La Palestina e i centouno permessi israeliani
Friday, 13 January 2012 08:55 Emma Mancini (Alternative Information Center)
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Centouno differenti permessi per regolare, gestire e ostacolare la libertà di movimento dei palestinesi residenti in Cisgiordania. Ad emetterli è l’Amministrazione Civile israeliana, autorità responsabile di rilasciare il via libera al movimento all’interno dei Territori e verso Israele.
Un potere unilaterale che permette a Tel Aviv di regolare la vita quotidiana di oltre due milioni di palestinesi. Permessi di lavoro, permessi medici, permessi religiosi, permessi per lavorare la propria terra. Permessi per partecipare ad un matrimonio, permessi per andare ad un funerale e permessi per prendere parte ad un processo. Permessi per entrare con l’ambulanza nella “seam zone” (zona cuscinetto tra il confine ufficiale della Linea Verde e il percorso del Muro di Separazione), permessi per costruire una casa nella propria terra.
Centouno diversi documenti, triplicati negli ultimi anni tanto da creare un sistema burocratico inestricabile, volutamente lento e inefficiente. Dietro, a regolare il tutto, c’è l’Amministrazione Civile, il braccio di Tel Aviv in Cisgiordania. Autorità creata nel 1981 per gestire ed amministrare la vita civile nei Territori occupati militarmente dallo Stato di Israele, opera attualmente sotto l’ombrello del Ministero della Difesa israeliano.
Un sistema, quello dei permessi, che Israele giustifica da decenni come necessario a garantire la sicurezza dei propri cittadini, ma che ha portato molti osservatori e organizzazioni internazionali a parlare apertamente di regime di apartheid nei confronti della popolazione palestinese. Il report dell’agenzia delle Nazioni Unite OCHA ha stimato che il 20% dei giorni lavorativi dei dipendenti di Ong o associazioni umanitarie viene sprecato dietro le pratiche e le attese per ottenere un permesso.
Ecco i tipi di permessi più comuni e le storie di palestinesi costretti a convivere con un sistema burocratico messo in piedi nell’intento di rendere la vita della popolazione impossibile.
PERMESSI DI LAVORO:
11 maggio 2011: 2410 persone sono passate stamattina al checkpoint di Betlemme in due ore e tre quarti, dalle 3.55 alle 6.40. “Una buona media rispetto al solito”, racconta all’AIC un volontario dell’associazione Ecumenical Accompaniment Programme in Palestine and Israel (EAPPI), che monitora il checkpoint due volte a settimana. “A volte restiamo qui fino alle 8 per lo stesso numero di lavoratori”.
Ogni giorno circa 2500 persone si recano in Israele a lavorare, ogni giorno impiegano almeno due ore per attraversare il Muro dell’apartheid che separa Betlemme da Gerusalemme.
Il checkpoint apre alle 4 ma già dalle 2 di notte ci sono centinaia di persone in attesa, soprattutto coloro che lavorano in luoghi lontani come Tel Aviv ed Haifa. Arriviamo al checkpoint alle 4.45, quando è ancora buio, quando Betlemme e Beit Sahour sembrano dormire tranquille. Già da lontano sentiamo le urla degli uomini, urla di un’umanità sfinita, che provengono dalla gabbia in cui vengono quotidianamente chiusi i palestinesi. Sono principalmente persone che lavoravano in Israele già prima della costruzione del Muro di Separazione e che hanno mantenuto il loro permesso di lavoro. Si tratta di permessi della durata di pochi mesi e validi dalle 5 alle 19; ogni ingresso o uscita dopo questi orari è vietato, pena il ritiro permanente del permesso (da “Alba al checkpoint di Betlemme insieme ai lavoratori” – Alternative Information Center).
Sono oltre 70mila i palestinesi che ogni giorno attraversano il Muro di Separazione per recarsi al lavoro in Israele, la metà di coloro che possedevano un permesso di lavoro prima della Prima Intifada. “Prima della Seconda Intifada – spiega Amira Mustafa dell’associazione DWRC – la forza lavoro palestinese era per lo più impiegata in Israele nel settore delle costruzioni o in Cisgiordania in agricoltura. La terra ha da sempre rappresentato la nostra maggiore ricchezza. Con lo scoppio della Seconda Intifada nel 2000 e la reazione violenta israeliana, tutto è cambiato in peggio. Le autorità israeliane hanno chiuso la Cisgiordania, hanno costruito il Muro di Separazione e hanno compiuto arresti indiscriminati” (da “Crisi in Cisgiordania tra lavoro nero e disoccupazione” – Alternative Information Center).
lavoratori
Lavoratori palestinesi al checkpoint 300 di Betlemme, all'alba, in attesa di raggiungere il posto di lavoro in Israele (Foto: Emma Mancini, AIC)
PERMESSI DI PREGHIERA:
5 agosto 2011: Primo venerdì di Ramadan. Al tragitto solito del checkpoint che divide Betlemme da Gerusalemme, alle grate di ferro e alle lamiere, sono state aggiunte delle nuove barriere: due fila di mura in cemento separano gli uomini dalle donne. All’ingresso un cartello ricorda che, su ordine delle autorità israeliane, possono recarsi a pregare nella Moschea di Al-Aqsa (il terzo luogo sacro dell’Islam) solo gli uomini sopra i 50 anni, le donne sopra i 45 e chi ha ottenuto un permesso d’ingresso permanente in Israele.
A vigilare ci sono i poliziotti palestinesi, donne e uomini in divisa, che in una scioccante e preoccupante atmosfera di normalizzazione del conflitto comunicano serenamente con gli omologhi israeliani dall’altra parte. Durante il Ramadan saranno le forze di polizia dell’Autorità Palestinese a fare da cani da guardia, a controllare quei documenti che di solito sono controllati da giovani soldati israeliani, a decidere chi può passare e chi no, in un’atmosfera surreale che sa di complice accettazione.
Al di là del checkpoint ad attendere i fedeli musulmani ci sono i soldati di Tel Aviv con metal detector portatili. Molti quelli che tentano di passare comunque, consapevoli che senza permesso Gerusalemme resterà un miraggio, e allora restano là in piedi, di fronte ad checkpoint invalicabile. Un uomo sulla quarantina scoppia in lacrime in faccia ai poliziotti palestinesi, “Voglio solo pregare ad Al-Aqsa, voglio solo poter pregare liberamente” (da “Venerdì di Ramadan: al checkpoint 300 è la polizia palestinese a fare il cane da guardia” – Alternative Information Center ).
PERMESSI PER LAVORARE LA TERRA:
Dopo la costruzione del Muro di Separazione, moltissime terre agricole di proprietà palestinese sono rimaste “intrappolate” al di là della barriera di cemento e filo spinato. In alcuni casi, le autorità israeliane hanno proceduto alla confisca diretta delle terre ormai irraggiungibili per i legittimi proprietari. In altri casi, permette l’accesso ai contadini palestinesi dietro ottenimento di un permesso.
Permesso che garantisce al contadino palestinese proprietario di un appezzamento di terra tra il Muro e la Linea Verde di lavorare la sua terra, tramite l’attraversamento ogni giorno di checkpoint controllati dall’esercito israeliano. In alcuni casi, come nel villaggio di Falamya nel distretto di Qalqiylia, il gate agricolo resta aperto al transito dei contadini dalle 5 del mattino alle 5 del pomeriggio. In altri casi, come nel vicino gate di Jeius, l’apertura è molto limitata: dalle 5.30 alle 6.30, dalle 12 alle 13 e dalle 15 alle 16. Si entra e si esce solo in questi lassi di tempo.
A rilasciare i permessi di lavoro agricolo è l’Amministrazione Civile. Si tratta di permessi temporanei, della durata variabile: a volte di 3 mesi, a volte di sei, altre di un anno. Per ottenere l’agognato permesso, il proprietario palestinese della terra “intrappolata” deve presentare all’Amministrazione Civile la carta d’identità, il documento che attesta la proprietà della terra e un certificato del tribunale che dimostra che la terra in questione si trova al di là del Muro di Separazione.
Dopo il decimo anno di età, ogni uomo e ogni donna palestinese deve richiedere tale permesso. Per coloro che hanno trascorso del tempo in una prigione israeliana o sono stati arrestati dalle forze di occupazione, la loro probabilità di ottenere questi permessi sono sostanzialmente inesistenti.
Secondo i gruppi per i diritti umani, circa 700 minori palestinesi vengono arrestati e portati davanti ai tribunali israeliani ogni anno. Ciò significa che la prossima generazione avrà ancora più difficoltà nel lavorare le terre dall’altra parte del Muro di Separazione. Come le autorità israeliane hanno dimostrato più e più volte, ogni scusa è buona per confiscare le terre solo apparentemente abbandonate (da “La lotta dei contadini di Qalqilya, al di là del Muro di Separazione” – Alternative Information Center).
PERMESSI DI COSTRUZIONE:
16 novembre 2011: Trenta mezzi blindati e più di cento soldati si sono presentati ieri mattina nell’area di Ein al-Duyuk al-Taht, vicino alla città vecchia di Gerico e, dopo aver dichiarato l’area zona militare chiusa, hanno dato il via alle demolizioni. Con il pretesto che le costruzioni edilizie mettevano in pericolo l’adiacente sito archeologico.
Un portavoce dell’autorità israeliana ha dichiarato che le quattro strutture “erano state costruite senza permesso su terra statale destinata all’agricoltura”. Permessi di costruzione che sono praticamente impossibili da ottenere, soprattutto nei territori dell’Area C, il 61% della Cisgiordania.
La struttura responsabile del rilascio dei permessi è l’Amministrazione Civile Israeliana. Secondo i dati della stessa autorità israeliana, dal 2001 al 2007 il tasso di approvazione delle richieste di costruzioni presentate dai palestinesi è stato del 5,5%, mentre il tasso di rifiuto è stato del 94,5% (da “Jericho: demolite 4 case palestinesi” – Alternative Information Center).
PERMESSI MEDICI:
I principali servizi medici specialistici sono concentrati a Gerusalemme Est, tuttavia sono inaccessibili per la maggior parte della popolazione palestinese. Le restrizioni di accesso alla città santa sono iniziate ben prima la costruzione del Muro di Separazione. Già a partire dal 1993 tutti i palestinesi che non avevano la cittadinanza israeliana o la residenza a Gerusalemme Est erano obbligati a chiedere un permesso speciale per accedere alla città. E la stessa cosa valeva per i permessi sanitari. Un sistema lungo e complesso per vedere il proprio diritto alla salute riconosciuto. Spesso i permessi non venivano concessi agli uomini di età compresa tra i 15 e i 30 anni, “per motivi di sicurezza”. E anche chi riusciva ad ottenerlo poteva stare a Gerusalemme per un periodo molto limitato di tempo, e spesso i familiari non avevano il permesso di accompagnarlo.
La situazione è precipitata a partire dal 2007, dopo la costruzione del Muro intorno a Gerusalemme: ora l’accesso alla città santa, e quindi alle cure mediche, è molto più limitato e anche per i pochi fortunati che lo ottengono, le file ai checkpoint sono interminabili, specialmente di mattina. Secondo i dati della Società della Mezzaluna Rossa Palestinese (PRCS), nel 2009 sono stati registrati 440 casi di ritardo o di blocco delle ambulanze presso i checkpoint dei Territori Palestinesi Occupati - e due terzi sono avvenuti presso i posti di blocco che conducevano a Gerusalemme (da “Nati e morti ai check-point militari israeliani” – Alternative Information Center).
L’Amministrazione Civile israeliana ha l’autorità di rilasciare i permessi per motivi di salute e anche in questo caso sa bene come rendere difficile la vita dei palestinesi dei Territori. E in alcuni casi con questa vita, ci gioca. Come successo alla nonna di Bilal, giovane palestinese del campo profughi di Aida a Betlemme, la cui casa è rimasta intrappolata nella cosidetta “seam zone”, tra il Muro e la Linea Verde. Né in Cisgiordania né in Israele.
Una zona grigia che ha assunto una tinta tragica quando due anni fa la nonna di Bilal è stata colpita da un attacco di cuore. Era la proprietaria della casa di famiglia, finita sette anni fa oltre il Muro, e ha sempre rifiutato di lasciarla. Quando ha detto di sentirsi male, la famiglia Jadou ha chiamato un’ambulanza israeliana. Gli israeliani hanno risposto che non erano autorizzati ad entrare in quell’area e hanno suggerito di contattare i servizi di emergenza palestinesi, al di là del Muro di Separazione.
“L’ambulanza palestinese ha dovuto attendere al checkpoint mentre noi provavamo ad ottenere un permesso per farla passare dall’esercito israeliano. Durante quella lunga attesa, circa tre o quattro ore, le condizioni di mia nonna peggioravano”, ricorda Bilal.
Nel disperato tentativo di ottenere assistenza medica per sua nonna, Bilal e la sua famiglia l’hanno legata alla schiena di un asino e hanno attraversato così il checkpoint. “È morta in ambulanza, mentre andavamo in ospedale” (da “Vita e morte nella seam zone” – Alternative Information Center).
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