Come aiutare realmente la pace in Palestina.
Lettera aperta alla Chiesa Evangelica Valdese.
Angelo Stefanini1
11 Gennaio 2012
La Chiesa Evangelica Valdese ha deciso di donare una consistente somma all’israeliano Centro Peres per la Pace, nello specifico al progetto denominato ‘Saving Children, Medicine for Peace’. Poiché ho grande stima del ruolo svolto dalla comunità valdese nella società, con scelte spesso coraggiose e controcorrente, mi rammarico di questa decisione: la ritengo, infatti, illusoria, illogica e inefficace per lo sviluppo della pace tra Israele e Palestina. Vorrei quindi condividere con la Chiesa Valdese, e con tutti coloro che appoggiano tale scelta, le ragioni di questa mia convinzione.
La Chiesa Valdese, per bocca del Pastore Ricca, giustifica questa scelta con la convinzione che il progetto ‘Saving Children’ sia rivolto a salvare bambini palestinesi che altrimenti non potrebbero essere curati perché “gli ospedali palestinesi non hanno le attrezzature necessarie”. In secondo luogo esso, afferma il Pastore, “costituisce un ponte di solidarietà tra israeliani e palestinesi” e quindi facilita la pace.i
Importanza del contesto geo-politico
Chi scrive conosce abbastanza bene la realtà israelo-palestinese. Da pochi mesi sono ritornato da Gerusalemme, dove ho trascorso più di quattro anni, in periodi separati; prima, nel 2002, come rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il territorio palestinese occupato (TPO, è il termine ufficiale delle Nazioni Unite), ossia Gaza e Cisgiordania compresa Gerusalemme Est; in seguito come responsabile del programma sanitario della Cooperazione Italiana nel TPO (2008-2011).
Un importante aspetto del mio lavoro era il coordinamento della comunità dei donatori internazionali nel settore sanitario, funzione tradizionalmente assegnata all’Italia per la sua storia di leader nella regione in quel settore. Come succede altrove, anche nel TPO, l’arena sanitaria, composta di una grande varietà di attori, rappresenta un caso estremo di complessa interazione sia all’interno della comunità internazionale dei donatori, sia tra questi ultimi, le organizzazioni non governative locali e la stessa Autorità Nazionale Palestinese.
In una situazione, come quello del TPO, in cui è necessario tenere conto non soltanto della fattibilità e della “evidence-base” dei progetti di assistenza, ma anche della loro legalità nei confronti della legislazione internazionale e del loro possibile impatto sul conflitto, anche gli interventi tecnici meglio intenzionati vengono inevitabilmente a fare parte di quel contesto. Nel mio ruolo di coordinatore sanitario italiano ho potuto conoscere i rappresentanti del Centro Peres, e seguire direttamente la fase del progetto ‘Saving Children’ corrispondente al mio periodo a Gerusalemme. Ciò che descriverò quindi è tratto dalla mia esperienza personale, da quanto riferito da persone informate dei fatti o da documentazione ufficiale, pertanto di dominio pubblico, cui ho avuto accesso.
Ragioni per diffidare
Il mio scetticismo sull’efficacia e la ragionevolezza del progetto 'Saving Children' si fonda sia su alcuni aspetti 'tecnici' del progetto stesso (che, come cercherò di spiegare, inevitabilmente trasbordano nel politico), sia sulla filosofia da cui muove il Centro Peres. Inoltre non potrò esimermi dal fare mie alcune perplessità, avanzate da più parti, sul ruolo svolto dal Centro Peres e sul reale spirito di pace che anima il Presidente Peres, suo fondatore e ispiratore.
Ragioni tecniche
Le obiezioni tecniche riguardano, come rilevato in dettaglio dal dossier (marzo 2005) del Coordinamento Toscano di Solidarietà con la Palestinaii:
Il mancato coinvolgimento di qualsiasi attore istituzionale palestinese, sia in fase negoziale sia di realizzazione del progetto, mancanza soltanto in seguito “riparata” con l’inserimento di una fantomatica ONG, Panorama, tanto sconosciuta ai palestinesi quanto amata dal Peres Centre cui è storicamente legata.iii Quando poi, con l’entrata della Cooperazione Italiana nel progetto, si è tentato, malvolentieri, di coinvolgere il ministero della sanità palestinese, l’esito è stato disastroso.
La totale assenza, almeno nella prima parte del progetto (2004-2008), del consolato italiano a Gerusalemme sia in termini di conoscenza del progetto sia di collegamenti tecnici attraverso la locale unità tecnica locale della Cooperazione Italiana.
La mancata considerazione dell’assoluta oggettiva difficoltà, se non a volte impossibilità, per i piccoli pazienti e le loro famiglie residenti nel TPO ad accedere alle strutture mediche israeliane a causa dell’impenetrabile struttura di controllo dell’occupazione israeliana composta di numerosi posti di blocco, esigenza di permessi speciali, improvvise chiusure ai movimenti, totale imprevedibilità delle condizioni logistiche e dei trasporti nel TPO.
La logica tortuosa e sospetta che sottende il meccanismo di finanziamento del progetto, in cui, allo scopo di curare bambini palestinesi, i fondi sono versati a una struttura israeliana (il Peres Centre) che ovviamente incassa una consistente percentuale (almeno il 14%iv) quale parcella per individuare l’ospedale idoneo in Israele, il quale ovviamente trattiene la sua parte. E’ evidente l’incongruità’ di un congegno in cui i fondi pubblici istituzionali destinati alla ‘cooperazione con paesi in via di sviluppo’ finiscono a finanziare strutture private di un paese ricco e tra i primi al mondo per sviluppo tecnologico.
E’ anche immediatamente intuibile come viene a essere elusa la priorità, fondamentale in qualsiasi progetto di sviluppo, di contribuire al rafforzamento delle istituzioni destinatarie locali, ossia quelle palestinesi. Al contrario, in questo modo gli ospedali israeliani possono usufruire di prezioso ‘materiale umano’ senza il quale i supertecnologici reparti, soprattutto chirurgici, non potrebbero avere a disposizione la massa critica di pazienti necessaria a garantire un minimo livello di qualità delle prestazioni. Questo fatto viene inoltre a penalizzare i nascenti centri specialistici palestinesi in cui operano gratuitamente con regolare frequenza anche valenti professionisti italiani. Considerazioni di mera convenienza economica, inoltre, suggerirebbero l’opportunità di utilizzare strutture sanitarie non soltanto israeliane ma anche di altri Paesi limitrofi, come Giordania ed Egitto, per i diversi interventi terapeutici sui piccoli pazienti palestinesi.
Ragioni di principio: Il Centro Peres per la Pace
Nonostante gli ovvi risvolti politici dei punti sopra citati, vorrei anche brevemente analizzare i rischi e le contraddizioni evidenziabili, a mio avviso, nella filosofia che ispira il Centro Peres per la Pacev e altre iniziative che si propongono di favorire la pace tra Israele e Palestina attraverso collaborazioni di vario tipo.
Nei suoi aspetti generali, il Centro Peres per la Pace fa parte di quel genere di iniziative che, promuovendo la collaborazione culturale, sportiva o scientifica e il dialogo interpersonale tra le parti in conflitto, affermano di facilitare la pace e la riconciliazione. Ciò che purtroppo manca nel processo di dialogo che in questo modo viene promosso è la disamina e l’analisi del contesto, ossia delle questioni scottanti che stanno al centro del conflitto stesso. Questa ‘dimenticanza’ è molto comune anche nella stampa e nei media in genere. Si comprende quindi perché la maggioranza dell’opinione pubblica e dei governi sia in preda ad una sorta di amnesia storica che ha rimosso il fatto che fino a 64 anni fa esisteva una regione chiamata Palestina abitata da un suo popolo, dal 1922 al 1948 amministrato dalla Gran Bretagna per conto della Lega delle Nazioni, nel 1967 occupato e in seguito sistematicamente espropriato, represso e colonizzato da quello che oggi si chiama Israele. Questo parziale oscuramento mediatico delle vicende storiche e delle realtà odierne della questione palestinese è da alcuni ritenuto come uno dei maggiori successi della propaganda israeliana.
Come rivela uno studiovi sull’efficacia di analoghi progetti di promozione della pace nel contesto israelo-palestinese:
“… si possono organizzare quanti progetti si vuole su temi e con finalità superordinate [come la salute]…, ma finché le radici del conflitto non sono esplicitate e sempre più organizzazioni e individui non prendono posizione contro l’occupazione, tutto questo lavoro va perduto nelle realtà sistemiche che creano le condizioni dell’oppressione. [Questi progetti] non cambiano la percezione pubblica del problema. Non modificano le politiche governative. E non contribuiscono alla pace”(p.70). Insomma, in tali progetti di cooperazione scientifica la parola “pace” compare soltanto nel titolo.
Mi sembra inevitabile che le iniziative che si auto-definiscono promotrici della pace in Palestina, non accettando di riconoscere esplicitamente i diritti dei palestinesi e di opporsi in modo netto all’ingiustizia dell’occupazione, della colonizzazione e della discriminazione cui sono soggetti, finiscono per dare una falsa apparenza di uguaglianza tra i due contendenti. Esse inoltre contribuiscono ad ammantare con un velo di legittimità e magnanimità l’immagine pubblica di Israele nonostante le dozzine di risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite.vii Troppo spesso la tattica usata per evitare possibili stati di conflitto è fatta di silenzio, inazione e omissione.
La presunzione di queste iniziative 'a favore della pace' sta nel tentativo di porre sullo stesso piano l’occupante con l’occupato, l’oppressore e l’oppresso, oscurando il fatto che lo Stato di Israele, nonostante sia un’enorme potenza militare e nucleare, giustifica la sua costante violazione della legislazione internazionale e dei diritti umani palestinesi (regolarmente ma inutilmente denunciata da Nazioni Unite e altre organizzazioni) come legittima difesa nei confronti di una nazione priva di esercito e del controllo di beni e mezzi (come territorio, tempo, risorse umane e naturali) essenziali per godere di reale autonomia.
Ambigua neutralità e normalizzazione sono gli schermi illusori dietro di cui finiscono la gran parte delle iniziative che propongono la collaborazione scientifica tra israeliani e palestinesi come terreno, appunto, neutrale e utile a fare scoccare la scintilla della pace. Dietro l’illusoria pretesa di a-politica neutralità, essi in realtà contengono un’agenda politica ben chiara soprattutto per ciò che non dicono sull’enorme disparità nel rapporto tra le due parti, l’uno occupatore e l’altro occupato, l’uno padrone e l’altro servo. In questo gioco delle parti, a prescindere dalle intenzioni, professionisti e accademici della parte più debole sono attentamente blanditi e facilmente attratti da finanziamenti, attrezzature e opportunità troppo prestigiose e allettanti da permettere eroiche rinunce. Il tutto in una prospettiva di priorità spesso non rispondenti ai reali bisogni della popolazione. viii E senza che mai, durante tale interazione, il tema dell’occupazione, dei diritti dei palestinesi e dell’espropriazione da essi subita sia affrontata e discussa, ognuno portando le proprie ragioni.
Il Centro Peres non fa eccezione a questa anomalia e le sue profonde ambiguità sono state denunciate da importanti suoi connazionali, come l’ex vice sindaco di Gerusalemme Meron Benvenisti che così si è espresso:
“Nell’attività del Centro Peres per la Pace non c’è nessuno sforzo palese compiuto per un cambiamento dello status quo politico e socio-economico nei Territori Occupati, ma proprio l’opposto: gli sforzi sono fatti per addestrare la popolazione palestinese ad accettare la sua inferiorità e prepararla a sopravvivere sotto le costrizioni imposte da Israele per garantire la superiorità etnica degli ebrei”.ix
Necessità di riconoscere che cosa faciliti e che cosa ostacoli la pace
Ripensando all’esperienza fatta nel TPO, nonostante mi senta di potere guardare con sufficiente distacco e spirito critico al lavoro svolto, non posso sottrarmi alla spiacevole sensazione di avere perso preziose opportunità se non, forse, procurato danni. E’ verosimile, infatti, che nelle diverse circostanze in cui mi sono trovato in quel periodo la mia posizione di donatore e coordinatore del gruppo internazionale abbia contribuito a esacerbare o prolungare il conflitto in corso. In ogni caso non è potuta rimanerne assolutamente separata.
Per questo motivo credo sia importante rivedere sotto una nuova luce le modalità con cui intendiamo aiutare il popolo palestinese e il raggiungimento di una giusta soluzione del conflitto locale. Per ottenere tale obiettivo, credo sia indispensabile acquisire la capacità di riconoscere quanto vada effettivamente in aiuto della pace e quanto invece ne rappresenti un ostacolo.
Una ricercax sull’impatto dell’aiuto internazionale sui conflitti in corso ha evidenziato che:
1. Anche se i donatori internazionali mantengono una neutralità politica, l’aiuto offerto in una situazione di conflitto può non avere, e nella realtà non ha, un impatto neutrale sul dissidio all’interno del quale è fornito;
2. Le risorse offerte dai donatori, e le modalità in cui esse sono organizzate e distribuite, giocano un ruolo importante nel rinforzare o indebolire le relazioni tra i gruppi contendenti;
3. In qualsiasi società i gruppi contendenti sono sia ‘divisi’ da alcuni fattori (come opposti interessi, storia o competizione per risorse limitate) sia ‘connessi’ da altri (interessi comuni, strutture interdipendenti, valori, frammenti di storia).
4. L’impatto dell’aiuto dei donatori sui conflitti si manifesta quando, da una parte, le risorse fornite, e il modo in cui sono fornite, rinforzano o esasperano i fattori di divisione tra i gruppi con conseguente impatto negativo, in questo modo peggiorando il conflitto; oppure, dall’altra parte, indeboliscono i fattori di divisione (impatto positivo). Analogamente, gli effetti possono essere negativi se il donatore ignora, mina e indebolisce i fattori di connessione; oppure positivi se esso riconosce, rinforza o capitalizza sui fattori di connessione. L’esperienza dimostra che gli effetti sui fattori di divisione e di connessione tra gruppi in conflitto non sono mai neutrali.
Alla luce di quanto sopra ritengo che l’attività’ svolta dal Peres Centre, e nello specifico il progetto 'Saving Children', contenga elementi negativi di divisione e di indebolimento dei fattori di connessione necessari a facilitare la soluzione del conflitto.
Per esempio, l’opposizione continua del Centro Peres al coinvolgimento attivo del ministero della salute palestinese, ancorché previsto esplicitamente dagli accordi nella seconda fase con la Cooperazione Italiana (DGCS - Direzione Generale alla Cooperazione allo Sviluppo del Ministero Affari Esteri), e all’utilizzo dei canali istituzionali del ministero palestinese per identificare i pazienti candidati al trasferimento in Israele, non poteva non avere effetti negativi.
Non meraviglia che un tale atteggiamento abbia portato alla rottura di quella fase progettuale “allargata’ con l’uscita ingloriosa dalla scena della Cooperazione Italiana, e annessi fondi (quasi 3 milioni di Euro) rientrati a Roma. In data 17 novembre 2009 il ministro della salute palestinese scriveva al Console italiano informandolo di non avere raggiunto un accordo con il progetto Saving Children e con la Regione Toscana (portavoce anche di altre regioni italiane) sui temi sopra ricordati che, cito testualmente, “minano il sistema che stiamo lavorando a costruire e rafforzare.” Nel 2011 anche la Regione Emilia-Romagna decideva di non continuare il finanziamento.
È pure discutibile la scelta non negoziabile di canalizzare i fondi attraverso il Centro Peres per finanziare ospedali israeliani, anziché investire direttamente sulle infrastrutture mediche palestinesi e su altre attività finalizzate a rafforzare la capacità del settore sanitario palestinese a rispondere ai bisogni della propria popolazione. Una tale scelta avrebbe contribuito anche a diminuire gradualmente la dipendenza palestinese da Israele e a facilitare il processo di indipendenza e di sviluppo sostenibile della società palestinese.
La figura del Fondatore
Shimon Peres, attuale presidente di Israele, ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace nel 1994 assieme a Yasser Arafat, Shimon Peres e Yitzhak Rabin “per gli sforzi messi in atto per creare la pace nel Medio Oriente”. E’ considerato uno dei fondatori dell’industria militare israeliana; è stato uno dei primi sostenitori degli insediamenti colonici ebraici in Cisgordania la cui maggiore crescita in assoluto (del 50%, quattro volte quella della popolazione all'interno di Israele) avvenne proprio sotto l’amministrazione sua e di Rabin (1992-96)xi; ha partecipato alla costruzione dell’arsenale nucleare (stimato tra 75 e 400 testate) mai smentito da Israele.xii
Nel 1996, come Primo Ministro, lanciò l’operazione ‘Grapes of Wrath’ (‘Furore’) che portò allo sfollamento di 400,000 libanesi, 800 dei quali si rifugiarono nella base delle Nazioni Unite di Qana, nel Libano meridionale. Il 18 Aprile 1996 ordinava il bombardamento della base provocando la morte di 102 civili, soprattutto donne, bambini e anziani. Human Rights Watch, le Nazioni Unite e Amnesty International confermarono che quel bombardamento fu intenzionale e non un incidente.xiii Sembra essere questo il motivo per cui Shimon Peres non fu eletto alla carica di Segretario Generale dell’ONU nonostante fosse il candidato più quotato.
Il Presidente Peres ha espresso chiaramente il suo sostegno alla pratica delle ‘esecuzioni extragiudiziarie’, che significa l’uccisione di palestinesi o arabi sospetti senza sottoporli a processo.xiv E’ un sostenitore dell’assedio di Gaza che ha ormai condotto a una tragica crisi umanitaria, e dell'elaborato sistema di posti di blocco su tutta la Cisgiordania che quotidianamente umilia e rende veramente difficile la vita dei palestinesi. E’ un difensore della distruzione delle case palestinesi col pretesto della loro costruzione abusiva (abusività inevitabile vista l’assoluta mancanza di alloggi), fenomeno in crescita preoccupante soprattutto a Gerusalemme Est e nell’area C della Cisgiordania.xv
Con tali credenziali è davvero difficile, nonostante il suo Premio Nobel, potere esaltare Shimon Peres come promotore di pace e riconciliazione con il popolo palestinese. Mi pare piuttosto che traspaia l’ipocrisia di chi cerca la pace promuovendo e sostenendo le guerre più sanguinose.
Conclusione
Resistere a questa subdola opera di normalizzazione e legittimazione di una situazione inaccettabile vuol dire lavorare per l’educazione non solo dell’oppresso, ma anche dell’oppressore. Quest’ultimo, infatti, essendo il detentore del potere maggiore, non vede nessun interesse nell’imbarcarsi in un processo di riparazione delle ingiustizie commesse... È necessario che l’ingiustizia perduri affinché il potente possa agire come ‘generoso’, mettendosi con magnanimità, ma ben conscio della sua superiorità, al tavolo della collaborazione ‘scientifica’ con l’oppresso, magari offrendo di curargli, a un costo (e non solo finanziario), i figli ammalati. Al contrario, la conquista implicita del dialogo è quella del mondo che i due soggetti realizzano insieme. Come diceva Paulo Freire, “nessuno si salva da solo ma insieme all’altro.” xvi
Ringrazio il paziente ma, mi auguro, interessato lettore di essere arrivato in fondo a questo lungo scritto che auspico possa essere utile a tutte le persone desiderose di contribuire, oltre che alla cura dei bambini palestinesi, anche a una giusta soluzione del conflitto israelo-palestinese.
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