mercoledì 28 agosto 2013
SIRIA. APPELLO. AGIAMO CONTRO UNA NUOVA GUERRA IMPERIALISTA SENZA PROVE
No War Roma
Siria. Senza sapere che cosa è successo e chi è stato, applicando il principio di colpevolezza senza provo e a dispetto del cui prodest, gli Use e le altre potenze rivendicano la necessità di un attacco diretto alla Siria parlando di “oscenità morale del regime siriano”. L’oscenità morale è questa guerra. Chiediamo a tutti in tutto il mondo di opporsi nelle strade. 1.Non si può permettere agli USA, Gran Bretagna e Francia di attaccare la Siria, scatenando un’ennesima guerra, senza prove che individuino in modo certo i reali autori e responsabili del lancio di gas la cui natura tra l’altro è ancora da definire come indicano i pareri di vari esperti internazionali sentiti da vari media (http://www.repubblica.it/esteri/2013/08/22/news/gwyn_winfield_troppe_anomalie_sull_uso_del_nervino_in_siria_adesso_serve_un_indagine_approfondita-65146723/). Anche il generale Camporini, presidente dello IAI, ritiene che al regime siriano non convenga affatto usare i gas attirandosi le prevedibili reazioni mondiali, oltretutto in un momento di vantaggio militare e all’arrivo degli ispettori. Gli esperti parlano di casus belli. 2.Nel maggio del 2013, Carla Del Ponte, membro della Commissione Onu che indaga sui crimini di guerra in Siria, dichiarò: “Abbiamo potuto raccogliere alcune testimonianze sull’utilizzo di armi chimiche, e in particolare di gas nervino, ma non da parte delle autorità governative, bensì da parte degli oppositori e dei resistenti”. “Per il momento noi abbiamo solo elementi sull’uso di armi chimiche da parte dagli oppositori.” In quel caso gli stessi paesi che oggi sono pronti ad attaccare la Siria non presero alcun provvedimento, lasciando cadere nel dimenticatoio una informazione di questa portata. Del resto il 30 maggio la polizia turca trovò un deposito di armi chimiche detenuto dal fonte Al Nusra. 3. Sugli autori. Il sito dell’opposizione nonviolenta Syriatruth, il cui coordinatore è un oppositore ad Assad in esilio, Nizar Nayouf, sostiene che due missili provenienti dall’opposizione armata, dal quartiere di Duma, con componenti chimiche, sono caduti in quell’area per errore mentre volevano colpire l’esercito di Assad ad Al-Abbasiyyen Square. Syriatruth riferisce che l’ambasciatore russo ha dato all’Onu immagini da satellite sospette di missili che proverebbero che l’attacco è arrivato da zone controllate dall’opposizione. 4. Medici senza frontiere ha ricevuto telefonate da presidi medici clandestini nel governatorato di Damasco gestiti dall’opposizione (e nei quali il personale di Msf non è presente), che denunciano un afflusso di migliaia di pazienti con sintomi da avvelenamento da gas neurotossici, con oltre trecento morti. Ma di questo non esistono video né foto. Soprattutto Bart Janssens, direttore delle operazioni di Msf, dichiara: “MSF non può né confermare scientificamente la causa di questi sintomi, né stabilire chi è responsabile per l'attacco". Quanto ai video che circolano da giorni, essi suscitano vari dubbi e fanno credere a manipolazioni perché… 5. …I video sono stati caricati su youtube il 20 agosto attraverso il conto Majler Rif. Eppure l’opposizione parla dell’attacco avvenuto il 21 agosto alle 3 del mattino. Anche considerando il fuso orario, comunque sono stati caricati varie ore prima dei presunti attacchi. Secondo esperti citati dai media, alcune scene appaiono artefatte né appaiono evidenti i tipici sintomi del gas sarin. Inoltre diversi Stati stanno strumentalizzando le dichiarazioni di Msf. 6. Aggiungiamo che l’interferenza esterna è la vera causa della tragedia siriana. «Se gli stranieri che combattono in Siria se ne andassero, in 48 ore tornerebbe la pace » ha detto monsignor Nazzaro già vescovo ad Aleppo. Il Times ha scritto che i combattenti stranieri sono almeno diecimila. Da mesi circolano notizie di campi di addestramento congiunti statunitensi e giordani, dove le forze militari dei due paesi stanno preparando squadre di ribelli anti–Assad. Scrive Le Figaro: “Secondo le nostre fonti, i ribelli supervisionati da commando giordani, statunitensi e israeliani si stanno muovendo da alcuni giorni verso Damasco. E secondo il giornale israeliano Debka File “Sarebbero 550 i miliziani in marcia”.
sabato 24 agosto 2013
Riflessioni sulla Siria
Non mi sono mai accontentata di sentire una sola campana, specie se è martellante, se fosse stato così adesso sarei una fervente sionista. Non mi fido nemmeno delle percezioni e delle emozioni individuali, altrimenti avrei dato ragione alla mia ex amica che avrebbe voluto tutti morti i palestinesi dopo l'attentato che aveva lasciato la sua nipotina senza gambe. Il mio vizio è stato sempre quello di andare oltre e di cercare di capire il quadro generale. Naturalmente non è facile e nel tentare di capire non ho la pretesa di convincere nessuno, anche perchè la gente si convince per sue ragioni interne e ben poco con i discorsi e gli scambi di opinione, inoltre lo faccio con l'umiltà di chi sa che la verità è difficile da snidare, specie se è offuscata da mille menzogne, da interessi, dal potere e dal caos. Non ho pretese di avere la verità in tasca come alcuni che sono così sicuri di se stessi e non guardano né a destra né a sinistra. Capisco il dolore e l'indignazione di chi è direttamente coinvolto, non c'è niente che capisco meglio. Anch'io spesso ho il sangue agli occhi, ma poi mi calmo e ragiono.
Assad è un dittatore, sta bene, non lo discuto, ma Assad non è l'unico protagonista e in questa tragedia ci sono molti attori in campo, ne vogliamo tenere conto? La primavera araba ci aveva lasciati tutti a bocca aperta, ne eravamo ammirati, anche le potenze regionali ed extraregionali erano state colte di sorpresa e così la piazza era riuscita a disfarsi del suo dittatore. All'inizio hanno fatto finta di apprezzare la rivolta pacifica e democratica, ma la primavera araba faceva paura. I progetti che costoro avevano per il Medio Oriente erano ben altri. Era il “nuovo medio Oriente” voluto da Bush e perseguito dal suo successore malgrado il premio nobel per la pace che del resto fu conferito anche a Peres, un altro delinquente. Costoro faranno di tutto perchè in Medio oriente non ci sia mai democrazia e libertà.
I risultati poi li abbiamo visti, hanno ripreso ben presto il controllo o forse non lo avevano mai perso e fatto in modo che in Egitto cambiasse tutto per non cambiare niente. Le forze armate sono sempre rimaste al potere, si sono disfatti dei loro nemici non politicamente, come sarebbe stato giusto, ma fisicamente con una strage, anche lì c'erano bambini e anche quei bambini sono meritevoli di considerazione. Ma prima c'era stato il colpo di stato. Ora i fratelli musulmani uccisi sono pure diventati dei martiri. Bella mossa! Come ultimo atto viene liberato Mubarak, tanta fatica e tanto sangue per niente....
Ma prima dell'Egitto c'era stata la Tunisia, e anche lì erano riusciti a liberarsi del loro dittatore e anche lì non è cambiato niente. Sull'onda della Tunisia e dell'Egitto, altri paesi arabi avevano cercato di liberarsi del proprio dittatore, lo Yemen, il Barhein...entrambe le rivolte furono soffocate sul nascere. Nel Barhein con l'aiuto dell'Arabia saudita, il paese più retrogrado, più autoritario, più dittatoriale di tutto il Medio Oriente. Ma lì non ci sono state rivolte e non ci sono stati i ribelli liberatori armati. Sull'onda della primavera araba anche in Siria cominciò una rivolta popolare, ma ormai non potevano più permetterlo e così giocando sulle forze retrograde, fratelli musulmani e jihadisti che si erano fatti avanti, hanno approfittato della rivolta
per fomentare il caos e scatenare la guerra civile. Mi dicono che Assad ha sparato per primo sui manifestanti in Siria, perchè Mubarak forse non aveva sparato?? Ci furono centinaia di morti, ma la rivolta rimase pacifica perchè era una rivolta popolare. Poi sempre strumentalizzando la primavera araba ci hanno contrabbandato la guerra civile in Libia come una rivolta popolare e sono cominciate le menzogne, la propaganda, con un martellamento di bugie che rasentava il disgusto. Ci hanno fatto vedere le fosse comuni che poi si sono rivelate un cimitero, hanno detto che Gheddafi aveva fatto migliaia di morti e poi si è rivelata una bufala, non avevo simpatia per Gheddafi, come non ne ho per Hamas né per i fratelli musulmani, ma quello che è vero va detto. Con la scusa di difendere la popolazione la Nato andò a aumentare il disastro non certo per difendere la popolazione, ma i suoi sporchi interessi, Poi chi erano i ribelli liberatori della Libia lo abbiamo visto. Il segretario del partito comunista siriano afferma che “la Siria ha costituito una diga contro l'espansionismo statunitense in Medio Oriente, soprattutto dopo l'occupazione dell'Iraq e che il vero protagonista del progetto di attaccare la Siria è Peres che persegue questo obiettivo fin dagli anni 8o”. Destabilizzare la Siria è sempre stato il sogno di Israele. Altri attori in campo:gli Stati Uniti, che hanno sempre appoggiato i disegni israeliani, poi ci sono le petromachie del golfo, la Nato e alcuni paesi europei, infine i gruppi armati che decapitano i loro oppositori e fucilano bambini. Dunque sono molti gli attori di questa tragedia. E sono tutti molto cattivi. Allora perchè la campana martella solo per Assad?
Il generale Martin Dempsey era in Israele già il 12 agosto per colloqui “ad alto livello” è poi andato in Giordania per le ultime formalità prima di lanciare il “limitato”intervento militare in Siria. Il piano comporta l'impegno israeliano, saudita, giordano e forse la Turchia, prevede una no fly zone e una zona cuscinetto che dovrebbe essere conquistata da una forza speciale di 3.000 combattenti siriani addestrati dagli USA. Il primo contingente di truppe siriane addestrato dagli americani in Giordania sarebbe entrato in azione già a metà agosto a sud della Siria. Il primo gruppo di 300 uomini sostenuto da commandos israeliani e giordani e da uomini della CIA avrebbe attraversato la frontiera il 17 agosto e il secondo guppo il 19.
Non tutti i ribelli sono delle canaglie sponsorizzate dalle monarchie petrolifere e dall'occidente, ci sono anche oppositori veri, ma che spazio possono avere? E che spazio può avere la protesta popolare se il paese è ostaggio della guerra civile? Inoltre gli oppositori ad Assad sono contrari ad ogni ingerenza o intervento esterno. Le ragioni per la rivolta c'erano certamente, il segretario del partito comunista siriano ne indica alcune: le misure liberiste adottate nel 2005 che hanno prodotto la crescita dell'emarginazione sociale nella periferia di Damasco e in generale il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione, poi c'era la mancanza di libertà. Ma è indubbio che c'era e c'è anche una parte della popolazione che appoggia Assad, probabilmente anche per la speranza di trovare una difesa contro i terroristi che imperversano nel paese.
Peggio dei talebani
Fin dall'inizio questi liberatori mostrano un elemento inquietante: l'eliminazione di chiunque si oppone a loro, sono migliaia i siriani assassinati per essersi opposti a queste bande.
Ecco alcune delle loro imprese che mai nessuno ha denunciato:
Dall'inizio di agosto massacri di curdi, sciiti, di cui 15 a Noubbol e Zahara da oltre un anno sotto assedio delle bande jihadiste, a Deir Ezzor e Hassakè molti cristiani sono stati costretti a fuggire o convertirsi forzatamente o a pagare per la rivoluzione (quotidiano inglese Thelegrah)
Nella provincia di Lattakia tra il 4 e il 5 agosto le bande di Jabhat al-Nusra, i liberi del Levante, la brigate dei Mouhajirin, le Acquile del levante, le Acquile della dignità e la brigata dei libici hanno dato via alla loro spedizione in 10 villaggi abitati da alawiti tra Kafrayya, Talla, Barmasse, Anbatè e Bet Shokouhi. Il quotidiano Al Akbar e fonti locali raccontano che sorpresi nella notte gli abitanti dei villaggi hanno cercato di fuggire ancora in pigiama verso Lattakia, ma sono finiti nelle mani delle milizie.
Il quotidiano libanese Assarif parla di 200 donne e bambini il cui destino è attualmente sconosciuto. Una fonte anonima e un dipendente di un hotel della zona hanno testimoniato che migliaia di miliziani verso le 4 del mattino da diverse direzioni hanno attaccato 4 villaggi con mitragliatrici e granate a razzo.
Alcuni villaggi sono ora disabitati o con 12 abitanti, tutti gli abitanti di sesso maschile, compresi i bambini sono stati assassinati, le donne considerate infedeli in quanto alawite, rapite come prigioniere di guerra.
Nel villaggio Baruda c'è stato un massacro di 33 persone tra cui 13 bambini tutti uccisi con coltello.
Nel villaggio di al Kharrata 40 abitanti sono stati tutti massacrati.
Nel villaggio Balluta la popolazione è stata radunata, prima sono stati uccisi giovani e bambini con coltelli di fronte alle loro famiglie, chi ha cercato di fuggire è stato colpito da armi da fuoco.
Nel villaggio Abu Mecca sono stati sgozzati tutti gli abitanti.
Nel villaggio Bramtha i 200 abitanti tutti assassinati, non un solo superstite.
Ugualmente nel villaggio Aubin
Nel villaggio Istarba gli abitanti sono stati sgozzati come animali mentre le bande jihadiste recitavano la preghiera rituale poi le case sono state incendiate.
L'elenco potrebbe continuare perchè è piuttosto lungo. Syria Truth (giornale non governativo) nei giorni successivi alla pulizia etnica ha pubblicato un elenco con i nomi delle vittime e dispersi.
Episodi particolarmente agghiaccianti sono all'ordine del giorno:
Il 29 marzo l'imam della moschea Al Hassan è stato malmenato e ucciso dopo la morte il suo corpo è stato trascinato per le vie del quartiere e la sua testa appesa al minareto della moschea a fare da monito per la popolazione.
Il 13 aprile hanno abbattuto un elicottero militare che trasportava un carico di viveri e pane, le bande hanno poi diffuso le immagini delle teste delle vittime sulla graticola,
il 10 aprile a Lattakia, Saeed Masoud era andato a prendere suo figlio di 10 anni a scuola, un gruppo armato li ha rapiti entrambi. Il bambino è stato impiccato e il padre massacrato, poi i corpi avvolti nella bandiera del governatorato francese, che i criminali hanno scelto come simbolo.
Nel villaggio Tal Kalakh poco distante da Homs l'8 aprile un altro massacro delle bande Jihadiste. Qualche giorno prima c'era stata una manifestazione con la bandiera siriana per chiedere soccorso, gli abitanti chiedevano l'allontanamento dei gruppi armati dalla loro città e avevano scritto su uno striscione “Salva Tal Kalakh.”
Questi sono i liberatori accolti ovunque, ascoltati ovunque, in questi due tragici anni e mezzo la sola versione dei fatti raccontata da questi criminali è stata presa per buona dai media e mai verificata. Una sola campana, ma assai stonata. Poi sono stati armati, addestrati, forniti di equipaggiamento e denaro e supportati da contractor esterni. La Nato non è intervenuta probabilmente perchè non serviva, c'erano i liberatori che meglio di così non avrebbe potuto fare nessuno. Ma quello che è veramente inaccettabile è che sono stati accolti, ascoltati, giustificati o ignorati nel meno peggiore dei casi anche da certa sinistra o da chi vorrebbe il bene della Siria. L'occidente rifornisce i terroristi di armi ma vorrebbe toglierle al governo, perfino associazioni come Amnesty e Human Rights Watch non chiedono ai paesi NATO
e alle monarchie petrolifere di non mandare armi all'opposizione mentre chiedono un embargo alle armi dell'esercito ufficiale, che sarà anche di un governo dittatoriale, ma è ancora il governo finchè non lo rovescia la volontà popolare, ma quella vera, non quella dei salafiti jihadisti. Togliamo di mezzo Assad va bene e poi ve la immaginate la Siria in mano a questa gentaglia? Certe forze quando vengono scatenate diventano incontrollabili, vedi l'Iraq.
Non sto difendendo Assad, ma potrebbero metterne al suo posto uno pure peggio e soprattutto più conciliante con Israele. Per carità, questo non vuol dire che per il timore del peggio non si deve combattere il male, ma questa consapevolezza ci deve essere. Va bene, sto scoprendo l'acqua calda ma vedo che proprio ciò che è sotto gli occhi non viene notato. Intanto l'Europa che fa? Le sanzioni economiche che prevedono anche un embargo petrolifero, -ma non per le regioni controllate dai ribelli.- Le sanzioni dell'Europa e del Golfo colpiscono l'economia siriana aggiungendosi ai problemi della guerra, proprio mentre gli scontri in atto rendono difficoltoso o impossibile coltivare. Il paese ha perso la sicurezza alimentare già minata dalla siccità. Anche la situazione sanitaria è in crisi per l'impossibilità di avere pezzi di ricambio delle macchine salvavita a causa delle sanzioni, ospedali e centri sanitari sono danneggiati dalla guerra. Poi c'è l'emergenza degli sfollati, 4 milioni, e ci sono una gran quantità di bambini che hanno perso le famiglie e stanno soffrendo.
C'è la necessità di continuare l'assistenza pubblica ai disabili, agli orfani e persone in difficoltà. Questa non è una rivolta contro Assad, questa è una guerra, e chi l'ha voluta? Non credo che i siriani mirassero a questi risultati.
Una nota anche sull'ultimo massacro: Appena gli USA si sono detti pronti a intervenire se in Siria si fossero trovate armi chimiche Al-Jazeera annuncia di averle trovate, appena l'Onu è arrivato in Siria Al Arabyya ha dichiarato che le armi chimiche vengono usate dall'esercito.
Si è detto e giustamente che non c'è stata una mobilitazione adeguata sulla Siria, ma le due manifestazioni che sono state organizzate il 15 giugno erano state promosse una da organizzazioni nazifasciste europee, l'altra era una “contromanifestazione antifascista” in solidarietà al popolo siriano assieme ai macellai che stanno insanguinando la Siria.
La mobilitazione che ci doveva essere è stata bloccata dalla confusione delle posizioni che molti hanno preso.
Con grande dolore vedo la Siria sgretolarsi sotto i miei occhi e mi sento terribilmente impotente e quello che mi fa più male è la cecità di gran parte della sinistra che ascolta la propaganda a senso unico che ha martellato e scandito il ruolo delle monarchie petrolifere, delle potenze NATO tra cui l'Italia che riconosce come unico rappresentante del popolo siriano il braccio politico dei gruppi armati, e che anche adesso non si dissocia dai costruttori di guerra Francia e Inghilterra, che in violazione del diritto internazionale hanno annunciato forniture militari alle bande armate dell'opposizione.
Questa cecità, questo silenzio-assenso della sinistra ha potuto lasciare spazi ai nazifascisti e immobilizzare chi, come me, avrebbe voluto una potente mobilitazione in solidarietà con il popolo siriano. Nessuno vuole capire che la guerra contro la Siria è stata voluta per dominare l'area mediorientale.
Che cosa possiamo fare? Certamente non appoggiare l'intervento esterno così che i siriani si troverebbero non tra due fuochi, ma tre con una distruzione completa.
Dobbiamo chiedere la fine delle sanzioni al paese e degli aiuti militari ai “ribelli”. Dobbiamo opporci all'intervento militare israelo-americano.
Dobbiamo appoggiare l'unico movimento in Siria che dice delle cose sensate, Mussalaha, perchè vengano estromesse le bande armate e ristabilito un clima di pacifica convivenza, solo in questo clima ci sarà spazio e respiro per la volontà popolare e anche per la lotta contro Assad, Israele e America permettendo.
giovedì 22 agosto 2013
Attiviste israeliane sostituiscono i minacciosi manifesti militari con messaggi di pace e resistenza.
Utilizzando strumenti colorati e creativi, e sostenute da Palestinesi di vari villaggi, un gruppo di donne israeliane tenta di spezzare la campagna di paura e di segregazione dell'esercito.
Togliete il vecchio e introducete il nuovo. Manifesti sulle strade della Cisgiordania
(Immagine: Crack in the Wall, Facebook)
TESTO DEL CARTELLONE DELL'ESERCITO
Questa strada conduce nella zona "A"
Sotto l'Autorità Palestinese
E' vietato l'ingresso per i
Cittadini israeliani,
Pericolo per la vostra vita
E contrario alla legge israeliana.
TESTO DELLE ATTIVISTE ISRAELIANE
Le donne dicono no alle regole dell'occupazione
Zona civile ; vietato l'ingresso all'esercito!
Questa strada conduce ai
Villaggi palestinesi
Civili israeliani, non abbiate paura!
Venite e visitate i villaggi palestinesi
Rifiutatevi di essere nemici!
Da molti anni ormai, tutte le strade che partono dalle autostrade principali della Cisgiordania, controllate dagli israeliani e dirette verso villaggi e città palestinesi sono dominate dalla presenza di cartelloni rossi di avviso, in tre lingue. I manifesti avvertono gli Israeliani che le strade conducono a zone controllate dall’Autorità Palestinese. Percorrerle dovrebbe perciò essere considerato come una violazione della legge che proibisce ufficialmente agli Israeliani di entrare nella “Zona A” (benché questa legge non sia quasi mai applicata), e i cartelloni avvertono che c’è pericolo per la vita.
Sabato 13 luglio, un gruppo di donne israeliane è partito per un giro delle strade, per sostituire quei cartelli minacciosi con dei testi più attraenti. Hanno viaggiato tra diverse città palestinesi e con l’aiuto degli abitanti locali hanno coperto i manifesti rossi militari con manifesti più colorati. I messaggi sui nuovi manifesti sono; “Zona civile: vietato l’ingresso all’esercito! Questa strada conduce ai villaggi palestinesi. Civili, non abbiate paura! Venite e visitate i villaggi palestinesi. Rifiutatevi di essere nemici!” (…)
Il gruppo, che si chiama “Noi non obbediamo”, ha già precedentemente attirato molto l’attenzione, dichiarando pubblicamente che loro violano la legge ed entrano illegalmente nei villaggi palestinesi per far entrare clandestinamente in Israele delle donne palestinesi attraverso i cheek point israeliani.
“Abbiamo avuto davvero buone reazioni da parte dei Palestinesi, ovunque siamo state, e alcuni ci hanno detto che dai manifesti originali si sentivano descritti come potenziali assassini di cui bisogna diffidare” ha raccontato a +972 Rivka Sum, una delle attiviste del gruppo. “Una persona ha detto che tutti i giorni tornando a casa dal lavoro e passando in macchina davanti a quel segnale, si sentiva immediatamente depressa al pensiero che degli Israeliani, leggendo quel manifesto, potessero vedere in lui un cannibale avido di sangue o qualcosa del genere”.
In una colonna su Haaretz (in ebraico), l’autrice, traduttrice ed una delle fondatrici del gruppo, Ilana Hammerman, ha dichiarato che piazzare quei manifesti andava anche a vantaggio degli automobilisti israeliani. “Ci sono sempre meno Israeliani oggi che osino essere al corrente direttamente di questa realtà, alla quale è legato il destino del loro Stato - essa scrive -. Noi vogliamo che le persone sappiano che quelle strade conducono a residenze di esseri umani… che sappiano che la realtà è che sono strade di segregazione, rafforzata dall’esercito, che conduco ad un destino tragico,” Nella loro dichiarazione ufficiale il gruppo ha aggiunto: “E’ il nostro modo di esprimere la nostra protesta contro questo metodo di minacce ed intimidazioni. I manifesti, che sono ritenuti “per la nostra sicurezza”, violano l’ambiente circostante ed il loro unico fine è far paura e provocare il conflitto fra Ebrei ed Arabi.”
Anche se la maggior parte dei manifesti alternativi del gruppo sono stati ritirati nel giro di alcuni giorni, quello all’esterno di Beit Jalla sarebbe ancora al suo posto al momento in cui si scrive questo articolo, e le attiviste hanno intenzione di tornare e mettere ancora più manifesti così in tutta la Cisgiordania, nel prossimo futuro
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lunedì 19 agosto 2013
Essere onesti a proposito della narrativa sionista dominante.
Il sindaco di Nazareth Superiore espone la logica dell’esclusione che definisce l’attuale panorama politico e sociale israeliano.
di Neve Gordon
Il sindaco di Nazareth Illit, Shimon Gapso, è un uomo onesto. Come parte del suo sforzo per la rielezione nella città che si affaccia sull’antica città palestinese di Nazareth, ha lanciato una campagna politica ben orchestrata. Durante la prima fase, che ha avuto inizio ai primi di agosto, ha furtivamente affisso cartelloni pubblicitari che citano politici di sinistra – tra cui Haneen Zoabi del partito politico Balad e Ahmad Tibi delle Lista Araba Unita – Ta’al – che invocano la sua rimozione.
La Zoabi è stata citata aver detto,”Nazareth Illit è stata costruita su terra araba. Lotteremo fino alla fine contro il razzismo di Shimon Gapso. [Espellete] la casa razzista,….arabi a Nazareth Illit”. Il poster di Tibi citava il membro della Knesset affermando: “Shimon Gapso è feccia razzista e un bullo di quartiere che calpesta in modo rozzo i diritti fondamentali dei cittadini arabi di vivere dove vogliono e di acquistare terre che, in ogni caso, erano loro e sono state loro rubate con la forza!”
Ma poiché Gapso è un uomo onesto, pochi giorni dopo la campagna negativa auto-promossa che aveva cominciato, ha ammesso che era in realtà dietro ad essa. Poi, ha appeso i suoi “veri” manifesti elettorali.
Vi si legge, “Nazareth Illit sarà per sempre ebraica: non chiudete più gli occhi…..questo è il momento di difendere la nostra casa”.
Su un altro manifesto si legge: “Non permetterò che il carattere ebraico della città venga modificato. Bloccherò l’istituzione di una scuola araba e costruirò quartieri per residenti ebrei….Nazareth Illit è una città ebraica!”
In una lettera al procuratore generale Yehuda Weinstein, due organizzazioni israeliane, la Tag Meir e la Israel Religious Action Center, hanno condannato la campagna elettorale di Gapso come “Interamente intrisa di incitamenti razzisti”. Scrivendo a nome di entrambe le organizzazioni , l’avvocato difensore della Israel Religious Action Center, Einat Hurvitz, ha riportato che le osservazioni di Gapso sui suoi manifesti elettorali “non fanno parte di una società egualitaria e pluralista, in particolar modo non lo sono se fatte da un funzionario eletto. Sono citazioni assolutamente razziste, giacché tutta la campagna di rielezione di Gapso si basa su di una evidente linea razzista – la prevenzione di pari risorse ai residenti arabi di Nazareth Illit, e un tentativo di scacciare gli arabi dalla città”.
Gapso, naturalmente, non è rimasto in silenzio. In un editoriale incredibilmente schietto, comparso sul sito israeliano news di Haaretz, ha reclamato che molte persone lo avessero definito come razzista: “Talvolta mi chiamano anche nazista, bullo o addirittura Hitler. Basta guardare i commenti sul sito web di Haaretz, [dove] la gente vorrebbe mettermi davanti a un plotone d’esecuzione”, ha scritto, e poi ha chiesto retoricamente ai lettori: “Qual è il mio delitto, quale atto di bullismo ho commesso?”
Lui, naturalmente risponde dappresso: “Ho fatto una dichiarazione chiara e inequivocabile che Nazareth Illit è una città ebraica. Sì – non ho paura di dirlo ad alta voce, di scriverlo e aggiungere la mia firma, o dichiararlo davanti alle telecamere : Nazareth Illit è una città ebraica ed è importante che resti così”.
Dopo questa dichiarazione lapidaria, Gapso espone il suo manifesto: “Se questo fa di me un razzista,” dichiara, “allora sono un orgogliosa propaggine di una gloriosa dinastia di ‘razzisti’ che è iniziata con il “Patto tra le Parti” [che Dio fece con Abramo, raccontato nella Genesi 15:1 – 15] e la promessa esplicitamente razzista: “Per la tua discendenza io do questo paese [Genesi 15:38]”.
Egli fa poi notare che “quando il popolo ebraico era sulla via del ritorno alla propria patria dopo un lungo viaggio dalla schiavitù in Egitto, dove per motivi razzisti erano stati ridotti in schiavitù, il Dio di Israele disse a Mosè come agire per conquistare la terra: deve purificare la terra dei suoi attuali abitanti”.
Spostandosi con un balzo di 3.000 anni, Gapso afferma:
“Il razzista Theodor Herzl scrive ‘Der Judenstaat’ (Lo ‘Stato Ebraico’, non ‘lo stato di tutti i suoi cittadini’). Lord Balfour ha raccomandato l’istituzione di un focolare nazionale per il popolo ebraico. David Ben-Gurion, Chaim Arlosoroff, Moshe Sharett e altri razzisti hanno istituito l’Agenzia Ebraica e le Nazioni Unite, razziste, hanno deciso di costituire uno stato ebraico – in altre parole uno stato per ebrei. Il razzista Ben-Gurion ha annunciato la fondazione di uno Stato ebraico in Terra di Israele, e durante la guerra di indipendenza ha fatto pure in modo di portarvi centinaia di migliaia di ebrei e di cacciare centinaia di migliaia di arabi che vivevano qui – il tutto per consentirgli di istituire il carattere razzista desiderato”.
“Da allora”, conclude il sindaco, “sono stati fondati kibbutzim razzialmente puri senza un singolo membro arabo e un esercito che protegge un determinato ceppo razziale, come hanno fatto i partiti politici che con orgoglio portano nomi razzisti come ‘Habayit Hayehudi’ – ‘la casa ebraica’. Anche il nostro inno nazionale razzista ignora l’esistenza della minoranza araba – in altre parole, la gente che Ben-Gurion non riuscì a espellere nella guerra del 1948.Se non fosse per tale ‘razzismo’ è dubbio che potremmo vivere qui ed è dubbio che potremmo vivere affatto.”
La lucida analisi di Gapso della narrativa sionista dominante la dice lunga sullo stato di Israele nel nuovo millennio. Con orgoglio sciovinista rivela la logica dell’esclusione che definisce il panorama politico e sociale israeliano attuale. La novità non sta tanto in ciò che dice, ma in quanto non ha nessuna vergogna di dirlo. L’unica cosa che si dimentica di menzionare è, tuttavia, che il razzismo non è “naturale”, qualcosa con cui si nasce o del quale si dovrebbe essere orgogliosi, ma piuttosto un tratto che uno acquisisce facendo proprie le terribili bugie che alcuni esseri umani sono meno di completamente umani.
(tradotto da
venerdì 16 agosto 2013
DICHIARAZIONE DEI SOCIALISTI RIVOLUZIONARI EGIZIANI: NON IN NOSTRO NOME!
La Fratellanza Musulmana è stata rovesciata per portare avanti la rivoluzione, non per sostenere il regime.
Qualunque crimine la Fratellanza abbia commesso contro il popolo e contro i Copti per difendere il suo potere in nome della religione, noi non diamo al capo dell’esercito di Al-Sisi alcuna autorizzazione. Non andremo in piazza venerdì per offrirgli un assegno in bianco per commettere stragi.
Se Al-Sisi ha i mezzi giuridici per fare quello che vuole, perché chiama la gente per le strade? Quello che vuole è un referendum popolare per assumere il ruolo di Cesare e la legge non lo scoraggerà dal farlo.
Sì, la Fratellanza ha causato sofferenze alle masse durante il periodo del loro governo, e oggi vediamo il ritorno di atti terroristici nel Sinai, ad Al-Arish, ed attacchi contro le persone che vivono in Maniyal e al-Nahda. Ma l’esercito non ha bisogno di un “permesso” per affrontare gli atti terroristici, ha i mezzi legali per fare questo e altro. Ma vuole di più, vuole una mobilitazione popolare dietro di esso al fine di rafforzare la coesione dello Stato e la classe dirigente dietro la sua leadership.
Si vuole cancellare una delle caratteristiche più importanti della rivoluzione fino ad ora, che è la coscienza delle masse del ruolo repressivo dell’apparato statale e della sua intensa ostilità nei loro confronti. Si vuole far apparire come verità la menzogna che “l’esercito, la polizia e il popolo sono una sola mano.” L’esercito vuole che la gente lo segua nelle strade, appena un anno dopo che le masse gridavano “abbasso, abbasso il governo militare” .
Vogliono finalmente ripristinare “stabilità” – cioè il ritorno dell’ordine, il ritorno del regime. Vogliono finire la rivoluzione, e useranno la Fratellanza per farlo. La Fratellanza, in un solo anno di governo, si è alienata tutti: il vecchio Stato, il suo esercito e la polizia, la classe dirigente, la classe operaia e i poveri, i Copti, i partiti rivoluzionari e politici. La caduta della Fratellanza era inevitabile, e la gente festeggiava la caduta di Morsi ancor prima di andare in piazza il 30 giugno. L’istituzione militare, che si era alleata con gli islamisti nel corso dei due anni precedenti, ha deciso di rompere questa alleanza dopo che gli islamisti non sono riusciti a contenere la mobilitazione sociale e la crescente rabbia nelle strade. Così ha colto l’occasione per sbarazzarsi di Morsi, bloccare lo sviluppo di un movimento rivoluzionario ed impedire che andasse avanti. Vogliono dirigere questo movimento verso una direzione “sicura” per sbarazzarsi della Fratellanza e ristabilire il vecchio ordine. Questa strategia ha visto i compari del vecchio regime, la polizia e l’esercito essere ripuliti nei tribunali, mentre i loro crimini vengono aggiunti all’atto di accusa contro la Fratellanza. In primo luogo, essi sostengono che erano responsabili anche per la Rivoluzione del 25 gennaio.
Noi non vogliamo trovare Morsi sul banco degli imputati per l’omicidio dei martiri di Port Said ed altri. Quelle responsabilità sono della polizia di Mubarak / Morsi. La cosa più importante è riaprire la porta che si è chiusa con l’accordo di Morsi: giustizia per i martiri. I crimini che Morsi ha commesso, li ha commessi insieme all’esercito, alla polizia ed allo Stato di Mubarak. Dovrebbero essere processati tutti insieme. Dare al vecchio Stato un mandato per le sue istituzioni repressive di fare quello che vogliono ai loro complici di ieri servirà solo a dargli mano libera per poi reprimere ogni opposizione. Reprimeranno tutti i movimenti di protesta, gli scioperi dei lavoratori, i sit-in e le manifestazioni.
Non possiamo dimenticare che i crimini commessi dalla Fratellanza in tutto il Paese, hanno avuto luogo sotto il naso della polizia e dell’esercito, che non sono intervenuti per proteggere i manifestanti e le persone. Le masse che andranno in strada venerdì danneggiano la rivoluzione, qualunque cosa pensino i partecipanti alle proteste. Dare all’esercito un mandato popolare per spazzare via la Fratellanza Musulmana porterà inevitabilmente al consolidamento del regime che la rivoluzione voleva rovesciare.
Dobbiamo usare la rovina della Fratellanza per portare avanti la rivoluzione, non per sostenere il regime. Dobbiamo affrontare la Fratellanza a livello popolare e politico, rispondendo ai loro atti di violenza con la massima fermezza.
Dobbiamo costruire comitati popolari per difenderci dagli attacchi della Fratellanza e per proteggere la nostra rivoluzione, che non si fermerà prima del rovesciamento del regime e prima che abbia conquistato il pane, la libertà, la giustizia sociale e la punizione per tutti gli assassini dei nostri martiri.
mercoledì 14 agosto 2013
Una bomba coloniale
26 prigionieri in cambio di 1200 abitazioni. L'annuncio del governo israeliano mette la parola fine a un negoziato di pace mai iniziato
di Emma Mancini
Ventisei prigionieri in cambio di 1.200 abitazioni. Un colpo al cerchio (palestinese) e uno alla botte (israeliana), quelli dati ieri dalle autorità di Tel Aviv che in poche ore hanno probabilmente messo la parola fine a un negoziato di pace mai realmente partito. Una era la precondizione posta dall'Autorità Palestinese per accettare una ripresa dal dialogo: il congelamento immediato dell'espansione coloniale nei Territori Occupati.
Una precondizione mai accettata dal governo israeliano e su cui il segretario di Stato americano John Kerry - sponsor di negoziati di cui l'amministrazione Obama ha un mediatico bisogno - aveva chiesto al presidente Abbas di sorvolare. Ma l'annuncio di ieri, a tre giorni dall'incontro dei team di negoziatori a Gerusalemme dopo il primo meeting conoscitivo a Washington, ha l'effetto di una bomba sui già deboli sforzi di pace.
Quasi milleduecento nuove unità abitative in colonie di Gerusalemme Est e Cisgiordania: ad annunciare il via libera definitivo al nuovo progetto è stato domenica Uri Ariel, ministro dell'Abitazione e membro del partito Casa Ebraica di Naftali Bennett, strenuo sostenitore del movimento dei coloni israeliani. Delle 1.187 nuove unità abitative, 793 saranno costruite a Gerusalemme Est, le restanti 394 in Cisgiordania, nelle imponenti colonie di Ma'ale Adumim, Efrat e Ariel, vere e proprie città in grado da sole di disintegrare la continuità territoriale di un eventuale futuro Stato di Palestina.
Subito dopo l'annuncio, il ministro Ariel ha fatto visita alla colonia di Talpiot, costruita nel quartiere palestinese di Jebel Mukaber a Gerusalemme Est, ricordando così all'Autorità Palestinese che la Città Santa per Israele non sarà mai negoziabile: «A nessun Paese al mondo viene ordinato da un altro Stato dove può costruire e dove no - ha detto Ariel - Noi continueremo a fare case e costruire in tutto il Paese». «Un sabotaggio», ha definito le nuove 1.187 case per coloni il negoziatore palestinese Mohammed Shtayyeh: «È chiaro che il governo israeliano sta deliberatamente tentando di sabotare gli Stati Uniti e gli sforzi internazionali per la ripresa dei negoziati. Israele continua a usare i negoziati di pace come cortina di fumo per la costruzione di nuove colonie. È palese che non c'è alcun interesse al dialogo».
A protestare ieri non è stata solo la leadership palestinese ma anche l'Unione Europea, da qualche mese impegnata in una serie di azioni concrete contro l'espansione coloniale israeliana: «Le colonie israeliane in Cisgiordania sono illegali secondo il diritto internazionale e minacciano di rendere impossibile la soluzione a due Stati», ha commentato Michael Mann, portavoce dell'Alto Rappresentante agli Affari Esteri, Catherine Ashton. A fare eco a Bruxelles è intervenuta anche la Gran Bretagna, chiedendo l'immediato ritiro della decisione.
La notizia della nuova ondata colonizzatrice è giunta insieme alla lista dei nomi di 26 dei 104 prigionieri palestinesi pre-Oslo che il governo israeliano aveva promesso poche settimane fa di rilasciare come atto di buona volontà. La decisione, fortemente voluta dal premier Netanyahu, era stata mal digerita dalla coalizione di governo che alla fine aveva però dato il via libera al rilascio degli oltre cento detenuti politici palestinesi, dietro le sbarre di un carcere israeliano da prima degli Accordi di Oslo del 1993.
Ieri Israele ha pubblicato i nomi dei primi 26 che saranno liberati tra pochi giorni (14 nella Striscia di Gaza e 12 in Cisgiordania), la prima di quattro fasi nell'arco di nove mesi. Si tratta per lo più di membri di Fatah, il partito del presidente Abbas. La questione dei prigionieri politici è un altro dei temi caldi che l'Autorità Palestinese avrebbe voluto portare al tavolo, ma senza ottenere alcun impegno né da parte statunitense né tantomeno israeliana.
Immediata è stata la protesta della destra israeliana all'annuncio della lista dei primi 26 nomi. Una rabbia tanto potente da far pensare che le 1.200 nuove case per coloni siano l'ennesimo regalo ai movimenti ultranazionalisti israeliani, base elettorale dell'attuale maggioranza che affonda le sue radici proprio nelle colonie illegali nei Territori Occupati.
Netanyahu sa bene che è meglio il consenso oggi che un negoziato vuoto domani. E come ogni leader israeliano, passato e presente, sa che ogni metro occupato in territorio palestinese è un punto in più da giocarsi al futuro tavolo del negoziato.
Quando - non certo oggi - israeliani e palestinesi avvieranno un dialogo serio, le colonie saranno un dato di fatto tanto concreto e visibile difficile da non tenere in considerazione. Il governo israeliano ne è consapevole: ogni collina, ogni valle, ogni strada occupata oggi è un'assicurazione per il domani.
martedì 13 agosto 2013
Ilan Pappé: inutili e pericolosi nuovi negoziati israelo-palestinesi
Il paradigma è sempre lo stesso, non è cambiato. Non c'è alcun motivo per pensare che questo negoziato possa portare a qualche soluzione, dice lo storico israeliano
sabato 27 luglio 2013 09:12
di Michele Giorgio - Il Manifesto
Haifa, 27 luglio 2013, Nena News - I colloqui israelo-palestinesi stentano a partire nonostante l'annuncio in pompa magna fatto la scorsa settimana dal Segretario di Stato americano John Kerry. In ogni caso Abu Mazen e Benyamin Netanyahu mettono le mani avanti. Il presidente dell'Anp e il premier israeliano hanno entrambi avvertito che un referendum tra le rispettive popolazioni deciderà l'approvazione dell'eventuale accordo tra le due parti. Referendum che sul lato israeliano solleva un interrogativo: è giusto che la popolazione di uno Stato occupante, di fatto, decida con un voto se approvare l'indipendenza e la libertà di un altro popolo sotto occupazione? E' solo una delle tante questioni che solleva il tentativo diplomatico sul quale si gioca la reputazione il Segretario di Stato. Ne abbiamo parlato ad Haifa con l'autorevole storico israeliano Ilan Pappé, professore cattedratico del Dipartimento di Storia dell'Università di Exeter (Gb), rientrato in Israele per l'anno sabbatico. Pappé ha pubblicato numerosi testi sulle origini del conflitto israelo-palestinese, il sionismo e la storia della Palestina. Tra i suoi libri tradotti in italiano il più noto è "La pulizia etnica della Palestina" (Fazi, 2008).
Kerry ha annunciato con enfasi la ripresa del negoziato. Lei all'orizzonte intravede qualcosa di concreto?
Nulla. Non credo nel modo più assoluto che questo nuovo tentativo porti da qualche parte, come i precedenti, a partire dagli accordi di Oslo (1993). Perchè parte dalle stesse basi, ossia che è meglio avere un processo (di pace) che non averlo. Anche se questo processo non produrrà nulla. Per questa ragione non c'è alcuna spinta reale per israeliani ed americani a fare e a dare di più per arrivare a risultati concreti.
Non c'è nulla di nuovo rispetto al passato?
Nessuna novità, anche perchè non si è modificata la base del cosiddetto «consenso» (nazionale) che unisce gli israeliani quando si parla di Cisgiordania e Striscia di Gaza. E' la stessa visione, la stessa strategia di sempre e va riconosciuto all'attuale leadership politica israeliana di aver ammesso che non andrà al negoziato per presentare soluzioni nuove. Sono peraltro convinto che questo rilancio del negoziato bilaterale, così come viene descritto dal Segretario di Stato Kerry, non sarebbe stato possibile se non fosse intervenuta la posizione forte manifestata dall'Unione europea nei giorni scorsi. Posizione che stabilisce nuove linee guida nei confronti delle colonie israeliane nei Territori arabi e palestinesi occupati e che ora, almeno sulla carta, non potranno godere di alcuna cooperazione e aiuto da parte dell'Europa. Anche queste pressioni hanno convinto Netanyahu che è meglio portare avanti qualche forma di dialogo con i palestinesi, per impedire che siano adottate sanzioni contro Israele e le sue colonie.
Decisioni frutto di necessità tattiche e non di una strategia
Esatto. Il paradigma è sempre lo stesso, non è cambiato e non cambierà. E non c'è alcun motivo per pensare che questo negoziato, ammesso che si sviluppi nelle prossime settimane, possa portare a qualche soluzione.
Si avvicina l'appuntamento di settembre dell'Assemblea generale dell'Onu, che i palestinesi in questi ultimianni hanno utilizzato per annunciare passi verso la loro indipendenza, almeno sulla carta o in modo simbolico. L'insistenza americana a riprendere le trattative senza avere nulla in mano serve anche a impedire nuove mosse unilaterali da parte palestinese?
Senza dubbio. Israeliani e americani vogliono che si porti avanti quello che io definisco il "Piano A" e non che si realizzi un "Piano B". Il "Piano A" prevede che i colloqui con i palestinesi vadano avanti con Israele padrone della situazione nei Territori occupati e libero di espandere le sue colonie, con l'Autorità nazionale palestinese (di Abu Mazen) impegnata a impedire lo sviluppo di qualsiasi forma di resistenza, non solo armata, all'occupazione militare. Il "Piano B" invece è quello che vede i palestinesi rivolgersi alle istituzioni internazionali per ottenere la realizzazione dei loro diritti e chiedere che sia sanzionata l'occupazione e i crimini che commette. Il "Piano B" include un'Europa più consapevole dei diritti dei palestinesi e, forse, una nuova rivolta popolare palestinese contro l'oppressione. Per impedire che prenda il via il "Piano B", gli americani e gli israeliani rilanceranno sempre il "processo di pace", ossia il "Piano A", che è quello di dialogare tanto per dialogare senza prospettive di una soluzione fondata sulla legalità internazionale.
Siamo a quasi venti anni dalla firma degli Accordi di Oslo e dalla stretta di mano tra lo scomparso presidente palestinese Yasser Arafat e il premier israeliano assassinato Yitzhak Rabin. Venti anni dopo qualcuno scrive e dice che quella del 1993 era una leadership israeliana pacifista mentre quella attuale sarebbe ultranazionalista e interessata solo ad espandere le colonie. Lei come la vede?
Penso che non ci siano differenze significative tra quella leadership e l'esecutivo di Netanyahu. Tutti i governi israeliani dal 1967 a oggi (dall'occupazione dei Territori, ndr) hanno sviluppato la stessa strategia: 1) tutta Gerusalemme appartiene a Israele e non ci sarà un compromesso sulla città; 2) i profughi palestinesi non rientranno mai alle loro città di origine; 3) Israele non può esistere senza la Cisgiordania. Il cuore pulsante della politica israeliana era e resta l'idea sionista che la Cisgiordania è parte di Israele, a dispetto di qualche esponente politico apparentemente più flessibile che, rispetto ad altri, prevede qualche "concessione" in più da fare ai palestinesi. Certo, ci sono (tra i vari governi) delle differenze su come controllare la Cisgiordania. Ad esempio annetterla tutta o dividerla in una zona israeliana e una palestinese? Concedere o negare l'autonomia ai palestinesi? Concedere o negare una sorta di indipendenza ai palestinesi continuando ad avere il controllo della sovranità reale? Ma è solo tattica.
Siamo fermi al punto di sempre
Già. Se esiste una differenza tra la leadership degli Accordi di Oslo e quella attuale, allora consiste in questi aspetti tattici. Il governo in carica, ad esempio, punta a un controllo maggiore della Cisgiordania, a causa dei suoi legami con il movimento delle colonie. A tutto ciò dobbiamo aggiungere un dato centrale. Oggi, rispetto a 20 anni fa, per l'opinione pubblica israeliana non esiste più un problema palestinese, la questione palestinese è invisibile, sparita da ogni orizzonte. Il popolo occupato semplicemente è scomparso dalla mente di milioni di israeliani. Nena News
lunedì 12 agosto 2013
Palestinese morso da serpente, i soldati lo deridono e non fanno passare l’ambulanza
L'esercito "più morale del mondo" è composto da sadici razzisti e assassini dovrebbero essere tutti in galera, spero che vengano morsi da serpenti velenosi e che vadano tutti all'inferno!
Mondo | 12 agosto 2013
Muhammad è un ragazzino palestinese. Si trovava al checkpoint di al-Hamra – a est di Nablus – quando è stato morso da un serpente, perdendo i sensi. Il padre, Tareq Abu Aoun, ha chiesto ai soldati il permesso di lasciarlo passare e di chiamare un’ambulanza. I militari, sostenendo che stessero ostacolando il passaggio, si sono rifiutati di farli andare oltre e li hanno scacciati dalla fila. Lo ha riportato l’agenzia palestinese Ma’an News.
Un’ambulanza della Mezzaluna Rossa Palestinese, dopo ben un’ora e mezza di attesa, è riuscita a raggiungere l’area e a trasportare il ragazzino all’ospedale di Rafida. Tra le sonore risate dei militari, stando alla testimonianza del padre. Ora Muhammad è in condizioni critiche; il padre ha ucciso il serpente e lo ha portato in ospedale, in modo che i dottori possano identificarne il veleno e di conseguenza l’antidoto idoneo.
venerdì 9 agosto 2013
Palestina – Dividere la terra, cancellare l’identità a Qalandiya.
Qalandiya, un villaggio alla periferia della Gerusalemme occupata, è diventato un crudo esempio dei crimini dell’occupazione israeliana: in nome di “esigenze di sicurezza”, Israele ha scisso il paese, dividendo sia terra che persone, spaccando anche in due una famiglia.
di Malik Samara
Ramallah – A nord della Gerusalemme occupata c’è un piccolo villaggio isolato con una popolazione di non più di 1.100 persone. Ma il villaggio occupa una posizione strategica nella periferia di Gerusalemme, tra diverse fabbriche e impianti vitali, compresi i siti di produzione militare israeliani.
Il villaggio è adiacente all’aeroporto di Gerusalemme, noto come Qalandiya Airport, che venne costruito durante il Mandato Britannico. Oggi, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) vuole che, in un futuro stato palestinese, la struttura divenga il suo aeroporto ufficiale.
La posizione di questo villaggio, come di molti altri attorno a Gerusalemme, lo ha reso esposto ai progetti militari e di colonizzazione israeliani, che si appellano sempre alle “esigenze di sicurezza” dello stato ebraico. Recentemente, Israele ha “annesso” la parte orientale di Qalandiya alle aree che cadono dietro la Linea Verde – la linea di demarcazione che segna il confine de facto tra l’Israele vero e proprio e i territori catturati nel 1967.
Ma ciò che Israele chiama “annessione” è in realtà un processo per modificare il percorso della barriera di separazione, dividendo il paese a metà – con solo tre case nella parte orientale, annessa allo stato ebraico, e le rimanenti sotto in controllo dell’ANP. In altre parole, durante la notte con un tratto di penna la mappa del villaggio è cambiata. La popolazione del villaggio che per centinaia di anni è vissuta come un’unica comunità, ora è soggetta ai capricci dei funzionari dell’occupazione israeliana.
Oggi, solo tre famiglie vivono nella parte orientale del paese, tra cui due che posseggono la carta di identità blu israeliana e una che ha quella verde palestinese, pur essendo imparentate l’una all’altra. Questa è una delle tante assurdità che sono connesse all’occupazione israeliana, con membri della stessa famiglia che sono in possesso documenti di identificazione diversi.
Nella parte di Qalandiya che non è stata annessa, ad esempio, alcuni hanno carte blu e altri verdi, e nonostante alcuni siano direttamente imparentati a gente della parte orientale, solo ai titolari della carta blu è concesso di andare a visitare i loro parenti. “Anche coloro che hanno il permesso di andare a Gerusalemme non sono autorizzati a visitare tale zona,” ha dichiarato Youssef Awadallah, capo del Consiglio del villaggio di Qalandia.
Nella parte annessa del villaggio, la vita delle tre famiglie residenti è ora limitata dal programma giornaliero dell’occupazione. Questi residenti sono autorizzati ad andare e tornare per sole tre ore ogni giorno attraverso il checkpoint istituito nel villaggio dall’occupazione, dalle 7 alle 8:30 di mattina, poi dalla 12:30 alle 13:00 e infine dalle 16:00 alle 17:00 del pomeriggio.
Ma perché gli israeliani hanno sequestrato proprio la parte orientale del villaggio?
Mahmoud Awadallah ha riferito che, “l’importanza di questa regione ha a che fare con la sua posizione strategica. Il villaggio è adiacente all’aeroporto e al parco industriale di Atarot, così come alla strategica Route 443 e all’ingresso di Atarot. Non hanno voluto mettere il muro direttamente lungo la strada e hanno annesso questo segmento del villaggio per porre il muro al di là dello stesso, al fine di lasciare una zona cuscinetto. Il villaggio è pure vicino a un impianto gestito da Mata, una società aerospaziale israeliana che produce e aggiorna gli elicotteri”.
Coprifuoco e checkpoint
Tra le famiglie della parte annessa di Qalandiya, quella dell’attivista Mahmoud Awadallah si trova nella situazione più curiosa, essendo l’unica con carte verdi palestinesi. Questo sta a significare che essa vive all’interno di una “enclave israeliana, parzialmente isolata dal resto del mondo
Questa famiglia non può muoversi liberamente all’interno della Linea Verde, come le altre due, o nella West Bank, tranne durante le ore stabilite dall’occupazione. Più spesso che no, gli israeliani non mostrano alcuna indulgenza per le emergenze umanitarie e familiari. La famiglia Awadallah incarna il netto disprezzo dell’occupazione per la vita palestinese.
Mahmoud Awadallah ha raccontato, “una notte, dopo la chiusura dei cancelli del villaggio da parte delle autorità di occupazione, mia madre si ammalò, ma ci venne impedito di portarla in ospedale. Dovemmo aspettare fino al giorno dopo prima che potessimo spostarla.”
Alle vetture non è consentito entrare o uscire dall’area, ha aggiunto Awadallah, e anche coloro che sono in possesso delle carte d’identità blu devono percorrere un lungo itinerario a piedi per raggiungere la seconda parte del villaggio al di fuori delle “ore di visita”. In altre parole, l’occupazione trasforma un viaggio di cinque minuti tra le due parti del piccolo villaggio nella camminata di un’ora.
Anche le relazioni sociali tra le famiglie ora dipendono dall’umore delle autorità israeliane di occupazione. Ciò include le relazioni coniugali, per esempio, quando uno dei coniugi possiede una carta israeliana e l’altro quella palestinese.
Youssef Awadallah ha affermato, “io posseggo la carta blu e sono costretto ad attraversare una grande distanza per recarmi nella seconda parte del villaggio. Ma a che cosa mi serve una carta d’identità se sono isolato dalla mia terra e dai miei parenti? Io vivo nella parte orientale, e i miei figli e fratelli vivono nella parte araba. Da quando il paese è stato diviso, le nostre visite giornaliere si sono interrotte.”
Soprattutto, ciò di cui i residenti dell’area hanno maggiore paura è l’isolamento dalle loro famiglie e dai vicini nel caso di una maggiore escalation quanto potrebbe venire chiusa l’intera regione.
Nel frattempo, nessuna delle petizioni presentate dai residenti del villaggio ai tribunali israeliani ha partorito ancora frutti. Awadallah ha detto, “finora, si sono rifiutati di rispondere o almeno di prendere in considerazione la questione.” Ora i residenti intendono recarsi alla Corte Suprema israeliana, per chiedere o la piena libertà di movimento o il permesso di soggiorno di Gerusalemme.
(tradotto da mariano mingarelli)
giovedì 8 agosto 2013
Il treno dei coloni, nuovi espropri in Palestina
Un progetto quasi irrealistico che collegherà i Territori a Israele. Ma ad usarlo saranno solo i coloni: ai palestinesi della Cisgiordania è vietato l'ingresso a Gerusalemme.
mercoledì 31 luglio 2013 11:37
di Sonia Grieco
Gerusalemme, 31 luglio 2013, Nena News - Un progetto astronomico e irrealistico, che cela il desiderio mai sopito di annessione dei Territori e, fa notare Rachel Neeman dalle pagine di Ha'aretz, riporta la memoria ai tempi del Mandato britannico della Palestina.
È il progetto del Ministero dei Trasporti, approvato di recente dall'Amministrazione Civile della Cisgiordania, di una rete ferroviaria che dovrebbe collegare Hebron a Jenin e Afula e Ramallah, Gerusalemme e Tel Aviv. Le principali città palestinesi con gli insediamenti ebraici, la Striscia di Gaza fino ai confini con la Siria e la Giordania. Un progetto gigantesco: quasi 500 chilometri di binari, undici destinazioni, almeno trenta stazioni, ponti e gallerie, per il trasporto di milioni di passeggeri, israeliani e palestinesi.
Anche se in questo momento, senza che si intraveda un accordo sul futuro della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e sulla nascita di uno Stato palestinese, l'infrastruttura pare proprio a esclusivo uso e consumo dei coloni, con i checkpoint e i controlli che ogni giorno farebbero perdere il treno ai palestinesi. A meno che, scrive ironica Neeman, il governo di Tel Aviv "non stia programmando di dare la cittadinanza ai passeggeri palestinesi e il treno non sia un modo per promuovere un prossimo Stato binazionale".
Infatti, questa rete ferroviaria che prevede enormi investimenti (è già stato speso un milione di shekel, pari a 200mila euro), dovrebbe essere costruita in territori su cui lo Stato ebraico non ha sovranità. Il progetto è tanto sconnesso dalla realtà, in un momento di ripresa dei negoziati fermi da tre anni, e con la recente direttiva dell'Unione Europea contro gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, che il ministro dei Trasporti, Yisrael Katz (dal cui dicastero è uscito fuori il piano) ha dovuto smorzare gli entusiasmi parlando di una "visione" che sarà realizzata in un prossimo futuro. Si parla del 2035 e il progetto prevede anche l'estensione dell'esistente linea israeliana per creare un collegamento diretto tra Gaza e la Cisgiordania.
Ma al di là degli aspetti paradossali di questo piano, chiuso nei cassetti del Ministero del Trasporti da anni, la sua stessa esistenza è un ennesimo esproprio nei confronti dei palestinesi. Sebbene gli israeliani insistano nel dire che nulla si farà senza il consenso dell'Autorità Nazionale Palestinese - che ha già rifiutato l'invito a partecipare alla programmazione - e che il progetto porterà vantaggi economici ai Territori, di fatto nelle terre su cui dovrebbe passare questa fantomatica linea ferroviaria non c'è possibilità di progettare altro. Sono vincolate: ogni piano di sviluppo deve tenere in considerazione il passaggio futuro di una tratta ferrata.
Nelle prossime settimane il piano sarà reso pubblico, così che ognuno possa sollevare le sue obiezioni e fare i suoi commenti. Intanto è già arrivato quello di Mustafa Barghouthi, segretario generale del PNI (Palestinian National Initiative), ed ex ministro dell'Informazione nel governo di unità nazionale: "Questa ferrovia è l'ultimo tentativo israeliano di annettere la Cisgiordania e soffocare ogni sforzo dei palestinesi di creare uno loro Stato". Nena News
mercoledì 7 agosto 2013
Risposta all’articolo “Il grillino antisionista e la censura mancata” del “giornalista” Toni Jop, pubblicato su L’Unità in data 30 luglio 2013.
OTTIMO ARTICOLO DI LUCA DEBENEDETTIS DELLA RETE BDS
Sig. Toni Jop, il suo articolo apparso sull’Unità il 30 luglio scorso poteva essere, cogliendo lo spunto offertole dal parlamentare del movimento 5 stelle, Paolo Bernini, l’occasione per discutere autorevolmente di un tema, il sionismo, che eticamente dovrebbe trovare tutti sempre e comunque schierati contro, trattandosi della più bieca tra le ideologie nazional-colonialiste dell’ultimo secolo, anche peggiore dell’apartheid sudafricana, (secondo le parole dello stesso premio Nobel per la pace, Nelson Mandela), ma invece si è trasformato nella sua ennesima difesa aprioristica, scevra peraltro di argomenti.
Qui accanto, può visionare personalmente il testo originale della Risoluzione con la quale le Nazioni Unite, nel novembre del 1975, votarono a maggioranza dichiarando, e lo si legge chiaro nell’ultimo periodo, …il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale.
Sa, non erano le parole del giovane parlamentare summenzionato, ma l’esito della votazione dell’Assemblea Generale dell’ONU in seduta plenaria. Tutti antisemiti? Ma cerchiamo di fare ordine. Il sionismo nacque nella seconda metà del XIX come movimento politico-nazionalista fondato sull'idea del ritorno di tutti gli ebrei sparsi per il mondo ad Eretz Israel, la “terra promessa da Dio al popolo eletto”, con l'obiettivo di costruire uno Stato indipendente per
assicurare loro condizioni di vita dignitose, non più soggette all’umore dei popoli che li ospitavano. Non avendo, però, trovato alcun paese disposto a cedere parte della propria sovranità territoriale per consentire ai sionisti di crearselo, questi puntarono sulla Palestina spacciandolo per un territorio disabitato e desertico, e coniando la celebre frase “un popolo senza terra [ebrei] per una terra senza popolo [Palestina]”, pur sapendo perfettamente che in realtà era tutt’altro che disabitata e deserta. Furono, quindi, la consapevole negazione dell’esistenza della popolazione nativa palestinese e la decisione del Sionismo di realizzare il suo obiettivo (oggi quasi completato) a danno del germogliante diritto nazionale di un’altra collettività ad accendere la miccia della secolare questione.
Detto ciò, e stiamo parlando del 1897 (1° Congresso mondiale sionista), quindi di mezzo secolo prima della 2a guerra mondiale e delle tragiche persecuzioni nazifasciste, fu la Gran Bretagna a decidere, senza averne titoli, il destino di quella terra e dei suoi abitanti con la famosa Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917), con la quale il governo di sua maestà si ritenne favorevole all’istituzione in Palestina di un “focolare nazionale ebraico”. Il che dette avvio a ripetute ondate migratorie clandestine di ebrei provenienti dall’Europa che andarono pian piano soffocando i propositi emancipatori della popolazione indigena palestinese, dopo secoli di sudditanza a popoli e sovrani, in barba alle promesse d’indipendenza e di autodeterminazione fattele da Londra in cambio del suo sostegno all’esercito britannico per abbattere l’impero ottomano. Fu allora che il sionismo teorico si trasformò in sionismo pratico innescando quello che è erroneamente conosciuto come “conflitto” israelo-palestinese, pur trattandosi di mera occupazione coloniale.
In seguito le Nazioni Unite, nonostante non avessero alcuna competenza in materia (la Carta dell’ONU non conferisce, infatti, all’organizzazione titoli di arbitrarietà su questioni territoriali), volendo offrire una ricompensa alla comunità ebraica falcidiata dalle persecuzioni naziste in Europa, piuttosto che accogliere i sopravvissuti decisero inspiegabilmente di spartire la Palestina in due territori, uno da assegnare agli ebrei sionisti e l’altro da lasciare ai nativi palestinesi e di cedere, ancor più inspiegabilmente, alla minoranza ebraica che rappresentava 1/3 della popolazione totale (composta in massima parte da immigrati senza alcun vincolo reale col posto) ed era proprietaria del 6-8% delle terre palestinesi, il 56% della regione. Cosa che non era, tuttavia, abbastanza a soddisfare i piani coloniali dei leader del movimento sionista i quali, è il caso di chiarirlo, prospettarono fin dall’inizio la conquista di tutta la Palestina storica, Giordania e porzioni di Libano e Siria inclusi: proprio ciò che, fatalità,
è successo. Le parole del più rappresentativo di essi, David Ben Gurion: "Noi dobbiamo espellere gli arabi e prenderci i loro posti”1 e “Non esistono confini territoriali per il futuro stato ebraico”2, e il simbolo del gruppo paramilitare terroristico Irgun (in alto) guidato dal futuro Primo ministro, nonché premio “Nobel per la pace”, Menachem Begin, rendono bene l’idea.
Ora, sig. Toni Jop, la tristemente nota risoluzione di spartizione della Palestina n°181, votata dall’Assemblea Generale il 29 novembre 1947, stabilì quali confini avrebbero avuto i due territori e che fosse garantita la libertà ai singoli individui di scegliere in quale dei due vivere; oltre a ciò, previde un’amministrazione internazionale per Gerusalemme gestita dall’ONU. Tutte chiacchiere, purtroppo, poiché subito dopo la sua approvazione le forze militari sioniste (e le suggerisco la lettura del testo storico del prof. israeliano Ilan Pappe “La pulizia etnica della Palestina”) avviarono un’operazione di “epurazione” della popolazione nativa dai villaggi palestinesi venuti a cadere all’interno dei confini del futuro Stato sionista, che causò una prima cacciata di 250.000 di essi e la distruzione di 531 dei loro villaggi, sulle cui rovine sono poi stati intenzionalmente edificati insediamenti urbani o creati parchi naturali e luoghi di svago, per occultarne la testimonianza storica. Alla dichiarazione unilaterale della nascita dello stato di Israele, il 15 maggio 1948, per bocca di Ben Gurion che ne divenne il primo Primo ministro, seguì la reazione di alcuni Stati arabi che cercarono invano di bloccare l’avanzata dell’esercito sionista per dare sostegno alla popolazione. Quella che conosciamo come “Prima guerra arabo-israeliana”, si concluse con la cacciata di un altro mezzo milione di palestinesi, l’occupazione di Gerusalemme Ovest e quella di oltre la metà del, poi, mai nato Stato di Palestina.
A quel punto, per cercare di porre rimedio ad una decisione lapalissianamente scellerata, le Nazioni Unite adottarono la risoluzione n°194 (11 dicembre 1948) che sancì il diritto al ritorno dei profughi palestinesi intimando ad Israele di facilitarne il rientro. Lo stato sionista risultò inadempiente anche questa volta e quando l’anno seguente fu decretato il suo ingresso nell’ONU con la risoluzione n°273 (11 maggio 1949), tra gli obblighi vincolanti in essa previsti per renderne efficace il dispositivo, vi era quello di ottemperare alle due precedenti risoluzioni (n°181 e n°194). Cosa fece Israele? Incassò l’ingresso nelle Nazioni Unite e si fece beffa dei suoi obblighi. Quindi, senza il bisogno di evocare le dichiarazioni di improbabili cattivoni antisemiti, Israele, risultando inadempiente su tutto, risoluzione che ne decretò la creazione in primis, ha reso da subito nullo il suo status giuridico di Nazione e quello di membro dell’ONU, ponendosi autonomamente al di fuori del diritto internazionale e mettendo, altresì, in discussione il suo diritto ad esistere. Lo ha fatto da solo! Se le norme di diritto internazionale, nate anche in seguito a quell’ignominia che fu il nazifascismo, sono state ideate per essere universali è fondamentale che vengano rispettate universalmente.
Dopodiché, senza portarla avanti per le lunghe, nei 65 anni di “gloriosa” esistenza, Israele ha violato:
Tutti i 30 articoli della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo
La Dichiarazione dei Diritti del fanciullo e la Convenzione contro la tortura
La 4a Convenzione di Ginevra sul trattamento dei civili in tempo di guerra, in particolare:
Il divieto di usare civili a protezione di truppe o avamposti militari (art.28)
Il divieto di esercitare coercizioni fisiche o morali per ottenere informazioni (art.31)
Il divieto di impartire punizioni collettive per reati non commessi personalmente (art.33)
Il diritto di potersi allontanare dal territorio interessato dagli scontri (art.35)
Il divieto per la potenza occupante di deportare civili dai territori occupati e di rimpiazzarli con una parte della propria popolazione: i coloni (art.49)
Il diritto dei minori all’educazione e a cure appropriate (art.50)
Il divieto di distruzione di beni e proprietà private (art.53)
Il diritto della popolazione sotto occupazione a ricevere vettovagliamento sufficiente (art.55)
Il diritto a garantire alla popolazione sotto occupazione le adeguate cure sanitarie (art.56)
445 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale dell’ONU, 19 delle quali di condanna per il programma nucleare militare sviluppato illegalmente e in collaborazione col governo razzista sudafricano in piena apartheid.
Nello stesso lasso temporale, Israele ha:
Occupato, armi in pugno, oltre l’80% della Palestina storica (quando la Carta delle Nazioni Unite definisce illegale, per cui nulla, la conquista di territori con l’uso della forza), Gerusalemme inclusa.
Demolito, a partire dal 1967, oltre 25.000 edifici civili palestinesi ed edificato più di 450 insediamenti illegali nei quali alloggiano 530.000 coloni israeliani abusivi, mentre aspettano il rientro in patria 5.200.000 palestinesi ancora ospiti nei campi profughi dell’UNRWA
Approvato 1.500 reati per i quali è previsto l’arresto ed imprigionato circa 750.000 palestinesi
Istallato 500 checkpoint nei territori palestinesi con i quali umilia e condiziona quotidianamente la vita della popolazione sotto occupazione
Costruito un muro di separazione in Cisgiordania, dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia, alto il doppio e spesso il triplo di quello di Berlino, che una volta completato sarà lungo 730km e lascerà isolati 97 villaggi palestinesi per un totale di 373.000 abitanti.
Fatto uso ripetuto contro i civili di armi non convenzionali, vietate da trattati internazionali (fosforo bianco, bombe a grappolo, DIME, ecc.)
Inoltre, Israele, la tanto acclamata “unica democrazia del medio oriente”: non riconosce la nazionalità israeliana sui documenti d’identità dei propri cittadini, ma li classifica in ebrei, cristiani, musulmani, beduini o drusi, con tutte le discriminazioni che ne conseguono; proibisce i matrimoni misti tra israeliani e palestinesi, pena la perdita della cittadinanza; non ha confini territoriali dichiarati, in chiara prospettiva espansionistica; non si è mai dato una costituzione, poiché garantirebbe uguali diritti a tutti i suoi cittadini ed è arrivata, tra l’altro, persino ad impedire la proliferazione della comunità ebraica dei falashà etiopi, evidentemente considerati di serie B, somministrando loro coattamente un potente anticoncezionale.
Ecco, sig. Jop, cos’è il sionismo: esclusivismo, occupazione, intolleranza, prepotenza, discriminazione, razzismo. Un’ideologia, fattasi movimento politico, condannata dai più autorevoli rappresentanti dell’autentica ortodossia giudaica per aver sconvolto l’originale messaggio ebraico infangando, così, anche la memoria delle vittime delle persecuzioni nazifasciste. Posso immaginare cosa voglia dire dover adattare la propria (teorica) integrità professionale alla linea di un direttore di testata, ma se in questi 65 anni aveste fatto il vostro lavoro, informando criticamente e su basi oggettive la gente sulla natura del sionismo e sui soprusi perpetrati senza soluzione di continuità contro la popolazione palestinese invece di assoggettarvi ai diktat di editori collusi con gruppi di potere filo-sionisti internazionali (mediatici, religiosi, politici e finanziari), l’intera questione sarebbe stata risolta in un niente e con un risparmio di vite incalcolabile. Ora, continui pure a difendere il Sionismo, ma la invito a citarne almeno un aspetto positivo: vedrà che non lo troverà! (Luca Debenedettis)
domenica 4 agosto 2013
Motivi di panico a Gerusalemme
Motivi di panico a Gerusalemme
Scritto da Associazione
Creato Venerdì, 02 Agosto 2013 12:37
Haaretz.com
29.07.2013
http://www.haaretz.com/news/features/.premium-1.538510
Motivi di panico a Gerusalemme.
Le nuove norme del Ministero degli Interni possono essere considerate innocenti e benintenzionate dal momento che colpiscono i palestinesi della capitale?
di Amira Hass
La settimana scorsa i residenti palestinesi di Gerusalemme Est sono stati colti da un vero panico: coloro che hanno rinnovato le loro carte d’identità presso il Ministero degli Interni a Gerusalemme nel mese di luglio hanno scoperto che agli usuali particolari di identificazione erano stati aggiunti due nuovi elementi. Il primo, “Status”, accanto al quale si dice “Di soggiorno per residente permanente”; e il secondo, “Valido finché”, e accanto ad esso una data equivalente a 10 anni dal giorno in cui il documento è stato stampato. Una fotografia del nuovo documento è girata su Facebook e alcuni hanno dedotto che la data di scadenza si riferisce al loro Status di residenti permanenti di Gerusalemme.
Quindi prima di tutto un segnale di “via libera”: Quelle due nuove aggiunte compaiono non solo nelle nuove carte d’identità dei residenti palestinesi di Gerusalemme, ma su ogni nuova carta d’identità, a causa delle nuove norme che sono state approvate nel maggio del 2012 e che sono entrate in vigore il 1° luglio di quest’anno. Esse prevedono anche la sostituzione del documento se è stracciato o se c’è stato un cambiamento nei dati personali. La data di scadenza non ha alcuna connessione con lo Status: Lo Status di residente permanente, come quella di cittadino, non viene annullato quando scade la carta di Identità.
Questo è ciò che promettono alla popolazione le autorità di immigrazione e di frontiera. Hanno spiegato pure che l’aggiunta di “Status” sulla carta d’identità questa volta è rivolto “questa volta” ai residenti temporanei e non ai palestinesi residenti permanenti. E’ pensato per evitare che i residenti temporanei – che principalmente non sono palestinesi – continuino a vivere indisturbati nel paese e utilizzino per vari motivi la loro carta d’identità anche dopo la scadenza del loro diritto di residenza. L’aggiunta di “Status” faciliterà la loro individuazione. Ma a causa della norma di standardizzazione, ogni aggiunta compare su tutte le carte d’identità, che siano quelle dei cittadini, dei residenti permanenti o dei residenti temporanei.
Sfruttare ogni apertura
In breve, le autorità di immigrazione e di frontiera hanno detto alla popolazione che non c’è motivo di panico. Davvero? I 46 anni di “Gerusalemme unita” dimostrano che i palestinesi residenti nella città hanno tutte le ragioni del mondo per sospettare di qualsiasi cambiamento amministrativo o burocratico presumibilmente innocente e supporre che le autorità israeliane stiano progettando di sfruttare ogni possibile apertura e pretesto per continuare coerentemente con la loro politica, che non è un segreto: di espellere dalla loro città e dalla loro patria quanti più palestinesi gerosolimitani sia possibile. E la popolazione ebraica israeliana collabora, in gran parte, grazie alla sua mancanza di interesse.
Per non essere espulsi, i gerosolimitani devono pure dimostrare ai funzionari del Ministero degli Interni che il centro della loro vita è nella capitale (che è molto avaro quando si tratta di fornire ai palestinesi opportunità di servizi, di lavoro e abitative municipali). I funzionari che obbediscono entusiasticamente agli ordini dei loro padroni al governo, chiedono ai palestinesi di portare un sacco di prove, di documenti e di carte. Ogni richiesta al Ministero degli Interni è l’occasione per un funzionario per maltrattare i palestinesi un po’ di più e richiedere un altro documento, un’altra prova, un’altra via Dolorosa burocratica, legale ed emotiva.
I palestinesi gerosolimitani sono stati definiti come residenti permanenti nel giugno del 1967, con l’annessione a Israele di circa 70 kmq della West Bank occupata (comprendenti Gerusalemme Est e la Città Vecchia). Nel 1974, è stato applicato loro il nuovo “regolamento per l’ingresso in Israele, come se fossero degli immigrati non-ebrei (ai quali non si applica la legge del ritorno), piuttosto che persone le cui famiglie vivevano in città e nel paese molto prima della dichiarazione di Balfour del 1917, la dichiarazione dello Stato di Israele del 1948 e la data di ingresso in Israele di importanti ministri e di primi ministri.
Atto di aggressione
Fin dall’inizio, definendoli come residenti permanenti si è compiuto un atto di aggressione. Tale aggressione è aumentata nel corso degli anni, allorquando i vari governi israeliani (Laburisti e del Likud, senza distinzione) hanno aggiunto gradualmente nuove norme e procedure, il che ha rivelato una volta per tutte che i palestinesi gerosolimitani sono solo dei “residenti condizionali”.
Questa gradualità è illustrata sulla “sequenza temporale” che appare sul sito web del Centro Israeliano per la Difesa dell’Individuo (Moked Lehaganat Haprat:(http://www.hamoked.org.il/Timelineaspex?pageid+timeLineNews).
E’ una lettura obbligata, e non c’è abbastanza spazio qui per citare le informazioni. Va solo sottolineato che i giudici della Corte Suprema non erano affatto turbati dalla politica del governo, e che l’hanno perfino spalleggiata nelle loro sentenze. Nel 1988, gli stessi (diretti dall’ex giudice della Corte Suprema Aharon Barak) hanno potenziato il punto di vista dello Stato quando hanno stabilito che un residente palestinese di Gerusalemme nato nel 1943 dal punto di vista legale si trova nella stessa posizione di un non-ebreo immigrato in Israele. In altre parole, allo Stato è consentito espellere un palestinese gerosolimitano se ha vissuto all’estero per sette o più anni, o se ha altra cittadinanza/residenza. Nel marzo 2012, ancora una volta i giudici hanno adottato questo punto di vista, quando hanno consigliato al Centro per la Difesa dell’Individuo e all’Associazione per i Diritti Civili in Israele di rinunciare a una petizione che sosteneva che le limitazioni riguardanti i residenti permanenti imprigionano di fatto i palestinesi gerosolimitani nella loro città e interferiscono con la loro vita normale.
Il panico che circonda l’obbligo di rinnovare la carta d’identità ogni 10 anni ricorda la pericolosa situazione in cui vivono tutti i palestinesi sotto il governo israeliano, che riguarda sia i gerosolimitani che quei palestinesi che sono cittadini dello Stato. Tutti vivono con lo spauracchio di una minaccia costante da parte delle autorità: verrà demolita una casa, un poliziotto maltratterà, verrà revocato un documento, sarà confiscata la terra, familiari e amici verranno separati l’uno dall’altro, verrà perduta la fonte di sostentamento a causa della mancanza di un permesso di viaggio, un giudice comminerà invece una punizione sproporzionata, una persona verrà uccisa o ferita dai rappresentanti della “legge e ordine” o dai civili, la Knesset approverà una nuova legge discriminatoria, ostile.
Il panico mostra anche che i gerosolimitani non prevedono nel prossimo decennio un cambiamento in positivo delle relazioni tra Israele e i palestinesi – per esempio, che Israele, per la pressione delle scuole di diritto universitarie e dei principali scrittori e storici, dichiarerà che il loro status di residente permanente è irrevocabile. Di certo i gerosolimitani non possono immaginare che entro 10 anni saranno in ogni caso residenti della capitale di uno Stato palestinese e cittadini di tale Stato, o cittadini con uguali diritti in uno Stato democratico.
(tradotto da mariano mingarelli)
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