Il libro non è ancora stato pubblicato e non so quando uscirà, purtroppo non sono in grado di valutare i tempi, però voglio ugualmente pubblicare la bella presentazione di Patrizia Cecconi che ha saputo così bene entrare nello spirito di questi racconti.
Patrizia Cecconi
Prefazione a “Festa di rovine”.
Inizia con un elenco di nomi questa raccolta di racconti brevi di Miryam Marino. Un elenco lungo e tuttavia incompleto, anzi molto lontano dal numero reale. È l’elenco dei bambini uccisi “per caso” in due anni. Per caso, non in guerra, non in conflitti a fuoco. Uccisi da assassini impuniti di uno stato impunito che non rispetta nulla, assolutamente nulla e nessuno che si frapponga, anche solo “esistendo”, al suo progetto espansionista.
Non è un éscamotage per richiamare l’attenzione del lettore, questo lungo elenco, ma è l’omaggio di Miryam Marino alla memoria delle piccole vittime dell’odio e dell’ingiustizia, anche di quella indiretta di chi non ha materialmente ucciso, ma ha tollerato nell’indifferenza che questo avvenisse. Che questo seguiti ad avvenire.
Quei bambini, che l’autrice indica per nome e per età, tra il 2000 e il 2002 si trovavano a un posto di blocco, all’uscita da scuola, nel cortile di casa, in automobile con i genitori, seduti a fare i compiti, addormentati nella culla o, in un paio di casi, a lanciare un sasso contro un carrarmato quando la morte li ha raggiunti per mano di chi rappresenta la dimostrazione vivente che la storia non sa insegnare ma, tragicamente, giustifica l’orrore con l’infamia di precedenti orrori, di cui le vittime attuali sono incolpevoli capri espiatori.
Questi bambini aprono il libro con i loro nomi e cognomi, e i loro 4 mesi, 7 anni, 11 anni, 3 anni, 14 anni li rendono reali e vivi, percepiti un attimo prima che il proiettile li annichilisse e fermasse la loro età. L’autrice, nel prologo, afferma l’intenzionalità di questa scelta perché quei nomi, che danno volto alle vittime, non devono restare lì, stampati e immobili ma, al contrario, il decoro dell’identità specifica renderà questi bambini immateriali accompagnatori e guide dei
racconti che seguono. E’ qui che l’autrice libera la sua sensibilità e il suo dolore e lo passa al lettore. Non disfacendosene, ma condividendolo. E in tal modo il suo j’accuse di ebrea che conosce la storia tragica della diaspora ebraica, delle persecuzioni ricorrenti e del tentato genocidio nazista, si leva alto contro l’ingiustizia, l’odio e le umiliazioni di un altro popolo semita, il popolo palestinese, per mano di quegli israeliani che imbracciano le loro passate tragedie come un’arma di sterminio per giustificare i loro massacri. Massacri di vite, di diritti e di dignità, non solo altrui ma anche propria. Questo pensiero è ricorrente nelle opere di Miryam Marino, che con profonda tristezza afferma: “Mentre distrugge i palestinesi strappando loro ciò che hanno di più caro ... Israele non si rende conto di avere i propri nemici dentro di sé. Nemici che rischiano di consumare il paese, come tarli dal di dentro.”
Dal 2002 ad oggi, purtroppo, la storia non è cambiata e la denuncia, come il dolore che l’accompagna, è tragicamente attuale. Avrei voluto circoscrivere alla letteratura e alla capacità di trasmettere sentimenti universali queste pagine, e invece i racconti di Miryam sono, sì, letteratura per la capacità dell’autrice di consegnare all’arte l’occorrenza della cronaca, ma sono ancora, e purtroppo, lo specchio letterario di una tragedia che non vuole fermarsi e che, a macchia di leopardo, dalla Palestina si estende a tante disgraziate regioni del mondo consegnando all’odio, alla morte, alla disperazione, al dolore del fisico e al dolore – inguaribile - dell’animo la sorte di milioni di bambini, vittime dell’ingordigia e del disprezzo dei potenti della terra.
Dei diciotto racconti che compongono il volume, non tutti sono riferiti ai bambini palestinesi, ce ne sono alcuni dedicati ai “Bambini di Bagdad”. Bagdad, quella che era “la più bella città del mondo”, quella che raccoglieva testimonianze di un passato che l’aveva resa celebre già nel Medioevo come “il faro la cui luce raggiunge l’Europa e porta conoscenza e scienza”, oggi distrutta e fatta a pezzi come il corpo della piccola Samar, 7 anni, colpevole di essere irachena nel momento in cui la democrazia, sulle ali dei cacciabombardieri si apriva la strada con missili e bombe a
grappolo. “Da Samawa il grido di Gilgamesh si risveglia dai secoli… ero un poeta in Irak, il poeta è voce e orgoglio della nazione dai tempi degli Abassidi, ma ora non sono più nulla, si sgretola coi manoscritti bruciati la mia voce, coi fogli sparsi dei libri ai quattro venti, ceneri mortali di una cultura uccisa. Cristalli di Bagdad spezzati come lacrime, voci della poesia fragile e forte che muore sotto i cingoli dei carri armati …”. Così Miryam accompagna uno dei racconti dedicati ai bambini di Bagdad, con una chiusa in chiave poetica che ricorda il grande Gilgamesh e il pianto per la cultura sfregiata e uccisa insieme alle vite delle tante Samar, Ranja, Anifa e dei tanti Alì, Nidal, Marwan, 7 anni, 10 anni, 11 anni …
Ad ogni racconto l’autrice fa seguire un’appendice poetica, come ad affermare che la voce dell’artista non può separarsi dall’impegno civile e deve farsi, sì, portatrice di denuncia, ma non trasformandosi in pura manifestazione di impegno militante. Sarebbe un impoverimento artistico che non appartiene all’autrice. Certamente il dolore di cui la Marino si sente partecipe ispira le sue opere, ma è come se la sua penna camminasse a fianco, non sopra non sotto il suo impegno ma, appunto, a fianco, traendo ispirazione dolente dall’attualità e facendone racconti forti in cui la narrazione ha come corollario la parola poetica, completamento di quel che la prosa non sempre riesce a trasmettere, per la precisione obbligata del suo linguaggio. L’autrice non fonde i due stili ma li rende complementari. Così, il dolore del piccolo Alì - che ha visto le sue sorelline uccise dai missili americani, il viso di sua madre scolpirsi nel dolore e i suoi capelli incanutire in pochi giorni, la moschea bombardata, la biblioteca nazionale incendiata – viene riassunto, nella conclusione del racconto, nello sguardo muto che abbraccia “una colonna interminabile di carri armati tra i palazzi sventrati dalle bombe”, mentre la chiusa poetica si fa evocativa di un tutto che sconfina e riporta a un sé complessivo: “… Misteriosa Bagdad fragile ricamo di eternità … … la città mi veniva incontro, luogo simbolico o assassinato? La madre sciita avvolta nei suoi veli emerge dal fumo con la piccola figlia uccisa sulle braccia. Nel suo volto di pietra, con sgomento, ho
riconosciuto me stesso.” La parola poetica, scrive la Marino1, “non può essere mai chiara e precisa, mai univoca: essa adopera il linguaggio stravolgendolo, mente per essere più vera, è ambigua, allusiva, polisemica, simbolica. La parola poetica non è parola, è immagine”.
Quanto dolore personale c’è in Miryam nel guardare la realtà di dolore altrui di cui si sente in qualche modo responsabile e non solo partecipe? Forse non può essere misurato, ma è un dolore che se potesse essere condiviso con chi lo produce cambierebbe il mondo e lo farebbe guarire. È quel peso straordinario che grava sull’animo e che rappresenta il prezzo da pagare per essere sensibili al dolore dell’altro e all’ingiustizia che non trova sanzioni ma complicità. È, nel caso di Miryam, una delle ragioni per cui lei, ebrea italiana, è attiva partecipante della Rete ECO (Ebrei contro l’occupazione) e dell’Associazione AMRP (Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese).
È nel suo ruolo di ebrea contro l’occupazione che grida a Israele di fermare il suo stesso annientamento morale, di non lasciare che l’etica della cultura ebraica ceda il posto al razzismo sionista e alla strumentale ossessione della “sicurezza” israeliana, parola magica capace di giustificare ogni nefandezza commessa da Israele.
E’ nella sua veste di responsabile dell’AMRP che testimonia il suo impegno effettivo e concreto per una pace giusta in Palestina.
È, infine e soprattutto, come donna e come artista, che conduce ogni giorno e in ogni modo possibile la sua attività di costruzione di un mondo più giusto in cui lo spazio occupato dal dolore venga liberato per essere destinato al diritto alla gioia e alla bellezza.
Questa tensione verso la giustizia che porti al superamento della violenza è una scintilla che appare spesso nei suoi racconti. Appare attraverso lo “strano colono” Ilan, nel racconto la Kufiah, che sembra preludere a una possibilità d’intesa tra individui puri d’animo. Ilan è considerato un pazzo.
E come potrebbero altrimenti giustificare i suoi parenti, inferociti per un attentato, la sua affermazione: “stanno recitando il copione che voi avete scritto per loro”? e come giustificare altrimenti la kefiah in bella mostra nella sua camera? Ma Ilan ha parlato con Fadi, il suo coetaneo palestinese cui hanno confiscato l’uliveto lasciando la sua famiglia nella miseria, e Fadi sta pensando a un’azione suicida, l’unica cosa che gli sembra possibile per aiutare sua madre e i suoi fratelli. Ilan capisce dove può portare l’ingiustizia ma i suoi parenti, coloni fanatici e convinti sionisti, non possono che ritenerlo pazzo.
Il racconto si chiude con le parole amare di Ilan e ad esse fa eco, in forma poetica, il sogno dell’autrice: “… Ho pietà per i mandorli schiantati che gridano al cielo. Un’altra vita sogno, che non tenda alla distruzione, il futuro desidero come un intreccio di mani, un abbraccio sopra il sangue, un cielo condiviso …”
Il desiderio di Miryam, appare inequivocabilmente anche nel racconto che vede il militare israeliano Eitan Liberman “catturato” dagli occhi di Saleh Asharaf e dalla domanda che lo aveva colpito per la dolcezza straziante della sua voce mentre, senza motivo, veniva percosso: “Perché ci fate questo, perché…”. Eppure Liberman era ben educato a considerare gli arabi, e in particolare i palestinesi, come infidi, feroci e selvaggi. Era anche abituato a picchiarli, vederli picchiare o uccidere. Che cosa poteva esserci in quella voce e in quegli occhi per avergli creato tanta inquietudine? Liberman improvvisamente era guarito dal delirio che lo aveva posseduto e che possedeva la maggior parte del paese. Improvvisamente vedeva il suo simile e non la bestia nemica nel palestinese torturato e, dolorosamente, vedeva l’infamia delle violenze e dei soprusi commessi dal suo esercito.
A Liberman, soldato improvvisamente redento che chiede luce anche per il suo popolo, Miryam affida il suo messaggio: la possibilità di tornare ad essere umani, e al linguaggio poetico
affida la sua preghiera: “… Tendo le braccia per fermare il fuoco che divampa, non so se il mio corpo sarà sufficiente barriera … ho bisogno di mani di fratelli …” .
Come in altre raccolte di racconti brevi, anche in “Festa di rovine” Miryam Marino, mentre racconta il dolore - e si sente che raccontandolo lo sta vivendo - non se ne lascia intorpidire, neanche quando sembra impossibile non esserne sopraffatti. Quando il dolore si fa insopportabile, il suo narrare si affida ad artifici surreali, consegnando qualche volta all’ironia, qualche volta alla fiaba, la possibile consolazione per riprendere a vivere. È alla fiaba che affida i bambini di Farida Hamal in “Bethlemme”, il primo dei diciotto racconti. Mina, Ibrahim, Yusif e Bhaia rispettivamente di 11, 9, 6 e 4 anni assistono alla morte della loro mamma colpita da un proiettile qualunque dei tanti sparati dai soldati occupanti ed entrato dalla finestra. L’incredulità, l’attesa inutile di salvezza, la paura che man mano si trasforma in terrore e poi in disperazione, dei quattro bambini di fronte al cadavere che si decompone, vengono descritti in modo magistralmente asciutto e tuttavia partecipe fino quasi a far sentire al lettore l’odore terribile di molti giorni di decomposizione in cui a nessuna ambulanza è consentito passare. Non c’è un padre presente, perché Mahmud Hamal è in carcere per nessun motivo, se non quello di essere contro l’occupazione. Ci sono i vicini pietosi ma tutti sono sotto l’incubo delle pallottole e i bambini non mangiano più niente, Ibrahim sembra impazzito e grida continuamente, Yusif è stravolto e vive per le scale, Mina piange tutto il giorno. Quando il sangue aveva abbandonato il suo corpo, Farida aveva lasciato questo mondo ed era andata lontano, ma le invocazioni dei suoi bambini, soli di fronte a tanta crudeltà l’avevano richiamata. “Ora la sua anima dolente girava attorno a quel cadavere cercando un punto d’entrata. Ed ecco che contravvenendo alle leggi della natura Farida tornò in quel corpo perché smettesse di decomporsi e di tormentare i suoi bambini”.
La forza creativa di Miryam Marino offre in questo modo la salvezza dalla disperazione, quella disperazione che, come nel caso di Samira, la giovane donna della Mezzaluna Rossa fattasi
esplodere, potrebbe fare il gioco del nemico e, quindi, il gioco della morte. Di Samira, così forte, capace di resistere e di dare coraggio a tutti, nessuno avrebbe mai pensato una scelta simile. Samira, che sapeva quanto importante fosse il suo impegno come volontaria nella Mezzaluna Rossa, Samira che con la sua ambulanza correva dappertutto. Ma inutilmente. Che ha visto i suoi colleghi ammazzati con addosso la divisa che avrebbe dovuto proteggerli. Che ha visto tanti bambini accecati dalle “freccette” delle bombe israeliane. Che tra i tanti bambini morti senz’altro motivo che il disprezzo per la loro vita, ha visto morire Majdi e Muna di 3 e 5 anni e la loro mamma, d’infarto, a soli 25. Samira ha fatto il gioco del nemico. Ora, mentre l’esercito israeliano sta distruggendo case e seppellendo vivi i loro abitanti, l’autrice porta nelle sue pagine l’amarezza di Samira “inchiodata al cielo sopra Jenin come una nuvola nera greve di pianto”. Non doveva farlo, ora è chiaro, la resistenza si fa vivendo, ma Samira un giorno ha visto tutte le strade chiudersi e “il mondo si era ristretto così tanto da diventare un posto di blocco”. Così è andata. Miryam la saluta dedicandole un pensiero che poeticamente adagia la sua immagine nel letto dei martiri e la tiene sospesa sul mondo. “… poi le parole si sono aperte come fiori, son diventate bassorilievi di fuoco, ho incendiato i pensieri, ho dato fuoco all’idea che covavo nel buio della mente. La morte m’ha baciato come dea pietosa …”
L’altra forma che caratterizza lo stile della Marino quando esce dalla narrazione realistica, è quella di tendere verso un lieve, aggraziato e ironico divertissement come nel racconto “La condanna” in cui un gentile spirito palestinese di nome Wael chiede ad uno, altrettanto gentile e con grandi ali, di nome Ghassan dove fosse l’anima di Jabotiskj, per sentirsi rispondere: “Non ci crederai Wael, ma non l’ho trovata.” E così, con un sorriso sicuramente malizioso, l’autrice ricorda i due intellettuali uccisi dal Mossad, come eternamente presenti, e nega che lo squallido Jabotisky abbia mai avuto un animo umano.
Ancora con ironia e, insieme, con quel messaggio di speranza che appare tra una pagina e l’altra, l’autrice piazza fianco a fianco, a condividere la stessa terra, un israeliano che ha scelto di spararsi dopo aver partecipato, suo malgrado, al massacro di Sabra e Chatila, e un palestinese scambiato per israeliano in quanto biondo. L’equivoco è palesemente una beffa al rigido efficientismo della burocrazia israeliana, e con un “salam aleikum” e uno “shalom aleikem” scambiati tra il biondo Hani e l’ex soldato Dror si conclude la raccolta, affidando a due anime che si confrontano oltre la vita il messaggio che permea le opere di Miryam Marino, donna, scrittrice, artista libera e militante per una giusta pace.
Patrizia Cecconi.
1 “L’arte, la parola poetica e il misticismo”, ediz. Stelle Cadenti
_____________________________
Dr. Patrizia Cecconi
Presidente
Associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese
p.cecconi@inwind.it
+39. 3476090366
Nessun commento:
Posta un commento