mercoledì 28 maggio 2014
PALESTINA. Chieste sanzioni FIFA contro Israele. Blatter si fa negoziatore
27 mag 2014
Il presidente dell’associazione calcio internazionale si impegna a mediare con Israele per alleviare le restrizioni contro lo sport palestinese. Ramallah chiede la sospensione del team israeliano da Brasile 2014.
dalla redazione
Gerusalemme, 27 maggio 2014, Nena News – Ancora una volta il calcio diventa palcoscenico per il conflitto israelo-palestinese. Dopo aver tentato innumerevoli mediazioni, cercando nella diplomazia del pallone un possibile elemento di congiunzione tra le due parti, la FIFA torna in campo. Ad annunciarlo è il suo presidente: “Troveremo un soluzione ai problemi dell’Associazione Calcio palestinese attraverso incontri di alto livello con Israele”.
Blatter, che ha incontrato ieri il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas, vedrà oggi il premier israeliano Netanyahu. L’intenzione è fare da intermediario per eliminare tutte quelle restrizioni che ostacolano lo sviluppo dello sport nei Territori Occupati. L’annuncio giunge dopo la richiesta di sanzioni contro Israele mossa dal presidente della federazione di calcio palestinese, l’ex falco di Fatah, Jibril Rajoub: sospensione di Israele dalle competizioni internazionali e dalla stessa FIFA, a meno che Netanyahu non riconosca l’esistenza e lo status dell’Associazione Calcio palestinese. “Se Netanyahu non dichiara che riconosce lo status che la FIFA ci ha già riconosciuto, chiederemo la rimozione della squadra israeliana dai Mondiali in Brasile – ha minacciato Rajoub che presenterà la richiesta di sospensione al prossimo incontro della FIFA previsto per il 10 giugno – Israele si comporta come il bullo del quartiere e la FIFA non dovrebbe accettare il bullismo”.
Sanzioni vere e proprie non colpiranno di certo i vertici sportivi e politici israeliani, ma Blatter è convinto che la FIFA possa essere il miglior negoziatore a favore del calcio palestinese: “Il vostro popolo, ma anche il vostro calcio, non sono soli nel mondo. Mi auto-dichiaro ambasciatore del popolo palestinese”, ha detto il presidente della FIFA ad Abbas.
Sono innumerevoli le restrizioni che Israele impone allo sport palestinese, non solo al calcio. Restrizioni al movimento dei giocatori e degli atleti, spesso impossibilitati ad uscire da Gaza o Cisgiordania per partecipare a competizioni nazionali e internazionali (nel 2010 Israele negò i documenti di uscita a molti giocatori impegnati nella Coppa del Mondo, impedendo la partecipazione del team al Mondiale sudafricano), aggressioni fisiche, divieto di importare attrezzature sportive dall’estero, difficoltà di ingresso nel Paese per team e esperti esteri che arrivano nei Territori per sostenere lo sport palestinese. Non solo: Israele – durante le offensive militari contro la Striscia di Gaza – ha spesso preso di mira stadi, centri e infrastrutture sportive, mentre in Cisgiordania impedisce frequentemente l’ingresso di materiale, equipaggiamento ed esperti internazionali che cercano di entrare nei Territori per svolgere attività sportive.
Il caso più eclatante, che mosse l’opinione pubblica mondiale, in particolar modo il mondo del calcio, fu quello del portiere della Nazionale palestinese Mahmoud Sarsak: arrestato dall’esercito israeliano al confine di Gaza mentre si recava in Cisgiordania per unirsi al suo team e posto in detenzione amministrativa, iniziò uno sciopero della fame in carcere che mostrò al mondo le condizioni in cui versava lo sport palestinese.
Ancora più grave il caso di due giovani calciatori palestinesi, colpiti dal fuoco israeliano alle gambe: Jawhar Nasser Jawhar, 19 anni, e Adam Abd al-Raouf Halabiya, 17 anni, erano stati colpiti dai soldati (undici pallottole contro le gambe di Jawhar) mentre tornavano a casa dopo l’allenamento allo stadio di Al-Ram il 31 gennaio scorso. I medici furono impietosi: sei mesi di riabilitazione per sperare di tornare a camminare, impossibile però tornare a giocare a calcio.
Mobilitazione internazionale anche per gli Europei Under 21 ospitati da Israele nell’estate 2013 e avversati da numerosi esponenti della società civile e da semplici cittadini in tutta Europa. La FIFA ha sempre preferito mantenere il piede in due staffe, attirandosi spesso le critiche di israeliani e palestinesi: Israele non ha mai accettato il riconoscimento della Palestina come Stato membro della Federazione Calcio mondiale, nel 1998; mentre i palestinesi hanno sempre chiesto un maggiore sforzo da parte della FIFA contro le violazioni israeliane.
Già lo scorso anno Blatter aveva promesso una soluzione del “contenzioso”: “Sono un ottimista: per la fine dell’anno avremo trovato una soluzione e la presenteremo alle autorità politiche – aveva detto Blatter lo scorso settembre – Sicurezza significa anche permettere alle persone di andare e venire, perché i palestinesi hanno il diritto di giocare nelle competizioni della FIFA”. Di lì a pochi mesi gli spari contro le gambe dei due giovani giocatori. Nena News
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lunedì 26 maggio 2014
L’esercito israeliano usa le firing zone per espellere palestinesi
L’esercito israeliano usa le firing zone per espellere palestinesi
Creato Domenica, 25 Maggio 2014 23:17
di Amira Haas
Un ufficiale ammette alla Knesset i metodi usati per ridurre la popolazione palestinese nell’Area C della Cisgiordania
La comunità di Un al-Heir, South Hebron Hills, Cisgiordania (Foto: Mairav Zonszein)
La comunità di Un al-Heir, South Hebron Hills, Cisgiordania (Foto: Mairav Zonszein)
Gerusalemme, 22 maggio 2014, Nena News – Addestramenti militari nelle zone militari chiuse in Cisgiordania sono usati come strumento di riduzione del numero di palestinesi residenti ed è parte importante della campagna contro le costruzioni illegali palestinesi, ha rivelato un funzionario dell’esercito in un incontro con un comitato della Knesset.
Il colonnello Einav Shalev, ufficiale del Commando Centrale, ha parlato di fronte a un sottocomitato della commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset delle “costruzioni illegali palestinesi” in Area C in Cisgiordania e dei modi per espellere i palestinesi residenti in zone come E1, la Valle del Giordano e Susiya, a Sud di Hebron. Il colonnello ha affermato che l’obiettivo della prevenzione di costruzioni illegali è una delle principali ragioni dell’incremento degli addestramenti militari nella Valle del Giordano.
I parlamentari Mordechai Yogev e Orit Strock (Casa Ebraica), gli unici membri del comitato presenti all’incontro, e altri partecipanti si sono lamentati del fatto che l’Amministrazione Civile e il Coordinamento per le Attività Governative nei Territori non fanno abbastanza per impedire quella che è stata definita l’espansione delle costruzioni palestinesi illegali. Hanno quindi menzionato il coinvolgimento di organizzazioni internazionali e Paesi stranieri nel sostenere tali costruzioni. “Incitano gli arabi e gli altri al caos” ha detto Yogev, chiedendo che Israele prenda misure forti contro tali soggetti. Yogev, presidente del comitato, ha annunciato che nella prossima riunione si focalizzeranno sulle organizzazioni internazionali.
Il generale Yoav Mordechai, coordinatore delle attività del governo nei Territori, è stato invitato al meeting che ha avuto luogo il 27 aprile. Ha detto che il suo ufficio si lamenterà subito con le ambasciate dei Paesi le cui organizzazioni sono coinvolte in costruzioni illegali. “Dalla nostra prospettiva – ha detto – non è importante chi finanzia le costruzioni illegali. Nei tre mesi passati, l’ambasciata di riferimento ha ricevuto una lettera un’ora dopo che l’organizzazione è stata scoperta mentre costruiva illegalmente”.
Mordechai si è poi complimentato con Regavim, una Ong che sfida l’uso arabo della terra dall’altro lato della Linea Verde e che era presente al meeting, per il suo importante lavoro. Ma ha rigettato le accuse di lassismo nel prevenire le costruzioni palestinesi illegali. Rispondendo ai partecipanti alla riunione, tra cui il sindaco di Ma’ale Adumim Benny Kashriel, a proposito dell’abbandono dell’area E1, Mordechai ha detto che il rafforzamento e il monitoraggio delle attività in E1 e lungo la strada Gerusalemme-Gerico è una priorità.
Così, ha detto, l’Amministrazione Civile si è concentrata sulla rimozione dei beduini della zona e sul loro ammassamento in insediamenti permanenti. Mordechai ha sottolineato che era compito dell’Amministrazione Civile far rispettare la legge agli israeliani così come agli altri. Ha presentato i dati del 2013 sulla demolizione di edifici, sia palestinesi e israeliani, e ha ne ha svelato l’ampia gamma di applicazione. In tutto, ha detto che l’Amministrazione Civile aveva confiscato 217 chilometri di tubi di irrigazione e distrutto sette bacini di raccolta dell’acqua piovana.
Circa il 18 per cento della Cisgiordania è definito come zona chiusa destinata all’addestramento militare, mentre la Zona A, che è sotto il controllo dell’autorità civile e della polizia palestinese, è il 17,7 per cento della superficie della Cisgiordania. Gli insediamenti israeliani, a differenza dei veterani villaggi palestinesi, non sono compresi nelle zone militari, e gli abitanti di avamposti che hanno ampliato in zone di militari non vengono rimossi.
Circa 6.200 palestinesi in 38 comunità vivono in aree militari chiuse, vivendo di allevamento e agricoltura. La maggior parte delle comunità esiste da molto tempo prima che Israele conquistasse la Cisgiordania nel 1967, e certamente da prima che le zone fossero adibite agli esercizi militari.
Shalev ha detto che la politica della IDF di confiscare attrezzature umanitarie prima che esse arrivino a destinazione era “un pugno ben assestato”. Quando si confiscano 10 grandi, bianche e costose tende, non è facile. Non è semplice recuperarle. “A causa della politica di confisca, la Croce Rossa aveva deciso di interrompere la fornitura di tende per pascere alle comunità le cui baite e fienili sono stati distrutti dall’Amministrazione Civile” ha osservato.
La Comunità europea e le organizzazioni umanitarie internazionali hanno dedicato gran parte della loro attività umanitarie e diplomatiche all’Area C negli ultimi anni. Per come la vedono loro, il veto israeliano di collegare le comunità palestinesi con l’acqua, l’elettricità e le infrastrutture di trasporto è contrario agli obblighi di Israele come un occupante. Descrivono i piani di Israele per trasferire i beduini alle comunità permanenti e distruggere vari villaggi nel sud della Cisgiordania come trasferimento e rimozione forzata, che sono illegali secondo il diritto internazionale.
Gli europei sono anche preoccupati del fatto che le azioni che stanno efficacemente annettendo le aree di zona C a Israele possano chiudere la porta alla soluzione a due Stati. Diverse organizzazioni internazionali, finanziate dall’Europa, stanno aiutando i palestinesi in Area C con piscine di scavo per la raccolta delle acque piovane, la costruzione di latrine, l’istituzione di servizi di energia solare e di scambio delle loro tende e capanne con delle roulotte. Secondo l’Amministrazione Civile, quelle sono strutture illegali.
Mordechai distingue tra le attività umanitarie delle organizzazioni internazionali che assistono Israele e altre. “Ci sono quelli che sono coinvolti solo in attività umanitarie … ci sono quelli che distribuiscono cibo e altre cose in luoghi dove c’è povertà, e quando si intraprendono tali attività hanno infatti l’assistenza dell’Amministrazione Civile, del Coordinatore delle Attività e dello Stato di Israele”.
Ha suggerito di concentrarsi su “chi viola il diritto internazionale, viene qui nel nostro spazio a causare il caos … come emissari di interessi anti-Israele, al fine di prendere il controllo del territorio dello Stato o di altre cose. L’Amministrazione Civile e il Coordinatore delle Attività dovrebbero smettere di cooperare con loro. … Un arabo non ha i soldi per un letto, ma vengono e gli danno un “Caravilla” che costa da 150.000 a 200.000 shekel (da 43 mila a 52 mila dollari) e lo fanno solo come emissari di coloro che vogliono incitare”.
David Perl, capo del Consiglio regionale di Gush Etzion, ha detto: “Ciò di cui abbiamo bisogno è un nuovo spirito di comando, simile a quello che è successo sotto il tuo comando … Portare qui 100 ispettori che lavorino quotidianamente e buttino fuori tutto quello che deve essere buttato fuori, senza andare alla corte suprema o fare ingiunzioni. ”
Danny Tirze , presidente di Kfar Adumim , presidente dell’associazione di insediamenti di Gush Adumim e la persona che ha progettato il percorso originale del muro di separazione (che da allora è cambiato in vari luoghi a causa di domande giudiziali riguardanti accaparramenti di terre troppo zelanti senza apparente giustificazione della sicurezza) ha detto: “Il pubblico nel suo insieme (riferendosi ai coloni che egli rappresenta, ndr) rimane senza parole di fronte alla nostra mancanza di risposte per la soluzione di un piccolo problema che è chiaro a tutti, e cioè l’ importanza nazionale di garantire che tale posto rimanga nostro”.
Mordechai ha detto che, su istruzione del procuratore generale , l’Amministrazione Civile sta preparando un’unità che si occuperà penalmente della costruzione illegale sia da parte di palestinesi che israeliani . Ha respinto la richiesta di Strock che l’unità dovrebbe essere destinata solo agli israeliani. Strock ha chiesto: “Sei tu verificare che i beduini sono in realtà beduini e non solo arabi ? Non capisco come hai fatto ad arrivare a tali cifre astronomiche per i beduini”.
Mordechai ha risposto che “i beduini non annunciano di essere beduini e per questo motivo sono beduini. Tra l’altro, tutto il resto non sono solo gli arabi: tra loro ci sono palestinesi che vivono nella zona di Giudea e Samaria”. Strock ha risposto:” Io li chiamo solo arabi “. Mordechai ha detto che l’Amministrazione Civile sta mappando tutte le tribù beduine in modo molto preciso e “quindi non c’è nessun problema se vi è una certa sovrapposizione di gente di città che diventano beduina “.
Nitzan Horowitz, membro della Commissione Affari Esteri e della Difesa, ha detto a Haaretz, “E inaccettabile che tengano un’udienza sulle costruzioni palestinesi illegali, senza invitare palestinesi o organizzazioni che non appartengono ai coloni. Era una riunione del comitato dei coloni, che è fuori dall’ ordine e distorce la discussione “.
Horowitz, che ha espresso shock e sgomento per quello che sostiene siano state denigrazioni e riferimenti razzisti ai palestinesi, sapeva della riunione ma stava partecipando a un’altra riunione del comitato allo stesso tempo. “Se Israele permettesse ai palestinesi di costruire in maniera regolamentata, di commerciare e fare affari in Area C, che è la maggior parte della Cisgiordania, e non li soffocasse, presumo che non ci sarebbe tutta questa costruzione illegale”. Ha detto che aveva sentito chiaramente da fonti della sicurezza israeliana che il commercio è un fattore di stabilizzazione, “così la prevenzione di costruzione e di attività commerciali è una follia, anche ai loro occhi”. Nena News
venerdì 16 maggio 2014
I bambini descrivono le torture nell'isolamento israeliano
Creato Venerdì, 16 Maggio 2014 01:59
Electronic Intifada, 12.05.2014
http://electronicintifada.net/blogs/ali-abunimah/children-describe-torture-israeli-solitary-confinement
di Ali Abunimah
Forze di occupazione israeliane cercano di arrestare un palestinese durante una manifestazione contro il muro di separazione costruito nel villaggio cisgiordano di al-Maasara , 9 Novembre 2012 . ( Oren Ziv / Activestills )
Una percentuale crescente di bambini palestinesi arrestati dalle forze di occupazione israeliane sono sottoposti a isolamento, interrogatori duri e maltrattamenti equiparabili a torture, secondo un rapporto pubblicato oggi da "Defence for Children International- Palestine Section" ( DCI - Palestina) .
"Nel 21,4 per cento dei casi registrati dal DCI - Palestina nel 2013, i bambini detenuti nel sistema di detenzione militare israeliano hanno riferito di essere stati tenuti in isolamento come parte del processo di interrogatorio . Ciò rappresenta un aumento del due per cento rispetto al 2012", affrema un comunicato stampa che accompagna il rapporto.
DCI - Palestine ha raccolto 98 dichiarazioni giurate di bambini palestinesi di età compresa tra 12 a 17 anni nel 2013 . I risultati preoccupanti del rapporto si basano su 40 casi di segregazione documentati nel 2013 .
Arresti notturni
Nella stragrande maggioranza dei casi ( 34 su 40), i bambini sono stati prelevati dai loro letti. "I bambini riferiscono che soldati israeliani pesantemente armati li hanno arrestati in circostanze violente durante raid notturni nelle case della loro famiglia", dice il rapporto .
I bambini "sono spesso svegliati dal suono dei soldati israeliani che sbattono sulla porta d'ingresso prima che un membro della famiglia apra la porta o soldati forzino la strada, per assaltare la casa. "
Poi , i soldati d'occupazione "riuniscono tutti gli occupanti della casa, indipendentemente dalla loro età, in una stanza o fuori e richiedono l'identificazione . In generale , viene perquisita tutta la casa durante il raid . Una volta che l'identità di un bambino è stato verificata dalla sua carta d'identità , la sua famiglia viene informata che deve accompagnare i soldati. "
Bendato
I bambini o i loro genitori non sono quasi mai informati delle accuse e, dice il rapporto , questo momento "è più probabilmente l'ultima volta che la famiglia può vedere il proprio figlio prima che compaia in un tribunale militare a seguito di un periodo imprecisato di isolamento e interrogatori. "
"Una volta che i soldati hanno identificato il bambino, le sue mani vengono legate con lacci di plastica, solitamente dietro la schiena, e lui viene bendato e portato in un veicolo militare. "
Più della metà dei bambini ha riferito qualche forma di violenza fisica durante l'arresto e il trasferimento alle strutture di interrogatorio , tra cui il centro di detenzione Petah Tikva, il centro di detenzione di Kishon ( noto anche come al-Jalame ) nei pressi di Haifa , o la prigione Shikma nei pressi di Ashkelon.
Queste strutture sono sotto il controllo del Service delle prigioni israeliano e/o della polizia segreta Shin Bet . Al-Jalame è tra i numerosi servizi israeliani attrezzati dalla società privata di carcerazione internazionale G4S .
" Maleodorante "
In media , i bambini trascorrono 10 giorni in isolamento, ma vi sono casi in cui i bambini vengono trattenuti fino a 29 giorni in isolamento. I bambini portati a Kishon hanno testimoniato di essere stati rinchiusi in una piccola cella senza finestre, illuminata 24 ore al giorno da una lampadina fioca.
Dormono su un letto di cemento, sul pavimento o su un materasso sottile , spesso descritto come "sporco" e " maleodorante ". Le pareti sono grigie, "con sporgenze taglienti o ruvide su cui è doloroso appoggiarsi."
Confessioni forzate
Privati di assistenza legale, contatti con la famiglia e quasi mai informati sui loro diritti, compreso il diritto di rimanere in silenzio, i bambini sono sottoposti a interrogatori prolungati, abusi e violenze al livello di tortura .
La maggior parte dei bambini sono accusati di lancio di pietre ", un reato che può potenzialmente portare ad una condanna fino a 20 anni a seconda dell'età del bambino. " Ma l'accusa può essere un pretesto per costringere i bambini a fornire informazioni utili nello sforzo di Israele di sopprimere qualsiasi forma di resistenza all'occupazione .
" Le tecniche di interrogatorio sono generalmente mentalmente e fisicamente coercitive , spesso incorporano un mix di intimidazioni, minacce e violenza fisica , con un chiaro intento di ottenere una confessione, " affrema DCI-Palestina . "Grida e intimidazioni vengono regolarmente utilizzati per sollecitare confessioni, dichiarazioni incriminanti , e informazioni su vicini o familiari."
Durante gli interrogatori, " i bambini riferiscono di essere costretti a sedersi su una sedia bassa di metallo bloccata a terra, con le mani e i piedi ammanettati alla sedia , spesso per diverse ore. " In 31 su 40 casi, i bambini hanno riferito di essere sottoposti a un "abuso di posizione", che nel caso più frequente consiste nell'incatenare il bambino ad una sedia in una posizione dolorosa per lunghi periodi di tempo.
Il ruolo degli informatori
Dopo aver sperimentato abusi orribili e giorni di isolamento , i bambini sono psicologicamente vulnerabili . Gli inquisitori israeliani approfittano di questo con l'uso di informatori. DCI-palestina descrive la tecnica usata da Israele, sulla base di racconti dei bambini :
Dopo molti giorni di isolamento e interrogatori prolungati , il bambino viene informato che l'interrogatorio è finito e che saranno trasferiti a una cella della prigione .
Una volta che il bambino arriva in cella, un prigioniero adulto lo accoglie calorosamente, spesso portando cibo caldo , un pacchetto di sigarette o altre cose . Il prigioniero adulto tenta di conquistare la fiducia del bambino attraverso la condivisione di informazioni sulla famiglia del bambino o membri della sua comunità . I bambini riferiscono di essere consigliati di non parlare con nessuno, eccetto questo individuo specifico per quanto riguarda il loro interrogatorio . Spesso, il prigioniero adulto chiede al bambino dell' interrogatorio e quali domande gli sono state chieste , o si offre di avvisare altri all'esterno se egli condivide informazioni.
Dopo un giorno o due , il bambino è sottoposto di nuovo a interrogatorio dove è spesso confrontato con una registrazione audio o dichiarazioni che ha fatto all'informatore prigioniero adulto. Durante l'interrogatorio, il bambino si rende conto per la prima volta che il prigioniero adulto è un informatore che collabora con gli ufficiali dei servizi segreti israeliani , e l'interazione del bambino con questo individuo faceva parte della procedura di interrogatorio .
Di fronte a questa realtà, i bambini in genere forniscono una confessione senza accesso alla consulenza delle accuse formulate contro di loro durante l'interrogatorio .
Impunità
Il rapporto DCI-palestina è stato sottoposto a una serie di organi delle Nazioni Unite e comprende un'analisi di come il maltrattamento dei bambini e il crescente uso dell'isolamento da parte di Israele costituiscano gravi violazioni del diritto internazionale, comprese le convenzioni in materia di tortura.
" La pratica di usare l'isolamento sui bambini nei centri di detenzione israeliani deve essere riconosciuta come una forma di tortura ed essere immediatamente interrotta ", afferma il rapporto .
Ma si nota anche la totale impunità che ha permesso che gli abusi israeliani siano continuati senza controlli.
Nel corso del 2013 , DCI-palestina riferisce di aver depositato quindici denunce alle autorità israeliane riguardo a maltrattamenti e torture su dieci bambini durante la detenzione militare israeliana.
Ma, il rapporto afferma , "non un solo atto d'accusa è stato emesso nei confronti di un autore, e in molti casi non è chiaro se sia stata avviata un'inchiesta."
Crescente evidenza
L'ultimo rapporto di DCI-Palestina si aggiunge alla montagna di prove di abusi sistematici e uccisioni di bambini palestinesi da parte di Israele, tra cui precedenti rapporti di DCI - Palestina, B'Tselem , Human Rights Watch e Amnesty International.
Lo scorso dicembre, il gruppo di pressione del Comitato Pubblico contro la Tortura in Israele ( PCATI ) ha rivelato che le autorità israeliane hanno rinchiuso bambini palestinesi in gabbie all'aperto durante una forte tempesta invernale .
(Traduzione G Graziani)
giovedì 15 maggio 2014
CULTURA. I beduini del Naqab contro l’espulsione forzata
Nel nuovo documentario “Non riconosciuti in Neqev”, il racconto di una battaglia reale e la metafora ideologico-politica dello Stato centrale che si impone sulle identità locali.
di Rossana Zampini
Gerusalemme, 14 maggio 2014, Nena News – Il villaggio di Al Araqib, nel Naqab Settentrionale [Neqev in ebraico], è stato raso al suolo dalle autorità israeliane il 27 luglio del 2010 e delle 35 famiglie che prima l’abitavano oggi restano soltanto 20 persone, confinate nel cimitero. Nel tempo hanno provato a ricostruire le loro abitazioni, ma le autorità hanno continuato a demolirlo, per un totale di 68 volte: nel contesto dei piani di sviluppo in corso nel Naqab, infatti, il villaggio è destinato ad essere rimosso per far spazio ad una foresta.
La situazione è precipitata nel 2011, quando il governo ha presentato una proposta di legge, conosciuta come Piano Prawer-Begin per la regolarizzazione delle località beduine non-riconosciute nel Naqab: l’obiettivo è quello di spostarli nel più piccolo spazio di terra possibile. Per questo ad oggi i suoi abitanti non dispongono di alcun servizio di base, come acqua corrente o elettricità.
“Non riconosciuti nel Negev” è il titolo del documentario realizzato dalla fotogiornalista Silvia Boarini e dall’antropologa visiva Linda Paganelli, che descrive la difficile battaglia di questo villaggio. Il film è il risultato di un accurato progetto di ricerca, realizzato a stretto contatto con la comunità beduina, nonché con il contributo di esperti di storia, politica, legge e diritti umani.
“Israele utilizza strumenti diversi per Cisgiordania, Gaza e Territori del ’48, ma gli ostacoli nei quali i palestinesi devono imbattersi sono comuni – ci spiega Silvia – e hanno portato ad un’unione che con gli anni si è rafforzata, nonostante i tentativi di dividerla con livelli di diritti differenti. Nel nostro caso specifico, sebbene i beduini siano in possesso di documenti che testimoniano la proprietà delle loro terre, gli israeliani utilizzano la scusa del loro ‘essere nomadi’ per spostarli a piacimento, nonostante si tratti di popolazioni seminomadi che attraverso movimenti strutturali, e non casuali, sono sempre tornati nella loro tribù e da inizio secolo si sono lì stanziati stabilmente”.
I beduini hanno vissuto in questi luoghi sotto poteri centralizzati di natura diversa – l’Impero Ottomano, il Mandato Britannico e lo Stato di Israele – continuando a mantenere una propria natura: sotto poteri statali di natura temporanea, è la terra che li identifica e che gli ha permesso di sopravvivere alle multiformi autorità che si sono susseguite nella storia. Il paradosso allora, è considerarli invasori in uno Stato che esiste da meno tempo del loro villaggio.
“Il documentario – ci spiega Linda – è l’esplorazione di una situazione che ci ha personalmente colpite. Unisce un livello storico-narrativo (quello della disperata situazione degli abitanti di Al Araqib, costretti a vivere confinati, senza servizi di base e diritti) ad un livello politico-ideologico (la contestualizzazione della colonizzazione israeliana), con l’ausilio di esperti in materia. Speriamo di poterlo proiettare anche in Israele: non credo sia uno Stato totalmente cooptato; ritengo ci sia all’interno della società civile uno spazio per il dissenso e l’attivismo. Addirittura alcuni abitanti della vicina Beer Sheva si sono interessati alla causa, e quantomeno condividono l’idea che vivere sotto un unico Stato significhi dover disporre degli stessi diritti”.
Il progetto, completamente autofinanziato nella realizzazione presenta tuttavia costi di montaggio, post-produzione e distribuzione molto elevati: così da un paio di settimane Silvia e Linda, insieme al team della SMK Videofactory, hanno lanciato una campagna di crowdfunding attraverso Indiegogo, per raggiungere gli 8mila dollari necessari a coprire i costi di quest’ultima fase.
Sicuramente un documentario attualissimo, nel quale ci possiamo tutti identificare, che vuole “sdoganare i punti di vista convenzionali promulgati dallo Stato riguardo il progresso,la modernità e la linearità della storia”. Il racconto di una battaglia reale, quella della resistenza, e una metafora ideologico-politica, quella dello Stato centrale che si impone sulle identità locali, legittimando il suo potere attraverso fantomatiche reminescenze del passato e nuovi artifici neocoloniali della modernità, come la democrazia. Una frattura tra il neonato-Stato e i soggetti protagonisti dell’ordinamento precoloniale, che dignitosamente lottano per conservare una propria identità, senza uniformarsi alla temporaneità del potere. Nena News
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mercoledì 14 maggio 2014
iNakba, una app come banca della memoria
13 mag 2014
E’ stata lanciata dall’associazione Zochrot impegnata a diffondere tra gli israeliani la memoria della Catastrofe palestinese. Per non dimenticare il 14-15 maggio di 66 anni fa, la cacciata e i 678 centri arabi distrutti con la nascita di Israele. Per il diritto al ritorno dei profughi
di Michele Giorgio
Tel Aviv, 13 maggio 2014, Nena News – «È conosciuta come la “Legge della Nakba”. Vieta che si svolgano commemorazioni nell’anniversario della fondazione di Israele. In sostanza un cittadino arabo palestinese non ha il diritto di ricordare la tragedia del suo popolo. Con ogni probabilità è un caso unico al mondo, non riesco ad immaginare l’approvazione di una legge volta a vietare che il 4 luglio i Nativi americani possano ricordare commemorare ciò che per loro ha significato la nascita e lo sviluppo degli Stati Uniti». Eitan Bronstein cerca di essere chiaro mentre spiega la Nakba (Catastrofe) palestinese e come è vista e vissuta dagli israeliani. Davanti a lui ci sono una trentina di tedeschi, in maggioranza persone di mezza età, che da alcuni giorni girano tra Israele e Territori palestinesi occupati facendo incontri con esponenti della società civile, attivisti, rappresentanti politici. Il meeting è a Tel Aviv, nella sede dell’associazione israeliana Zochrot (Ricordando, in ebraico). «In questi giorni – aggiunge Bronstein – mentre il paese celebra la realizzazione del progetto sionista nel 1948, noi di Zochrot mostriamo l’altro lato della medaglia: l’espulsione, l’esodo e la spoliazione che i palestinesi hanno subìto e che chiamano la Catastrofe, Nakba. Molti israeliani pensano che questa parola sia stata scelta dagli arabi per indicare la nascita di Israele, ma non è così. Questa parola descrive la catastrofe che si è realizzata in un arco di tempo a danno di un intero popolo».
Non sarà un’attività «eroica» quella dei membri dell’associazione Zochrot, in prevalenza israeliani ebrei, ma certo non è facile andarsene in giro a promuovere la comprensione della Nakba palestinese, a riferire la narrazione araba del 1948, a raccontare l’«altra storia», in un paese dove gran parte della popolazione si proclama ardentamente sionista e dove il nazionalismo più sfrenato sfocia in una crescente rappresentazione alla Knesset, manifestandosi non poche volte con leggi e provvedimenti che colpiscono la minoranza palestinese. Non è semplice «educare» gli ebrei israeliani a una storia che è stata oscurata e che, con rarissime eccezioni, non è studiata nelle scuole. «Le autorità – prosegue Bronstein – affermano che tutto ciò che mira a conservare la memoria della Nakba è contro l’esistenza di Israele. Noi invece pensiamo che un israeliano ebreo di ogni età abbia il dovere e il diritto di sapere che 678 villaggi, cittadine, località arabe sono state distrutte, cancellate, nascoste con foreste e parchi nazionali, e che nel 1948 750 mila palestinesi sono stati costretti all’esilio in gran parte dei casi non a causa della guerra e dei combattimenti ma perchè furono espulsi». Non meno importante, conclude Bronstein, «è far sapere che una legge approvata pochi anni dopo la creazione di Israele, nota come dei “Presenti-Assenti”, ha autorizzato in via ufficiale la confisca di gran parte delle proprietà arabe».
Sessantasei anni dopo la nascita di Israele e la Nakba palestinese, Zochrot grazie anche alle nuove tecnologie di comunicazione, lancia un progetto che vuole a raggiungere ogni angolo del pianeta. Si tratta di «iNakba» una app per smartphone che consentirà agli utenti di individuare ogni villaggio arabo abbandonato o distrutto durante la guerra del 1948 su una mappa interattiva e di poterne conoscere la storia. Allo stesso tempo gli utenti potranno aggiungere foto, commenti e informazioni contribuendo alla banca dati più tecnologica ed innovativa sulla Nakba. Una app che potranno usare anche i profughi – che potranno avere informazioni sul passato e il presenre delle località da dove provengono – e ai quali Zochrot riconosce il pieno diritto di tornare nella loro terra d’origine, contro la posizione ufficiale di Israele che esclude categoricamente di poter dare attuazione al «diritto al ritorno» per i palestinesi sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu.
«Ci sono un sacco di organizzazioni israeliane impegnate a denunciare l’occupazione (dei Territori palestinesi 1967, ndr) ma la nostra è l’unica che si occupa del 1948», dice Liat Rosenberg, che dirige Zochrot. «Siamo consapevoli che la nostra influenza è limitata ma sappiamo anche che oggi ogni israeliano conosce la parola Nakba. È entrata nella lingua ebraica e questo è un passo in avanti». In questi giorni Rosenberg e i suoi colleghi tengono corsi e preparano materiale storico a disposizione degli insegnanti più sensibili al tema, in modo da aggirare i tentativi di bandire qualsiasi tipo di commemorazione della Nakba. Tuttavia l’attività principale sul terreno di Zochrot restano le visite guidate in Israele e a Gerusalemme per tutti coloro che sono interessati a ritrovare le tracce dei centri palestinesi «scomparsi» dalla mappe ufficiali o riemersi come villaggi israeliani. Il tour più partecipato è nei dintorni di Ein Kerem (Gerusalemme). Abbandonato dagli abitanti a causa della guerra nel 1948 – è vicino a Deir Yassin, il villaggio palestinese dove è avvenuto il massacro più noto di quel periodo – Ein Kerem ospita chiese, una moschea e belle case in pietra. Dopo la guerra, i suoi primi abitanti furono poveri immigrati ebrei marocchini, sostituiti a partire dagli anni 70 da famiglie ricche. Oggi è uno dei quartieri più chic di Gerusalemme Ovest. Un destino simile a quello di altre aree della parte ebraica della città e che prima del 1948 erano abitate da famiglie palestinesi alle quali sono state confiscate case e proprietà. E tour sono organizzati anche a Tel Aviv, dove tra grattacieli e costruzioni moderne, spuntano i resti di quelli che un tempo erano centri arabi.
Il 14 e 15 maggio, la minoranza palestinese in Israele e i palestinesi nei Territori occupati manifesteranno per commemorare la Nakba. Oltre 10mila persone lo hanno già fatto, venerdì a Lubya (Tiberiade). Molte altre migliaia lo faranno nei campi profughi sparsi nel mondo arabo. Nena News
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lunedì 12 maggio 2014
ISRAELE. Una legge per bloccare il rilascio di prigionieri
12 mag 2014
Israele, negoziato, Palestina, prigionieri politici
by Redazione
La bozza, passata ieri in commissione ministeriale, verrà votata dalla Knesset in estate. Se fosse approvata, potrebbe bloccare ogni futuro tentativo di negoziare con i palestinesi
(Fonte: Palaestina Felix)
della redazione
Roma, 12 maggio 2014, Nena News - Vittoria per la coalizione di centrodestra al governo in Israele: con 7 voti favorevoli e 3 contrari in commissione ministeriale è stato approvato ieri il disegno di legge che potrebbe in futuro bloccare il rilascio dei prigionieri politici palestinesi in fase di negoziato con Ramallah. Secondo la bozza, che verrà presentata alla Knesset per il voto finale all’inzio dell’estate, i giudici potranno condannare i detenuti a ergastoli esclusi da ogni possibile amnistia presidenziale, privando così il governo di uno strumento che in passato è servito per gli scambi di prigionieri e per gli accordi con la controparte palestinese. La legge non sarà retroattiva, e potrà essere applicata a tutte le nuove condanne.
“Lo stato di Israele – ha dichiarato Naftali Bennett, ministro dell’economia e leader del partito dei coloni “Casa Ebraica” – ha aperto una nuova pagina nella sua guerra al terrorismo e nel suo obbligo morale alle famiglie delle vittime. Gli assassini dovrebbero morire in prigione, non essere celebrati a casa”. Liberare prigionieri palestinesi è stata la strategia con cui Washington è riuscita a trascinare sul tavolo dei negoziati i palestinesi: tre tranches di detenuti politici sono stati scarcerati da Tel Aviv a partire dal luglio scorso, secondo un accordo siglato con Ramallah. Al rifiuto israeliano di liberare la quarta e ultima tranche, prevista per la fine di marzo, perché “la controparte è inaffidabile”, l’Anp ha risposto con l’annuncio di adesione ai trattati e agli organismi internazionali, scatenando le ire di Tel Aviv e portando il negoziato al collasso.
Ora Israele sembra voler mettere un punto definitivo sulle amnistie di prigionieri politici palestinesi che, tra le altre cose, hanno reso possibile la scarcerazione del soldato Gilad Shalit, per anni ostaggio di Hamas. Proprio per questo alcuni sono scettici al pensiero che la bozza riesca a passare il voto alla Knesset: “E se un soldato israeliano venisse rapito in futuro – si è chiesto Qaddura Fares, ex ministro palestinese e capo del Club dei Prigionieri Palestinesi – Il governo israeliano sceglierebbe davvero di non farlo liberare a causa di questa legge ridicola?”. Altri, invece, fanno notare come le tempistiche del voto sul disegno di legge non siano proprio un caso: “Questa è la reazione israeliana – ha detto Issa Qaraqe, ministro palestinese per gli Affari dei prigionieri – al fatto che la piaga dei detenuti palestinesi sia diventata un’enorme storia di dominio internazionale”.
Sono 140 i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane in sciopero della fame da 18 giorni. Protestano contro le pratiche di detenzione amministrativa a cui sono sottoposti, pratiche adottate da Tel Aviv fin dall’occupazione dell’intera Palestina nel 1967: incarcerati senza un capo d’accusa, né un processo, né una data-limite, sono centinaia su un totale di 5 mila detenuti. Un precedente sciopero della fame aveva portato a un accordo con le autorità israeliane sui limiti dell’uso della detenzione amministrativa: accordo che, come si nota bene, non è stato rispettato. Nena News.
venerdì 9 maggio 2014
PALESTINA. Contro la detenzione amministrativa gli stomaci si svuotano di nuovo 0
09 mag 2014
Da ieri oltre 5mila prigionieri palestinesi in sciopero della fame. Israele ha già lanciato la campagna punitiva: isolamento, trasferimenti e ritiro di sale e acqua.
AGGIORNAMENTO ore 18 – IN MIGLIAIA IN PIAZZA PER IL VENERDI’ DELLA RABBIA
Manifestazioni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza si sono tenute oggi in sostegno allo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi: cortei a Ramallah, Hebron, Tulkarem, Gaza City e Khan Younis. In molti casi militanti e ufficiali di Hamas e Fatah hanno marciato insieme e parlato dallo stesso palco.
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dalla redazione
Gerusalemme, 9 maggio 2014, Nena News – La battaglia degli stomaci vuoti è ricominciata: da ieri oltre 5mila prigionieri palestinesi, detenuti in carceri israeliane, hanno deciso di iniziare un nuovo sciopero della fame di massa contro la politica della detenzione amministrativa applicata da Tel Aviv a centinaia di detenuti.
Una pratica mai scalfita da nessuno dei precedenti scioperi di massa, seppure più volte Israele ne abbia annunciato la sospensione: nel 2012, a seguito di uno sciopero della fame a cui aderirono oltre 2mila detenuti, Tel Aviv promise la fine dell’utilizzo della detenzione amministrativa, ammessa dal diritto internazionale solo in casi eccezionali, e non su base sistematica come avviene nelle prigioni israeliane. Ma promesse o meno, sono ancora 183 i prigionieri politici palestinesi arrestati e detenuti per mesi – quando non per anni – senza un processo e senza accuse formali.
Ad avviare la protesta, lo scorso 24 aprile, erano stati proprio i detenuti amministrativi, seguiti ieri a ruota dagli altri 5mila prigionieri politici palestinesi. Immediata la punizione da parte delle autorità carcerarie israeliane: i leader dello sciopero, tra cui Muayad Sharab, Sufian Jamjoum e Abd al-Kareem Qawasmi, sono stati trasferiti nella prigione di Beer Sheva e posti in isolamento. Una pratica che Addameer, associazione palestinese che tutela i diritti dei prigionieri palestinesi, ha già denunciato: Israele starebbe facendo pressioni sui detenuti in sciopero per costringerli a terminare qui la protesta, isolandoli, legandoli per oltre 10 ore al giorno e negandogli il sale, necessario a difendere lo stomaco.
“Secondo uno dei prigionieri in sciopero dal 24 aprile con cui uno dei nostri avvocati ha parlato – riporta Addameer – i detenuti nella prigione del Naqab sono stati tutti trasferiti nella sezione di isolamento, separati dagli altri. Le celle sono coperte di sabbia. Vengono maltrattati, subiscono perquisizioni quotidiane e non sono autorizzati a cambiarsi gli indumenti intimi. Sono ammanettati alle celle per dieci ore al giorno. Tre di loro – Fadi Hammad, Fadi Omar e Soufina Bahar – sono in isolamento totale. Infine l’IPS [Israel Prison Service, ndr] nega loro il sale che insieme all’acqua è essenziale alla sopravvivenza”.
Per oggi, ha detto il ministro dei Prigionieri dell’Autorità Palestinese, Issa Qaraqe, sono previste manifestazioni di solidarietà in tutto i Territori Occupati, il “Giorno della Rabbia”. Ma a preoccupare di più le associazioni per i diritti umani è la nuova proposta di legge presentata alla Knesset [il parlamento israeliano] e che intende legalizzare il nutrimento forzato di chi è in sciopero della fame. Una misura che non solo viola la volontà dell’individuo, ma che è estremamente pericolosa per la vita di chi subisce un simile trattamento. Non sono mancati in passato casi di prigionieri deceduti mentre venivano costretti ad ingerire cibo con una sonda che arrivava allo stomaco.
Ma la battaglia degli stomaci vuoti non sarà sospesa tanto presto: ancora una volta il movimento dei prigionieri è il solo in grado di cementare la sempre più divisa società palestinese. In assenza di leader fuori, i detenuti dentro restano la colonna portante del movimento di resistenza. E nonostante gli ultimi anni abbiamo assistito ad un’individualizzazione della lotta e la leadership politica abbia abdicato ai propri doveri cancellando dal negoziato la questione dei detenuti, le carceri israeliane rimangono il luogo della formazione politica e dell’identità comune, con i loro 5.265 prigionieri politici ancora dietro le sbarre. Nena News
Cisgiordania. Le autorità israeliane sono veramente contrarie ai reati dettati dall’odio?
Andate a sentire in tribunale le scuse della polizia e dell'esercito per non impedire
i soprusi dei coloni della fattoria Maon nei confronti dei palestinesi
di Amira Hass – Haaretz
C'è forse un rapporto tra i metodici soprusi nei confronti degli scolari da parte
dei coloni dell'avamposto X e la distruzione di alberi dei palestinesi nei pressi
dell'avamposto X? Secondo l'IDF [esercito israeliano], la risposta è "no". Questo
apprendiamo dalla deposizione resa il 28 aprile da Gilad Lev, che lo scorso anno
era comandante di battaglione nella zona delle colline a sud di Hebron. E sa forse
la polizia che cos'è la "‘Hilltop Youth’" [gruppo giovanile dell'estrema destra sionista.
Letteralmente:"Gioventù della cima della collina"]? No. Questo è quanto apprendiamo
da una deposizione resa il 25 marzo da Shmuel Jerbi, comandante presso il
Dipartimento dei delitti nazionalisti nel distretto di polizia della Giudea e Samaria.
Queste dichiarazioni sono state esposte durante in un'udienza preliminare di una causa
che si sono sentite domenica di fronte a Einat Avman-Muller, giudice del Tribunale di
Gerusalemme. I querelanti sono i componenti della famiglia Amour della città di Yatta,
nella Cisgiordania meridionale. Nel maggio 2013 metà degli alberi del loro oliveto nei
pressi del villaggio di A-Tawani sono stati distrutti da vandali sconosciuti. Questo [fatto]
è stato preceduto da altri incidenti simili nel 2006 e nel 2011.
Si potrebbero definire "Il test di Armour" della sincerità le dichiarazioni rese dalle
autorità riguardo ai delitti dettati dall'odio. I primi atti di questa prova hanno già avuto
luogo e sono stati raccontati su questo giornale (il 26 dicembre 2013 e il 14 febbraio
2014). Giudicate voi, noi vi daremo il resto [del test].
L'IDF non ha accettato la richiesta della famiglia Armour affinchè venisse installato
un sistema di illuminazione attorno all’oliveto per prevenire futuri atti vandalici,
apparentemente perché la famiglia "ha scelto di portare la questione in tribunale". (E
allora? La causa riguarda qualcosa che è già successo, la richiesta relativa al sistema
di illuminazione riguarda il futuro).
La Procura generale, attraverso il procuratore Moshe Willinger, ha sostenuto che i
querelanti stessi erano da biasimare per la distruzione del loro oliveto, dato che non
avevano installato per conto loro il sistema di illuminazione (tutto ciò nell'area C, dove
anche solo piantare un palo per terra, per non parlare di attaccarsi alla rete elettrica,
comporta un'infinità di cavilli burocratici per i palestinesi).
La polizia ha chiuso l'inchiesta sugli atti di vandalismo " per mancanza di prove",
anche se gli investigatori dell'esercito hanno trovato impronte che portavano
direttamente dall’oliveto alla casa di un colono di nome Yissachar Mann
[residente] nel vicino avamposto [denominato] Fattoria Maon.
Prima dell'udienza l'avvocato della famiglia, Itai Mack, ha chiesto allo Stato (cioé alla
polizia e all'IDF) di deporre su 38 domande. Una di queste era: "Si chiede di confermare
che Yissachar Mann è noto alle forze di sicurezza ed alla polizia per precedenti
episodi". I documenti della polizia che descrivono gli atti di vandalismo del maggio 2013
segnalano che Mann era già stato in precedenza arrestato e giudicato colpevole.
L'archivio on line della corte contiene un' accusa da parte della polizia del distretto di
Giudea e Samaria contro Mann ed altri, armati, per aver tirato pietre contro i contadini
di A-Tawani e contro alcuni attivisti di sinistra. L'archivio contiene anche il verbale
di un caso in cui Mann è stato condannato a Gerusalemme per "reati contro l'ordine
pubblico."
Ma la risposta del comandante di polizia Jerbi alla domanda di Mack è stata:"La
domanda non è chiara."
Quando Mack ha chiesto se lo Stato "è a conoscenza della presenza della ‘Hilltop
Youth’ e di attivisti di estrema destra nella fattoria Maon, Jerbi ha risposto:"Il termine
non è chiaro. Nella fattoria Maon vivono coloni ebrei." Quando Mack ha chiesto
se la fattoria Maon è un avamposto illegale e non autorizzato, questa è stata la
risposta:"Questa è una questione legale." In altri termini: La violazione della legge
dovuta alla loro presenza in quel posto è una questione teoretica e astratta.
E' stato ancora più difficile avere una dichiarazione da parte dell'IDF. Il maggiore Shai,
un investigatore del Ministero della Difesa, ha scritto con sicurezza assoluta:"Ho fatto
un'analisi tra tutte le principali componenti dell'IDF, ed ho rilevato che non c'è stato
nessun coinvolgimento dell'esercito in questo fatto (del maggio 2013)."
La discrepanza tra i risultati di questa "indagine" e la realtà ha portato Mack a scrivere
un'altra lettera chiedendo che lo Stato completi la deposizione. L'ex comandante di
battaglione nella zona, Gilad Lev, è stato incaricato di questo compito.
Richiesto su quali misure fossero state messe in atto in seguito a ciò che era successo
nel 2006 e nel 2011, Lev ha risposto:"Imparare la lezione (dagli avvenimenti) è una
faccenda di routine per le forze di difesa."
Dal 15 al 28 aprile si è assistito ad un notevole incremento del numero dei soprusi dei
coloni della Cisgiordania contro i palestinesi - da una media di cinque a nove incidenti
alla settimana. Gli attacchi contro gli abitanti di A-Tawani da parte dei loro "vicini" ebrei
( che nella maggioranza provengono dalla fattoria Maon) sono fatti ricorrenti. Tra il
2005 e il 2013, Yesh Din [organizzazione israeliana per i diritti umani] ha registrato
35 denunce alla polizia riguardanti attacchi contro palestinesi da parte di israeliani
nella zona di A-Tawani. Questi incidenti riguardavano percosse, distruzione di alberi,
incendio doloso, aggressione a pastori, uccisione di bestiame, lancio di pietre e
sconfinamenti.
A causa dei continui abusi da parte dei coloni della fattoria Maon, dal 2004 l'IDF ha
dovuto scortare gruppi di scolari da due piccoli villaggi vicini lungo il percorso fino alla
scuola di A-Tawani e al ritorno. A volte i soldati non svolgono il loro servizio e i bambini
terrorizzati fanno da soli il tragitto tra le colline rocciose sotto la fattoria Maon.
Questo è quello che è successo il 24 aprile. Due israeliani su quad bikes [moto
fuoristrada a quattro ruote] provenienti dalla fattoria Maon sono comparsi
e hanno lanciato pietre contro quattro bambini e la loro madre che stavano
tornando dalla scuola senza la scorta militare. Una bambina di sette anni è stata
colpita in testa ed è stata portata all'ospedale per farsi mettere dei punti.
La risposta di Lev alla richiesta di Mack di confermare che "i soldati dell'IDF scortano gli
scolari alla scuola di A-Tawani in seguito alle violenze da parte di estremisti israeliani"
[è stata]:"La questione non è rilevante per questa controversia, che riguarda atti di
vandalismo commessi contro ulivi."
(traduzione di amedeo rossi)
lunedì 5 maggio 2014
Israele / I soldati che non ci stanno
aprile 24, 2014 • by Redazione • 2014,
“Rompere il silenzio” è un’associazione composta da militari che raccontano le atrocità che hanno visto. Eccone un campionario
di Antonio Rolle
«All’inizio sembra tutto semplice e scontato: le informazioni che ti danno, quello che ti raccontano e che senti dire ecc. Quando esci da quella logica e inizi a considerare le cose da una prospettiva diversa, allora ti accorgi che tutto quello che hai fatto non va proprio e pensi che devi cambiare registro (…) Ora ho capito che il mio impegno deve essere quello di riflettere con gli occhi di un soldato». Si chiama Shaul Yehuda. È un ebreo religioso di Gerusalemme. Ha servito l’esercito d’Israele come soldato semplice e come comandante di un’unità di fanteria nella Cisgiordania occupata, durante la Seconda Intifada, dal marzo 2001 al marzo 2004. Ha operato soprattutto nella città di Hebron. Shaul è cresciuto in una famiglia ortodossa di Gerusalemme: figlio di un’ebrea americana e di un ebreo canadese emigrati in Israele nel 1973. Ha studiato in un insediamento illegale di coloni, in un liceo, vicino a Ramallah. Alcuni membri della sua famiglia sono stati coloni occupanti a Gaza. Shaul Yehuda è il fondatore, assieme ad altri compagni d’armi, della Ong israeliana Breaking the Silence, Rompere il Silenzio, (Shovrim Shtika, in ebraico). L’Ong è costituita da veterani e soldati che forniscono testimonianze del loro servizio militare, nella Cisgiordania occupata, a Gaza, a Gerusalemme est, durante la Seconda Intifada, negli anni 2001-2010. Dalla sua fondazione a oggi, Breaking the Silence (BtS) ha raccolto più di 800 testimonianze di prima mano di soldati semplici e di comandanti delle varie brigate israeliane che operano nei “Territori”. BtS è riconosciuta, sostenuta e finanziata da molti stati del mondo oltre che da varie organizzazioni in Spagna, Inghilterra, Olanda, Belgio, Norvegia, Irlanda, Usa (Open Society Institute). E da Unicef, New Israel Fund e Christian Aid.
Gaza
Durante l’operazione, denominata “Piombo Fuso”, del 2009 a Gaza, BtS ha raccolto le testimonianze di 30 tra giovani soldati e riservisti, combattenti regolari provenienti da varie unità dell’esercito israeliano. Sono stati mesi terribili per i civili di Gaza. I bambini uccisi sono stati centinaia e più di un migliaio i civili: 1417 palestinesi sono morti e quasi 4500 feriti gravi. Infrastrutture di ogni genere hanno subito devastazioni inimmaginabili: ospedali, cliniche private sostenute da organizzazioni internazionali, scuole, moschee e chiese distrutte o gravemente danneggiate. Nessuna di queste strutture erano obiettivi di tipo militare. Le testimonianze affermano che sono state lanciate bombe al “gas fosforo” in direzione di aree densamente popolate (sono ordigni che una volta che hanno colpito i civili, le ferite di questi continuano a bruciare e non c’è possibilità di spegnerle se non tagliando, asportando e mutilando orribilmente i corpi feriti). Le testimonianze dicono che sono state uccise persone innocenti con armi di piccolo calibro. I soldati che hanno consentito le testimonianze hanno dichiarato che più volte i civili sono stati usati come “scudi umani”, civili costretti, con la forza, a entrare negli edifici prima dei soldati. Tutte queste testimonianze sono state pubblicate, da Breaking the Silence, in un opuscolo dal titolo Testimonianze di soldati nell’operazione denominata “Piombo Fuso” a Gaza nel 2009.
Donne soldato
Nel gennaio 2010, BtS pubblica un libro dal titolo Donne soldato, rompere il silenzio. Avere testimonianze da donne soldato è sempre un’impresa difficile. In generale, le donne soldato, tendono a autorappresentarsi come molto più dure degli uomini soldato anche per una concezione distorta nei confronti del ruolo della donna negli episodi di guerra. Perché devo essere considerata io il sesso debole? Perché io quella che dovrebbe avere compassione, pietà e considerazione del nemico in guerra? Anch’io sono un soldato e tra me e gli altri (maschi) non ci deve essere differenza! Questo è spesso il sentimento di una donna soldato. Nel caso del libro pubblicato da BtS, su 96 testimonianze di donne soldato, le donne assumono semplicemente il ruolo di cittadine consapevoli, indignate di fronte agli abusi dell’esercito israeliano e denunciano le brutalità senza infingimenti. Parlano di «umiliazione sistematica operata sui palestinesi, di violenza sconsiderata e crudele, di furti e di uccisioni di persone innocenti (…)».
Libro nero dell’occupazione
Ma la pubblicazione che ha, in un certo senso, seminato più panico nel governo israeliano e nel suo esercito è del 2012. In italiano, che non ha avuto ancora l’onore della pubblicazione, può essere tradotta con “Occupazione dei Territori – Testimonianze di soldati israeliani – 2000-2010”. Il libro pubblica 145 testimonianze di più di 100 soldati che hanno operato in tutta la Cisgiordania occupata, nelle centinaia di checkpoint situati nelle città e nei villaggi palestinesi (Hebron, Nablus, Tulkarem, Jenin, Ramallah, ecc.).
Breaking the Silence, dice Shaul Yehuda, «(…) lavora con una logica molto semplice: a noi soldati ci chiedete di fare un lavoro e ci inviate nei territori occupati. Bene, ci siamo andati e abbiamo fatto quello che ci avete chiesto. Ora, c’è una cosa che vi chiediamo: non vi diremo per chi votiamo ma desidereremmo che qualcuno si sedesse accanto a noi e che ci ascoltasse su tutto quello che abbiamo vissuto nei “Territori” palestinesi». E ancora: «(…) Le storie raccontate si sostanziano di abusi sistematici, incoraggiati spesso dai superiori: soldati che cercano, quasi per divertimento, delle case palestinesi da occupare. Palestinesi arrestati, detenuti e picchiati. Distruzioni, saccheggi di proprietà (…) solo per “educare” i palestinesi e far comprendere loro che l’esercito israeliano è presente». Shaul Yehuda, durante il suo servizio militare, ha operato soprattutto a Hebron. Quella città, sacra per gli ebrei e per i musulmani, ha una sua tipicità, ripetono continuamente i media israeliani, il governo e l’esercito. È un caso estremo. Il fondatore di BtS ha un’altra opinione: «(…) Quelli che vogliono mantenere l’occupazione dicono che Hebron “è un caso estremo”. Io non lo penso. Penso che Hebron sia un dono di Dio. Se passeggi a Hebron per una mezza giornata, nei due kmq occupati, capisci che cosa avviene in tutti i territori occupati. Hebron è il microcosmo della Cisgiordania. Se si fa uno zoom di Hebron, la città rappresenta la Cisgiodania: la stessa politica, le stesse crudeltà e umiliazioni contro i palestinesi. Hebron è più densa, più visibile ma non estrema».
Le reazioni
Alla pubblicazione del libro, le reazioni, miste a rabbia, dell’esercito israeliano, sono state durissime. «Su Gaza, le testimonianze non possono essere verificabili perché anonime. Sono accuse per sentito dire», afferma l’esercito. «In generale, le testimonianze dei soldati sono il frutto di una ideologia anti Israele e di disconoscimento e prevenzione contro la democrazia israeliana. Il libro, infatti, nega che l’azione dell’esercito israeliano, venga eseguita come “autodifesa”. (Che è la verità, afferma l’esercito, di quello che proprio avviene!). Non si tratta di terrorizzare la popolazione civile palestinese! D’altro canto le falsità sono evidenti quando il libro afferma che Gaza è ancora occupata e che Israele attua una pulizia etnica nell’area C di sua competenza». (La Cisgiordania è divisa, secondo gli accordi di Oslo, in tre zone: A – B – C. La zona C, circa il 65%, è occupata completamente da Israele).
Di fronte al rifiuto dell’esercito israeliano di credere come autentiche le testimonianze di BtS, le risposte dell’Ong sono state nette: «BtS opera un’attenta verifica di tutte le testimonianze/informazioni raccolte, incrociando anche le testimonianze stesse. I dati personali dei soldati che hanno testimoniato potrebbero anche essere messe a disposizione per qualsiasi indagine ufficiale e indipendente, se fosse garantito che le identità dei testimoni rimanessero segrete e non di dominio pubblico. (…) Molti degli intervistati erano ancora in servizio, quando hanno testimoniato. Erano state proferite minacce gravi contro coloro che avevano testimoniato, minacce di condanna e imprigionamenti. Il tutto con lo scopo di incutere paura su altri eventuali testimoni (…)».
Il rifiuto
Sono di ieri le dichiarazioni della 17enne Dafna Rothstein Landman che, con altri 50 suoi coetanei, si è rifiutata di servire l’esercito israeliano: «I soldati violano diritti umani e compiono azioni che il Diritto internazionale considera crimini di guerra. Ci opponiamo all’occupazione dei Territori palestinesi (…) a esecuzioni mirate, costruzione d’insediamenti colonici, arresti amministrativi, torture, punizioni collettive». «(…) Razzismo, violenza, discriminazioni etniche», questo esprime la nostra società – dicono gli adolescenti israeliani. «Quando vai nei villaggi (palestinesi) e conosci le persone, parli con loro, vedi cosa soffrono, allora capisci che non sono credibili le notizie che la sera ascolti dalla televisione e comprendi di aver avuto la possibilità di capire la realtà dell’occupazione.
venerdì 2 maggio 2014
IL CONVEGNO DEL 25 APRILE ALL’ARENA DI VERONA: TRA SILENZI ED OMISSIONI, CONTRADDIZIONI E CONFLITTI DI INTERESSE.
I risultati del convegno che si è svolto nel giorno della Liberazione all’Arena di Verona, per quanto emerge dai resoconti di “arenadipaceedisarmo.org”, sono caratterizzati, come purtroppo ampiamente previsto, da parole d’ordine ispirate ad un pacifismo generico e da una proposta concreta che entra in evidente contraddizione con la realtà dei fatti che avvengono nel mondo, che anzi vengono sempre sistematicamente ignorati.
Naturalmente è certamente condivisibile la richiesta di annullamento dell’acquisto delle costose macchine di morte chiamate F-35 e sono apprezzabili gli inviti, peraltro generici, a sostenere campagne per un disarmo generale, che pure sono stati presentati nell’ambito del convegno.
Ma perché gli organizzatori ed i partecipanti non sono scesi sul terreno dei fatti concreti che stanno avvenendo nel mondo e che dimostrano un pericoloso e tragico scivolamento verso scenari di guerra totale? Perché non denunciare il chiaro coinvolgimento dello stesso governo italiano in questi fatti?
Per ricordare solo i fatti più importanti:
Da più di 12 anni le nostre truppe sono impegnate, insieme ad altre truppe della NATO, in una sanguinosa guerra in Afghanistan che sta finendo di distruggere quel martoriato paese.
Negli anni ’90 le nostre truppe hanno partecipato, insieme ad altre truppe della NATO, alle guerre contro la Yugoslavia che hanno portato al definitivo smembramento di quel paese.
Nel 1999 il nostro governo ha aderito ad un rinnovamento dei trattati NATO che hanno trasformato l’alleanza da organizzazione difensiva in un’alleanza offensiva. In seguito l’alleanza è stata aggressivamente spostata verso l’Est Europa inglobando paesi dell’ex-Patto di Varsavia, dell’ex-Yugoslavia e dell’ex-Unione Sovietica, arrivando a schierare basi e batterie di missili quasi ai confini della Russia in Polonia, Repubblica Ceca, ecc.
Nel 2003 le basi militari italiane sono servite a lanciare un micidiale attacco distruttivo contro l’Iraq sulla base di bugie evidenti (le famose armi di distruzione di massa).
Nel 2011 l’esercito italiano ha partecipato direttamente all’attacco della NATO contro la Libia che ha ridotto quel paese, un tempo il più ricco dell’Africa, nel caos totale.
Dal 2011 ad oggi il governo italiano partecipa alle riunioni del gruppo “amici della Siria” dove vengono programmati finanziamenti ed aiuti militari alle bande di fanatici che stanno devastando e tentando di destabilizzare il paese.
Il governo italiano appoggia attualmente il tentativo degli USA e di alcuni paesi europei di estendere l’influenza della NATO anche sull’Ucraina, dove un colpo di stato di estrema destra, ispirato direttamente dagli USA, ha abbattuto il presidente Janucovitch eletto in regolari elezioni. Ricordiamo che l’azione statunitense era stata apertamente rivendicata, già prima dell’inizio dei disordini a Kiev, dalla vice-ministra degli Esteri statunitense, Sig.ra Nuland, che aveva anche indicato il nome del nuovo presidente Yaseniuch, poi effettivamente imposto dai golpisti.
Nel meeting di Verona, invece di esaminare questi concreti problemi e denunciare le eventuali responsabilità, la proposta principale è stata quella di spostare fondi nell’ambito del Ministero della Difesa italiano dalle spese militari ad un Dipartimento di Difesa Civile. Lo scopo sarebbe quello di finanziare dei Corpi Civili di Pace che dovrebbero, ad esempio, fare azioni di interposizione in caso di guerre. Ci risulta tra l’altro che già circa 9 milioni di Euro siano stati forniti dal governo italiano per attività già svolte da organizzazioni presenti al meeting.
Ma gli organizzatori del convegno non si sono resi conto dell’inestricabile groviglio di contraddizioni e conflitti di interesse che questa proposta creerebbe in assenza di un’analisi concreta della situazione esistente.
Visto che in concreto tutte le ultime guerre scatenate negli ultimi 20 anni hanno visto la partecipazione della NATO e dello stesso governo italiano, i Corpi di Pace dovrebbero essere finanziati da quello stesso governo che scatena guerre violando l’art. 11 della nostra Costituzione? Forse i membri dei Corpi di Pace dovrebbero fare azione di interposizione tra due schieramenti di cui uno è finanziato dal medesimo governo che dovrebbe finanziare i Corpi stessi?
Ci si può anche chiedere: i costosi e sofisticatissimi F-35 della Lockeed contro chi dovrebbero essere schierati? Contro i prossimi nemici della NATO come sembra debbano essere considerati Russia e Cina, potenze emergenti che fanno ombra agli USA? E se invece degli F-35 fossero schierati gli Eurofighters di fabbricazione europea, questo sarebbe più accettabile?
Si può ritenere che i silenzi e le evidenti omissioni degli organizzatori e partecipanti di Verona su ciò che sta concretamente avvenendo nel mondo di fatto servano a coprire le contraddizioni cui le loro proposte ed il loro pacifismo generico vanno inesorabilmente incontro.
Roma 29 aprile 2014 Vincenzo Brandi (della Rete No War Roma)
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