di M. C.
Abu M. è un militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Ha 42 anni e di questi undici ne ha trascorsi nelle prigioni israeliane. È stato arrestato 15 volte. Lo abbiamo incontrato al campo profughi di Dheisha, a Betlemme.
All’indomani della conclusione della prima fase del rilascio di prigionieri, che giudizio date dell’accordo tra Hamas e lo Stato sionista?
La liberazione anche di un solo prigioniero palestinese è già di per sé una vittoria. Il dato nuovo rispetto al passato è che questa volta il prigioniero israeliano ha trascorso l’intero periodo di detenzione in territorio palestinese. Il grande merito di questo accordo consiste nell’aver ottenuto il rilascio di 1/3 dei detenuti condannati a più di un ergastolo; nelle carceri israeliane c’erano 820 prigionieri condannati a multipli ergastoli: ne sono usciti 320.
Detto questo, l’accordo raggiunto non è privo di criticità che con una gestione diversa si sarebbero potute evitare: innanzitutto è avvenuto in un momento inopportuno, sarebbe stato meglio posticiparlo a dopo la fine dello sciopero della fame iniziato un mese fa dai prigionieri palestinesi. Con l’attenzione mediatica che comprensibilmente si è guadagnato, il rilascio rischia di offuscare la lotta di centinaia di detenuti in sciopero della fame. Di questi la parte più cospicua è costituita da militanti del PFLP, 400 in tutto.
L’inopportunità politica si evince inoltre anche dalla situazione di crisi che il governo Netanyahu attraversava prima dello scambio e che adesso, in virtù dell’incremento di popolarità per il ritorno a casa di Shalit, potrebbe risolversi positivamente per il governo sionista. La realizzazione dell’accordo potrebbe aver paradossalmente puntellato il malconcio governo Netanyahu.
Un altro punto debole dell’accordo consiste nel non aver ottenuto il rilascio di tutte le prigioniere (ne restano 9 in carcere) e di tutti i prigionieri che hanno già scontato più di 20 anni nelle carceri israeliane: tale risultato con meno fretta si sarebbe potuto ottenere facilmente. Ancora: la maggioranza dei prigionieri rilasciati è di Hamas e i nomi dei 550 che saranno rilasciati nella seconda fase li sceglierà Israele.
Infine l’accordo ha legittimato l’esilio di molti prigionieri a Gaza (120 circa) o al di fuori dei confini nazionali (40 circa). Un pericoloso precedente per il futuro.
Perché questo accordo si verifica proprio oggi? Verrebbe quasi da pensare che Hamas abbia voluto approfittarne per recuperare consensi su Fatah.
Questo non è ovviamente l’obiettivo dichiarato da Hamas, ma è chiaro che si tratta di un’operazione che farà aumentare i consensi della formazione islamica.
Quali sono attualmente il livello di radicamento e la capacità di mobilitazione del FPLP?
Dopo Oslo il movimento nazionale palestinese è arretrato; l’accordo di Oslo non è stato un accordo tra palestinesi e sionisti, ma tra due leadership patrocinate dalla “comunità internazionale”. La conseguenza principale ha riguardato le aspettative dei palestinesi: se prima guardavano con speranza ad una rivoluzione anticoloniale, dopo Oslo si sono concentrati solo sui negoziati.
La sinistra palestinese, soprattutto il FPLP, ha risentito negativamente dell’implosione del blocco socialista e dell’entrata in crisi delle sinistre rivoluzionarie in tutto il mondo. I movimenti religiosi come Hamas hanno ricevuto enormi finanziamenti economici da Arabia Saudita, Siria e Iran; dall’altra parte l’AP è stata coccolata da Europa, Stati Uniti e Israele. Il FPLP non ha ricevuto aiuti da nessuno e ha comunque resistito. Durante l’intifada di Al-Aqsa migliaia di suoi militanti sono stati uccisi o imprigionati: il leader Abu Ali Mustafa è stato ammazzato e il suo successore Ahmed Sa’adat è stato incarcerato. Ciò nonostante il FPLP ha mantenuto la sua posizione di resistenza: la lotta di liberazione nazionale resta la priorità.
Quali sono le condizioni di salute di Ahmad Sa’adat?
Ahmad Saadat è da 21 giorni in sciopero della fame, da quattro anni in isolamento. Ieri (19 ottobre, ndr) il suo avvocato l’ha visitato nell’ospedale del carcere di Ramle dove, in conseguenza del deterioramento delle sue condizioni di salute, è stato trasferito qualche giorno fa. Sa’adat ha fatto sapere che continuerà lo sciopero della fame fino all’ottenimento di tutte le richieste dei prigionieri palestinesi. Ha concluso la vista con l’avvocato trasmettendogli questo messaggio: “Dignità o morte”.
L’11 novembre il Consiglio di Sicurezza ONU si esprimerà sulla richiesta del riconoscimento dello Stato palestinese; il FPLP sembra aver cautamente appoggiato tale iniziativa.
Il FPLP è sempre stato contrario ai negoziati già fin dall’epoca di Oslo: la nostra è stata ed è una lotta di popolo. Quanto alla richiesta del riconoscimento, il FPLP pensa che rappresenti un passo in avanti ma che non sia sufficiente; aiuterà comunque a far capire una volta per tutte chi ci appoggia e chi no. Molti pensano che Obama abbia una politica filo-palestinese: la votazione al Consiglio di Sicurezza chiarirà a tutti da che parte sta Obama.
Appoggiare anche se con delle riserve la richiesta di Abu Mazen non rischia di legittimare la rimozione della questione dei profughi, la negazione del diritto al ritorno?
L’iniziativa di Abu Mazen fallirà. Gli Stati Uniti useranno il diritto di veto e si giungerà ad un nulla di fatto. Ma questa strada per quanto inefficace era preferibile a quella dei negoziati diretti. Non ci sfuggono le pericolose conseguenze nel caso, improbabile, del riconoscimento di uno Stato: i profughi non potrebbero tornare nei territori occupati del ‘48 e la rappresentanza politica del popolo palestinese attualmente esercitata dall’OLP passerebbe nelle mani dell’Autorità Nazionale. L’OLP è l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese; e se un giorno ci sarà una Stato palestinese questo dovrà essere guidato dall’OLP e non dall’Autorità Nazionale.
Come credi che le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria e in generale quelle solidali con la causa palestinese possano aiutare il FPLP?
Il vostro dovere è lottare nel vostro Paese per cambiare le cose. Noi guardiamo con interesse ai movimenti sociali europei e americani. Lo Stato sionista può metabolizzare senza problemi gli attacchi di Hezbollah e della resistenza palestinese. Il progetto sionista non finisce con quei 5 milioni di ebrei che occupano la nostra terra; è un progetto internazionale che richiede una risposta internazionale.
La Palestina non è il Kurdistan, né la Cecenia né il Kashmir. La lotta palestinese è sempre stata una lotta internazionale perché internazionale è stata la responsabilità dell’occupazione sionista. Noi potremo vivere insieme agli ebrei in questa terra, ma ciò avverrà solo quando questi rinunceranno al sionismo. Il sionismo è una malattia dell’ebraismo, è razzismo finanziato dall’Occidente, è l’Occidente stesso piantato in terra araba.
La lotta palestinese è prima palestinese, poi araba e infine internazionale. Da soli non potremo andare molto lontano. Ogni colpo inferto al capitalismo italiano, europeo e americano è un colpo al nemico sionista. E viceversa.
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