L’economia palestinese è tenuta in ostaggio. Ma negli ultimi anni, i media hanno presentato la Cisgiordania, dipendente dagli aiuti stranieri, come un economia robusta e in crescita. SAM BAHOUR, uomo d’affari palestinese e scrittore, destruttura questa illusione.
Ramallah (Cisgiordania), 17 gennaio 2012, Nena News – L’anno è finito ed è tempo di voltare pagina dopo un po’ di riflessione. Quale miglior modo di riflettere se non quello di paragonare immaginazione e realtà, soprattutto quando la questione è l’economia palestinese? Ai principianti chiedo: “Abbiamo un’economia, reale o immaginaria?”. Per lungo tempo, in molti hanno semplicemente nascosto la questione sotto il tappeto dell’occupazione militare israeliana, rispondendo di no. Come potremmo averla, se ogni aspetto delle nostre vite è gestito dal governo israeliano?
Ma una simile istintiva risposta non ha avuto più senso dopo gli accordi di Oslo e la creazione dell’Autorità Palestinese. Da quel momento in poi, la realtà economica sotto occupazione è stata condita con pesanti dosi di auto-immagini artificiali. L’idea di partenza, se la memoria non mi inganna, era: “Costruiremo una Singapore”. Possa Dio dare riposo all’anima di un tale sognatore. Spero che la vera Singapore non chieda mai ai palestinesi di risarcirla per il danno causato al suo buon nome.
Quei famigerati negoziatori palestinesi che firmarono l’accordo di Parigi nell’aprile 1994, il cosiddetto “Protocollo sulle Relazioni Economiche tra Israele e l’OLP” (meglio conosciuto come Protocollo di Parigi), erano concordi su quello che la nostra economia poteva e non poteva fare. Il Protocollo di Parigi fu, con pochissime modifiche, incorporato all’Accordo ad Interim – l’ugualmente famigerato Oslo 2, firmato nel settembre 1995.
Così con gli accordi di Oslo, calati su di noi come un paracadute, dall’alto, è emersa la spettacolare idea: l’Autorità Palestinese. L’AP non ha perso tempo nel produrre tutti i finimenti di un’economia reale. Prima qualcuno poteva dire: “L’AP è un’autorità orwelliana, dal doppio linguaggio”. Ministeri, leggi, politiche, regolamenti, e anche piani strategici che comparivano di qua e di là.
Fin dall’inizio, il potere che ha strizzato la parola “Nazionale” tra Autorità e Palestinese ha cercato di dare alla gente una pelle d’oca patriottica. Ma tutti quelli impegnati nel costruire una vera economia hanno avuto poco più di un’eruzione cutanea permanente.
Un decennio dopo, l’economia palestinese ci si è presentata davanti. L’immagine di un’economia aveva preso forma. I supereroi non erano i negoziatori che avevano firmato il Protocollo di Parigi, e neppure i felici ministri palestinesi, ma piuttosto i finanziatori e i loro agenti che hanno costruito un’industria degli aiuti utilizzando gli accordi, compreso Parigi, come base.
Quando la realtà ha iniziato ad affondare, dopo il collasso dei negoziati di Camp David II nel 2000, sempre più persone hanno cominciato a vedere quando la nostra economia fosse artificiale – una farsa. Siamo tornati a sentire: “Come possiamo avere un’economia se ogni aspetto della nostra vita è gestito dal governo israeliano?
Ma poi è arrivato l’attivista israeliano (e buon amico) Jeff Halper che ha compiuto questa analogia: anche una prigione ha una sua economia, sebbene il 95% della prigione sia occupato (non militarmente occupato, attenzione) da prigionieri. La guardia carceraria ha bisogno solo di una piccola percentuale di spazio per controllare tutte le porte, le entrate, le uscite e le finestre. Quello che viene scambiato in una prigione è quello che le guardie permettono che entri e venga contrabbandato: sigarette, droghe, libri, lavoretti, favori, e così via.
Questa “scomoda verità”, per usare le parole di Al Gore, che l’intero territorio occupato altro non è che una prigione dove i prigionieri sembrano avere il loro spazio, ma nessuna capacità di movimento e di accesso liberi, ha aperto gli occhi di molti. Quando poi si aggiunge il fatto che il 60% della Cisgiordania è stata classificata da Oslo come Area C – fuori dal controllo palestinese e quindi dal suo sviluppo economico – in molti hanno cominciato a vedere la prigione come un passo avanti rispetto alla realtà nota come economia palestinese.
Poi sono venute le lotte politiche interne dovute ai ritardi nelle elezioni. Un nuovo futuro conveniente era nato per riproporre i fallimenti economici del passato.
Per troppi anni, se si leggono i report, si ascoltano tutti i discorsi, si guardano i cartelloni pubblicitari, si analizzano le pubblicità sui giornali, si fa attenzione a tutti i prezzi offerti dal sistema bancario, non si crederebbe mai che un’economia reale qui non è mai esistita. E solo nel caso in cui si inizi ad avere la sensazione che questa sia un’economia artificiale, il sistema bancario salterebbe fuori dalla sua camicia di forza conservatrice e convincerebbe i clienti a contrarre debiti. Non un prestito, non due, ma il più possibile. Perché no? È successo così fin da quando i donatori si sono tranquillamente nascosti nei caveau delle banche, garantendo ogni mossa e facendo il tifo per il cambiamento strutturale che si stava realizzando con l’accettazione piena del governo palestinese.
Indebitamento! Il buon indebitamento del modello americano. Hai bisogno di un prestito per gli studi? Nessun problema. Hai bisogno di un prestito per l’automobile. Semplice. Ti vuoi sposare? Di quanto hai bisogno? Di una casa? Perché affittarne una quando puoi comprarla? Hai l’ultimo modello di iPhone? Non preoccuparti, firma qua e pagherai cinque shekel per i prossimi 200 anni. E se ogni casa ha bisogno di un computer, qual è la differenza tra cinque shekel e sette? E la lista potrebbe andare avanti.
Ok, sono stato un po’ troppo sarcastico, ma non così tanto. Lasciatemi condurre questa allucinazione verso la sua analisi.
Torniamo alla base. Cosa diavolo è in fondo un’economia? Bene, il dizionario dice che un’economia è “il sistema di produzione, distribuzione e consumo”. Ok, questo è un buon punto di partenza, ma riflette una condizione normale. La Palestina, la sua parte occupata, è lontana dall’essere normale. La fase del suo sviluppo non è solo produzione, distribuzione e consumo. Si dovrebbe realizzare la rimozione dello stivale dell’occupazione militare dal nostro collo, mentre allo stesso tempo si costruisce uno Stato che necessita di base economiche per sopravvivere. Sì, dobbiamo mangiare, dormire, vestirci nel frattempo, ma questo non è sicuramente abbastanza.
Quindi, cosa fa un’economia per servire al meglio le necessità di uno Stato sovrano? Qualche bar in più? Un supermarket più grande? Un fast food? Un altro hotel o una sala da bowling? Risposta sbagliata. Tutto ciò va bene, sono cose un po’ dandy da avere, ma non ci permettono di muoversi verso la libertà e l’indipendenza economiche.
Le risorse economiche di cui abbiamo bisogno sono note a tutti coloro che hanno bisogno di conoscerle, prima di tutti la comunità dei finanziatori. Le risorse economiche strategiche per la costruzione di uno Stato sono la terra, l’acqua, le strade, i confini, la rete elettrica, lo spazio aereo, il movimento, le libere relazioni di mercato, e soprattutto le risorse umane. Tutto ciò e anche di più sono al 100% controllate e gestite dall’occupazione militare israeliana.
Senza fare un passo indietro e prendere nota dell’integrazione sistematicamente pianificata (meglio nota come dipendenza forzata) dell’economia palestinese con Israele, continueremo a credere ad una realtà economica che è semplicemente un’economia nell’idea dell’occupante.
La chiamata alla sveglia è arrivata. Stato o non Stato, questa occupazione è illegale e deve finire ora. Nel mondo delle occupazioni militari gli Stati terzi, firmatari della IV Convenzione di Ginevra, portano il peso e la responsabilità di mantenere viva l’occupazione. Basta con questo vuoto e glorificato parlare delle istituzioni e con questi negoziati bilaterali. Le nostre risorse economiche vengono violentate mentre i cappuccini dei nostri donatori lasciano aperte le porte dei nostri bar.
Se i finanziatori non sono in grado di concretizzare i loro sforzi nei loro Paesi, allora gli si dovrebbe gentilmente chiedere, sia noi che la loro gente, di smettere di sprecare le tasse dei loro cittadini per mantenere qui l’illusione della costruzione di un’economia palestinese, fragile come un castello di carte. Se le nostre risorse idriche continuano ad essere deviate, se le nostre frequenze continuano ad essere commercialmente abusate da operatori di telecomunicazione israeliani senza licenza, se il nostro movimento è ancora ostaggio di una carta d’identità, una carta magnetica, un biglietto da visita, un permesso; se uno studente di Gaza non può studiare in un’università in Cisgiordania e se l’illegalmente annessa Gerusalemme rimarrà un tema troppo difficile da trattare per i finanziatori, allora perché stiamo sprecando il nostro tempo?
Sembra che la “leadership” palestinese abbia acquistato il suo primo specchio lo scorso settembre e abbia cominciato a vedere il riflesso di quello che ha creato e a compiere qualche aggiustamento. Vorrei sperare che il riflesso sia un onesto approccio di quello che abbiamo realizzato, su tutti i fronti. I tempi non richiedono interventi clamorosi o cambiamenti cosmetici di una realtà deformata.
L’allucinazione economica della Palestina ha il potere di mantenere un’immagine di una realtà che sta crescendo più del 9% l’anno. Ci volevano 20 minuti di viaggio per andare da Ramallah a Betlemme. Ora, siamo costretti a circumnavigare Gerusalemme, tra muri di cemento e checkpoint israeliani. Oggi ci vuole più di un’ora. Per la crescita del PIL, è una buona notizia. Durante questi 40 minuti in più bruciamo più benzina, abbiamo bisogno di illuminazione in strade più lunghe, mangiamo più panini sulla via, spendiamo più tempo per guidare, prendiamo più buche che richiedono maggiore lavoro per gli operai al mattino ecc. Tutte queste spese extra sono fondamentali alla crescita del PIL ma catastrofiche per la nostra vita e la creazione di uno Stato.
È tempo per un nuovo modello economico, costruito sulla giustizia economica, il welfare sociale, la solidarietà e la sostenibilità. Dovremmo avere un solo obiettivo in testa: abbassare il costo di vivere sotto occupazione così che più persone possano resistere a questi tempi problematici. Se non mi credete, nessun rancore: sentitevi liberi di trasferire i vostri salari in un’altra banca, stanno già dando via il miglior premio: un biglietto di sola andata per la vostra famiglia verso una qualsiasi destinazione, ma non la Palestina. Buon viaggio!
Sam Bahour è un palestinese americano di Al Bireh/Ramallah. È un consulente d’affari freelance e ha lavorato alla creazione della Compagnia di Telecomunicazione della Palestina e al PLAZA Shopping Center. Bahour scrive spesso in merito all’economia palestinese. È co-editore di “Homeland: Storie orali sulla Palestina e i palestinesi”. Può essere contattato a sbahour@palnet.com. Il suo blog: www.epalestine.com.
Questo articolo e’ stato tradotto e inizialmente pubblicato dall’Alternative Information Center
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