi arabi, alla luce della rivoluzione che scuote proprio il primo paese (tra quelli arabi appunto) a firmare un trattato di pace con lo Stato ebraico. Quella pace che dagli anni Ottanta in poi, fa notare l’editorialista Aluf Benn in un articolo apparso oggi sulla versione on-line del quotidiano Ha’aretz, ha consentito a Isreale di tagliare il suo budget destinato alla difesa, con grandi benefici per l’economia del paese. Nena News
domenica 30 gennaio 2011
sabato 29 gennaio 2011
Vittime dell'Olocausto
"Ognuno è ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele."
(Primo Levi)
"Di fronte alle sofferenze degli afroamericani, dei vietnamiti e dei palestinesi, il credo di mia madre fu sempre: siamo tutti vittime dell'Olocausto".
(Norman G. Finkelstein, Introduzione a "L'industria dell'Olocausto")
«Mia nonna fu uccisa da un soldato tedesco mentre era a letto malata. Mia nonna non è morta per fornire ai soldati israeliani la scusa storica per ammazzare le nonne palestinesi a Gaza. L’attuale governo israeliano sfrutta cinicamente e senza limiti il senso di colpa dei gentili per l’olocausto onde giustificare i suoi omicidii in Palestina».
(Sir Gerald Kaufman, membro del Parlamento britannico)
(Primo Levi)
"Di fronte alle sofferenze degli afroamericani, dei vietnamiti e dei palestinesi, il credo di mia madre fu sempre: siamo tutti vittime dell'Olocausto".
(Norman G. Finkelstein, Introduzione a "L'industria dell'Olocausto")
«Mia nonna fu uccisa da un soldato tedesco mentre era a letto malata. Mia nonna non è morta per fornire ai soldati israeliani la scusa storica per ammazzare le nonne palestinesi a Gaza. L’attuale governo israeliano sfrutta cinicamente e senza limiti il senso di colpa dei gentili per l’olocausto onde giustificare i suoi omicidii in Palestina».
(Sir Gerald Kaufman, membro del Parlamento britannico)
venerdì 28 gennaio 2011
Memoria
Ieri 27 gennaio si è celebrata la giornata della memoria ricordando la Shoah e in sott'ordine il genocidio degli zingari e degli omosessuali e oppositori politici. Ci piacerebbe che la memoria non fosse così selettiva e che insieme a questi orribili crimini si ricordassero anche i morti della pulizia etnica a danno dei palestinesi e cioè della Nakba, pulizia etnica che continua indisturbata tuttora. Ci piacerebbe che si ricordassero i milioni di morti del colonialismo e di altre stragi e genocidii.
Si potrà veramente dire "Mai più" solo quando ciò avverrà, ma da questo siamo molto lontani perchè i morti non hanno tutti lo stesso peso e ieri come oggi anche queste tragedie vengono strumentalizzate e recepite importanti o meno a seconda degli interessi economici e politici dei potenti.
Oggi in Egitto, come prima in Tunisia e nello Yemen assistiamo alla ribellione delle masse popolari che alzano la testa e con immenso coraggio si ribellano ai loro dittatori. Ma a volte questi oscuri personaggi sono alleati, contro il loro popolo, dell'imperialismo occidentale e allora non si possono toccare.
Mentre il dittatore Mubarak fa strage di manifestanti e isola il paese chiudendo internet e perfino le linee telefoniche, impedendo perfino l'uso dei cellulari e la possibilità di inviare messaggi, cosa che fin'ora non aveva fatto nessuno, mentre fa sparire migliaia di persone, mentre spara su giornalisti e cameramen, mentre impedisce il lavoro degli avvocati e promette nuovo sangue dobbiamo sentire le ridicole esternazioni di Frattini e il presidente americano Obama, rivelatosi peggio di Bush che appoggia e difende il dittatore, infatti i più atroci personaggi sono definiti moderati nella misura in cui sono alleati dell'occidente. Assieme agli USA che hanno una lunga tradizione di crimini ai danni di altri popoli, compreso quello che hanno sterminato prima di fondare il loro paese, anche l'Italia, il paese dei postriboli, appoggia il dittatore, è un'oscenità e una vergogna.
Si potrà veramente dire "Mai più" solo quando ciò avverrà, ma da questo siamo molto lontani perchè i morti non hanno tutti lo stesso peso e ieri come oggi anche queste tragedie vengono strumentalizzate e recepite importanti o meno a seconda degli interessi economici e politici dei potenti.
Oggi in Egitto, come prima in Tunisia e nello Yemen assistiamo alla ribellione delle masse popolari che alzano la testa e con immenso coraggio si ribellano ai loro dittatori. Ma a volte questi oscuri personaggi sono alleati, contro il loro popolo, dell'imperialismo occidentale e allora non si possono toccare.
Mentre il dittatore Mubarak fa strage di manifestanti e isola il paese chiudendo internet e perfino le linee telefoniche, impedendo perfino l'uso dei cellulari e la possibilità di inviare messaggi, cosa che fin'ora non aveva fatto nessuno, mentre fa sparire migliaia di persone, mentre spara su giornalisti e cameramen, mentre impedisce il lavoro degli avvocati e promette nuovo sangue dobbiamo sentire le ridicole esternazioni di Frattini e il presidente americano Obama, rivelatosi peggio di Bush che appoggia e difende il dittatore, infatti i più atroci personaggi sono definiti moderati nella misura in cui sono alleati dell'occidente. Assieme agli USA che hanno una lunga tradizione di crimini ai danni di altri popoli, compreso quello che hanno sterminato prima di fondare il loro paese, anche l'Italia, il paese dei postriboli, appoggia il dittatore, è un'oscenità e una vergogna.
giovedì 27 gennaio 2011
WASHINGTON CORRE IN SOSTEGNO DI MUBARAK
L’Egitto non è la Tunisia per gli Stati Uniti. Il Segretario di stato Clinton appoggia il dittatore egiziano. Per gli Usa contano solo il ruolo «moderato» dell’Egitto nel conflitto israelo-palestinese e la repressione degli islamisti. Guarda il video delle manifestazioni di ieri al Cairo.
Roma, 26 gennaio 2011, Nena News – Barack Obama sostiene il diritto dei tunisini alla democrazia, alla libertà e a migliori condizioni di vita ma lo nega agli egiziani. Il governo guidato dal presidente egiziano Hosni Mubarak «è stabile e sta cercando soluzioni per rispondere alle legittime necessità della popolazione». Così si è espressa ieri il Segretario di stato americano, Hillary Clinton, commentando le imponenti manifestazioni antigovernative che si sono tenute in tutte le principali città egiziane e in cui sono rimasti uccisi tre dimostranti (a Suez) e un poliziotto (al Cairo). Una posizione che spiega bene l’idea che l’Amministrazione Usa ha della democrazia in Medio Oriente e in Nordafrica: i popoli arabi devono rimanere sotto il tallone di regimi brutali se questi svolgono una politica favorevole agli interessi americani nella regione e compiacente nei confronti di Israele. E’ questo il caso dell’Egitto, paese molto diverso dalla Tunisia nelle strategie americane per il ruolo «moderato» che svolge da decenni nel conflitto israelo-palestinese e per la repressione sistematica dei Fratelli Musulmani, ritenuta la più consistente delle forze di opposizione in Egitto. Non solo Washignton ma tutti i governi occidentali rimangono in silenzio di fronte alle farse elettorali organizzate dal regime egiziano – che si concludono immancabilmente con la vittoria schiacciante del partito di Mubarak – perchè elezioni libere e trasparenti potrebbe portare al potere gli islamisti e forze progressiste che, tra le altre cose, si oppongono alla politica compiacente verso gli Usa e Israele che svolge il presidente egiziano, al potere da ben 30 anni.
Nena News vi propone un articolo pubblicato il 26 gennaio 2001 dal quotidiano il Manifesto che fa il punto sulla rivolta del «Pane e Libertà» che infiamma l’Egitto
E ORA BRUCIA ANCHE L’EGITTO
Brucia anche l’Egitto, sull’onda della rivolta tunisina, come non accadeva dal 1967, quando l’inattesa e umiliante sconfitta del Paese nella «Guerra dei Sei Giorni» fece scendere in strada milioni di cittadini. Al grido di «Via Mubarak», «Pane, lavoro e salario minimo», «Libertà e fine delle leggi d’emergenza», ieri centinaia di migliaia di egiziani – un milione secondo fonti non ufficiali – hanno invaso le strade del Cairo e di Alessandria, della città operaia di Mahalla, Assiut, Port Said, e anche di el Arish e Mahdia nel «prospero» Sinai e di città di solito «tranquille», come Tanta. E hanno scelto di farlo proprio nel «Giorno della Polizia», una delle ricorrenze più amate dal regime.
Nei centri periferici sono state protagoniste le donne, soprattutto quelle più povere che ogni giorno con pochi pound in tasca devono fare i salti mortali per assicurare almeno un pasto alla loro famiglia. Hanno invaso le strade spingendo figli e mariti a fare altrettanto, a non temere la reazione della polizia. Un movimento ampio, oltre ogni previsione, che ha dato un forte scossone al regime del presidente-faraone Hosni Mubarak, incollato alla poltrona del potere da trent’anni e che intende candidarsi per l’ennesimo mandato alle elezioni del prossimo autunno o passare lo scettro al figlio Gamal, «economista» paladino delle privatizzazioni e della riduzione dei sussidi statali ai più poveri. Gamal ieri è partito con la famiglia per la Gran Bretagna spaventato dall’ampiezza della rivolta.
Ma le manifestazioni egiziane hanno messo in forte allarme anche i governi occidentali, protettori del «moderato» Mubarak e incuranti delle violazioni dei diritti umani, delle torture nelle carceri, dei diritti politici negati in Egitto. Lo rivela l’intervento del Segretario di stato Usa Hillary Clinton che ha chiesto a «tutte le parti» di mettere fine agli scontri. Washington teme di perdere il suo principale alleato in Medioriente dopo aver già perduto Ben Ali. Mubarak ha dalla sua parte l’esercito, a differenza del dittatore tunisino costretto alla fuga, ma non è detto che il fermento in atto nel paese non spinga i vertici militari a favorire soluzioni diverse dal semplice passaggio del potere da Murabak padre a Mubarak figlio del quale si parla da anni.
Ieri sera migliaia di egiziani occupavano Piazza Tahrir, sede di diversi palazzi delle istituzioni, decisi a resistere, con cibo e coperte, fino a quando non saranno accolte le loro richieste, a partire dall’uscita di scena di Mubarak. A nulla è servito il dispiegamento nella capitale e in altri centri di 30 mila agenti dei reparti antisommossa che le hanno tentate tutte – ma non hanno sparato – per respingere la folla che, ad esempio, al Cairo voleva bloccare l’ingresso dell’Assemblea del Popolo (è stato smentito invece un tentativo di invasione del Museo Egizio). Idranti, lacrimogeni, percosse, manganellate e calci non sono bastati a respingere chi scandiva «Via Mubarak» e «Pane e lavoro». «Ho fame, mi puoi arrestare, mi puoi anche uccidere, non mi importa, ma io ho fame», urlavano alcuni manifestanti. Oltre a decine di feriti e centinaia di arresti, ieri ci sono stati almeno tre morti: due manifestanti a Suez, uno dei quali ucciso da un proiettile di gomma, e un agente di polizia caduto e calpestato dalla folla.
Il successo delle proteste popolari ha sorpreso il raìs, il governo e anche l’opposizione che in parte si è tenuta a distanza dalla strade. A questa storica giornata l’opposizione è giunta divisa. Hanno avuto ragione il gruppo Kifaya e il movimento del «6 aprile», entrambi espressione della società civile, che hanno lavorato per giorni per organizzare, anche grazie a internet, le proteste e non si sono fatti intimidire dalle minacce della polizia che ha compiuto un centinaio di arresti preventivi nella notte tra lunedì e martedì. I due gruppi hanno mobilitato i propri sostenitori ponendo l’accento sulle politiche economiche del regime che stanno affamando un numero crescente di egiziani. Recriminano in queste ore alcuni leader dell’opposizione, come quelli del partito di sinistra Tagammu che avevano chiesto ai propri militanti di rimanere a casa.
Ambigua, come spesso accade, la posizione dei Fratelli musulmani, la più consistente forza di opposizione, che non ha aderito alle manifestazioni anti-Mubarak ma ha lasciato liberi i propri militanti di decidere. E ha avuto torto anche il più noto degli oppositori di Mubarak, Mohammed ElBaradei, che dopo aver rivolto un appello alla «cacciata» del presidente, ha scelto di rimanere all’estero e di non rientrare. «Dopo i brogli ai quali abbiamo assistito alle elezioni parlamentari egiziane e la rivolta tunisina, chi si rifiuta di manifestare (contro il regime) scrive una pagina nera nella nostra storia», ha avvertito Mohammed Abdel Aziz di Kifaya.
Pesa come un macigno anche la decisione della Chiesa copta di vietare ai cristiani di partecipare alle proteste popolari. L’avvocato Neguib Gobriel, attivista dei diritti umani, ha speigato che queste manifestazioni «non portano alcun beneficio» ai copti. «Non viene richiesta l’abolizione di leggi che ci discriminano, non verrà chiesta maggiore libertà per ristrutturare o costruire nuove chiese. Le dimostrazioni di oggi non sono affare nostro», ha detto. Ma forse a tenere i copti lontano dalle piazze è stato soprattutto il favore con cui i cristiani d’Egitto guardano, nonostante tutto, al regime, nel timore che la rivolta contro Mubarak apra la strada al radicalismo religioso.
Roma, 26 gennaio 2011, Nena News – Barack Obama sostiene il diritto dei tunisini alla democrazia, alla libertà e a migliori condizioni di vita ma lo nega agli egiziani. Il governo guidato dal presidente egiziano Hosni Mubarak «è stabile e sta cercando soluzioni per rispondere alle legittime necessità della popolazione». Così si è espressa ieri il Segretario di stato americano, Hillary Clinton, commentando le imponenti manifestazioni antigovernative che si sono tenute in tutte le principali città egiziane e in cui sono rimasti uccisi tre dimostranti (a Suez) e un poliziotto (al Cairo). Una posizione che spiega bene l’idea che l’Amministrazione Usa ha della democrazia in Medio Oriente e in Nordafrica: i popoli arabi devono rimanere sotto il tallone di regimi brutali se questi svolgono una politica favorevole agli interessi americani nella regione e compiacente nei confronti di Israele. E’ questo il caso dell’Egitto, paese molto diverso dalla Tunisia nelle strategie americane per il ruolo «moderato» che svolge da decenni nel conflitto israelo-palestinese e per la repressione sistematica dei Fratelli Musulmani, ritenuta la più consistente delle forze di opposizione in Egitto. Non solo Washignton ma tutti i governi occidentali rimangono in silenzio di fronte alle farse elettorali organizzate dal regime egiziano – che si concludono immancabilmente con la vittoria schiacciante del partito di Mubarak – perchè elezioni libere e trasparenti potrebbe portare al potere gli islamisti e forze progressiste che, tra le altre cose, si oppongono alla politica compiacente verso gli Usa e Israele che svolge il presidente egiziano, al potere da ben 30 anni.
Nena News vi propone un articolo pubblicato il 26 gennaio 2001 dal quotidiano il Manifesto che fa il punto sulla rivolta del «Pane e Libertà» che infiamma l’Egitto
E ORA BRUCIA ANCHE L’EGITTO
Brucia anche l’Egitto, sull’onda della rivolta tunisina, come non accadeva dal 1967, quando l’inattesa e umiliante sconfitta del Paese nella «Guerra dei Sei Giorni» fece scendere in strada milioni di cittadini. Al grido di «Via Mubarak», «Pane, lavoro e salario minimo», «Libertà e fine delle leggi d’emergenza», ieri centinaia di migliaia di egiziani – un milione secondo fonti non ufficiali – hanno invaso le strade del Cairo e di Alessandria, della città operaia di Mahalla, Assiut, Port Said, e anche di el Arish e Mahdia nel «prospero» Sinai e di città di solito «tranquille», come Tanta. E hanno scelto di farlo proprio nel «Giorno della Polizia», una delle ricorrenze più amate dal regime.
Nei centri periferici sono state protagoniste le donne, soprattutto quelle più povere che ogni giorno con pochi pound in tasca devono fare i salti mortali per assicurare almeno un pasto alla loro famiglia. Hanno invaso le strade spingendo figli e mariti a fare altrettanto, a non temere la reazione della polizia. Un movimento ampio, oltre ogni previsione, che ha dato un forte scossone al regime del presidente-faraone Hosni Mubarak, incollato alla poltrona del potere da trent’anni e che intende candidarsi per l’ennesimo mandato alle elezioni del prossimo autunno o passare lo scettro al figlio Gamal, «economista» paladino delle privatizzazioni e della riduzione dei sussidi statali ai più poveri. Gamal ieri è partito con la famiglia per la Gran Bretagna spaventato dall’ampiezza della rivolta.
Ma le manifestazioni egiziane hanno messo in forte allarme anche i governi occidentali, protettori del «moderato» Mubarak e incuranti delle violazioni dei diritti umani, delle torture nelle carceri, dei diritti politici negati in Egitto. Lo rivela l’intervento del Segretario di stato Usa Hillary Clinton che ha chiesto a «tutte le parti» di mettere fine agli scontri. Washington teme di perdere il suo principale alleato in Medioriente dopo aver già perduto Ben Ali. Mubarak ha dalla sua parte l’esercito, a differenza del dittatore tunisino costretto alla fuga, ma non è detto che il fermento in atto nel paese non spinga i vertici militari a favorire soluzioni diverse dal semplice passaggio del potere da Murabak padre a Mubarak figlio del quale si parla da anni.
Ieri sera migliaia di egiziani occupavano Piazza Tahrir, sede di diversi palazzi delle istituzioni, decisi a resistere, con cibo e coperte, fino a quando non saranno accolte le loro richieste, a partire dall’uscita di scena di Mubarak. A nulla è servito il dispiegamento nella capitale e in altri centri di 30 mila agenti dei reparti antisommossa che le hanno tentate tutte – ma non hanno sparato – per respingere la folla che, ad esempio, al Cairo voleva bloccare l’ingresso dell’Assemblea del Popolo (è stato smentito invece un tentativo di invasione del Museo Egizio). Idranti, lacrimogeni, percosse, manganellate e calci non sono bastati a respingere chi scandiva «Via Mubarak» e «Pane e lavoro». «Ho fame, mi puoi arrestare, mi puoi anche uccidere, non mi importa, ma io ho fame», urlavano alcuni manifestanti. Oltre a decine di feriti e centinaia di arresti, ieri ci sono stati almeno tre morti: due manifestanti a Suez, uno dei quali ucciso da un proiettile di gomma, e un agente di polizia caduto e calpestato dalla folla.
Il successo delle proteste popolari ha sorpreso il raìs, il governo e anche l’opposizione che in parte si è tenuta a distanza dalla strade. A questa storica giornata l’opposizione è giunta divisa. Hanno avuto ragione il gruppo Kifaya e il movimento del «6 aprile», entrambi espressione della società civile, che hanno lavorato per giorni per organizzare, anche grazie a internet, le proteste e non si sono fatti intimidire dalle minacce della polizia che ha compiuto un centinaio di arresti preventivi nella notte tra lunedì e martedì. I due gruppi hanno mobilitato i propri sostenitori ponendo l’accento sulle politiche economiche del regime che stanno affamando un numero crescente di egiziani. Recriminano in queste ore alcuni leader dell’opposizione, come quelli del partito di sinistra Tagammu che avevano chiesto ai propri militanti di rimanere a casa.
Ambigua, come spesso accade, la posizione dei Fratelli musulmani, la più consistente forza di opposizione, che non ha aderito alle manifestazioni anti-Mubarak ma ha lasciato liberi i propri militanti di decidere. E ha avuto torto anche il più noto degli oppositori di Mubarak, Mohammed ElBaradei, che dopo aver rivolto un appello alla «cacciata» del presidente, ha scelto di rimanere all’estero e di non rientrare. «Dopo i brogli ai quali abbiamo assistito alle elezioni parlamentari egiziane e la rivolta tunisina, chi si rifiuta di manifestare (contro il regime) scrive una pagina nera nella nostra storia», ha avvertito Mohammed Abdel Aziz di Kifaya.
Pesa come un macigno anche la decisione della Chiesa copta di vietare ai cristiani di partecipare alle proteste popolari. L’avvocato Neguib Gobriel, attivista dei diritti umani, ha speigato che queste manifestazioni «non portano alcun beneficio» ai copti. «Non viene richiesta l’abolizione di leggi che ci discriminano, non verrà chiesta maggiore libertà per ristrutturare o costruire nuove chiese. Le dimostrazioni di oggi non sono affare nostro», ha detto. Ma forse a tenere i copti lontano dalle piazze è stato soprattutto il favore con cui i cristiani d’Egitto guardano, nonostante tutto, al regime, nel timore che la rivolta contro Mubarak apra la strada al radicalismo religioso.
lunedì 24 gennaio 2011
GRAVISSIMO!!!ISRAELE ARRESTA L'AVVOCATO ADDAMEER
Addameer e' l'organizzazione che da anni garantisce sostegno ed
assistenza ai Palestinesi detenuti, in grandissima parte in
detenzione amministrativa, nelle carceri israeliane. E'
l'associazione che segue i tantissimi minori palestinesi detenuti da
Israele.
La Forza di Sicurezza Palestinese lo ha arrestato ed ha sequestrato i
documenti dei suoi assistiti.
E' gravissimo!!!!!!!!!!!!!!
Cosi' non si va da nessuna parte. Anzi, cosi' si comporta Israele!
Il Consiglio Palestinese delle associazioni per i Diritti Umani ha
condannato questo gravissimo atto.
In allegato il comunicato stampa.
Spero vivamente che le autorita' preposte facciano rapida
retromarcia, con le dovute scuse e promesse di mai piu' violare cosi'
ogni principio di diritto e le leggi indicate nel comunicato!
Altrimenti, vuol dire che Israele sta insinuando di nuovo nei
Palestinesi pericolosi germi di conflitto interno, che vanno al di
la' di ovvie e fisiologiche dialettiche politiche e sociali.
Flavia
The Palestinian Council of Human Rights Organizations Condemns the Arbitrary Arrest of Addameer Lawyer by the Palestinian Preventive Security Force
Ramallah, 23 January 2011
On the morning of 10 January, the Palestinian Authority’s Preventive Security Force (PSF) arrested Mazen Abu Aoun, a lawyer for Addameer Prisoner Support and Human Rights Association and long-time human rights defender, at his office in Jenin.
During the arrest operation, the PSF confiscated the confidential legal files of Palestinian prisoners represented by Mr. Abu Aoun on behalf of Addameer, as well as his cell phone. The PSF also seized further legal files, three computers, a printer and CD-ROMs in a simultaneous raid on his home.
Following his arrest, Mr. Abu Aoun was taken to the PSF headquarters in Jenin, where he was prevented from contacting his family or Addameer to inform them of his arrest. During his ten-hour-long detention, he was subjected to inhumane and degrading treatment, which included being made to stand for one hour with his arms held above his head and his hands against a wall.
The Palestinian Council of Human Rights Organizations (PCHRO) is greatly concerned that Mr. Abu Aoun’s arbitrary arrest sets a dangerous precedent in the increasing harassment of human rights organizations by the PSF and constitutes a further obstruction to these organizations’ work to defend Palestinian civil society.
Mr. Abu Aoun’s arrest was a clear violation of a number of provisions of Palestinian law, including the Palestinian Basic Law, the Code of Criminal Procedures No. 3 of 2001, and Act No. 3 of 1999 on the Organization of the Legal Profession. It further constitutes a violation of Articles 9 of the Universal Declaration of Human Rights and the International Covenant on Civil and Political Rights.
The PSF did not inform the Palestine Bar Association of Mr. Abu Aoun’s arrest and no Bar Association representative was present during his arrest, as required by Article 20 (1) (d) of Act No. 3 of 1999 on the Organization of the Legal Profession;
The PSF did not present Mr. Abu Aoun with an arrest warrant as required by Article 11 (2) of the Basic Law and Article 29 of the Code of Criminal Procedures No. 3 of 2001;
The PSF did not provide a search warrant for the inspection of Mr. Abu Aoun’s office and home as required by Article 11 (2) of the Basic Law and Article 39 (1) in the Code of Criminal Procedures No. 3 of 2001;
The PSF’s confiscation of Mr. Abu Aoun’s legal files, computers and cell phone took place without a judicial ruling as required by Article 21 (4) of the Basic Law;
The confiscation of the legal files of prisoners represented by Mr. Abu Aoun constitutes a breach of the confidentiality between lawyers and their clients in contravention of Principle 22 of the United Nations Basic Principles on the Role of Lawyers of 1990, which states that “Governments shall recognize and respect that all communications and consultations between lawyers and their clients within their professional relationship are confidential”.
Although the PSF later apologized to Mr. Abu Aoun and indicated that it would also extend an apology to Addameer, this has yet to happen.
Accordingly, the PCHRO calls on the PSF and the Palestinian Authority to:
Respect human rights and fundamental freedoms in accordance with the provisions of the Basic Law and the Universal Declaration of Human Rights;
Respect the rule of law and ensure its respect by law enforcement officials;
Condemn the PSF’s actions and hold all those who participated in the arrest accountable for their actions;
Ensure that lawyers and human rights defenders can perform their work without intimidation, hindrance, harassment, or any other improper interference;
Immediately cease any illegal or arbitrary interference in the work of human rights organizations.
In light of the Palestine Bar Association’s objectives of strengthening the rule of law and ensuring respect for human rights, the PCHRO also calls on the Association to fulfill its duty to protect lawyers and ensure that they are able to carry out their work effectively.
Addameer Prisoner Support and Human Rights Association
Aldameer Association for Human Rights
Al-Haq
Badil Resource Center for Palestinian Residency and Refugee Rights
The Civic Coalition for Defending Palestinians’ Rights in Jerusalem
Defence for Children International–Palestine Section
Ensan Center for Human Rights and Democracy
Jerusalem Center for Legal Aid and Human Rights
Women’s Center for Legal Aid and Counselling
Ramallah Center for Human Rights Studies
assistenza ai Palestinesi detenuti, in grandissima parte in
detenzione amministrativa, nelle carceri israeliane. E'
l'associazione che segue i tantissimi minori palestinesi detenuti da
Israele.
La Forza di Sicurezza Palestinese lo ha arrestato ed ha sequestrato i
documenti dei suoi assistiti.
E' gravissimo!!!!!!!!!!!!!!
Cosi' non si va da nessuna parte. Anzi, cosi' si comporta Israele!
Il Consiglio Palestinese delle associazioni per i Diritti Umani ha
condannato questo gravissimo atto.
In allegato il comunicato stampa.
Spero vivamente che le autorita' preposte facciano rapida
retromarcia, con le dovute scuse e promesse di mai piu' violare cosi'
ogni principio di diritto e le leggi indicate nel comunicato!
Altrimenti, vuol dire che Israele sta insinuando di nuovo nei
Palestinesi pericolosi germi di conflitto interno, che vanno al di
la' di ovvie e fisiologiche dialettiche politiche e sociali.
Flavia
The Palestinian Council of Human Rights Organizations Condemns the Arbitrary Arrest of Addameer Lawyer by the Palestinian Preventive Security Force
Ramallah, 23 January 2011
On the morning of 10 January, the Palestinian Authority’s Preventive Security Force (PSF) arrested Mazen Abu Aoun, a lawyer for Addameer Prisoner Support and Human Rights Association and long-time human rights defender, at his office in Jenin.
During the arrest operation, the PSF confiscated the confidential legal files of Palestinian prisoners represented by Mr. Abu Aoun on behalf of Addameer, as well as his cell phone. The PSF also seized further legal files, three computers, a printer and CD-ROMs in a simultaneous raid on his home.
Following his arrest, Mr. Abu Aoun was taken to the PSF headquarters in Jenin, where he was prevented from contacting his family or Addameer to inform them of his arrest. During his ten-hour-long detention, he was subjected to inhumane and degrading treatment, which included being made to stand for one hour with his arms held above his head and his hands against a wall.
The Palestinian Council of Human Rights Organizations (PCHRO) is greatly concerned that Mr. Abu Aoun’s arbitrary arrest sets a dangerous precedent in the increasing harassment of human rights organizations by the PSF and constitutes a further obstruction to these organizations’ work to defend Palestinian civil society.
Mr. Abu Aoun’s arrest was a clear violation of a number of provisions of Palestinian law, including the Palestinian Basic Law, the Code of Criminal Procedures No. 3 of 2001, and Act No. 3 of 1999 on the Organization of the Legal Profession. It further constitutes a violation of Articles 9 of the Universal Declaration of Human Rights and the International Covenant on Civil and Political Rights.
The PSF did not inform the Palestine Bar Association of Mr. Abu Aoun’s arrest and no Bar Association representative was present during his arrest, as required by Article 20 (1) (d) of Act No. 3 of 1999 on the Organization of the Legal Profession;
The PSF did not present Mr. Abu Aoun with an arrest warrant as required by Article 11 (2) of the Basic Law and Article 29 of the Code of Criminal Procedures No. 3 of 2001;
The PSF did not provide a search warrant for the inspection of Mr. Abu Aoun’s office and home as required by Article 11 (2) of the Basic Law and Article 39 (1) in the Code of Criminal Procedures No. 3 of 2001;
The PSF’s confiscation of Mr. Abu Aoun’s legal files, computers and cell phone took place without a judicial ruling as required by Article 21 (4) of the Basic Law;
The confiscation of the legal files of prisoners represented by Mr. Abu Aoun constitutes a breach of the confidentiality between lawyers and their clients in contravention of Principle 22 of the United Nations Basic Principles on the Role of Lawyers of 1990, which states that “Governments shall recognize and respect that all communications and consultations between lawyers and their clients within their professional relationship are confidential”.
Although the PSF later apologized to Mr. Abu Aoun and indicated that it would also extend an apology to Addameer, this has yet to happen.
Accordingly, the PCHRO calls on the PSF and the Palestinian Authority to:
Respect human rights and fundamental freedoms in accordance with the provisions of the Basic Law and the Universal Declaration of Human Rights;
Respect the rule of law and ensure its respect by law enforcement officials;
Condemn the PSF’s actions and hold all those who participated in the arrest accountable for their actions;
Ensure that lawyers and human rights defenders can perform their work without intimidation, hindrance, harassment, or any other improper interference;
Immediately cease any illegal or arbitrary interference in the work of human rights organizations.
In light of the Palestine Bar Association’s objectives of strengthening the rule of law and ensuring respect for human rights, the PCHRO also calls on the Association to fulfill its duty to protect lawyers and ensure that they are able to carry out their work effectively.
Addameer Prisoner Support and Human Rights Association
Aldameer Association for Human Rights
Al-Haq
Badil Resource Center for Palestinian Residency and Refugee Rights
The Civic Coalition for Defending Palestinians’ Rights in Jerusalem
Defence for Children International–Palestine Section
Ensan Center for Human Rights and Democracy
Jerusalem Center for Legal Aid and Human Rights
Women’s Center for Legal Aid and Counselling
Ramallah Center for Human Rights Studies
domenica 23 gennaio 2011
I prigionieri palestinesi vengono avvelenati in carcere. Non bastavano gli omicidi mirati
Avvelenamento dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane
Scritto da Associazione
Venerdì 21 Gennaio 2011 10:38
http://english.ahram.org.eg/~/NewsContent/2/8/4277/World/Region/Palestinian-paralysed-after-Shabak-administered-un.aspx
Palestinese paralizzato dopo che lo Shabak gli ha somministrato una sostanza sconosciuta
I prigionieri palestinesi dicono che lo Shabak ha drogato un prigioniero causandogli una paralisi, una pratica comune secondo gruppo di diritti Waed
Saleh Naami
I detenuti palestinesi hanno rivelato che lo Shabak israeliano ha drogato un prigioniero palestinese provocandogli una paralisi.
I detenuti palestinesi hanno detto che un funzionario dello Shabak ha chiesto ad un collaboratore della prigione del deserto di Eichel di mettere una pillola in una tazza di caffè e poi di darla a un prigioniero palestinese che poi è rimasto paralizzato.
Si sono manifestati altri sintomi gravi come perdita di concentrazione e, tra le altre cose, la minzione involontaria.
Il collaboratore ha confessato, dopo essere stato interrogato dal compagno di prigionia, che la Shabak gli aveva dato una pillola rossa quadrata e gli aveva chiesto di metterla nella bevanda del prigioniero.
Il detenuto in questione stava scontando una lunga condanna dopo essere stato accusato di aver sparato ad un israeliano.
L'organizzazione per i diritti umani Waed, che difende i diritti dei prigionieri, ha detto che la tattica usata dallo Shabak è uno dei tanti sistemi utilizzati per l'esecuzione dei prigionieri e "ancora un altro crimine nella lista della condotta[illegale] di Israele nelle carceri."
"Questa non è la prima volta che ai prigionieri sono stati somministrati farmaci sconosciuti", ha affermato una dichiarazione rilasciata da parte dell'organizzazione, aggiungendo che Ahmed Abdel-Salam Abdin è morto dopo che gli era stata data una sostanza sconosciuta dalla sicurezza del carcere.
Waed ha sottolineato che il numero di detenuti morti per mano delle forze di occupazione dalla guerra del 1967 è di circa 200
(tradotto da barbara gagliardi)
Al Jazeera Net
CONDANNA PER AVERE AVVELENATO UN PRIGIONIERO PALESTINESE
di Ghaleb Daghlas
Nablus - Ahrar l’Istituzione palestinese per i diritti dei prigionieri palestinesi ha condannato l’azione di un’ufficiale dei servizi segreti israeliani “Shabak”, che ha ordinato ad un secondino di mettere una pasticca di veleno nella tazza di caffè di un prigioniero palestinese nel carcere del Negev “Yeshel”.
Il direttore del centro Arar (centro di Studi e Istituzione per prigionieri palestinesi nelle carceri israeliani), Fuad Khafash ha dichiarato: “Quello che è successo del carcere di Yeshel si considera seriamente pericoloso, soprattutto la confessione del secondino, che ha accettato il fatto di mettere il veleno nella tazza del caffè del carcerato per ucciderlo ed ha detto il nome dell’ufficiale che gli ha dato l’ordine di farlo”.
Khafash nei dettagli ha ribadito: “Un ufficiale ha ordinato ad un secondino al servizio dei soldati israeliani di mettere una pasticca di veleno nel caffè di un carcerato palestinese condannato all’ergastolo; quando sono apparsi i sintomi di ictus, i colleghi carcerati hanno interrogato il giovane secondino che ha confessato direttamente il fatto.”
La direzione del carcere si rifiuta di curarlo.
Uno dei detenuti del carcere “Yeshel” nel Negev ha detto che la direzione della prigione si rifiuta di curare il prigioniero; i prigionieri da ieri stanno lottando invano per costringere la direzione a curare la vittima, il prigioniero ha ribadito che la direzione ha trasferito il secondino mentre al malato è stata fatta una visita generica senza dare nessuna cura, la salute del malato sta peggiorando, soprattutto una parte del suo corpo è paralizzata, perde i sensi di volta in volta con vomito quasi continuo.
L’organizzazione di solidarietà internazionale per i diritti umani che è interessata ai prigionieri ha condannato l’azione del servizio segreto interno israeliano “Shabak” e denuncia una forte escalation di queste azioni, di come l’occupazione tratta i prigionieri palestinesi nelle carceri, con tentato omicidio premeditato.
Ahmad Albitawi, ricercatore dell’organizzazione su indicata, ha affermato che negli anni novanta Israele ha iniettato veleno a un carcerato palestinese qualche giorno prima di liberarlo, il che lo ha portato alla morte dopo la sua liberazione.
APPELLO
Ahmad Khafash il Direttore dell’Istituzione per i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane “Ahrar”, ha fatto un appello a tutte le organizzazioni e le istituzioni per i diritti umani, diritti civili e per i diritti dei prigionieri sia locali che internazionali a muoversi e dare la loro solidarietà per i prigionieri palestinesi e aprire una inchiesta sia in questo caso che in altri.
Scritto da Associazione
Venerdì 21 Gennaio 2011 10:38
http://english.ahram.org.eg/~/NewsContent/2/8/4277/World/Region/Palestinian-paralysed-after-Shabak-administered-un.aspx
Palestinese paralizzato dopo che lo Shabak gli ha somministrato una sostanza sconosciuta
I prigionieri palestinesi dicono che lo Shabak ha drogato un prigioniero causandogli una paralisi, una pratica comune secondo gruppo di diritti Waed
Saleh Naami
I detenuti palestinesi hanno rivelato che lo Shabak israeliano ha drogato un prigioniero palestinese provocandogli una paralisi.
I detenuti palestinesi hanno detto che un funzionario dello Shabak ha chiesto ad un collaboratore della prigione del deserto di Eichel di mettere una pillola in una tazza di caffè e poi di darla a un prigioniero palestinese che poi è rimasto paralizzato.
Si sono manifestati altri sintomi gravi come perdita di concentrazione e, tra le altre cose, la minzione involontaria.
Il collaboratore ha confessato, dopo essere stato interrogato dal compagno di prigionia, che la Shabak gli aveva dato una pillola rossa quadrata e gli aveva chiesto di metterla nella bevanda del prigioniero.
Il detenuto in questione stava scontando una lunga condanna dopo essere stato accusato di aver sparato ad un israeliano.
L'organizzazione per i diritti umani Waed, che difende i diritti dei prigionieri, ha detto che la tattica usata dallo Shabak è uno dei tanti sistemi utilizzati per l'esecuzione dei prigionieri e "ancora un altro crimine nella lista della condotta[illegale] di Israele nelle carceri."
"Questa non è la prima volta che ai prigionieri sono stati somministrati farmaci sconosciuti", ha affermato una dichiarazione rilasciata da parte dell'organizzazione, aggiungendo che Ahmed Abdel-Salam Abdin è morto dopo che gli era stata data una sostanza sconosciuta dalla sicurezza del carcere.
Waed ha sottolineato che il numero di detenuti morti per mano delle forze di occupazione dalla guerra del 1967 è di circa 200
(tradotto da barbara gagliardi)
Al Jazeera Net
CONDANNA PER AVERE AVVELENATO UN PRIGIONIERO PALESTINESE
di Ghaleb Daghlas
Nablus - Ahrar l’Istituzione palestinese per i diritti dei prigionieri palestinesi ha condannato l’azione di un’ufficiale dei servizi segreti israeliani “Shabak”, che ha ordinato ad un secondino di mettere una pasticca di veleno nella tazza di caffè di un prigioniero palestinese nel carcere del Negev “Yeshel”.
Il direttore del centro Arar (centro di Studi e Istituzione per prigionieri palestinesi nelle carceri israeliani), Fuad Khafash ha dichiarato: “Quello che è successo del carcere di Yeshel si considera seriamente pericoloso, soprattutto la confessione del secondino, che ha accettato il fatto di mettere il veleno nella tazza del caffè del carcerato per ucciderlo ed ha detto il nome dell’ufficiale che gli ha dato l’ordine di farlo”.
Khafash nei dettagli ha ribadito: “Un ufficiale ha ordinato ad un secondino al servizio dei soldati israeliani di mettere una pasticca di veleno nel caffè di un carcerato palestinese condannato all’ergastolo; quando sono apparsi i sintomi di ictus, i colleghi carcerati hanno interrogato il giovane secondino che ha confessato direttamente il fatto.”
La direzione del carcere si rifiuta di curarlo.
Uno dei detenuti del carcere “Yeshel” nel Negev ha detto che la direzione della prigione si rifiuta di curare il prigioniero; i prigionieri da ieri stanno lottando invano per costringere la direzione a curare la vittima, il prigioniero ha ribadito che la direzione ha trasferito il secondino mentre al malato è stata fatta una visita generica senza dare nessuna cura, la salute del malato sta peggiorando, soprattutto una parte del suo corpo è paralizzata, perde i sensi di volta in volta con vomito quasi continuo.
L’organizzazione di solidarietà internazionale per i diritti umani che è interessata ai prigionieri ha condannato l’azione del servizio segreto interno israeliano “Shabak” e denuncia una forte escalation di queste azioni, di come l’occupazione tratta i prigionieri palestinesi nelle carceri, con tentato omicidio premeditato.
Ahmad Albitawi, ricercatore dell’organizzazione su indicata, ha affermato che negli anni novanta Israele ha iniettato veleno a un carcerato palestinese qualche giorno prima di liberarlo, il che lo ha portato alla morte dopo la sua liberazione.
APPELLO
Ahmad Khafash il Direttore dell’Istituzione per i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane “Ahrar”, ha fatto un appello a tutte le organizzazioni e le istituzioni per i diritti umani, diritti civili e per i diritti dei prigionieri sia locali che internazionali a muoversi e dare la loro solidarietà per i prigionieri palestinesi e aprire una inchiesta sia in questo caso che in altri.
sabato 22 gennaio 2011
Gaza, Guernica palestinese
Ennesima vittima civile e innocente nella Striscia: una mattanza continua
scritto per noi da
Vittorio Arrigoni
da Gaza City
Un carretto al centro della desolazione, a lato un cavallo abbattuto, come il seguito mai dipinto di una Guernica palestinese. Sul luogo dell'ultimo massacro, a Tal Abu Safiya, a est di Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza, in un'area agricola una volta florida di frutteti e ora nient'altro che terreno triturato dai cingoli dei carri armati, a circa duecento metri dal confine, è rimasto il mezzo e il quadrupede in putrefazione di Amjad Sami Al Zaaneen, ragazzo di 18 anni ucciso martedì dall'esercito israeliano.
Sin dalla mattina presto Amjad, con alcuni amici, si era recato nella zona per raccogliere materiale di riciclo come ferro e cemento. In una Gaza dove da quattro anni per via del blocco israeliano non entrano i materiali per ricostruzione, questi riciclatori, oltre a sfamare le loro poverissimi famiglie, svolgono una funzione sociale fondamentale.
Quando verso le 8 e 30, sette carri armati e tre bulldozer israeliani hanno invaso il confine iniziando a devastare terreni coltivabili, i giovani palestinesi hanno mollato in fretta e furia il carretto e l'animale per darsi alla fuga.
Verso le 14, a incursione finita, i ragazzi sono tornati indietro, inconsapevoli della presenza di un carro armato piazzato poco distante dal confine che li stava prendendo di mira. Sette colpi sono stati sparati nella loro direzione.
Amjad, 18 anni, centrato all'addome, è morto dopo pochi minuti sul posto.
Così i feriti ricoverati all'ospedale di Beit Hanoun hanno raccontato l'attacco agli attivisti dell'International Solidarity Movement: "Quando siamo tornati per riprenderci l'animale e il carretto carico di pietre, il tank israeliano ha iniziato a spararci addosso. Sono rimasto ferito dalle schegge del primo missile, nonostante questo, ho continuato a correre. I missili cadevano in ogni direzione. Quando ho raggiunto la strada principale, mi sono accasciato al suolo, poi mi hanno trasportato in ospedale". Ismael Abd Elqader Al Zaaneen, 16 anni: "Dovunque fuggissimo, qualunque direzione prendessimo, ci sparavano proiettili dinnanzi. Ci hanno sparato contro una decina di missili, io ho schegge su tutta la schiena e sulle gambe".
Lo zio di Sharaf: "I crimini come questo odierno sono ormai quotidiani. Israele impedisce a tutti i civili della zona di raggiungere la loro terra. La nostra vita è divenuta incredibilmente dura, specie nell'ultimo periodo assistiamo inermi ad una spaventosa escalation di brutalità israeliana contro contadini e pastori. Ci vogliono concime per i nostri campi".
Tal Abu Safiya, dinnanzi al confine, è un ampio spiazzo di terra senza edifici, arbusti o altri ostacoli alla visibilità delle numerose telecamere israeliane che la monitorano palmo a palmo. C'è perfino un dirigibile che col suo occhio ciclopico spia maestoso ogni movimento dal cielo. Prima di azionare il cannone, i soldati avevano chiara l'identità delle loro vittime: civili disarmati, poco più che bambini.
Oday Abdel Qader Al Zaanen, undici anni: "Quando Sharaf è rimasto ferito dal primo proiettile, Ajmad, mio cugino, si è mosso per soccorrerlo. Non ha fatto in tempo a fare due passi che un missile lo ha centrato direttamente nello stomaco, sventrandolo. Io sono stato fortunato a rimanere ferito solo di striscio al viso. Non so perché Israele ci ha fatto tutto questo".
Quando il quarto esercito del mondo bombarda dei bambini per la colpa di esser nati dal lato sbagliato del confine, bambini costretti già dall'infanzia a lavori pesanti nei campi per aiutare le famiglie a sopravvivere, bambini che nella loro breve esistenza non hanno mai avuto altra esperienza che la miseria e la morte dei loro familiari e dei compagni di gioco, ebbene, quella che si autodefinisce "l'unica democrazia del medio oriente" dovrebbe fermarsi e riflettere in quali abissi di immoralità sta sprofondando, e così dovrebbero fare i suoi alleati.
Nella stessa zona, a nord della Striscia di Gaza, il 23 dicembre i soldati israeliani avevano ucciso sangue freddo il pastore beduino Salama Abu Hashish e il 10 gennaio Mohammed Shaban Shaker Karmoot, anziano contadino al lavoro su sui campi. I cingoli dei carri armati dissodano e arano, i cannoni concimano, ma questo lembo di terra non rinuncia a chiedere di rifiorire.
scritto per noi da
Vittorio Arrigoni
da Gaza City
Un carretto al centro della desolazione, a lato un cavallo abbattuto, come il seguito mai dipinto di una Guernica palestinese. Sul luogo dell'ultimo massacro, a Tal Abu Safiya, a est di Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza, in un'area agricola una volta florida di frutteti e ora nient'altro che terreno triturato dai cingoli dei carri armati, a circa duecento metri dal confine, è rimasto il mezzo e il quadrupede in putrefazione di Amjad Sami Al Zaaneen, ragazzo di 18 anni ucciso martedì dall'esercito israeliano.
Sin dalla mattina presto Amjad, con alcuni amici, si era recato nella zona per raccogliere materiale di riciclo come ferro e cemento. In una Gaza dove da quattro anni per via del blocco israeliano non entrano i materiali per ricostruzione, questi riciclatori, oltre a sfamare le loro poverissimi famiglie, svolgono una funzione sociale fondamentale.
Quando verso le 8 e 30, sette carri armati e tre bulldozer israeliani hanno invaso il confine iniziando a devastare terreni coltivabili, i giovani palestinesi hanno mollato in fretta e furia il carretto e l'animale per darsi alla fuga.
Verso le 14, a incursione finita, i ragazzi sono tornati indietro, inconsapevoli della presenza di un carro armato piazzato poco distante dal confine che li stava prendendo di mira. Sette colpi sono stati sparati nella loro direzione.
Amjad, 18 anni, centrato all'addome, è morto dopo pochi minuti sul posto.
Così i feriti ricoverati all'ospedale di Beit Hanoun hanno raccontato l'attacco agli attivisti dell'International Solidarity Movement: "Quando siamo tornati per riprenderci l'animale e il carretto carico di pietre, il tank israeliano ha iniziato a spararci addosso. Sono rimasto ferito dalle schegge del primo missile, nonostante questo, ho continuato a correre. I missili cadevano in ogni direzione. Quando ho raggiunto la strada principale, mi sono accasciato al suolo, poi mi hanno trasportato in ospedale". Ismael Abd Elqader Al Zaaneen, 16 anni: "Dovunque fuggissimo, qualunque direzione prendessimo, ci sparavano proiettili dinnanzi. Ci hanno sparato contro una decina di missili, io ho schegge su tutta la schiena e sulle gambe".
Lo zio di Sharaf: "I crimini come questo odierno sono ormai quotidiani. Israele impedisce a tutti i civili della zona di raggiungere la loro terra. La nostra vita è divenuta incredibilmente dura, specie nell'ultimo periodo assistiamo inermi ad una spaventosa escalation di brutalità israeliana contro contadini e pastori. Ci vogliono concime per i nostri campi".
Tal Abu Safiya, dinnanzi al confine, è un ampio spiazzo di terra senza edifici, arbusti o altri ostacoli alla visibilità delle numerose telecamere israeliane che la monitorano palmo a palmo. C'è perfino un dirigibile che col suo occhio ciclopico spia maestoso ogni movimento dal cielo. Prima di azionare il cannone, i soldati avevano chiara l'identità delle loro vittime: civili disarmati, poco più che bambini.
Oday Abdel Qader Al Zaanen, undici anni: "Quando Sharaf è rimasto ferito dal primo proiettile, Ajmad, mio cugino, si è mosso per soccorrerlo. Non ha fatto in tempo a fare due passi che un missile lo ha centrato direttamente nello stomaco, sventrandolo. Io sono stato fortunato a rimanere ferito solo di striscio al viso. Non so perché Israele ci ha fatto tutto questo".
Quando il quarto esercito del mondo bombarda dei bambini per la colpa di esser nati dal lato sbagliato del confine, bambini costretti già dall'infanzia a lavori pesanti nei campi per aiutare le famiglie a sopravvivere, bambini che nella loro breve esistenza non hanno mai avuto altra esperienza che la miseria e la morte dei loro familiari e dei compagni di gioco, ebbene, quella che si autodefinisce "l'unica democrazia del medio oriente" dovrebbe fermarsi e riflettere in quali abissi di immoralità sta sprofondando, e così dovrebbero fare i suoi alleati.
Nella stessa zona, a nord della Striscia di Gaza, il 23 dicembre i soldati israeliani avevano ucciso sangue freddo il pastore beduino Salama Abu Hashish e il 10 gennaio Mohammed Shaban Shaker Karmoot, anziano contadino al lavoro su sui campi. I cingoli dei carri armati dissodano e arano, i cannoni concimano, ma questo lembo di terra non rinuncia a chiedere di rifiorire.
GAZA: LE «EREDITA’» DI PIOMBO FUSO
Per andare a scuola i bambini della famiglia al Najar passano vicino ad una torre di controllo da cui i soldati israeliani sparano. Nell'ultimo mese sono stati mandati a casa tre volte prima della fine delle lezioni, a causa di incursioni e spari nell'area intorno alla scuola.
REPORTAGE DI SILVIA TODESCHINI
Gaza, 20 gennaio 2011, Nena News (nella foto dal sito maxblumenthal.com il fosforo bianco delle munizioni israeliane precipita sui centri abitati di Gaza) – La moglie di Tareq ha la carnagione chiara e lentiggini, sotto il velo rosa si intravedono dei capelli nerissimi; gli occhi, profondi e scuri, si stagliano in dei lineamenti aggraziati, che ricordano di più l’estremo oriente che il vicino oriente. È molto magra e porta un vestito verde di cotone, mi domando come faccia a non tremare di freddo con una temperatura sotto i 10 gradi. Sta qui seduta su un secchio rovesciato all’aperto con 2 vicine di casa circondata da bambini e racconta la sua storia.
Fa parte della famiglia al-Najar, e spiega che prima dell’attacco di Israele «Piombo fuso» (alla fine del 2008), viveva con la sua famiglia in una bella casa. La casa era divisa in 2 parti: metà per lei e suo marito, metà per la famiglia del cognato. Durante l’invasione un missile sparato contro la casa dei vicini, dopo averla attraversata, ha rotto 3 muri della loro. Il 13 gennaio 2009, durante un’incursione di forze speciali, carri armati e spari li hanno costretti a rimanere in casa, 40 persone, più di 20 bambini. Una donna, Roya’a, presa dalla disperazione, esce dalla casa sventolando una bandiera bianca, sperando così di poter uscire e scappare in un posto più sicuro con la sua famiglia. I soldati israeliani le sparano, e lei, impossibilitata a muoversi, perde molto sangue. A causa degli spari e dei carri armati l’ambulanza non si più avvicinare, Yasmin, di 23 anni, prova ad avvicinarsi per prestarle soccorso, e le sparano ad una gamba. Un altro membro della famiglia, Mahmmod Al Najar esce dalla casa per prestare soccorso alle due donne: viene colpito alla testa e muore. Quando, 24 ore dopo, arriva l’ambulanza, Roya’a è morta dissanguata.
Rifornirsi di acqua potabile e' uno dei problemi quotidiani dei palestinesi di Gaza
Alcuni giorni dopo, quando è stato di nuovo possibile tornare, la casa era distrutta e con essa tutte le case attorno. Gli alberi di ulivo, alcuni anche di 50 anni, erano stati sradicati. Non era rimasto più nulla. Niente casa, niente ulivi ed alberi da frutto, niente terra da coltivare: nessun avere e nessuna fonte di sostentamento. Per un mese hanno ricevuto aiuti dall’Unrwa (l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi) per comperare cibo e coperte, e per un anno hanno ricevuto soldi per pagare l’affitto. Ma dopo la guerra il prezzo degli affitti era aumentato ed i soldi non erano più sufficienti. Così si sono visti costretti a mettere su queste quattro mura in cemento e costruirci un rifugio attorno. Il tetto è di lamiera e dentro non c’è spazio per più di due piccole stanze, e si riconosce una veranda esterna formata da teli.
Rifugi si trovano a circa 350 metri dal confine, in quest’area la paura dell’esercito israeliano pervade ogni azione quotidiana. “Due o tre volte alla settimana ci sono carri armati che passano a poche centinaia di metri da casa nostra, qui sparano tutti i giorni, ormai non ci facciamo più caso. Però quando sparano più forte i bambini si impauriscono… la notte non riescono a dormire, hanno gli incubi, piangono. Poi, quando fa buio ci sono i branchi di cani, sono pericolosi, vengono liberati dai soldati al confine”. Nei due piccoli ripari abitano quattro famiglie, con 16 bambini.
Una delle bambine ha riportato gravi problemi agli occhi a causa del fosforo bianco ed è riuscita ad andare in Egitto per farsi curare ma non ha recuperato completamente la vista. Le quattro famiglie non si spostano dalla casa in un luogo sicuro perché non hanno altro posto dove andare.
Per andare a scuola i bambini devono percorrere una strada che passa vicino ad una torre di controllo da cui i soldati israeliani sparano, ed hanno paura. La scuola si trova anch’essa vicino al confine. Nell’ultimo mese i bambini sono stati mandati a casa tre volte prima della fine delle lezioni, a causa di incursioni e spari nell’area intorno all’edificio. Ai piccoli al Najar mancano i posti per giocare in maniera sicura ed è pericoloso stare a distanza dalla casa. “Dopo le 6 non ci possiamo allontanare, perché con il buio è pericoloso muoversi a causa degli spari. I nostri mariti hanno venduto le macerie delle case distrutte dal bombardamento perché venissero frantumate e vendute come materiale edile. Con i soldi ricavati abbiamo comperato il cibo per noi e per i bambini, ma ora non sappiamo più come fare: ci manca la farina per fare il pane…in casa non abbiamo coperte, non abbiamo mobili, fa freddo. Non arriva la corrente e abbiamo dei problemi per l’acqua potabile.”
La povertà può avere tante cause: più essere causata da un disastro naturale, come un’inondazione o un terremoto, può essere causata dal fatto che una qualche forma di disabilità impedisce di lavorare, sono tutte cause che nella maggior parte dei casi non è possibile evitare, questo provoca tristezza. Quando però la povertà è causata dal fatto che un Stato, in questo caso Israele, distrugge abitazioni, sradica ulivi, proibisce l’accesso a terreni coltivabili; quando preoccuparsi del futuro significa paura degli spari, ansia che uno di quei proiettili possa colpire i propri figli e figlie, e terrore negli occhi delle stesse figlie e figli; beh, allora la tristezza si declina in rabbia, e viene voglia di urlare, nella speranza che qualcuno possa ascoltare e porre fine a questo e molte altre orribili situazioni. Nena News
REPORTAGE DI SILVIA TODESCHINI
Gaza, 20 gennaio 2011, Nena News (nella foto dal sito maxblumenthal.com il fosforo bianco delle munizioni israeliane precipita sui centri abitati di Gaza) – La moglie di Tareq ha la carnagione chiara e lentiggini, sotto il velo rosa si intravedono dei capelli nerissimi; gli occhi, profondi e scuri, si stagliano in dei lineamenti aggraziati, che ricordano di più l’estremo oriente che il vicino oriente. È molto magra e porta un vestito verde di cotone, mi domando come faccia a non tremare di freddo con una temperatura sotto i 10 gradi. Sta qui seduta su un secchio rovesciato all’aperto con 2 vicine di casa circondata da bambini e racconta la sua storia.
Fa parte della famiglia al-Najar, e spiega che prima dell’attacco di Israele «Piombo fuso» (alla fine del 2008), viveva con la sua famiglia in una bella casa. La casa era divisa in 2 parti: metà per lei e suo marito, metà per la famiglia del cognato. Durante l’invasione un missile sparato contro la casa dei vicini, dopo averla attraversata, ha rotto 3 muri della loro. Il 13 gennaio 2009, durante un’incursione di forze speciali, carri armati e spari li hanno costretti a rimanere in casa, 40 persone, più di 20 bambini. Una donna, Roya’a, presa dalla disperazione, esce dalla casa sventolando una bandiera bianca, sperando così di poter uscire e scappare in un posto più sicuro con la sua famiglia. I soldati israeliani le sparano, e lei, impossibilitata a muoversi, perde molto sangue. A causa degli spari e dei carri armati l’ambulanza non si più avvicinare, Yasmin, di 23 anni, prova ad avvicinarsi per prestarle soccorso, e le sparano ad una gamba. Un altro membro della famiglia, Mahmmod Al Najar esce dalla casa per prestare soccorso alle due donne: viene colpito alla testa e muore. Quando, 24 ore dopo, arriva l’ambulanza, Roya’a è morta dissanguata.
Rifornirsi di acqua potabile e' uno dei problemi quotidiani dei palestinesi di Gaza
Alcuni giorni dopo, quando è stato di nuovo possibile tornare, la casa era distrutta e con essa tutte le case attorno. Gli alberi di ulivo, alcuni anche di 50 anni, erano stati sradicati. Non era rimasto più nulla. Niente casa, niente ulivi ed alberi da frutto, niente terra da coltivare: nessun avere e nessuna fonte di sostentamento. Per un mese hanno ricevuto aiuti dall’Unrwa (l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi) per comperare cibo e coperte, e per un anno hanno ricevuto soldi per pagare l’affitto. Ma dopo la guerra il prezzo degli affitti era aumentato ed i soldi non erano più sufficienti. Così si sono visti costretti a mettere su queste quattro mura in cemento e costruirci un rifugio attorno. Il tetto è di lamiera e dentro non c’è spazio per più di due piccole stanze, e si riconosce una veranda esterna formata da teli.
Rifugi si trovano a circa 350 metri dal confine, in quest’area la paura dell’esercito israeliano pervade ogni azione quotidiana. “Due o tre volte alla settimana ci sono carri armati che passano a poche centinaia di metri da casa nostra, qui sparano tutti i giorni, ormai non ci facciamo più caso. Però quando sparano più forte i bambini si impauriscono… la notte non riescono a dormire, hanno gli incubi, piangono. Poi, quando fa buio ci sono i branchi di cani, sono pericolosi, vengono liberati dai soldati al confine”. Nei due piccoli ripari abitano quattro famiglie, con 16 bambini.
Una delle bambine ha riportato gravi problemi agli occhi a causa del fosforo bianco ed è riuscita ad andare in Egitto per farsi curare ma non ha recuperato completamente la vista. Le quattro famiglie non si spostano dalla casa in un luogo sicuro perché non hanno altro posto dove andare.
Per andare a scuola i bambini devono percorrere una strada che passa vicino ad una torre di controllo da cui i soldati israeliani sparano, ed hanno paura. La scuola si trova anch’essa vicino al confine. Nell’ultimo mese i bambini sono stati mandati a casa tre volte prima della fine delle lezioni, a causa di incursioni e spari nell’area intorno all’edificio. Ai piccoli al Najar mancano i posti per giocare in maniera sicura ed è pericoloso stare a distanza dalla casa. “Dopo le 6 non ci possiamo allontanare, perché con il buio è pericoloso muoversi a causa degli spari. I nostri mariti hanno venduto le macerie delle case distrutte dal bombardamento perché venissero frantumate e vendute come materiale edile. Con i soldi ricavati abbiamo comperato il cibo per noi e per i bambini, ma ora non sappiamo più come fare: ci manca la farina per fare il pane…in casa non abbiamo coperte, non abbiamo mobili, fa freddo. Non arriva la corrente e abbiamo dei problemi per l’acqua potabile.”
La povertà può avere tante cause: più essere causata da un disastro naturale, come un’inondazione o un terremoto, può essere causata dal fatto che una qualche forma di disabilità impedisce di lavorare, sono tutte cause che nella maggior parte dei casi non è possibile evitare, questo provoca tristezza. Quando però la povertà è causata dal fatto che un Stato, in questo caso Israele, distrugge abitazioni, sradica ulivi, proibisce l’accesso a terreni coltivabili; quando preoccuparsi del futuro significa paura degli spari, ansia che uno di quei proiettili possa colpire i propri figli e figlie, e terrore negli occhi delle stesse figlie e figli; beh, allora la tristezza si declina in rabbia, e viene voglia di urlare, nella speranza che qualcuno possa ascoltare e porre fine a questo e molte altre orribili situazioni. Nena News
giovedì 20 gennaio 2011
Sionisti all'opera contro l'arcivescovo Desmond Tutu
L’arcivescovo Desmond Tutu criticato dai gruppi sionisti in Sudafrica per il sostegno dato ai palestinesi
Pubblicato da ab il 15/1/11 • Inserito nella categoria: Primo Piano
Scritto il 2011-01-15 in News
Imemc. A causa del suo sostegno esplicito alla Palestina, la Federazione sionista sudafricana ha chiesto che l’arcivescovo Tutu venga destituito o dia le dimissioni dalla sua posizione di patrono del Centro per l’olocausto di Città del Capo, e del Centro per l’olocausto e il genocidio di Johannesburg.
Il prelato si trova infatti sotto attacco per aver parlato contro l’occupazione d’Israele in Palestina: lo scorso ottobre aveva persino chiesto all’opera di Città del Capo di non recarsi in Israele, per motivi di uguaglianza e di diritti umani: “Solo i sudafricani più insensibili non avrebbero problemi a esibirsi di fronte a un pubblico che esclude, ad esempio, gli abitanti di un villaggio occupato della Cisgiordania a mezz’ora da Tel Aviv (ai quali non è nemmeno permesso recarsi nella stessa Tel Aviv), e che include i loro vicini ebrei, sistemati in una colonia abusiva costruita su territorio palestinese occupato”.
Dopo aver pronunciato queste parole, Tutu è stato criticato duramente dai sionisti in Sudafrica e all’estero: l’ambasciatore israeliano ha accusato Tutu di “faziosità”, mentre Alan Dershowitz, professore di legge a Harvard, lo ha definito “bigotto” e “anti-semita”.
I membri di Open Shuhada Street hanno così lanciato una petizione in difesa di Tutu, la quale si oppone alla sua destituzione, chiesta dal vice-direttore della Federazione sionista sudafricana David Hersch. Nelle prime quarantott’ore, oltre 1.000 persone hanno aggiunto i loro nomi al documento; attualmente vi sono più di 1.600 firme, incluse quelle di alcuni personaggi famosi, quali Arthur Chaskalson, Lord Joel Joffe, Omar Barghuthi, Adam Hochshild, Andrew Feinstein, Annie Lennox e Zackie Achmat.
PETIZIONE A DIFESA DELL’EMERITO ARCIVESCOVO DESMOND TUTU
L’Emerito Arcivescovo Desmond Tutu ha criticato pubblicamente la politica israeliana nei confronti dei palestinesi che vivono a Gaza e in Cisgiordania. Ha inoltre criticato gli attacchi dei palestinesi ai civili israeliani. Tali critiche sono ben note. Di recente, tuttavia, le sue critiche a sfavore d’Israele hanno scatenato aspri attacchi personali. Nell’ambito delle richieste di destituirlo dal ruolo di patrono dei Centri per l’olocausto di Città del Capo e di Johannesburg, appartenenti alla Fondazione sudafricana per l’olocausto, Tutu è stato attaccato ed etichettato come anti-semita e bigotto.
Ogni disaccordo andrebbe discusso apertamente, ma simili attacchi sul piano personale sono del tutto inaccettabili.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, nella quale persero la vita 60 milioni di persone, la Germania nazista uccise socialisti, gay e lesbiche, rom e combattenti della resistenza, ma il suo sterminio più sistematico fu diretto contro il popolo ebraico. Sei milioni di ebrei furono infatti trasferiti nei ghetti e nei campi di concentramento, prima di venire assassinati.
Questo grottesco crimine contro l’umanità non andrà mai dimenticato. Il suo retaggio e la sua lezione appartengono a tutti gli esseri umani, e tutti gli esseri umani devono farne tesoro. Il razzismo – che comprende l’anti-semitismo, il sessismo, la xenofobia, l’omofobia e l’inumanità – dev’essere contrastato dovunque nasca. Come affermato dalla dichiarazione d’intenti della Fondazione sudafricana per l’olocausto, dobbiamo costruire “una società più giusta e altruista, in cui i diritti umani e la diversità siano rispettati e valorizzati”.
Questa è esattamente la causa alla quale Desmond Tutu ha dedicato la propria vita. Tutu rappresenta la miglior tradizione di resistenza a tutte le forme di oppressione; ci ha insegnato che capire l’olocausto comincia con il comprendere che l’unico modo per garantire la sicurezza a ognuno di noi è garantirla a tutti noi. Con le sue parole, dà corpo alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, un documento nato dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale, che enuncia dei diritti che appartengono ugualmente a israeliani e palestinesi.
Utilizzare l’olocausto nel tentativo di delegittimare Tutu vuol dire minare il lascito di quel tragico evento, e insultare la memoria delle sue vittime. Chiamare Tutu anti-semita, perché ha attaccato le politiche del governo israeliano, è un gesto oltraggioso, priva il termine del suo significato e indebolisce gli sforzi necessari per sconfiggere i veri razzisti ed anti-semiti.
Pubblicato da ab il 15/1/11 • Inserito nella categoria: Primo Piano
Scritto il 2011-01-15 in News
Imemc. A causa del suo sostegno esplicito alla Palestina, la Federazione sionista sudafricana ha chiesto che l’arcivescovo Tutu venga destituito o dia le dimissioni dalla sua posizione di patrono del Centro per l’olocausto di Città del Capo, e del Centro per l’olocausto e il genocidio di Johannesburg.
Il prelato si trova infatti sotto attacco per aver parlato contro l’occupazione d’Israele in Palestina: lo scorso ottobre aveva persino chiesto all’opera di Città del Capo di non recarsi in Israele, per motivi di uguaglianza e di diritti umani: “Solo i sudafricani più insensibili non avrebbero problemi a esibirsi di fronte a un pubblico che esclude, ad esempio, gli abitanti di un villaggio occupato della Cisgiordania a mezz’ora da Tel Aviv (ai quali non è nemmeno permesso recarsi nella stessa Tel Aviv), e che include i loro vicini ebrei, sistemati in una colonia abusiva costruita su territorio palestinese occupato”.
Dopo aver pronunciato queste parole, Tutu è stato criticato duramente dai sionisti in Sudafrica e all’estero: l’ambasciatore israeliano ha accusato Tutu di “faziosità”, mentre Alan Dershowitz, professore di legge a Harvard, lo ha definito “bigotto” e “anti-semita”.
I membri di Open Shuhada Street hanno così lanciato una petizione in difesa di Tutu, la quale si oppone alla sua destituzione, chiesta dal vice-direttore della Federazione sionista sudafricana David Hersch. Nelle prime quarantott’ore, oltre 1.000 persone hanno aggiunto i loro nomi al documento; attualmente vi sono più di 1.600 firme, incluse quelle di alcuni personaggi famosi, quali Arthur Chaskalson, Lord Joel Joffe, Omar Barghuthi, Adam Hochshild, Andrew Feinstein, Annie Lennox e Zackie Achmat.
PETIZIONE A DIFESA DELL’EMERITO ARCIVESCOVO DESMOND TUTU
L’Emerito Arcivescovo Desmond Tutu ha criticato pubblicamente la politica israeliana nei confronti dei palestinesi che vivono a Gaza e in Cisgiordania. Ha inoltre criticato gli attacchi dei palestinesi ai civili israeliani. Tali critiche sono ben note. Di recente, tuttavia, le sue critiche a sfavore d’Israele hanno scatenato aspri attacchi personali. Nell’ambito delle richieste di destituirlo dal ruolo di patrono dei Centri per l’olocausto di Città del Capo e di Johannesburg, appartenenti alla Fondazione sudafricana per l’olocausto, Tutu è stato attaccato ed etichettato come anti-semita e bigotto.
Ogni disaccordo andrebbe discusso apertamente, ma simili attacchi sul piano personale sono del tutto inaccettabili.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, nella quale persero la vita 60 milioni di persone, la Germania nazista uccise socialisti, gay e lesbiche, rom e combattenti della resistenza, ma il suo sterminio più sistematico fu diretto contro il popolo ebraico. Sei milioni di ebrei furono infatti trasferiti nei ghetti e nei campi di concentramento, prima di venire assassinati.
Questo grottesco crimine contro l’umanità non andrà mai dimenticato. Il suo retaggio e la sua lezione appartengono a tutti gli esseri umani, e tutti gli esseri umani devono farne tesoro. Il razzismo – che comprende l’anti-semitismo, il sessismo, la xenofobia, l’omofobia e l’inumanità – dev’essere contrastato dovunque nasca. Come affermato dalla dichiarazione d’intenti della Fondazione sudafricana per l’olocausto, dobbiamo costruire “una società più giusta e altruista, in cui i diritti umani e la diversità siano rispettati e valorizzati”.
Questa è esattamente la causa alla quale Desmond Tutu ha dedicato la propria vita. Tutu rappresenta la miglior tradizione di resistenza a tutte le forme di oppressione; ci ha insegnato che capire l’olocausto comincia con il comprendere che l’unico modo per garantire la sicurezza a ognuno di noi è garantirla a tutti noi. Con le sue parole, dà corpo alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, un documento nato dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale, che enuncia dei diritti che appartengono ugualmente a israeliani e palestinesi.
Utilizzare l’olocausto nel tentativo di delegittimare Tutu vuol dire minare il lascito di quel tragico evento, e insultare la memoria delle sue vittime. Chiamare Tutu anti-semita, perché ha attaccato le politiche del governo israeliano, è un gesto oltraggioso, priva il termine del suo significato e indebolisce gli sforzi necessari per sconfiggere i veri razzisti ed anti-semiti.
mercoledì 19 gennaio 2011
VIDEO: TEL AVIV, IN 15.000 CONTRO LA CACCIA ALLE STREGHE
VIDEO: TEL AVIV, IN 15.000 CONTRO LA CACCIA ALLE STREGHE
Manifestiamo (siccome è ancora possibile) per la democrazia”, questo lo slogan della protesta, la più numerosa che si sia svolta in Israele negli ultimi anni.
Gerusalemme 18 gennaio 2011 – Un sabato pomeriggio per difendere la democrazia. Sono scesi in piazza e hanno sfilato per le strade di Tel Aviv da Meir Park, vicino al quartier generale del partito Likud (in King George Street) fino alla piazza davanti al museo, oltre 15.000 manifestanti (numeri diffusi dagli organizzatori ma anche dalla stampa) per protestare contro l’approvazione di un provvedimento del Governo che prevede l’istituzione di una commissione parlamentare per indagare sulle ONG israeliane che si occupano di diritti umani e civili.
“Manifestiamo (siccome è ancora possibile) per la democrazia”, questo lo slogan della protesta dello scorso sabato, la più numerosa che si sia svolta in Israele negli ultimi anni, ha detto la stampa. I manifestanti hanno gridato “Combatteremo il regime delle tenebre” e “Insieme difenderemo la democrazia”. 15.000 persone che sono scese in piazza non solo per l’ennesimo attacco alla libertà di parola concretizzatosi nel tentativo di delegittimare il lavoro delle ONG e dei gruppi in difesa dei diritti umani. Ma contro le tante mosse del governo Netanyahu, volte a scatenare una caccia alle streghe contro qualsiasi voce dissidente. Negli slogan della protesta correva un filo unico, che va dall’ennesima prova di maccartismo del parlamento israeliano alle limitazioni imposte alle proteste a Shekh Jarrah (quartiere arabo di Gerusalemme), al giuramento di fedeltà necessario per chi non-ebreo, voglia acquisire la cittadinanza israeliana; agli arresti degli attivisti israeliani che partecipano accanto ai palestinesi a Gerusalemme est come nei villaggi della Cisgiordania (non a caso alcuni dei manifestanti portavano banner e sticker a sostegno dell’attivista Jonathan Pollack, costretto per tre mesi a scontare il carcere). Alla lettera dei rabbini che vieta di vendere o affittare proprietà agli arabi.
Di seguito la riflessione di una delle partecipanti alla marcia, Mairav Zonszen, giornalista israeliana e amercana, che ha pubblicato alcuni commenti su +972mag.com, un magazine on line israeliano ma con commenti e articoli anche dai territori palestinesi occupati.
“Il fatto che lo slogan principale della manifestazione fosse “Democrazia, siccome è ancora possibile” è abbastanza triste: quale è il punto in un più ampio spettro che vede il paese allontanarsi così tanto dagli standard e dai principi democratici tanto che non può più essere chiamato democrazia? Non sarebbe ragionevole dire che quando una manifestazione è organizzata solo in nome della democrazia, abbiamo raggiunto quel punto?
Inoltre così come è importante per le persone scendere in piazza per poche ore di sabato pomeriggio in questi tempi bui, può avere anche però un effetto inverso. Il messaggio della protesta, cioè che non lasceremo che la destra si impossessi del paese e uccida la democrazia, può dare origine a fraintendimenti. Come Noam Sheifaz ha scritto recentemente, esiste la nozione che vi sia un Israele “autentico”, buono e democratico e che questo Israele sia dirottato da una minoranza estremista. Di fatto, forse sarebbe necessaria un’analisi più profonda e stimolante, per rendersi conto che c’è qualcosa di sistematico, al cuore della definizione dei valori di questo paese, che ha spianato la strada perché il razzismo e il fascismo fiorissero, e che richiede seri provvedimenti. Non possiamo continuare a insistere che Israele è ebraico e democratico e poi organizzare una protesta ogni volta che atti legislativi repressivi o eventi razzisti hanno luogo. E’ come nascondere il problema sotto il tappeto, fino al prossimo polverone”. Nena News
Video
http://www.youtube.com/watch?v=Hj5sdG0pNcQ&feature=player_embedded
Manifestiamo (siccome è ancora possibile) per la democrazia”, questo lo slogan della protesta, la più numerosa che si sia svolta in Israele negli ultimi anni.
Gerusalemme 18 gennaio 2011 – Un sabato pomeriggio per difendere la democrazia. Sono scesi in piazza e hanno sfilato per le strade di Tel Aviv da Meir Park, vicino al quartier generale del partito Likud (in King George Street) fino alla piazza davanti al museo, oltre 15.000 manifestanti (numeri diffusi dagli organizzatori ma anche dalla stampa) per protestare contro l’approvazione di un provvedimento del Governo che prevede l’istituzione di una commissione parlamentare per indagare sulle ONG israeliane che si occupano di diritti umani e civili.
“Manifestiamo (siccome è ancora possibile) per la democrazia”, questo lo slogan della protesta dello scorso sabato, la più numerosa che si sia svolta in Israele negli ultimi anni, ha detto la stampa. I manifestanti hanno gridato “Combatteremo il regime delle tenebre” e “Insieme difenderemo la democrazia”. 15.000 persone che sono scese in piazza non solo per l’ennesimo attacco alla libertà di parola concretizzatosi nel tentativo di delegittimare il lavoro delle ONG e dei gruppi in difesa dei diritti umani. Ma contro le tante mosse del governo Netanyahu, volte a scatenare una caccia alle streghe contro qualsiasi voce dissidente. Negli slogan della protesta correva un filo unico, che va dall’ennesima prova di maccartismo del parlamento israeliano alle limitazioni imposte alle proteste a Shekh Jarrah (quartiere arabo di Gerusalemme), al giuramento di fedeltà necessario per chi non-ebreo, voglia acquisire la cittadinanza israeliana; agli arresti degli attivisti israeliani che partecipano accanto ai palestinesi a Gerusalemme est come nei villaggi della Cisgiordania (non a caso alcuni dei manifestanti portavano banner e sticker a sostegno dell’attivista Jonathan Pollack, costretto per tre mesi a scontare il carcere). Alla lettera dei rabbini che vieta di vendere o affittare proprietà agli arabi.
Di seguito la riflessione di una delle partecipanti alla marcia, Mairav Zonszen, giornalista israeliana e amercana, che ha pubblicato alcuni commenti su +972mag.com, un magazine on line israeliano ma con commenti e articoli anche dai territori palestinesi occupati.
“Il fatto che lo slogan principale della manifestazione fosse “Democrazia, siccome è ancora possibile” è abbastanza triste: quale è il punto in un più ampio spettro che vede il paese allontanarsi così tanto dagli standard e dai principi democratici tanto che non può più essere chiamato democrazia? Non sarebbe ragionevole dire che quando una manifestazione è organizzata solo in nome della democrazia, abbiamo raggiunto quel punto?
Inoltre così come è importante per le persone scendere in piazza per poche ore di sabato pomeriggio in questi tempi bui, può avere anche però un effetto inverso. Il messaggio della protesta, cioè che non lasceremo che la destra si impossessi del paese e uccida la democrazia, può dare origine a fraintendimenti. Come Noam Sheifaz ha scritto recentemente, esiste la nozione che vi sia un Israele “autentico”, buono e democratico e che questo Israele sia dirottato da una minoranza estremista. Di fatto, forse sarebbe necessaria un’analisi più profonda e stimolante, per rendersi conto che c’è qualcosa di sistematico, al cuore della definizione dei valori di questo paese, che ha spianato la strada perché il razzismo e il fascismo fiorissero, e che richiede seri provvedimenti. Non possiamo continuare a insistere che Israele è ebraico e democratico e poi organizzare una protesta ogni volta che atti legislativi repressivi o eventi razzisti hanno luogo. E’ come nascondere il problema sotto il tappeto, fino al prossimo polverone”. Nena News
Video
http://www.youtube.com/watch?v=Hj5sdG0pNcQ&feature=player_embedded
martedì 18 gennaio 2011
TUNISIA: IL REGIME CON IL VOLTO RIFATTO
Una svolta a meta'. E' cosi' che molti tunisini descrivono l'esito della rivolta del pane e lavoro cheha messo in fuga il tiranno Ben Ali. Il vecchio establishment politico-militare resta in sella ma si e' dato un volto piu' umano. L'analisi di Marco Santopadre e Grazia Orsati
Roma, 18 gennaio 2011, Nena News – In Tunisia tanti hanno l’amaro in bocca per quella che appare una svolta politica a metà. Nel nuovo esecutivo, annunciato ieri dal premier (riconfermato) Mohammed Ghannuchi, i ministri del vecchio governo sono 11 su 24 e tutti in posti cruciali come gli Esteri, l’Interno e la Difesa. Ai leader dell’opposizione vanno solo tre ministeri. E consola fino ad un certo punto trovare tra i volti nuovi un giovane blogger, Slim Amamou, nominato sottosegretario alla gioventù e allo sport, la cineasta Moufida Tatli, al ministero della cultura, e l’attivista Lilia Laabidi agli Affari della donna. La vecchia guardia resta in sella nonostante la rivolta popolare che per settimane ha infiammato il paese. Non sorprende perciò l’accusa lanciata dal leader comunista Hamma Hammadi e dagli islamisti al premier Ghannuchi di aver soltanto dato un volto più presentabile al regime del tiranno Ben Ali fuggito dal paese e ora in esilio in Arabia saudita. Il primo ministro si difende, parla di svolta vera e sottolinea l’abolizione della censura e la liberazione dei detenuti politici. Ma e’ troppo poco rispetto alle aspettavive di una popolazione che ha pagato con decine di morti la ribellione contro un potere brutale e avido.
Nena News vi propone una analisi degli sviluppi in Tunisia di Marco Santopadre e Grazia Orsati*
La transizione in Tunisia tra vecchio e nuovo corso sembra assai più complicata e travagliata di quanto fosse prevedibile nei giorni scorsi, dopo la partenza per l’Arabia Saudita dell’ex dittatore Ben Alì. Non si arresta la rivolta popolare in Tunisia e soprattutto i manifestanti non sono disposti ad accettare un nuovo governo che sarà dominato dall’Rcd (Raggruppamento Costituzionale Democratico), cioè dal partito al potere per ben 23 anni sotto il regime dell’ex presidente nel frattempo riparato a Gedda.
Migliaia di persone sono scese in piazza nel centro di Tunisi per chiedere che nessun esponente dell’Rcd entri a far parte del nuovo esecutivo guidato tra l’altro proprio da un personaggio del vecchio regime.
Nonostante il carattere pacifico delle manifestazioni la polizia non ha esitato a sparare colpi di avvertimento in aria e a utilizzare gli idranti e i lacrimogeni per disperdere il corteo, in marcia lungo viale Bourguiba che resta presidiata in forze dalla polizia ed è sorvolata da elicotteri che volano a bassa quota. ”Non vogliamo nessuno del vecchio partito nel nuovo governo. Ciò vale anche per il Primo ministro” gridavano i manifestanti. L’annuncio arrivato intorno alle 14 da parte del premier designato che non cambieranno i ministri degli Interni, degli Esteri e della Difesa potrebbe innescare una nuova rivolta.
Già stamattina (ieri per chi legge, ndr) comunisti ed islamici hanno fatto sapere che non entreranno nel nuovo governo perché lo ritengono espressione del precedente regime dispotico. “Le consultazioni avviate in queste ore riguardano solo i partiti riconosciuti dall’ex regime di Ben Ali, mentre vengono escluse le forze protagoniste della rivoluzione popolare. Il premier Mohamed Ghannouchi vuole riproporre il regime di Ben Ali senza Ben Ali. Il nuovo governo non risponde alle aspirazioni del popolo, e quindi noi lo respingiamo” ha denunciato il segretario del Partito Comunista Operaio Tunisino Hamma Hammami che chiede invece la formazione di un’assemblea nazionale costituente. I comunisti, così come gli islamici, chiedono che il partito del dittatore e dell’attuale primo ministro designato venga sciolto, e contestano anche i tempi rapidi annunciati per le nuove elezioni, tra meno di due mesi, insufficienti a garantire una campagna elettorale equa. Il fatto che gli Stati Uniti si siano dichiarati disponibili ad aiutare il ‘nuovo’ governo tunisino a organizzare le elezioni non tranquillizza affatto le opposizioni radicali. ”Tutti i partiti sono stati indeboliti dalla repressione, per arrivare a elezioni realmente democratiche ci vogliono almeno cinque-sei mesi’’ ha dichiarato in un’intervista a Liberation da Londra Rachid Ghannouchi, il leader del partito islamico tunisino Ennahda messo al bando all’inizio degli anni ‘90 da Ben Ali, che sta preparando il suo ritorno in patria. Per quanto riguarda il pericolo di integralismo in Tunisia, Ghannouchi risponde: ”Ben Ali ha cercato di associarci al fondamentalismo e all’integralismo, ma é una menzogna, siamo per la democrazia, per lo statuto della donna in Tunisia, siamo un movimento pacifico e moderato”. Un altro leader politico esiliato da Ben Alì – Moncef Marzouki, leader storico della sinistra laica moderata – ha annunciato che si candiderà alle prossime elezioni presidenziali. Fondatore del Cpr, il Congresso per la Repubblica, 65 anni, di professione medico, alle spalle una lunga militanza a favore dei diritti dell’uomo, Marzouki aveva cercato di concorrere per la Presidenza della Repubblica già nel 1994. Ma fu fatto arrestare e privato del passaporto per ordine del Presidente, e quando fu liberato riparò all’estero.
E mentre i pezzi del vecchio regime cercano di imporre una transizione contestata almeno da alcuni settori del mondo politico il paese è ancora nel caos: scontri anche cruenti sono segnalati tra miliziani fedeli a Ben Alì e ai suoi apparati e l’esercito che – nonostante le scarse forze a disposizione – starebbe cercando di riportare l’ordine. Mentre alcune fonti smentiscono che nella notte le forze armate abbiano ingaggiato una vera e propria battaglia con un gruppo di miliziani della guardia presidenziale nel Palazzo Presidenziale a Cartagine, due cecchini appostati su un tetto vicino al Ministero dell’Interno sono stati uccisi dal fuoco proveniente da un elicottero dell’esercito. Sempre ieri un altro scontro a fuoco aveva avuto luogo vicino al quartier generale del Partito democratico progressista a Tunisi mentre oggi in varie parti della capitale sono stati uditi colpi di arma da fuoco.
Stamattina, invece, violenti scontri erano in corso a Biserta, importante base militare che ospita tre caserme; anche in questo caso gli scontri opporrebbero i militari dell’esercito agli uomini fedeli all’ex dittatore che, secondo voci non ancora confermate, avrebbero assaltato un deposito di armi.
I carri armati presidiano il centro di Tunisi e i soldati proteggono edifici pubblici e supermercati dagli assalti delle squadracce capitanate dai gerarchi del regime che con incendi e saccheggi tentano di creare il caos e screditare il nuovo regime. A Tunisi e nelle altre grandi città gli abitanti cercano di organizzarsi in comitati di difesa che per proteggere le loro case e i loro quartieri da giorni erigono barricate e realizzano dei veri e propri checkpoint per controllare l’identità di chi transita per le vie ancora spettrali. I principali sindacati del paese ieri hanno lanciato un appello dalla tv nazionale per la formazione di comitati di sicurezza di quartiere affinché i cittadini possano difendersi da soli in caso di attacchi, visto che non è possibile riporre molta fiducia nella fedeltà della Polizia al nuovo regime. Sarebbero infatti finora circa 3000 i gerarchi e i poliziotti arrestati per aver partecipato alla repressione delle manifestazioni – che in un mese è costata la vita a circa 80 dimostranti – e ai saccheggi degli ultimi giorni. Il fratello del deposto presidente, Kaies Ben Ali, è stato arrestato insieme a 4 poliziotti che, cercando di coprire la sua fuga, hanno sparato uccidendo quattro persone e ferendone altre 11. Al Jazira ha annunciato anche l’arresto dell’ex ministro dell’Interno Rafik Hadi Kacem, responsabile diretto della repressione. Nonostante la smentita della Banca Centrale tunisina il quotidiano Le Monde, citando i servizi segreti francesi, ha confermato la notizia che la moglie dell’ex dittatore, la signora Trabelsi, è fuggita portandosi via una tonnellata e mezza d’oro per un valore di circa 40 milioni di euro.
E mentre l’Egitto teme un effetto domino dopo che un giovane questa mattina si è dato fuoco di fronte al Parlamento al Cairo, la stampa marocchina ha accolto con favore la notizia della caduta del presidente Ben Ali dopo settimane di manifestazioni e proteste, e l’ha definita una lezione per il Nord Africa e il mondo arabo. ”Quello che e’ accaduto in Tunisia peserà sul Maghreb e il mondo arabo”, scrive il giornale Al-Alam, vicino al partito Istiqlal del quale il Primo ministro marocchino, Abbas El Fassi, è segretario generale. Sul quotidiano Attajdid, vicino al partito per la giustizia e lo sviluppo, si legge che ”coloro che hanno espresso a lungo la loro ammirazione per il modello tunisino dovrebbero provare vergogna per quello che è successo nel paese”.
Gli unici governi che nonostante tutto continuano a sostenere il dittatore ed il suo regime sono quello libico e quello italiano. Mentre ieri Gheddafi in Tv ha affermato che Ben Alì rimane il legittimo presidente della Tunisia e che il suo popolo dovrebbe fidarsi delle sue promesse, dall’Italia a prendere posizione, dopo Frattini, è la sua vice Stefania Craxi: “Ben Alì é stato eletto Presidente della Repubblica in Tunisia, se n’é andato in seguito a una sollevazione popolare ma non é reo di nessun reato. E fosse stato a Cagliari, l’Italia avrebbe dovuto accoglierlo. Non lo si poteva certo accusare di immigrazione clandestina”.
*RADIO CITTA’ APERTA
Roma, 18 gennaio 2011, Nena News – In Tunisia tanti hanno l’amaro in bocca per quella che appare una svolta politica a metà. Nel nuovo esecutivo, annunciato ieri dal premier (riconfermato) Mohammed Ghannuchi, i ministri del vecchio governo sono 11 su 24 e tutti in posti cruciali come gli Esteri, l’Interno e la Difesa. Ai leader dell’opposizione vanno solo tre ministeri. E consola fino ad un certo punto trovare tra i volti nuovi un giovane blogger, Slim Amamou, nominato sottosegretario alla gioventù e allo sport, la cineasta Moufida Tatli, al ministero della cultura, e l’attivista Lilia Laabidi agli Affari della donna. La vecchia guardia resta in sella nonostante la rivolta popolare che per settimane ha infiammato il paese. Non sorprende perciò l’accusa lanciata dal leader comunista Hamma Hammadi e dagli islamisti al premier Ghannuchi di aver soltanto dato un volto più presentabile al regime del tiranno Ben Ali fuggito dal paese e ora in esilio in Arabia saudita. Il primo ministro si difende, parla di svolta vera e sottolinea l’abolizione della censura e la liberazione dei detenuti politici. Ma e’ troppo poco rispetto alle aspettavive di una popolazione che ha pagato con decine di morti la ribellione contro un potere brutale e avido.
Nena News vi propone una analisi degli sviluppi in Tunisia di Marco Santopadre e Grazia Orsati*
La transizione in Tunisia tra vecchio e nuovo corso sembra assai più complicata e travagliata di quanto fosse prevedibile nei giorni scorsi, dopo la partenza per l’Arabia Saudita dell’ex dittatore Ben Alì. Non si arresta la rivolta popolare in Tunisia e soprattutto i manifestanti non sono disposti ad accettare un nuovo governo che sarà dominato dall’Rcd (Raggruppamento Costituzionale Democratico), cioè dal partito al potere per ben 23 anni sotto il regime dell’ex presidente nel frattempo riparato a Gedda.
Migliaia di persone sono scese in piazza nel centro di Tunisi per chiedere che nessun esponente dell’Rcd entri a far parte del nuovo esecutivo guidato tra l’altro proprio da un personaggio del vecchio regime.
Nonostante il carattere pacifico delle manifestazioni la polizia non ha esitato a sparare colpi di avvertimento in aria e a utilizzare gli idranti e i lacrimogeni per disperdere il corteo, in marcia lungo viale Bourguiba che resta presidiata in forze dalla polizia ed è sorvolata da elicotteri che volano a bassa quota. ”Non vogliamo nessuno del vecchio partito nel nuovo governo. Ciò vale anche per il Primo ministro” gridavano i manifestanti. L’annuncio arrivato intorno alle 14 da parte del premier designato che non cambieranno i ministri degli Interni, degli Esteri e della Difesa potrebbe innescare una nuova rivolta.
Già stamattina (ieri per chi legge, ndr) comunisti ed islamici hanno fatto sapere che non entreranno nel nuovo governo perché lo ritengono espressione del precedente regime dispotico. “Le consultazioni avviate in queste ore riguardano solo i partiti riconosciuti dall’ex regime di Ben Ali, mentre vengono escluse le forze protagoniste della rivoluzione popolare. Il premier Mohamed Ghannouchi vuole riproporre il regime di Ben Ali senza Ben Ali. Il nuovo governo non risponde alle aspirazioni del popolo, e quindi noi lo respingiamo” ha denunciato il segretario del Partito Comunista Operaio Tunisino Hamma Hammami che chiede invece la formazione di un’assemblea nazionale costituente. I comunisti, così come gli islamici, chiedono che il partito del dittatore e dell’attuale primo ministro designato venga sciolto, e contestano anche i tempi rapidi annunciati per le nuove elezioni, tra meno di due mesi, insufficienti a garantire una campagna elettorale equa. Il fatto che gli Stati Uniti si siano dichiarati disponibili ad aiutare il ‘nuovo’ governo tunisino a organizzare le elezioni non tranquillizza affatto le opposizioni radicali. ”Tutti i partiti sono stati indeboliti dalla repressione, per arrivare a elezioni realmente democratiche ci vogliono almeno cinque-sei mesi’’ ha dichiarato in un’intervista a Liberation da Londra Rachid Ghannouchi, il leader del partito islamico tunisino Ennahda messo al bando all’inizio degli anni ‘90 da Ben Ali, che sta preparando il suo ritorno in patria. Per quanto riguarda il pericolo di integralismo in Tunisia, Ghannouchi risponde: ”Ben Ali ha cercato di associarci al fondamentalismo e all’integralismo, ma é una menzogna, siamo per la democrazia, per lo statuto della donna in Tunisia, siamo un movimento pacifico e moderato”. Un altro leader politico esiliato da Ben Alì – Moncef Marzouki, leader storico della sinistra laica moderata – ha annunciato che si candiderà alle prossime elezioni presidenziali. Fondatore del Cpr, il Congresso per la Repubblica, 65 anni, di professione medico, alle spalle una lunga militanza a favore dei diritti dell’uomo, Marzouki aveva cercato di concorrere per la Presidenza della Repubblica già nel 1994. Ma fu fatto arrestare e privato del passaporto per ordine del Presidente, e quando fu liberato riparò all’estero.
E mentre i pezzi del vecchio regime cercano di imporre una transizione contestata almeno da alcuni settori del mondo politico il paese è ancora nel caos: scontri anche cruenti sono segnalati tra miliziani fedeli a Ben Alì e ai suoi apparati e l’esercito che – nonostante le scarse forze a disposizione – starebbe cercando di riportare l’ordine. Mentre alcune fonti smentiscono che nella notte le forze armate abbiano ingaggiato una vera e propria battaglia con un gruppo di miliziani della guardia presidenziale nel Palazzo Presidenziale a Cartagine, due cecchini appostati su un tetto vicino al Ministero dell’Interno sono stati uccisi dal fuoco proveniente da un elicottero dell’esercito. Sempre ieri un altro scontro a fuoco aveva avuto luogo vicino al quartier generale del Partito democratico progressista a Tunisi mentre oggi in varie parti della capitale sono stati uditi colpi di arma da fuoco.
Stamattina, invece, violenti scontri erano in corso a Biserta, importante base militare che ospita tre caserme; anche in questo caso gli scontri opporrebbero i militari dell’esercito agli uomini fedeli all’ex dittatore che, secondo voci non ancora confermate, avrebbero assaltato un deposito di armi.
I carri armati presidiano il centro di Tunisi e i soldati proteggono edifici pubblici e supermercati dagli assalti delle squadracce capitanate dai gerarchi del regime che con incendi e saccheggi tentano di creare il caos e screditare il nuovo regime. A Tunisi e nelle altre grandi città gli abitanti cercano di organizzarsi in comitati di difesa che per proteggere le loro case e i loro quartieri da giorni erigono barricate e realizzano dei veri e propri checkpoint per controllare l’identità di chi transita per le vie ancora spettrali. I principali sindacati del paese ieri hanno lanciato un appello dalla tv nazionale per la formazione di comitati di sicurezza di quartiere affinché i cittadini possano difendersi da soli in caso di attacchi, visto che non è possibile riporre molta fiducia nella fedeltà della Polizia al nuovo regime. Sarebbero infatti finora circa 3000 i gerarchi e i poliziotti arrestati per aver partecipato alla repressione delle manifestazioni – che in un mese è costata la vita a circa 80 dimostranti – e ai saccheggi degli ultimi giorni. Il fratello del deposto presidente, Kaies Ben Ali, è stato arrestato insieme a 4 poliziotti che, cercando di coprire la sua fuga, hanno sparato uccidendo quattro persone e ferendone altre 11. Al Jazira ha annunciato anche l’arresto dell’ex ministro dell’Interno Rafik Hadi Kacem, responsabile diretto della repressione. Nonostante la smentita della Banca Centrale tunisina il quotidiano Le Monde, citando i servizi segreti francesi, ha confermato la notizia che la moglie dell’ex dittatore, la signora Trabelsi, è fuggita portandosi via una tonnellata e mezza d’oro per un valore di circa 40 milioni di euro.
E mentre l’Egitto teme un effetto domino dopo che un giovane questa mattina si è dato fuoco di fronte al Parlamento al Cairo, la stampa marocchina ha accolto con favore la notizia della caduta del presidente Ben Ali dopo settimane di manifestazioni e proteste, e l’ha definita una lezione per il Nord Africa e il mondo arabo. ”Quello che e’ accaduto in Tunisia peserà sul Maghreb e il mondo arabo”, scrive il giornale Al-Alam, vicino al partito Istiqlal del quale il Primo ministro marocchino, Abbas El Fassi, è segretario generale. Sul quotidiano Attajdid, vicino al partito per la giustizia e lo sviluppo, si legge che ”coloro che hanno espresso a lungo la loro ammirazione per il modello tunisino dovrebbero provare vergogna per quello che è successo nel paese”.
Gli unici governi che nonostante tutto continuano a sostenere il dittatore ed il suo regime sono quello libico e quello italiano. Mentre ieri Gheddafi in Tv ha affermato che Ben Alì rimane il legittimo presidente della Tunisia e che il suo popolo dovrebbe fidarsi delle sue promesse, dall’Italia a prendere posizione, dopo Frattini, è la sua vice Stefania Craxi: “Ben Alì é stato eletto Presidente della Repubblica in Tunisia, se n’é andato in seguito a una sollevazione popolare ma non é reo di nessun reato. E fosse stato a Cagliari, l’Italia avrebbe dovuto accoglierlo. Non lo si poteva certo accusare di immigrazione clandestina”.
*RADIO CITTA’ APERTA
Un pilota israeliano descrive come un 'ottimo attacco', quello che ha ucciso 15 abitanti di Gaza nel 2002
Associazione di Amicizia Italo-Palestinese, 16 Gennaio 2011
Haaretz.com
07.01.2011
Un membro dell'equipaggio coinvolto nell'assassinio del capo militare di Hamas, Salah Shehadeh, ha recentemente parlato con studenti del controverso incidente
I piloti che hanno bombardato la casa di un capo militare di Hamas nel 2002 non sapevano o non volevano sapere l'identità del loro obiettivo prima dell'attacco, secondo T., uno degli aviatori coinvolti direttamente, che ha parlato di recente con gli studenti di una yeshiva laica a Tel Aviv.
Il bombardamento del 22 luglio della casa di Salah Shehadeh, che aveva guidato l'ala militare di Hamas, nel quartiere densamente popolato di Daraj, a Gaza City, ha ucciso un totale di 15 persone, compresi Shehadeh e il suo assistente. Le altre vittime comprendevano otto bambini (di età compresa tra meno di un anno a 14 anni) e tre donne.
Haaretz ha acquisito la registrazione della discussione tenutasi con T. presso il Centro BINA a Tel Aviv e, per la prima volta, ha riportato la testimonianza di uno degli esecutori diretti dell'assassinio.
Il 19 dicembre 2010, T. ha partecipato ad un dibattito intitolato "I limiti dell'obbedienza", parte di una serie chiamata "I militari in uno Stato democratico", organizzata congiuntamente dalla yeshiva, dal personale delle Forze di Difesa israeliane e dal Comando della Scuola.
Dopo la preparazione e un addestramento di alcuni giorni, racconta T., "hanno autorizzato il decollo ... Siamo partiti dalla base aerea Hatzor. Ci vogliono due minuti da Hatzor a Gaza ... tempo di volo. Due minuti dopo il decollo ci è stato detto 'andate e aspettate sul mare.'
"Ciò significa ovest, al buio, in modo che non vi sia nessun rumore," ha continuato T.. "Questo [tipo di] persona può annusare gli aerei, li sente arrivare e fugge ... Quindi abbiamo aspettato in mare per 50 minuti. Poi ci hanno detto: 'attacco approvato.' Dico 'fantastico'.
"Devi averlo visto al cinema ... sembra un film. Ci spostiamo verso est, poi verso ovest, attacchiamo, la casa va giù, crolla ... Non vediamo nulla in giro ... a quell'altezza non si vede molto. Ho uno schermo televisivo quando guardo il bersaglio. Colpisco con il visore notturno, atterro e attendo il comandante della base ...
"Mi dice che si trattava di Salah Shehadeh, e rispondo 'buono'", ha raccontato T.. "Non ho idea di chi o di cosa stia parlando. Abbiamo effettuato un buon attacco, alfa – così si chiama nel linguaggio dell'Air Force - e questo è tutto. [Dopo] siamo andati a dormire.
"Il giorno dopo, in realtà lo stesso giorno, ci dicono che l'attacco ha ucciso Salah Shehadeh, sua moglie, sua figlia, suo figlio e altri ... Il comandante dei piloti ci ha chiamato tutti in per un discorso sull'etica, il primo che sentivo..."
Durante la discussione a Tel Aviv, T. ha posto agli adolescenti, che si stanno preparando per il servizio militare, la seguente domanda: "Se avessi saputo che 14 altre persone erano con lui ... cosa avrei dovuto fare?"
Testo inglese in http://www.haaretz.com/print-edition/news/israeli-pilot-describes-good-strike-that-killed-15-gazans-in-2002-1.335660 - tradotto da Barbara Gagliardi
Haaretz.com
07.01.2011
Un membro dell'equipaggio coinvolto nell'assassinio del capo militare di Hamas, Salah Shehadeh, ha recentemente parlato con studenti del controverso incidente
I piloti che hanno bombardato la casa di un capo militare di Hamas nel 2002 non sapevano o non volevano sapere l'identità del loro obiettivo prima dell'attacco, secondo T., uno degli aviatori coinvolti direttamente, che ha parlato di recente con gli studenti di una yeshiva laica a Tel Aviv.
Il bombardamento del 22 luglio della casa di Salah Shehadeh, che aveva guidato l'ala militare di Hamas, nel quartiere densamente popolato di Daraj, a Gaza City, ha ucciso un totale di 15 persone, compresi Shehadeh e il suo assistente. Le altre vittime comprendevano otto bambini (di età compresa tra meno di un anno a 14 anni) e tre donne.
Haaretz ha acquisito la registrazione della discussione tenutasi con T. presso il Centro BINA a Tel Aviv e, per la prima volta, ha riportato la testimonianza di uno degli esecutori diretti dell'assassinio.
Il 19 dicembre 2010, T. ha partecipato ad un dibattito intitolato "I limiti dell'obbedienza", parte di una serie chiamata "I militari in uno Stato democratico", organizzata congiuntamente dalla yeshiva, dal personale delle Forze di Difesa israeliane e dal Comando della Scuola.
Dopo la preparazione e un addestramento di alcuni giorni, racconta T., "hanno autorizzato il decollo ... Siamo partiti dalla base aerea Hatzor. Ci vogliono due minuti da Hatzor a Gaza ... tempo di volo. Due minuti dopo il decollo ci è stato detto 'andate e aspettate sul mare.'
"Ciò significa ovest, al buio, in modo che non vi sia nessun rumore," ha continuato T.. "Questo [tipo di] persona può annusare gli aerei, li sente arrivare e fugge ... Quindi abbiamo aspettato in mare per 50 minuti. Poi ci hanno detto: 'attacco approvato.' Dico 'fantastico'.
"Devi averlo visto al cinema ... sembra un film. Ci spostiamo verso est, poi verso ovest, attacchiamo, la casa va giù, crolla ... Non vediamo nulla in giro ... a quell'altezza non si vede molto. Ho uno schermo televisivo quando guardo il bersaglio. Colpisco con il visore notturno, atterro e attendo il comandante della base ...
"Mi dice che si trattava di Salah Shehadeh, e rispondo 'buono'", ha raccontato T.. "Non ho idea di chi o di cosa stia parlando. Abbiamo effettuato un buon attacco, alfa – così si chiama nel linguaggio dell'Air Force - e questo è tutto. [Dopo] siamo andati a dormire.
"Il giorno dopo, in realtà lo stesso giorno, ci dicono che l'attacco ha ucciso Salah Shehadeh, sua moglie, sua figlia, suo figlio e altri ... Il comandante dei piloti ci ha chiamato tutti in per un discorso sull'etica, il primo che sentivo..."
Durante la discussione a Tel Aviv, T. ha posto agli adolescenti, che si stanno preparando per il servizio militare, la seguente domanda: "Se avessi saputo che 14 altre persone erano con lui ... cosa avrei dovuto fare?"
Testo inglese in http://www.haaretz.com/print-edition/news/israeli-pilot-describes-good-strike-that-killed-15-gazans-in-2002-1.335660 - tradotto da Barbara Gagliardi
lunedì 17 gennaio 2011
GERUSALEMME: DOPO LO SHEPHERD, APRE IL ‘PICCOLO MURO DEL PIANTO’
Modifiche in vista per il vicolo Rabat al-Kurd, nel cuore del quartiere arabo: rimossi ieri i ponteggi dei lavori per far spazio ai religiosi ebrei. Intanto a Gerusalemme Est si manifesta per la distruzione dello Shepherd: i coloni chiedono 70 nuove case, anziché 20.(Vedi i video)
Gerusalemme 15 gennaio 2011, Nena News (foto France 24) – Manifestazione ancora più numerosa, venerdì a Gerusalemme Est: mentre i bulldozer della compagnia Volvo ripulivano dalle macerie lo spazio dove fino alla scorsa domenica si trovava l’hotel Shepherd, edificio storico palestinese, manifestanti israeliani, palestinesi e internazionali hanno sfilato fermandosi davanti al cantiere e protestando contro l’ennesimo insulto. Dopo che il premier Netanyahu, per placare le critiche arrivate da Unione Europea, Stati Uniti e dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha dichiarato che “il progetto è portato avanti da individui privati in accordo con la legge israeliana” negando il coinvolgimento del governo israeliano, è di ieri la notizia diffusa dalla stampa israeliana e dall’AFP, che l’organizzazione di coloni ha richiesto la costruzione di ulteriori 50 appartamenti, oltre ai 20 già approvati.
I lavori di demolizione dello storico hotel erano iniziati la scorsa domenica come previsto, a Sheikh Jarrah, nella zona palestinese (Est) di Gerusalemme sotto occupazione dal 1967, dove prosegue lentamente ma senza sosta la penetrazione dei coloni israeliani che negli ultimi due anni sono stati in grado, di occupare in quella zona diverse case sfrattando le famiglie palestinesi che le abitavano e di modificare l’assetto del quartiere. La nuova colonia ebraica che sorgerà al suo posto si chiamerà Shimon Ha-Zadik.
Ha condannato l’avvio dei lavori di demolizione dello Shepherd Hotel anche l’organizzazione israeliana Ir Amin, che dal 2004 monitora le modifiche apportate ai quartieri arabi di Gerusalemme Est dai piani regolatori promossi dal comune e anche i lavori archeologici e non che interessano il cuore della città vecchia. Ed è sempre Ir Amin ad aver lanciato l’allarme ieri, quando in seguito ad un articolo apparso sul quotidiano Ha’aretz, si sarebbe diffusa la notizia della rimozione delle impalcature che limitano l’accesso a quello che viene definito il piccolo Kotel, il piccolo Muro del pianto, che si trova proprio nel quartiere arabo della città vecchia.
Una sezione conosciuta come Rabat al-Kurd alley, usata come passaggio per accedere alle loro abitazioni da 17 famiglie di residenti palestinesi, le cui finestre affacciano proprio nel cortile dal quale le impalcature sono state rimosse. I lavori interessano da anni l’arco, e le gallerie sotterranee che attraversando la proprietà palestinese arrivano fino al vero e proprio Muro del Pianto, e lo spazio, visto che si tratta di un luogo estremamente sensibile, è stato solo occasionalmente aperto alla preghiera dei religiosi ebrei o ad eventi privati. Tanto che tre mesi fa anche un rappresentante del Ministero del Turismo israeliano ha sconsigliato qualsiasi lavoro strutturale che alteri lo status quo, proponendo, il trasferimento di responsabilità del luogo, dal Ministero alla fondazione che gestisce il patrimonio del Muro del Pianto.
Una decisione che risponde alle pressioni di Ateret Cohanim, un’istituzione privata di ultra-ortodossi, che promuove da anni la colonizzazione non solo della città vecchia ma anche di Gerusalemme Est e che ha sempre chiesto con forza la rimozione delle impalcature e l’apertura del sito, nonostante le proteste dei residenti e quelle del ‘Wafq’, l’autorità religiosa islamica. Secondo quanto riportato da diverse fonti, la rimozione delle impalcature risponde al desiderio di far posto ad uno spazio più ampio destinato alla preghiera dei fedeli di religione ebraica che già ora, ma in misura ridotta, visitano il sito. (Nena News)
Gerusalemme 15 gennaio 2011, Nena News (foto France 24) – Manifestazione ancora più numerosa, venerdì a Gerusalemme Est: mentre i bulldozer della compagnia Volvo ripulivano dalle macerie lo spazio dove fino alla scorsa domenica si trovava l’hotel Shepherd, edificio storico palestinese, manifestanti israeliani, palestinesi e internazionali hanno sfilato fermandosi davanti al cantiere e protestando contro l’ennesimo insulto. Dopo che il premier Netanyahu, per placare le critiche arrivate da Unione Europea, Stati Uniti e dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha dichiarato che “il progetto è portato avanti da individui privati in accordo con la legge israeliana” negando il coinvolgimento del governo israeliano, è di ieri la notizia diffusa dalla stampa israeliana e dall’AFP, che l’organizzazione di coloni ha richiesto la costruzione di ulteriori 50 appartamenti, oltre ai 20 già approvati.
I lavori di demolizione dello storico hotel erano iniziati la scorsa domenica come previsto, a Sheikh Jarrah, nella zona palestinese (Est) di Gerusalemme sotto occupazione dal 1967, dove prosegue lentamente ma senza sosta la penetrazione dei coloni israeliani che negli ultimi due anni sono stati in grado, di occupare in quella zona diverse case sfrattando le famiglie palestinesi che le abitavano e di modificare l’assetto del quartiere. La nuova colonia ebraica che sorgerà al suo posto si chiamerà Shimon Ha-Zadik.
Ha condannato l’avvio dei lavori di demolizione dello Shepherd Hotel anche l’organizzazione israeliana Ir Amin, che dal 2004 monitora le modifiche apportate ai quartieri arabi di Gerusalemme Est dai piani regolatori promossi dal comune e anche i lavori archeologici e non che interessano il cuore della città vecchia. Ed è sempre Ir Amin ad aver lanciato l’allarme ieri, quando in seguito ad un articolo apparso sul quotidiano Ha’aretz, si sarebbe diffusa la notizia della rimozione delle impalcature che limitano l’accesso a quello che viene definito il piccolo Kotel, il piccolo Muro del pianto, che si trova proprio nel quartiere arabo della città vecchia.
Una sezione conosciuta come Rabat al-Kurd alley, usata come passaggio per accedere alle loro abitazioni da 17 famiglie di residenti palestinesi, le cui finestre affacciano proprio nel cortile dal quale le impalcature sono state rimosse. I lavori interessano da anni l’arco, e le gallerie sotterranee che attraversando la proprietà palestinese arrivano fino al vero e proprio Muro del Pianto, e lo spazio, visto che si tratta di un luogo estremamente sensibile, è stato solo occasionalmente aperto alla preghiera dei religiosi ebrei o ad eventi privati. Tanto che tre mesi fa anche un rappresentante del Ministero del Turismo israeliano ha sconsigliato qualsiasi lavoro strutturale che alteri lo status quo, proponendo, il trasferimento di responsabilità del luogo, dal Ministero alla fondazione che gestisce il patrimonio del Muro del Pianto.
Una decisione che risponde alle pressioni di Ateret Cohanim, un’istituzione privata di ultra-ortodossi, che promuove da anni la colonizzazione non solo della città vecchia ma anche di Gerusalemme Est e che ha sempre chiesto con forza la rimozione delle impalcature e l’apertura del sito, nonostante le proteste dei residenti e quelle del ‘Wafq’, l’autorità religiosa islamica. Secondo quanto riportato da diverse fonti, la rimozione delle impalcature risponde al desiderio di far posto ad uno spazio più ampio destinato alla preghiera dei fedeli di religione ebraica che già ora, ma in misura ridotta, visitano il sito. (Nena News)
GERUSALEMME, COMUNE DEMOLISCE HOTEL PALESTINESE SHEPHERD
Al posto dell'edificio storico saranno costruiti 20 appartamenti destinati a coloni israeliani, nel contesto dei progetti di sviluppo di un nuovo rione ebraico, Shimon ha-Zadik.
DI MARIO CORRENTI
Gerusalemme, 09 gennaio 2011, Nena News (nella foto lo Shepherd Hotel) – Mesi di manifestazioni e raduni di attivisti israeliani e palestinesi non hanno avuto alcun effetto sulle decisioni già prese dal Comune (israeliano) di Gerusalemme e dal governo Netanyahu. Sono iniziati oggi, come previsto, a Sheikh Jarrah, nella zona palestinese (Est) di Gerusalemme sotto occupazione dal 1967, i lavori di demolizione dell’ex Hotel Sheperd, un edificio storico. Al suo posto saranno costruiti 20 appartamenti destinati a israeliani, nel contesto dei progetti di sviluppo di una nuova colonia ebraica, che porterà il nome di Shimon ha-Zadik.
A Sheikh Jarrah peraltro prosegue lentamente ma senza sosta la penetrazione dei coloni israeliani che negli ultimi due anni sono stati in grado, grazie alle sentenze della Corte Suprema israeliana e la protezione della polizia, di occupare in quella zona diverse case sfrattando le famiglie palestinesi che le abitavano.
Una immagine dell'Hotel Shepherd quando non era circondato dalle recinzioni
Acquistato negli anni Ottanta da un facoltoso uomo d’affari statunitense legato alla destra israeliana, l’Hotel Sheperd è stato oggetto di una lunga vertenza giudiziaria che si è conclusa, come sempre in questi casi, con una sentenza a favore delle autorità comunali israeliane e dei coloni. La storia «politica» dello Shepherd inizia nel 1985 quando l’edificio, che originariamente aveva ospitato la villa del Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin Al-Husseini, viene acquistato, insieme all’area circostante dal miliardario ebreo americano Irving Moskowitz. Quest’ultimo, che da molti anni incoraggia e finanzia l’insediamento di coloni in diverse zone di Gerusalemme Est, chiese subito permessi per costruire venti edifici destinati a famiglie ebree. Permessi rimasti congelati fino allo scorso 18 marzo, quando è arrivato il via libera ai lavori, sollevando numerose critiche.
Nei mesi scorsi il quotidiano israeliano Haaretz aveva riferito che il «Comitato per la pianificazione ed edificazione» di Gerusalemme, ha messo a punto un nuovo piano regolatore per la città che promuove e incentiva la costruzione di edifici destinati alla popolazione ebraica in diverse aree di Gerusalemme Est. Per anni decine di architetti si sono avvicendati per ridisegnare l’ultimo piano regolatore della Città Santa, tale da poter rimpiazzare quello in uso dal 1959. Il nuovo piano regolatore non solo non tiene in alcun conto le risoluzioni internazionali ma – sottolinea l’associazione pacifista “Ir Amin” – ancora una volta «sottovaluta i bisogni della popolazione araba». Oltre 13 mila appartamenti sono previsti per i palestinesi di Gerusalemme est, meno della metà del numero che servirebbe a coprire gli effettivi bisogni dei residenti arabi da qui al 2030.
La mappa del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah con l'Hotel Shepherd
Il piano regolatore mentre consente progetti di costruzione destinati ai residenti arabi, sia a nord che a sud di Gerusalemme est, vieta qualsiasi costruzione nell’area centrale, quella del Bacino Sacro, la vallata che si estende poco fuori dalle mura della Città Vecchia, dove da anni si concentrano gli sforzi di espansione della presenza dei coloni israeliani, in particolare nel quartiere di Silwan.
Ha festeggiato l’avvio dei lavori di demolizione dello Shepherd Hotel il gruppo del Likud (il partito del premier Netanyahu) nel municipio di Gerusalemme, notando con soddisfazione che il cosiddetto «rione Shimon ha-Zadik rafforzerà la presenza ebraica in città ». Nena News
DI MARIO CORRENTI
Gerusalemme, 09 gennaio 2011, Nena News (nella foto lo Shepherd Hotel) – Mesi di manifestazioni e raduni di attivisti israeliani e palestinesi non hanno avuto alcun effetto sulle decisioni già prese dal Comune (israeliano) di Gerusalemme e dal governo Netanyahu. Sono iniziati oggi, come previsto, a Sheikh Jarrah, nella zona palestinese (Est) di Gerusalemme sotto occupazione dal 1967, i lavori di demolizione dell’ex Hotel Sheperd, un edificio storico. Al suo posto saranno costruiti 20 appartamenti destinati a israeliani, nel contesto dei progetti di sviluppo di una nuova colonia ebraica, che porterà il nome di Shimon ha-Zadik.
A Sheikh Jarrah peraltro prosegue lentamente ma senza sosta la penetrazione dei coloni israeliani che negli ultimi due anni sono stati in grado, grazie alle sentenze della Corte Suprema israeliana e la protezione della polizia, di occupare in quella zona diverse case sfrattando le famiglie palestinesi che le abitavano.
Una immagine dell'Hotel Shepherd quando non era circondato dalle recinzioni
Acquistato negli anni Ottanta da un facoltoso uomo d’affari statunitense legato alla destra israeliana, l’Hotel Sheperd è stato oggetto di una lunga vertenza giudiziaria che si è conclusa, come sempre in questi casi, con una sentenza a favore delle autorità comunali israeliane e dei coloni. La storia «politica» dello Shepherd inizia nel 1985 quando l’edificio, che originariamente aveva ospitato la villa del Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin Al-Husseini, viene acquistato, insieme all’area circostante dal miliardario ebreo americano Irving Moskowitz. Quest’ultimo, che da molti anni incoraggia e finanzia l’insediamento di coloni in diverse zone di Gerusalemme Est, chiese subito permessi per costruire venti edifici destinati a famiglie ebree. Permessi rimasti congelati fino allo scorso 18 marzo, quando è arrivato il via libera ai lavori, sollevando numerose critiche.
Nei mesi scorsi il quotidiano israeliano Haaretz aveva riferito che il «Comitato per la pianificazione ed edificazione» di Gerusalemme, ha messo a punto un nuovo piano regolatore per la città che promuove e incentiva la costruzione di edifici destinati alla popolazione ebraica in diverse aree di Gerusalemme Est. Per anni decine di architetti si sono avvicendati per ridisegnare l’ultimo piano regolatore della Città Santa, tale da poter rimpiazzare quello in uso dal 1959. Il nuovo piano regolatore non solo non tiene in alcun conto le risoluzioni internazionali ma – sottolinea l’associazione pacifista “Ir Amin” – ancora una volta «sottovaluta i bisogni della popolazione araba». Oltre 13 mila appartamenti sono previsti per i palestinesi di Gerusalemme est, meno della metà del numero che servirebbe a coprire gli effettivi bisogni dei residenti arabi da qui al 2030.
La mappa del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah con l'Hotel Shepherd
Il piano regolatore mentre consente progetti di costruzione destinati ai residenti arabi, sia a nord che a sud di Gerusalemme est, vieta qualsiasi costruzione nell’area centrale, quella del Bacino Sacro, la vallata che si estende poco fuori dalle mura della Città Vecchia, dove da anni si concentrano gli sforzi di espansione della presenza dei coloni israeliani, in particolare nel quartiere di Silwan.
Ha festeggiato l’avvio dei lavori di demolizione dello Shepherd Hotel il gruppo del Likud (il partito del premier Netanyahu) nel municipio di Gerusalemme, notando con soddisfazione che il cosiddetto «rione Shimon ha-Zadik rafforzerà la presenza ebraica in città ». Nena News
domenica 16 gennaio 2011
In Israele è illegale la sinistra, la giustizia e i diritti umani
Da quando è illegale essere di sinistra in Israele?
Di Gideon Levy *
La polizia, il sistema giudiziario, la Knesset, lo Shin Bet e lo IDF hanno unito le forze con la propaganda di destra per agire come pubblici ministeri senza un processo.
È giunta l’ora di istituire un divieto giuridico sulla sinistra israeliana. Perché continuiamo a tergiversare? Perché abbiamo bisogno di un gravoso, estenuante processo legislativo emanando legge dopo legge? A che cosa servono tutte queste proposte ed emendamenti? In luogo a quanto sopra, facciamo invece una cosa molto semplice: dichiariamo la sinistra un’entità illegale nello Stato di Israele. D’ora in poi, chi pensa a sinistra, agisce a sinistra, si dimostra di sinistra o tollera la sinistra finirà in galera.
Costruiamo un altro "luogo di permanenza" per gli stranieri, ma questa volta per gli stranieri interni – quelli di sinistra – spurgando e purificando così il nostro campo. Un tale passo rifletterebbe fedelmente lo zeitgeist che ha preso piede tra la maggioranza degli Israeliani e ha consentito loro di delineare un vero ritratto della democrazia israeliana.
Nell’Israele del 2011, non è più legittimo appartenere alla sinistra. È illegittimo lottare per i diritti umani od opporsi all’occupazione o indagare sui crimini di guerra. Queste azioni ti fanno avere il marchio dell’infamia. Un colono che ruba la terra è un Sionista; un guerrafondaio di destra è un patriota; un rabbino fondamentalista è una guida spirituale; un razzista che espelle gli stranieri è un leale cittadino. Solo chi è di sinistra è un traditore.
Il nazionalista ama Israele, chi è di sinistra lo disprezza. Il primo non si deve scusare di nulla, l’altro deve smentire voci e speculazioni. Nell’Israele del 2011, non possiamo più parlare di sentimenti espressi dai venditori nei mercati e nei bazar. Ora, la maggioranza delle agenzie ed entità governative prende parte a questa pericolosa bonanza di delegittimazione.
Lo Knesset ha deciso di istituire un comitato parlamentare di inchiesta per controllare le attività di gruppi di sinistra "e il loro contributo alla campagna di delegittimazione contro Israele". Una tale dichiarazione farebbe arrossire persino il Senatore Joseph McCarthy.
Nuri el-Okbi, un cittadino Beduino e attivista per i diritti umani, è stato fatto mettere agli arresti per aver esercitato senza licenza dal giudice Zecharia Yeminy, che non ha avuto problemi ad ammettere di avergli aumentato la pena solo perché el-Okbi aveva agito a favore dei diritti della sparpagliata popolazione beduina.
Jonathan Pollak, membro di "Anarchici Contro il Muro " e attivista anti-occupazione di cui ogni società sana andrebbe fiera, è stato arrestato per aver percorso la strada in bicicletta.
Mossi Raz, ex membro della Knesset che era pacificamente in piedi sul marciapiede durante una protesta per l’uccisione di un attivista palestinese a Bil'in, è stato picchiato da un ufficiale di polizia, ammanettato e arrestato.
I pacifisti sono interrogati dal servizio di sicurezza dello Shin Bet e vengono preventivamente ammoniti dal commettere violazioni. Un gruppo di medici è "di estrema sinistra", una fondazione "disprezza Israele", donne solerti che controllano i checkpoint sono "traditrici" e un centro informazioni è considerato "complice del terrorismo".
I coloni che lanciano spazzatura contro i soldati israeliani e i loro amici che danno fuoco ai campi palestinesi non vengono processati, ma Pollak viene mandato in prigione. I soldati che hanno ucciso dei palestinesi che sventolavano bandiere bianche devono ancora essere puniti, ma chi denuncia questi episodi viene denunciato. Tutto questo è aggravato da una pletora di progetti di legge – dal giuramento di fedeltà alla legge sulla Nakba. Tutto si mescola per formare un unico orribile quadro: la sinistra è nemica del popolo e nemica dello stato.
Mentre traspare tutto questo, il vero danno all’immagine di Israele e alla sua posizione internazionale è causato da una politica ostruzionista e dagli sforzi del governo di rafforzare ulteriormente l’occupazione. È causato dalle azioni violente delle Forze Armate Israeliane e dei coloni, oltre che dalle azioni razziste dei legislatori israeliani e dei rabbini.
Per putrefare il tanfo di Israele un giorno dell’Operazione Piombo Fuso è valso più di tutti i rapporti contrari messi insieme. Una moschea data alle fiamme ha infangato il nome di Israele più di tutte le colonne e gli editoriali critici verso Israele messi insieme.
Eppure nessuno chiede che venga fatta luce su questi incidenti. Pochissime persone, se ce ne sono state, sono state giudicate per queste azioni. Che cosa resta della sinistra, l’unico gruppo che continua a preservare la moralità di Israele? I pochi solitari che continuano a tenere accesa la tremolante fiamma dell’umanità vengono accusati, condannati e puniti mentre i veri colpevoli vengono prosciolti da tutte le. La polizia, il sistema giuridico, la Knesset, lo Shin Bet e lo IDF hanno unito le forze con gli attivisti di destra per agire come pubblici ministeri senza un processo, mentre la sinistra viene privata di avvocato difensore.
Basterebbe una legge a semplificare le cose: fate sapere agli israeliani ciò che è proibito. È proibito credere in un Israele giusto, proibito lottare contro una qualsiasi delle sue ingiustizie, proibito lottare per la sua anima. Eppure, un qualche dubbio riesce a insinuarsi nel cuore. Tutti quelli che ingaggiano una lotta contro la sinistra – dai capi dello Shin Bet e della polizia ai giudici e ai legislatori di destra – vogliono davvero una "democrazia" senza la sinistra?
da .haaretz.com/print-edition/opinion/when-did-it-become-illegal-to-be-a-leftist-in-israel-1.335503
traduzione di Flavia Vendittelli
Di Gideon Levy *
La polizia, il sistema giudiziario, la Knesset, lo Shin Bet e lo IDF hanno unito le forze con la propaganda di destra per agire come pubblici ministeri senza un processo.
È giunta l’ora di istituire un divieto giuridico sulla sinistra israeliana. Perché continuiamo a tergiversare? Perché abbiamo bisogno di un gravoso, estenuante processo legislativo emanando legge dopo legge? A che cosa servono tutte queste proposte ed emendamenti? In luogo a quanto sopra, facciamo invece una cosa molto semplice: dichiariamo la sinistra un’entità illegale nello Stato di Israele. D’ora in poi, chi pensa a sinistra, agisce a sinistra, si dimostra di sinistra o tollera la sinistra finirà in galera.
Costruiamo un altro "luogo di permanenza" per gli stranieri, ma questa volta per gli stranieri interni – quelli di sinistra – spurgando e purificando così il nostro campo. Un tale passo rifletterebbe fedelmente lo zeitgeist che ha preso piede tra la maggioranza degli Israeliani e ha consentito loro di delineare un vero ritratto della democrazia israeliana.
Nell’Israele del 2011, non è più legittimo appartenere alla sinistra. È illegittimo lottare per i diritti umani od opporsi all’occupazione o indagare sui crimini di guerra. Queste azioni ti fanno avere il marchio dell’infamia. Un colono che ruba la terra è un Sionista; un guerrafondaio di destra è un patriota; un rabbino fondamentalista è una guida spirituale; un razzista che espelle gli stranieri è un leale cittadino. Solo chi è di sinistra è un traditore.
Il nazionalista ama Israele, chi è di sinistra lo disprezza. Il primo non si deve scusare di nulla, l’altro deve smentire voci e speculazioni. Nell’Israele del 2011, non possiamo più parlare di sentimenti espressi dai venditori nei mercati e nei bazar. Ora, la maggioranza delle agenzie ed entità governative prende parte a questa pericolosa bonanza di delegittimazione.
Lo Knesset ha deciso di istituire un comitato parlamentare di inchiesta per controllare le attività di gruppi di sinistra "e il loro contributo alla campagna di delegittimazione contro Israele". Una tale dichiarazione farebbe arrossire persino il Senatore Joseph McCarthy.
Nuri el-Okbi, un cittadino Beduino e attivista per i diritti umani, è stato fatto mettere agli arresti per aver esercitato senza licenza dal giudice Zecharia Yeminy, che non ha avuto problemi ad ammettere di avergli aumentato la pena solo perché el-Okbi aveva agito a favore dei diritti della sparpagliata popolazione beduina.
Jonathan Pollak, membro di "Anarchici Contro il Muro " e attivista anti-occupazione di cui ogni società sana andrebbe fiera, è stato arrestato per aver percorso la strada in bicicletta.
Mossi Raz, ex membro della Knesset che era pacificamente in piedi sul marciapiede durante una protesta per l’uccisione di un attivista palestinese a Bil'in, è stato picchiato da un ufficiale di polizia, ammanettato e arrestato.
I pacifisti sono interrogati dal servizio di sicurezza dello Shin Bet e vengono preventivamente ammoniti dal commettere violazioni. Un gruppo di medici è "di estrema sinistra", una fondazione "disprezza Israele", donne solerti che controllano i checkpoint sono "traditrici" e un centro informazioni è considerato "complice del terrorismo".
I coloni che lanciano spazzatura contro i soldati israeliani e i loro amici che danno fuoco ai campi palestinesi non vengono processati, ma Pollak viene mandato in prigione. I soldati che hanno ucciso dei palestinesi che sventolavano bandiere bianche devono ancora essere puniti, ma chi denuncia questi episodi viene denunciato. Tutto questo è aggravato da una pletora di progetti di legge – dal giuramento di fedeltà alla legge sulla Nakba. Tutto si mescola per formare un unico orribile quadro: la sinistra è nemica del popolo e nemica dello stato.
Mentre traspare tutto questo, il vero danno all’immagine di Israele e alla sua posizione internazionale è causato da una politica ostruzionista e dagli sforzi del governo di rafforzare ulteriormente l’occupazione. È causato dalle azioni violente delle Forze Armate Israeliane e dei coloni, oltre che dalle azioni razziste dei legislatori israeliani e dei rabbini.
Per putrefare il tanfo di Israele un giorno dell’Operazione Piombo Fuso è valso più di tutti i rapporti contrari messi insieme. Una moschea data alle fiamme ha infangato il nome di Israele più di tutte le colonne e gli editoriali critici verso Israele messi insieme.
Eppure nessuno chiede che venga fatta luce su questi incidenti. Pochissime persone, se ce ne sono state, sono state giudicate per queste azioni. Che cosa resta della sinistra, l’unico gruppo che continua a preservare la moralità di Israele? I pochi solitari che continuano a tenere accesa la tremolante fiamma dell’umanità vengono accusati, condannati e puniti mentre i veri colpevoli vengono prosciolti da tutte le. La polizia, il sistema giuridico, la Knesset, lo Shin Bet e lo IDF hanno unito le forze con gli attivisti di destra per agire come pubblici ministeri senza un processo, mentre la sinistra viene privata di avvocato difensore.
Basterebbe una legge a semplificare le cose: fate sapere agli israeliani ciò che è proibito. È proibito credere in un Israele giusto, proibito lottare contro una qualsiasi delle sue ingiustizie, proibito lottare per la sua anima. Eppure, un qualche dubbio riesce a insinuarsi nel cuore. Tutti quelli che ingaggiano una lotta contro la sinistra – dai capi dello Shin Bet e della polizia ai giudici e ai legislatori di destra – vogliono davvero una "democrazia" senza la sinistra?
da .haaretz.com/print-edition/opinion/when-did-it-become-illegal-to-be-a-leftist-in-israel-1.335503
traduzione di Flavia Vendittelli
TERRORISMO ISRAELIANO
Un anziano contadino palestinese al lavoro nei campi.
Una giovane cooperante italiana che si reca a intervistarlo.
-Non hai paura degli israeliani che sparano?
No, non m’importa degli spari. Se succede qualcosa di brutto noi esseri umani moriamo una volta sola, e solo Dio sa quando arriverà la mia ora per morire. Io dormo qui alcune volte e non m’ importa di morire, sento sempre i carri armati e bulldozer invadere la mia terra e non mi importa più quello che fanno.
5 minuti dopo aver pronunciato queste frasi dinnanzi ad un registratore acceso, i 2 cordialmente si congedano. Poi uno sparo, e la morte rioccupa la scena.
Shaban Karmout, contadino di 65 anni e’ l’ultima vittima civile dell’escalation di violenza innescata dall’esercito israeliano da due mesi a questa parte, dopo gli omicidi del pastore beduino Salama Abu Hashish il 23 dicembre a Beit Lahiya e del giovane Mohammed Qedeh 5 giorni dopo a est di Khan Younis.
Shaban aveva costruito la sua casa dinnanzi al confine all’inizio degli anni ’70, e presto nel terreno adiacente aveva fatto fiorire alberi da frutta come limoni, aranci e clementine.
I frutti della terra erano generosi e nonostante l’occupazione Shaban conduceva una vita serena, almeno fino ad una notte del 2003, quando in pieno Ramadan, bulldozer e carri armati israeliani hanno invaso i suoi campi distruggendo tutte le sue colture e sradicando i suoi preziosi alberi: il frutto di 30 anni di duro lavoro raso al suolo in meno di 3 ore.
Al termine dell’offensiva israeliana Piombo Fuso, l’anziano contadino non se la sentiva più di dormire tutte le notti nella casa al confine per via delle frequenti incursioni israeliane. Aveva preso allora in affitto un minuscolo bugigattolo nel campo profughi di Jabalia nel quale viveva stipato con la sua numerosa famiglia, una decina di persone.
D’abitudine Shaban iniziava il lavoro nei campi da poco dopo il sorgere l’alba fino a poco prima del tramonto. Ogni giorno per quarant’anni, fino a lunedi’ scorso. Erano circa le 2 pm quando salutati i visitatori forestieri il contadino si è recato sulla sua terra per riprendere l’asino legato ad un arbusto, e un cecchino israeliano piazzato su una torretta di osservazione a 300 metri gli ha sparato contro tre colpi: il primo lo ha centrato al collo, gli altri due al torace.
Esalando l’ultimo respiro Shabab ha fatto appena in tempo a nominare il nome di suo figlio, Khaled. Quando Khaled è accorso nei campi suo padre era già stato disteso esamine di fianco al quadrupede.
“Non c’erano combattimenti nella zona, non c’erano guerriglieri palestinesi nè noi rappresentiamo una minaccia, viviamo in quella casa da decenni, i soldati ci conoscono benissimo. Ci hanno osservato per anni lavorare e vivere tramite le loro telecamere, i droni, perfino i dirigibili spia. E’ questo il vero terrorismo, ditelo ai media occidentali”. Cosi’ Khaled si è rivolto agli attivisti dell’International Solidarity Movement durante la veglia funebre in onore di suo padre, e non è possibile dargli torto. E’ risaputo infatti che i contadini al confine sono tutti schedati e la terra nella quale lavorano è monitorata minuziosamente centimetro quadrato per centimetro quadrato. Inoltre i cecchini israeliani a differenza dei lanciatori di razzi qassam non sparano a casaccio nel deserto; come tutti i cecchini inquadrano l'obbiettivo, prendono la mira. Il sistema più veloce per pulire etnicamente la Palestina.
Come avveniva durante Piombo Fuso, Israele continua a impedire alle ambulanze di raggiungere i luoghi degli attacchi, minacciando di sparare a medici e infermieri.
Cosi’, non essendoci altri mezzi disponibili Khaled ha potuto trasportare via il cadavere del padre caricandolo sul braccio di una ruspa. Come si fa con gli alberi sradicati.
Daniela, cooperante dell’ong GVC
, a conclusione della riabilitazione di un pozzo nell’area di Beit Hanoun, fra l’altro finanziato coi fondi del governo italiano, si era recata al confine con i suoi collaboratori per intervistare gli agricoltori beneficiari del progetto idrico.
Shaban era stato l’ultimo dei contadini intervistati, cinque minuti prima che venisse ucciso.
Il figlio della vittima, Khaled, ha parlato di terrorismo; per Saber, un amico presente durante l’intervista quest’ultimo assassinio è una sorta di avvertimento mafioso per quanti solidarizzano con i lavoratori palestinesi che resistono, gli ultimi veri uomini in questi tempi anonimi.
Daniela non riesce a tenere in mano le foto scattate poco prima di salutare l’anziano contadino: “non posso guardarle ancora, sembra un sogno, un incubo. Da qui all'obitorio nel giro un’ora.”
Ho trascritto la registrazione audio dell’ultima intervista a Shaban, il testamento di una vita dedicata all’amore per la sua terra, un amore che alla fine se l’è inghiottito dentro.
Restiamo Umani
Vittorio Arrigoni da Gaza city
Una giovane cooperante italiana che si reca a intervistarlo.
-Non hai paura degli israeliani che sparano?
No, non m’importa degli spari. Se succede qualcosa di brutto noi esseri umani moriamo una volta sola, e solo Dio sa quando arriverà la mia ora per morire. Io dormo qui alcune volte e non m’ importa di morire, sento sempre i carri armati e bulldozer invadere la mia terra e non mi importa più quello che fanno.
5 minuti dopo aver pronunciato queste frasi dinnanzi ad un registratore acceso, i 2 cordialmente si congedano. Poi uno sparo, e la morte rioccupa la scena.
Shaban Karmout, contadino di 65 anni e’ l’ultima vittima civile dell’escalation di violenza innescata dall’esercito israeliano da due mesi a questa parte, dopo gli omicidi del pastore beduino Salama Abu Hashish il 23 dicembre a Beit Lahiya e del giovane Mohammed Qedeh 5 giorni dopo a est di Khan Younis.
Shaban aveva costruito la sua casa dinnanzi al confine all’inizio degli anni ’70, e presto nel terreno adiacente aveva fatto fiorire alberi da frutta come limoni, aranci e clementine.
I frutti della terra erano generosi e nonostante l’occupazione Shaban conduceva una vita serena, almeno fino ad una notte del 2003, quando in pieno Ramadan, bulldozer e carri armati israeliani hanno invaso i suoi campi distruggendo tutte le sue colture e sradicando i suoi preziosi alberi: il frutto di 30 anni di duro lavoro raso al suolo in meno di 3 ore.
Al termine dell’offensiva israeliana Piombo Fuso, l’anziano contadino non se la sentiva più di dormire tutte le notti nella casa al confine per via delle frequenti incursioni israeliane. Aveva preso allora in affitto un minuscolo bugigattolo nel campo profughi di Jabalia nel quale viveva stipato con la sua numerosa famiglia, una decina di persone.
D’abitudine Shaban iniziava il lavoro nei campi da poco dopo il sorgere l’alba fino a poco prima del tramonto. Ogni giorno per quarant’anni, fino a lunedi’ scorso. Erano circa le 2 pm quando salutati i visitatori forestieri il contadino si è recato sulla sua terra per riprendere l’asino legato ad un arbusto, e un cecchino israeliano piazzato su una torretta di osservazione a 300 metri gli ha sparato contro tre colpi: il primo lo ha centrato al collo, gli altri due al torace.
Esalando l’ultimo respiro Shabab ha fatto appena in tempo a nominare il nome di suo figlio, Khaled. Quando Khaled è accorso nei campi suo padre era già stato disteso esamine di fianco al quadrupede.
“Non c’erano combattimenti nella zona, non c’erano guerriglieri palestinesi nè noi rappresentiamo una minaccia, viviamo in quella casa da decenni, i soldati ci conoscono benissimo. Ci hanno osservato per anni lavorare e vivere tramite le loro telecamere, i droni, perfino i dirigibili spia. E’ questo il vero terrorismo, ditelo ai media occidentali”. Cosi’ Khaled si è rivolto agli attivisti dell’International Solidarity Movement durante la veglia funebre in onore di suo padre, e non è possibile dargli torto. E’ risaputo infatti che i contadini al confine sono tutti schedati e la terra nella quale lavorano è monitorata minuziosamente centimetro quadrato per centimetro quadrato. Inoltre i cecchini israeliani a differenza dei lanciatori di razzi qassam non sparano a casaccio nel deserto; come tutti i cecchini inquadrano l'obbiettivo, prendono la mira. Il sistema più veloce per pulire etnicamente la Palestina.
Come avveniva durante Piombo Fuso, Israele continua a impedire alle ambulanze di raggiungere i luoghi degli attacchi, minacciando di sparare a medici e infermieri.
Cosi’, non essendoci altri mezzi disponibili Khaled ha potuto trasportare via il cadavere del padre caricandolo sul braccio di una ruspa. Come si fa con gli alberi sradicati.
Daniela, cooperante dell’ong GVC
, a conclusione della riabilitazione di un pozzo nell’area di Beit Hanoun, fra l’altro finanziato coi fondi del governo italiano, si era recata al confine con i suoi collaboratori per intervistare gli agricoltori beneficiari del progetto idrico.
Shaban era stato l’ultimo dei contadini intervistati, cinque minuti prima che venisse ucciso.
Il figlio della vittima, Khaled, ha parlato di terrorismo; per Saber, un amico presente durante l’intervista quest’ultimo assassinio è una sorta di avvertimento mafioso per quanti solidarizzano con i lavoratori palestinesi che resistono, gli ultimi veri uomini in questi tempi anonimi.
Daniela non riesce a tenere in mano le foto scattate poco prima di salutare l’anziano contadino: “non posso guardarle ancora, sembra un sogno, un incubo. Da qui all'obitorio nel giro un’ora.”
Ho trascritto la registrazione audio dell’ultima intervista a Shaban, il testamento di una vita dedicata all’amore per la sua terra, un amore che alla fine se l’è inghiottito dentro.
Restiamo Umani
Vittorio Arrigoni da Gaza city
giovedì 13 gennaio 2011
GAZA: SHABAN KARMUT, LA MORTE DI UN CONTADINO
Il 10 gennaio Shaban Karmut e' andato nei campi ma non è tornato a casa. I soldati israeliani gli hanno sparato. È morto nella sua terra, coltivandola come faceva da 35 anni.
DI SILVIA TODESCHINI
Gaza, 12 gennaio 2011, Nena News - Shaban Karmut, aveva 46 anni e 12 figli. Di mestiere aveva fatto il contadino per 35 anni. Un tempo sulla sua terra a Beit Hanoun crescevano olivi, palme e limoni, poi una notte sono arrivati i carri armati israeliani e li hanno sradicati. Hanno aperto un varco su un muro della sua casa, hanno demolito la casa dei vicini davanti ai suoi occhi. Nonostante quello che gli era successo aveva piantato nuove verdure ed alberi e si recava a coltivare la sua terra tutti i giorni, arrivava al campo alle sei e mezzo del mattino e tornava a casa alle quattro e mezzo del pomeriggio. Anche il 10 gennaio ci è andato ma quel giorno non è tornato a casa perché gli hanno sparato: un colpo al collo, uno al petto ed uno all’addome. C’era l’intento di uccidere da parte di chi sparava, e Shaban Karmut è morto sul colpo. È morto nella sua terra, coltivandola come faceva da 35 anni. Le forze di occupazione non sono riuscite ad incatenarlo con la paura degli spari e delle incursioni, e per impedirgli di coltivare hanno dovuto sparargli.
Il 4 gennaio quattro bulldozer israeliani erano entrati nell’area vicina al confine nei pressi di Khuza’a, al sud della Striscia, protetti da nove carri armati, due elicotteri Apache, due F16 e diversi droni. Hanno distrutto 50 dunam di terreno e almeno 13 famiglie hanno dovuto temporaneamente abbandonare le proprie abitazioni. Però dopo sono tornate alle loro case, nonostante i buchi dei proiettili su alcuni muri. “Fanno queste incursioni e per spaventarci e mandarci via da casa nostra – spiega Shatha Abu Rjela – Vogliono convincerci che ci sarà un’altra guerra e ci vogliono allontanare dalle nostre case in modo da poter fare ciò che vogliono senza ostacoli e senza testimoni. Ma noi non lasceremo le nostre case, questa è la nostra terra e noi rimarremo qui fino a che potremo”. Questa nuova guerra, però, sembra tristemente vicina: i due episodi sopra descritti sono solo un esempio di come sia evidente un’escalation nelle violenze israeliane. In dicembre, il primo ministro israeliano Silvan Shalom ha dichiarato che Tel Aviv dovrà “rispondere e rispondere con tutta la nostra forza” nel caso in cui i combattenti palestinesi non smettessero di lanciare i loro missili fatti in casa.
Secondo Ilan Pappe, noto storico ed intellettuale di origini israeliane emigrato in Inghilterra: “C’è l’intenzione di abbattere la Striscia e la sua popolazione ancora una volta, ma con più brutalità e per un lasso di tempo più breve. […] Lo scenario per il prossimo *round *si sta schiudendo davanti ai nostri occhi e somiglia in modo deprimente alla stessa situazione in via di deterioramento che ha preceduto il massacro di Gaza due anni fa: bombardamenti quotidiani sulla Striscia e una politica che tenta di provocare Hamas così da giustificare un maggior numero di attacchi. […] È ora per tutti quelli che hanno fatto sentire la loro voce con forza e vigore dopo il massacro di Gaza due anni fa, di farla sentire adesso, e cercare di prevenire il prossimo.”
Ogni giorno a Khuza’a si sentono spari provenienti dalla torretta di controllo, ed ogni giorno o quasi i soldati israeliani sparano a contadini e pastori vicino al confine, causando gravi ferite quando non la morte del lavoratore. Diverse volte al giorno i droni, gli aerei F16 e gli elicotteri Apache volano in cielo, e questi, quando non scaricano bombe, portano con sé un carico di oscuri ricordi e paura. La vita stessa di questi uomini, donne e bambini, è resistenza. È un grido che non vuole sottostare al giogo dell’occupazione. È un esempio di straordinaria forza. Ed è il momento, per coloro che dichiarano di amare la libertà, di compromettersi. Per prevenire la prossima guerra, ma prima ancora per supportare queste persone nella loro quotidiana resistenza.
Tutto ciò ha a che fare con la libertà e non con la ricchezza. Non è un problema di elemosina, il punto non è che questa gente ha bisogno di aiuti materiali. Il problema è politico. Rivediamo gli occhi fermi, decisi, quasi severi di Taragi, madre di cinque ragazze, con il marito in carcere e la casa ad un chilometro dal confine: “L’esercito israeliano ha invaso le terre che coltivavamo e le ha rese aride, ma non vogliamo aiuti economici per questo. Non vogliamo assistenza psicologica per i traumi causati dai soldati israeliani, dai loro bulldozer, dai loro proiettili, dai loro carri armati, dai loro Apaches, F16 e droni. Non vogliamo ne’ soldi ne’ psicologi. Noi, vogliamo che i soldati israeliani se ne vadano. Vogliamo non avere paura dei loro spari. Vogliamo vivere nella nostra terra. Vogliamo essere libere”. Nena News
DI SILVIA TODESCHINI
Gaza, 12 gennaio 2011, Nena News - Shaban Karmut, aveva 46 anni e 12 figli. Di mestiere aveva fatto il contadino per 35 anni. Un tempo sulla sua terra a Beit Hanoun crescevano olivi, palme e limoni, poi una notte sono arrivati i carri armati israeliani e li hanno sradicati. Hanno aperto un varco su un muro della sua casa, hanno demolito la casa dei vicini davanti ai suoi occhi. Nonostante quello che gli era successo aveva piantato nuove verdure ed alberi e si recava a coltivare la sua terra tutti i giorni, arrivava al campo alle sei e mezzo del mattino e tornava a casa alle quattro e mezzo del pomeriggio. Anche il 10 gennaio ci è andato ma quel giorno non è tornato a casa perché gli hanno sparato: un colpo al collo, uno al petto ed uno all’addome. C’era l’intento di uccidere da parte di chi sparava, e Shaban Karmut è morto sul colpo. È morto nella sua terra, coltivandola come faceva da 35 anni. Le forze di occupazione non sono riuscite ad incatenarlo con la paura degli spari e delle incursioni, e per impedirgli di coltivare hanno dovuto sparargli.
Il 4 gennaio quattro bulldozer israeliani erano entrati nell’area vicina al confine nei pressi di Khuza’a, al sud della Striscia, protetti da nove carri armati, due elicotteri Apache, due F16 e diversi droni. Hanno distrutto 50 dunam di terreno e almeno 13 famiglie hanno dovuto temporaneamente abbandonare le proprie abitazioni. Però dopo sono tornate alle loro case, nonostante i buchi dei proiettili su alcuni muri. “Fanno queste incursioni e per spaventarci e mandarci via da casa nostra – spiega Shatha Abu Rjela – Vogliono convincerci che ci sarà un’altra guerra e ci vogliono allontanare dalle nostre case in modo da poter fare ciò che vogliono senza ostacoli e senza testimoni. Ma noi non lasceremo le nostre case, questa è la nostra terra e noi rimarremo qui fino a che potremo”. Questa nuova guerra, però, sembra tristemente vicina: i due episodi sopra descritti sono solo un esempio di come sia evidente un’escalation nelle violenze israeliane. In dicembre, il primo ministro israeliano Silvan Shalom ha dichiarato che Tel Aviv dovrà “rispondere e rispondere con tutta la nostra forza” nel caso in cui i combattenti palestinesi non smettessero di lanciare i loro missili fatti in casa.
Secondo Ilan Pappe, noto storico ed intellettuale di origini israeliane emigrato in Inghilterra: “C’è l’intenzione di abbattere la Striscia e la sua popolazione ancora una volta, ma con più brutalità e per un lasso di tempo più breve. […] Lo scenario per il prossimo *round *si sta schiudendo davanti ai nostri occhi e somiglia in modo deprimente alla stessa situazione in via di deterioramento che ha preceduto il massacro di Gaza due anni fa: bombardamenti quotidiani sulla Striscia e una politica che tenta di provocare Hamas così da giustificare un maggior numero di attacchi. […] È ora per tutti quelli che hanno fatto sentire la loro voce con forza e vigore dopo il massacro di Gaza due anni fa, di farla sentire adesso, e cercare di prevenire il prossimo.”
Ogni giorno a Khuza’a si sentono spari provenienti dalla torretta di controllo, ed ogni giorno o quasi i soldati israeliani sparano a contadini e pastori vicino al confine, causando gravi ferite quando non la morte del lavoratore. Diverse volte al giorno i droni, gli aerei F16 e gli elicotteri Apache volano in cielo, e questi, quando non scaricano bombe, portano con sé un carico di oscuri ricordi e paura. La vita stessa di questi uomini, donne e bambini, è resistenza. È un grido che non vuole sottostare al giogo dell’occupazione. È un esempio di straordinaria forza. Ed è il momento, per coloro che dichiarano di amare la libertà, di compromettersi. Per prevenire la prossima guerra, ma prima ancora per supportare queste persone nella loro quotidiana resistenza.
Tutto ciò ha a che fare con la libertà e non con la ricchezza. Non è un problema di elemosina, il punto non è che questa gente ha bisogno di aiuti materiali. Il problema è politico. Rivediamo gli occhi fermi, decisi, quasi severi di Taragi, madre di cinque ragazze, con il marito in carcere e la casa ad un chilometro dal confine: “L’esercito israeliano ha invaso le terre che coltivavamo e le ha rese aride, ma non vogliamo aiuti economici per questo. Non vogliamo assistenza psicologica per i traumi causati dai soldati israeliani, dai loro bulldozer, dai loro proiettili, dai loro carri armati, dai loro Apaches, F16 e droni. Non vogliamo ne’ soldi ne’ psicologi. Noi, vogliamo che i soldati israeliani se ne vadano. Vogliamo non avere paura dei loro spari. Vogliamo vivere nella nostra terra. Vogliamo essere libere”. Nena News
mercoledì 12 gennaio 2011
Israele: furto di risorse
* | Manlio Dinucci
Via gli arabi, Tel Aviv rivendica tutte le risorse
La compagnia statunitense Noble Energy Inc. ha annunciato pochi giorni fa di aver scoperto un grosso giacimento di gas naturale sul fondo marino, 130 km al largo del porto israeliano di Haifa. Viene stimato in 450 miliardi di metri cubi. Dovrebbero esservi nella zona, complessivamente, circa 700 miliardi di metri cubi di gas. La prospezione e lo sfruttamento di questo giacimento sono affidati a un consorzio internazionale, formato dalla statunitense Noble Energy, che detiene la quota maggioritaria del 40%, e dalle israeliane Delek, Avner e Ratio Oil Exploration.
Questa è solo una piccola parte delle riserve energetiche presenti nel Bacino di levante, l'area del Mediterraneo orientale comprendente Israele, i Territori palestinesi, il Libano e le loro acque costiere. Qui da alcuni anni sta facendo prospezioni la U.S. Geological Survey, agenzia del governo degli Stati uniti. Essa stima che, nel Bacino di levante, vi siano riserve di gas naturale ammontanti a circa 3500 miliardi di metri cubi, e riserve di petrolio ammontanti a circa 1,7 miliardi di barili.
Il governo israeliano, sostenuto da quello statunitense, considera tutte queste riserve energetiche di sua proprietà. I grandi giacimenti di gas naturale - ha dichiarato il ministro delle infrastrutture Uzi Landau - non solo recheranno benefici ai cittadini ma permetteranno a Israele di divenire un fornitore di gas nella regione mediterranea. Israele - ha obiettato il portavoce del parlamento libanese Nabih Berri - ignora però il fatto che, in base alle mappe, i giacimenti si estendono nelle acque libanesi. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite, uno stato costiero può sfruttare le riserve offshore di gas e petrolio in un'area che si estende a 200 miglia nautiche (370 km) dalla costa.
In base allo stesso criterio, le riserve appartengono in notevole misura anche all'Autorità palestinese. Dalla stessa carta redatta dalla U.S. Geological Survey risulta che la maggior parte dei giacimenti di gas (circa il 60%) si trova nelle acque costiere e nel territorio di Gaza. L'Autorità palestinese ne ha affidato lo sfruttamento a un consorzio formato da British Gas e Consolidated Contractors (compagnia con sede ad Atene, di proprietà libanese), nel quale l'Autorità ha una quota del 10%.
Due pozzi, Gaza Marine-1 e Gaza Marine-2, sono già pronti ma non sono mai entrati in funzione. Tel Aviv ha infatti respinto tutte le proposte, presentate dall'Autorità palestinese e dal consorzio, di esportare il gas in Israele ed Egitto. I palestinesi posseggono dunque una grande ricchezza, che non possono però usare.
Per impadronirsi delle riserve energetiche dell'intero Bacino di levante, comprese quelle libanesi e palestinesi, Israele usa la forza militare. Due giorni fa, il ministro degli esteri libanese Ali Shami ha chiesto al Segretario generale delle Nazioni Unite di impedire che Israele sfrutti le riserve energetiche offshore che si trovano in acque libanesi. Il ministro Landau sostiene però che quei giacimenti si trovano in acque israeliane e avverte che Israele non esiterà a usare la forza per proteggerli. Israele minaccia quindi di attaccare di nuovo il Libano, come fece nel 2006 anche con l'intento di togliergli la possibilità di sfruttare i giacimenti offshore.
Per la stessa ragione Israele non accetta lo Stato palestinese. Riconoscerlo significherebbe riconoscere la sovranità palestinese su gran parte delle riserve energetiche, di cui Israele si vuole invece impadronire. Soprattutto a tal fine è stata lanciata l'operazione «Piombo fuso» nel 2008/2009 e Gaza è stata successivamente rinchiusa nella morsa dell'embargo. Allo stesso tempo le navi da guerra israeliane controllano l'intero Bacino di levante, e quindi le riserve offshore di gas e petrolio, nel quadro del «Dialogo mediterraneo», l'operazione Nato - cui partecipa anche l'Italia - per «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione».
Via gli arabi, Tel Aviv rivendica tutte le risorse
La compagnia statunitense Noble Energy Inc. ha annunciato pochi giorni fa di aver scoperto un grosso giacimento di gas naturale sul fondo marino, 130 km al largo del porto israeliano di Haifa. Viene stimato in 450 miliardi di metri cubi. Dovrebbero esservi nella zona, complessivamente, circa 700 miliardi di metri cubi di gas. La prospezione e lo sfruttamento di questo giacimento sono affidati a un consorzio internazionale, formato dalla statunitense Noble Energy, che detiene la quota maggioritaria del 40%, e dalle israeliane Delek, Avner e Ratio Oil Exploration.
Questa è solo una piccola parte delle riserve energetiche presenti nel Bacino di levante, l'area del Mediterraneo orientale comprendente Israele, i Territori palestinesi, il Libano e le loro acque costiere. Qui da alcuni anni sta facendo prospezioni la U.S. Geological Survey, agenzia del governo degli Stati uniti. Essa stima che, nel Bacino di levante, vi siano riserve di gas naturale ammontanti a circa 3500 miliardi di metri cubi, e riserve di petrolio ammontanti a circa 1,7 miliardi di barili.
Il governo israeliano, sostenuto da quello statunitense, considera tutte queste riserve energetiche di sua proprietà. I grandi giacimenti di gas naturale - ha dichiarato il ministro delle infrastrutture Uzi Landau - non solo recheranno benefici ai cittadini ma permetteranno a Israele di divenire un fornitore di gas nella regione mediterranea. Israele - ha obiettato il portavoce del parlamento libanese Nabih Berri - ignora però il fatto che, in base alle mappe, i giacimenti si estendono nelle acque libanesi. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite, uno stato costiero può sfruttare le riserve offshore di gas e petrolio in un'area che si estende a 200 miglia nautiche (370 km) dalla costa.
In base allo stesso criterio, le riserve appartengono in notevole misura anche all'Autorità palestinese. Dalla stessa carta redatta dalla U.S. Geological Survey risulta che la maggior parte dei giacimenti di gas (circa il 60%) si trova nelle acque costiere e nel territorio di Gaza. L'Autorità palestinese ne ha affidato lo sfruttamento a un consorzio formato da British Gas e Consolidated Contractors (compagnia con sede ad Atene, di proprietà libanese), nel quale l'Autorità ha una quota del 10%.
Due pozzi, Gaza Marine-1 e Gaza Marine-2, sono già pronti ma non sono mai entrati in funzione. Tel Aviv ha infatti respinto tutte le proposte, presentate dall'Autorità palestinese e dal consorzio, di esportare il gas in Israele ed Egitto. I palestinesi posseggono dunque una grande ricchezza, che non possono però usare.
Per impadronirsi delle riserve energetiche dell'intero Bacino di levante, comprese quelle libanesi e palestinesi, Israele usa la forza militare. Due giorni fa, il ministro degli esteri libanese Ali Shami ha chiesto al Segretario generale delle Nazioni Unite di impedire che Israele sfrutti le riserve energetiche offshore che si trovano in acque libanesi. Il ministro Landau sostiene però che quei giacimenti si trovano in acque israeliane e avverte che Israele non esiterà a usare la forza per proteggerli. Israele minaccia quindi di attaccare di nuovo il Libano, come fece nel 2006 anche con l'intento di togliergli la possibilità di sfruttare i giacimenti offshore.
Per la stessa ragione Israele non accetta lo Stato palestinese. Riconoscerlo significherebbe riconoscere la sovranità palestinese su gran parte delle riserve energetiche, di cui Israele si vuole invece impadronire. Soprattutto a tal fine è stata lanciata l'operazione «Piombo fuso» nel 2008/2009 e Gaza è stata successivamente rinchiusa nella morsa dell'embargo. Allo stesso tempo le navi da guerra israeliane controllano l'intero Bacino di levante, e quindi le riserve offshore di gas e petrolio, nel quadro del «Dialogo mediterraneo», l'operazione Nato - cui partecipa anche l'Italia - per «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione».
S.O.S dal Sinai
Richiesta di aiuto Urgente!!! dal Sinai
Ore 10.36, arriva una telefonata dai ostaggi eritrei nel Sinai, raccontano le quattro donne che sta mattina hanno dovuto subire per l'ennesima volta violenze sessuali dal branco dei predoni, ripetutamente perché non pagano il riscatto richiesto dai trafficanti. Una delle donne incinte sta molto male, dopo che stata picchiata dai trafficanti tutto questo accadeva questa mattina, tutto questo sta accadendo mentre il mondo "civile" sene sta a guardare, distratto da altre questioni, chi per indifferenza verso questo dramma, chi per non irritare governi di quella regione, sta di fatto che ce un sostanziale silenzio, nessuno sta facendo nulla per debellare questa piaga dei nostri giorni, non si vede nessun risultato, tranne la liberazione dei ostaggi che hanno pagato il riscatto. Ancora oggi il crimine degli schiavisti vince, grazie al silenzio complice dei potenti della terra.
Intollerabile l'inerzia dei governi della regione del Sinai, altre tanto vergognoso il silenzio della comunità internazionale di fronte al dramma di centinaia di profughi tenuti in catene dai predoni in un fazzoletto di terra più rovente del globo, non solo perché fa caldo, ma essendo un territorio sotto controllo di tutta la comunità internazionale per la questione Israelo - Palestinese. Ma la comunità internazionale sembra disposta a chiudere gli occhi su questo dramma di profughi che vengono spogliati di tutto, per fino della loro dignità umana, fino a perdere anche la vita stessa.
Ci chiediamo dove sono finiti i difensori della vita umana? Dove sono i paladini dei diritti umani? Dove l'Europa culla della "Civiltà"?
Ostaggi africani forse valgono meno di tanti altri per i quali tutti si mobilitano? L'Europa che gli respinge, si annunciano muri da costruire, ma nessuno si occupa della vita di questi disperati.
Bussano alla coscienza di ciascuno di noi. Il silenzio dei mas media non nasconderà le grida disperate delle donne stuprate.
Chiediamo un segno concreto di riscatto per liberare non più quelle persone, ma noi stessi, come mi diceva sta mattina uno di loro, “ormai siamo rassegnati a morire qui, ma voi che vivete nel modo libero a restare schiavi della vostra inerzia, del vostro silenzio, della vostra complicità passiva con questi criminali”.
Io non mi stancherò di chiedere alla Comunità Internazionale, in particolare all'Europa di fare passi in avanti per combattere questo crimine contro l'umanità che si sta consumando alle porte dell'Europa, in territorio di paesi considerati alleati e amici dell'Europa.
Serve un progetto concreto di accoglienza per i profughi, che oggi sono bloccati in Egitto e Libia, le condizioni disumane a cui vengono sottoposti centinaia di profughi, non solo dai trafficanti, ma anche dalla polizia nelle carceri egiziane e quelle libiche, sono ben conosciuti in Europa, serve una soluzione che dia sicurezza a chi fugge per cercare protezione, libertà e pace. Bisogna offrirgli la possibilità di arrivare in posti sicuri, dove sono garantiti i diritti umani e civili del profugo, del richiedente asilo politico, del rifugiato.
don Mussie Zerai
Ore 10.36, arriva una telefonata dai ostaggi eritrei nel Sinai, raccontano le quattro donne che sta mattina hanno dovuto subire per l'ennesima volta violenze sessuali dal branco dei predoni, ripetutamente perché non pagano il riscatto richiesto dai trafficanti. Una delle donne incinte sta molto male, dopo che stata picchiata dai trafficanti tutto questo accadeva questa mattina, tutto questo sta accadendo mentre il mondo "civile" sene sta a guardare, distratto da altre questioni, chi per indifferenza verso questo dramma, chi per non irritare governi di quella regione, sta di fatto che ce un sostanziale silenzio, nessuno sta facendo nulla per debellare questa piaga dei nostri giorni, non si vede nessun risultato, tranne la liberazione dei ostaggi che hanno pagato il riscatto. Ancora oggi il crimine degli schiavisti vince, grazie al silenzio complice dei potenti della terra.
Intollerabile l'inerzia dei governi della regione del Sinai, altre tanto vergognoso il silenzio della comunità internazionale di fronte al dramma di centinaia di profughi tenuti in catene dai predoni in un fazzoletto di terra più rovente del globo, non solo perché fa caldo, ma essendo un territorio sotto controllo di tutta la comunità internazionale per la questione Israelo - Palestinese. Ma la comunità internazionale sembra disposta a chiudere gli occhi su questo dramma di profughi che vengono spogliati di tutto, per fino della loro dignità umana, fino a perdere anche la vita stessa.
Ci chiediamo dove sono finiti i difensori della vita umana? Dove sono i paladini dei diritti umani? Dove l'Europa culla della "Civiltà"?
Ostaggi africani forse valgono meno di tanti altri per i quali tutti si mobilitano? L'Europa che gli respinge, si annunciano muri da costruire, ma nessuno si occupa della vita di questi disperati.
Bussano alla coscienza di ciascuno di noi. Il silenzio dei mas media non nasconderà le grida disperate delle donne stuprate.
Chiediamo un segno concreto di riscatto per liberare non più quelle persone, ma noi stessi, come mi diceva sta mattina uno di loro, “ormai siamo rassegnati a morire qui, ma voi che vivete nel modo libero a restare schiavi della vostra inerzia, del vostro silenzio, della vostra complicità passiva con questi criminali”.
Io non mi stancherò di chiedere alla Comunità Internazionale, in particolare all'Europa di fare passi in avanti per combattere questo crimine contro l'umanità che si sta consumando alle porte dell'Europa, in territorio di paesi considerati alleati e amici dell'Europa.
Serve un progetto concreto di accoglienza per i profughi, che oggi sono bloccati in Egitto e Libia, le condizioni disumane a cui vengono sottoposti centinaia di profughi, non solo dai trafficanti, ma anche dalla polizia nelle carceri egiziane e quelle libiche, sono ben conosciuti in Europa, serve una soluzione che dia sicurezza a chi fugge per cercare protezione, libertà e pace. Bisogna offrirgli la possibilità di arrivare in posti sicuri, dove sono garantiti i diritti umani e civili del profugo, del richiedente asilo politico, del rifugiato.
don Mussie Zerai
lunedì 10 gennaio 2011
GERUSALEMME, COMUNE DEMOLISCE HOTEL PALESTINESE SHEPHERD
Al posto dell'edificio storico saranno costruiti 20 appartamenti destinati a coloni israeliani, nel contesto dei progetti di sviluppo di un nuovo rione ebraico, Shimon ha-Zadik.
DI MARIO CORRENTI
Gerusalemme, 09 gennaio 2011, Nena News (nella foto lo Shepherd Hotel) – Mesi di manifestazioni e raduni di attivisti israeliani e palestinesi non hanno avuto alcun effetto sulle decisioni già prese dal Comune (israeliano) di Gerusalemme e dal governo Netanyahu. Sono iniziati oggi, come previsto, a Sheikh Jarrah, nella zona palestinese (Est) di Gerusalemme sotto occupazione dal 1967, i lavori di demolizione dell’ex Hotel Sheperd, un edificio storico. Al suo posto saranno costruiti 20 appartamenti destinati a israeliani, nel contesto dei progetti di sviluppo di una nuova colonia ebraica, che porterà il nome di Shimon ha-Zadik.
A Sheikh Jarrah peraltro prosegue lentamente ma senza sosta la penetrazione dei coloni israeliani che negli ultimi due anni sono stati in grado, grazie alle sentenze della Corte Suprema israeliana e la protezione della polizia, di occupare in quella zona diverse case sfrattando le famiglie palestinesi che le abitavano.
Una immagine dell'Hotel Shepherd quando non era circondato dalle recinzioni
Acquistato negli anni Ottanta da un facoltoso uomo d’affari statunitense legato alla destra israeliana, l’Hotel Sheperd è stato oggetto di una lunga vertenza giudiziaria che si è conclusa, come sempre in questi casi, con una sentenza a favore delle autorità comunali israeliane e dei coloni. La storia «politica» dello Shepherd inizia nel 1985 quando l’edificio, che originariamente aveva ospitato la villa del Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin Al-Husseini, viene acquistato, insieme all’area circostante dal miliardario ebreo americano Irving Moskowitz. Quest’ultimo, che da molti anni incoraggia e finanzia l’insediamento di coloni in diverse zone di Gerusalemme Est, chiese subito permessi per costruire venti edifici destinati a famiglie ebree. Permessi rimasti congelati fino allo scorso 18 marzo, quando è arrivato il via libera ai lavori, sollevando numerose critiche.
Nei mesi scorsi il quotidiano israeliano Haaretz aveva riferito che il «Comitato per la pianificazione ed edificazione» di Gerusalemme, ha messo a punto un nuovo piano regolatore per la città che promuove e incentiva la costruzione di edifici destinati alla popolazione ebraica in diverse aree di Gerusalemme Est. Per anni decine di architetti si sono avvicendati per ridisegnare l’ultimo piano regolatore della Città Santa, tale da poter rimpiazzare quello in uso dal 1959. Il nuovo piano regolatore non solo non tiene in alcun conto le risoluzioni internazionali ma – sottolinea l’associazione pacifista “Ir Amin” – ancora una volta «sottovaluta i bisogni della popolazione araba». Oltre 13 mila appartamenti sono previsti per i palestinesi di Gerusalemme est, meno della metà del numero che servirebbe a coprire gli effettivi bisogni dei residenti arabi da qui al 2030.
La mappa del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah con l'Hotel Shepherd
Il piano regolatore mentre consente progetti di costruzione destinati ai residenti arabi, sia a nord che a sud di Gerusalemme est, vieta qualsiasi costruzione nell’area centrale, quella del Bacino Sacro, la vallata che si estende poco fuori dalle mura della Città Vecchia, dove da anni si concentrano gli sforzi di espansione della presenza dei coloni israeliani, in particolare nel quartiere di Silwan.
Ha festeggiato l’avvio dei lavori di demolizione dello Shepherd Hotel il gruppo del Likud (il partito del premier Netanyahu) nel municipio di Gerusalemme, notando con soddisfazione che il cosiddetto «rione Shimon ha-Zadik rafforzerà la presenza ebraica in città ». Nena News
DI MARIO CORRENTI
Gerusalemme, 09 gennaio 2011, Nena News (nella foto lo Shepherd Hotel) – Mesi di manifestazioni e raduni di attivisti israeliani e palestinesi non hanno avuto alcun effetto sulle decisioni già prese dal Comune (israeliano) di Gerusalemme e dal governo Netanyahu. Sono iniziati oggi, come previsto, a Sheikh Jarrah, nella zona palestinese (Est) di Gerusalemme sotto occupazione dal 1967, i lavori di demolizione dell’ex Hotel Sheperd, un edificio storico. Al suo posto saranno costruiti 20 appartamenti destinati a israeliani, nel contesto dei progetti di sviluppo di una nuova colonia ebraica, che porterà il nome di Shimon ha-Zadik.
A Sheikh Jarrah peraltro prosegue lentamente ma senza sosta la penetrazione dei coloni israeliani che negli ultimi due anni sono stati in grado, grazie alle sentenze della Corte Suprema israeliana e la protezione della polizia, di occupare in quella zona diverse case sfrattando le famiglie palestinesi che le abitavano.
Una immagine dell'Hotel Shepherd quando non era circondato dalle recinzioni
Acquistato negli anni Ottanta da un facoltoso uomo d’affari statunitense legato alla destra israeliana, l’Hotel Sheperd è stato oggetto di una lunga vertenza giudiziaria che si è conclusa, come sempre in questi casi, con una sentenza a favore delle autorità comunali israeliane e dei coloni. La storia «politica» dello Shepherd inizia nel 1985 quando l’edificio, che originariamente aveva ospitato la villa del Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin Al-Husseini, viene acquistato, insieme all’area circostante dal miliardario ebreo americano Irving Moskowitz. Quest’ultimo, che da molti anni incoraggia e finanzia l’insediamento di coloni in diverse zone di Gerusalemme Est, chiese subito permessi per costruire venti edifici destinati a famiglie ebree. Permessi rimasti congelati fino allo scorso 18 marzo, quando è arrivato il via libera ai lavori, sollevando numerose critiche.
Nei mesi scorsi il quotidiano israeliano Haaretz aveva riferito che il «Comitato per la pianificazione ed edificazione» di Gerusalemme, ha messo a punto un nuovo piano regolatore per la città che promuove e incentiva la costruzione di edifici destinati alla popolazione ebraica in diverse aree di Gerusalemme Est. Per anni decine di architetti si sono avvicendati per ridisegnare l’ultimo piano regolatore della Città Santa, tale da poter rimpiazzare quello in uso dal 1959. Il nuovo piano regolatore non solo non tiene in alcun conto le risoluzioni internazionali ma – sottolinea l’associazione pacifista “Ir Amin” – ancora una volta «sottovaluta i bisogni della popolazione araba». Oltre 13 mila appartamenti sono previsti per i palestinesi di Gerusalemme est, meno della metà del numero che servirebbe a coprire gli effettivi bisogni dei residenti arabi da qui al 2030.
La mappa del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah con l'Hotel Shepherd
Il piano regolatore mentre consente progetti di costruzione destinati ai residenti arabi, sia a nord che a sud di Gerusalemme est, vieta qualsiasi costruzione nell’area centrale, quella del Bacino Sacro, la vallata che si estende poco fuori dalle mura della Città Vecchia, dove da anni si concentrano gli sforzi di espansione della presenza dei coloni israeliani, in particolare nel quartiere di Silwan.
Ha festeggiato l’avvio dei lavori di demolizione dello Shepherd Hotel il gruppo del Likud (il partito del premier Netanyahu) nel municipio di Gerusalemme, notando con soddisfazione che il cosiddetto «rione Shimon ha-Zadik rafforzerà la presenza ebraica in città ». Nena News
domenica 9 gennaio 2011
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