domenica 28 novembre 2010

IL CENTRO DI DOCUMENTAZIONE DI PENTONE “INVICTAPALESTINA” Al servizio della Storia palestinese.

25 Novembre 2010
La conoscenza dei fatti e delle situazioni è indispensabile per sviluppare un senso critico e farsi un’idea più vicina alla realtà del popolo Palestinese. Per lunghi anni è stata divulgata e diffusa ampiamente una sola narrazione della storia della fondazione dello stato israeliano e del conflitto che ne è seguito e che conta ormai 62 anni: la narrazione israeliana secondo cui i palestinesi se ne sono andati di loro spontanea volontà durante gli anni della Nakba sobillati dagli stati arabi che avevano loro promesso una sconfitta totale di Israele che sarebbe stato “buttato a mare”.
Quindi lo stato israeliano non riconosce alcuna responsabilità rispetto alla sorte dei profughi. Ai palestinesi è stato a lungo rimproverato di non aver accettato la spartizione della Palestina, ma essi non avevano una ragione al mondo per accettarla. Che ci sia stata una feroce pulizia etnica con la distruzione della metà di villaggi e città, che ci siano stati più di 80 massacri documentati sono notizie venute alla luce solo negli anni’90 con i nuovi storici israeliani. Il più valente e onesto fra di essi Ilan Pappe, ha recentemente pubblicato una storia dettagliata e ben documentata della pulizia etnica del ‘47-‘48, che continua indisturbata tutt’ora.
Storici palestinesi con pazienza e determinazione raccolgono documenti e fatti di storia palestinese che Israele si dedica a cancellare e negare. Perché non solo lo stato sionista ha colonizzato la Palestina, ma ha cercato di negarne la memoria e la storia, negando l’evidenza, seppellendo antichi villaggi sotto fitte foreste o trasformandoli in parco-giochi, cambiando tutti i nomi di città e villaggi e rinominandoli in ebraico, appropriandosi di tutto ciò che era palestinese compresa la cucina, i gioielli, le arance di Jaffa, ogni spiga, ogni ulivo, quando non li ha strappati per piantarvi abeti, e trasformare anche la natura del paesaggio, ha abbattuto quartieri e palazzi arabi di importanza storica, ha deturpato le colline con insediamenti mostruosi e di recente sappiamo ha anche rubato e occultato libri palestinesi.
Consapevole che un popolo che non ha memoria e non ha cultura non ha neppure futuro, Israele si dedica a boicottare attivamente la cultura e l’istruzione palestinese. Scuole vengono abbattute o occupate, studenti e professori arrestati, il materiale per la ricerca che serve alle università viene bloccato e lo staff dei professori, grazie a Israele, non è mai al completo. E intanto mentre vediamo continue turneè del trio Oz-Yoshua-Grossman in Europa e in Italia i quali vengono contrabbandati per pacifisti ma sono in realtà i propagandisti di Israele, non è mai stato invitato in Italia, finchè era vivo, un gigante come M. Darwish, uno dei poeti più grandi del mondo, ma forse in quel caso Israele gli avrebbe impedito di uscire. Conosciamo questi tre, ma non conosciamo Sami Al Kassem, Fadwa Tucan, Gassan Kanafani, Samira Hazzan, Emil Habibi e tanti altri poeti e scrittori di grande levatura morale.



Uno scrittore, un poeta, è considerato da sempre un sovversivo, da Israele e deve affrontare enormi difficoltà, boicottaggio e carcere. Moshè Dayan parlando con la poetessa palestinese Fadwa Tucan espresse chiaramente questo intento “Un poeta è più pericoloso di 10 fedayn, perché ne produce cento”. Quindi la cultura è pericolosa e deve essere fermata.
L’anno scorso Israele ha impedito lo svolgersi della manifestazione culturale palestinese più importante che doveva avvenire a Gerusalemme, impedendo l’ingresso agli scrittori che venivano da tutto il mondo e chiudendo la sala poco prima dell’inizio della manifestazione.
Quando si va in Palestina e si visitano villaggi e città assediati e circondati dal muro si apprende  un’altra storia. Si viene a conoscenza del lavoro continuo e coraggioso che i palestinesi portano avanti con l’apertura di centri culturali, l’organizzazione di festival del cinema, scuole d’arte e teatri aperti in ogni città e campo profughi.
Si tocca con mano la grande voglia di vivere di questo popolo sotto occupazione da 62 anni, col fiato sul collo dell’occupante, che è determinato a vivere non a sopravvivere sulla propria terra. Si capisce che la resistenza che attraversa ogni villaggio e città palestinese è creativa, non violenta, internazionalista visto che riceve l’appoggio di israeliani dissidenti e antisionisti e internazionali.
Cade allora il ritratto falso e osceno che Israele tenta di fare del palestinese cucendogli addosso la maschera del terrorista, o del rozzo e ignorante nativo pastore, contadino o brigante, incapace di risolvere i propri problemi e invidioso del grande sviluppo e progresso israeliano. Ma il solo problema dei palestinesi è l’occupazione israeliana che strangola la loro vita quotidiana, nel campo profughi  di Jenin 400 case sono state ricostruite in due anni mentre qui in Italia, un paese sempre più succube e invaso dai sionisti a tutti i livelli, ancora si devono ricostruire case di terremoti di 20 anni fa per non parlare dell’Aquila.
E’ di fondamentale importanza allora, non solo andare in Palestina, ma anche fare in modo che la sua storia sia conosciuta. Che siano chiariti i fatti, le motivazioni e i metodi con cui i sionisti sono andati in Palestina per dare una terra senza popolo a un popolo senza terra.
E’ importante conoscere la cultura palestinese e farla conoscere. E’ importante avere un centro di documentazione dove possa venir raccolto il materiale inerente alla storia del popolo palestinese, dove si possa predisporre materiale divulgativo per la conoscenza del conflitto israelo-palestinese e promuovere la ricerca e l’archiviazione di questo materiale.
Questo è il compito che si è dato il centro di documentazione di Pentone “Invicta Palestina” .Un compito importante che si propone di svolgere con l ‘aiuto di tutte le associazioni e le persone che svolgono attività di solidarietà con la Palestina per raccogliere materiale, per collaborare in attività per l’organizzazione di eventi culturali e sportivi in Calabria, per organizzare un coordinamento per la diffusione di libri, riviste, documenti, mappe, foto e file, filmati, opere musicali.


Per questo sarà creata una rete di collaboratori per la digitalizzazione di materiali cartacei e la loro diffusione attraverso il web. Materiale che sarà messo a disposizione allo scopo di favorire studi, tesi di laurea, pubblicazioni. Inoltre il centro si propone di favorire la conoscenza e la distribuzione di prodotti dell’arte e dell’artigianato palestinese a livello nazionale e in particolare in Calabria, la promozione e organizzazione di incontri culturali e sportivi attraverso seminari, mostre e cineforum per favorire l’amicizia tra l’Italia e la Palestina, l’organizzazione di un convegno annuale sulla Palestina in cui analizzare la situazione socio-economica e politica e gli effetti del muro dell’apartheid aggiornandone le notizie e gli sviluppi.

Attualmente il centro di documentazione Invictapalestina sta lanciando la campagna “Adotta un libro” per la costruzione della biblioteca.
Si può contribuire in vari modi:
Adottando uno o più libri finanziandone l’acquisto, libro che sarà catalogato e schedato riportando il nome del donatore e sarà messo a disposizione sugli scaffali e sul web
Oppure spedire al centro di documentazione libri propri, o organizzandosi in gruppo per adozioni collettive.

Tutte le informazioni per le modalità sono sul sito www.invictapalestina.org

sabato 27 novembre 2010

Da "Bocche scucite L'incredibile sfcciataggine del duo Omama-Netanjau e il "pacifinto Oz"

Non è fantapolitica internazionale!
Domenica 21 Novembre 2010 04:45 don Nandino Capovilla


Bocchescucite3

C'è da non crederci. Obama sembra aver superato il peggior Bush, che mentre garantiva il veto a Israele caldeggiava la colonizzazione no-limits. Ecco l'ultima proposta del premio nobel a Netanyahu: ...Dai, noi ti garantiamo che all'Onu non voteremo contro Israele nemmeno davanti ad un Piombo Fuso2; tu non sentirti obbligato a rispettare la legalità internazionale, anzi, ti regalo 20 cacciabombardieri se accontenti questi palestinesi che insistono sulle colonie. Metti in stand-by le ruspe solo per 90 giorni e continua indisturbato come sempre. Che ne dici? Se non siamo amici d'Israele noi...

Attenzione: non è fantapolitica internazionale! LEGGETE la notizia in "A VOCE ALTA"

in allegato BoccheScucite n.115 - 15 novembre 2010 - www.bocchescucite.org

All'unanimità la condanna per le contestazioni torinesi ad Amos Oz. Da destra e da sinistra, da La Repubblica alla vignetta di Staino su l'Unità che descrive lo scrittore “pacifista” come un gigante, in attesa che cresca anche la stima per Israele. Ovviamente basta far scattare la parola magica dell'antisemitismo e il gioco è fatto. Salvo esser costretti ad annotare “i contestatori esponevano un lungo striscione con i nomi delle 1500 persone uccise durante i bombardamenti di Piombo Fuso”. Sì, perchè ovviamente, che senso ha prendersela con un raro esemplare di “scrittore pacifista”? “Contestare un intellettuale solo perché è israeliano o ebreo è inaccettabile» (Vernetti, parlamentare Api). Questo fingendo che la contestazione sia sul suo essere israeliano, o ebreo! Ci colpisce che nessuno abbia pensato di chiedere a loro, agli israeliani, cosa pensano di questo signore che ad ogni guerra e ad ogni crimine, puntualmente difende il suo governo, al massimo ammettendo, in compagnia con Grossman e Yehoshua, “Purtroppo necessaria, speriamo finisca presto” -e si riferivano al massacro di Piombo Fuso! BoccheScucite nei giorni della catastrofe di Piombo fuso aveva pubblicato il parere del'intelletuale israeliano Michel Warschawski:

“Barak, Olmert, Livni e Ashkenazi un giorno dovranno rispondere di crimini di guerra davanti a una corte di giustizia. Ma un’altra categoria di criminali potrebbe sfuggire ai tribunali. Questi non si sporcano le mani del sangue dei civili, ma forniscono le giustificazioni intellettuali e pseudo morali agli assassini. Formano l’unità di propaganda del governo e dell’esercito di assassini. Gli scrittori israeliani Amos Oz e A. B. Yehoshua sono gli esempi tipici di simili miserabili intellettuali, e non è la prima volta! Ad ogni guerra si offrono volontari nello sforzo militare israeliano, senza neanche l’arruolamento ufficiale. Il loro primo compito è quello di fornire delle giustificazioni all’offensiva israeliana, poi, in un secondo tempo, piangono la verginità perduta e accusano il campo avverso di averci costretto ad essere brutali. La giustificazione fornita da Oz sul Corriere della Sera è chiaramente di dover reagire ai missili su Sderot, come su tutto fosse iniziato con questi missili: «Ho dovuto spiegare agli italiani perché l’azione israeliana era necessaria…»

Michel Warschawski (16 gennaio 2009. BoccheScucite n.69)

giovedì 25 novembre 2010

BAMBINO PALESTINESE DI 7 ANNI PICCHIATO DAI SOLDATI FINISCE IN TERAPIA INTENSIVA

Palestinian Child Hospitalized After Being Violently Attacked By Israeli Policemen
author Thursday November 25, 2010 08:52author by Saed Bannoura - IMEMC & Agencies Report post

A 7-year-old Palestinian child from Silwan neighborhood, south of the Al Aqsa Mosque in occupied East Jerusalem, was hospitalized Wednesday, after a number of Israeli policemen violently attacked, kicked and punched him.

FIle - Israeli soldiers dragging a Palestinian child
FIle - Israeli soldiers dragging a Palestinian child

The child, Adam Mansour Al Rishiq, was taken to a Jerusalem hospital and was immediately sent to the Intensive Care Unit due to the seriousness of his condition.

Fakhri Abu Diab, a member of the local committee to defend Silwan land and property, stated that clashes were reported Wednesday between the police and local residents in Silwan, especially near a protest tent located between Jacob's Well and Ein Al Lowza.

The tent was installed several months ago to protest the Israeli demolition and confiscation of Palestinian and Arab homes in occupied East Jerusalem, which protesters say was carried out despite Israeli court orders protecting the homes from demolition.

Abu Diab stated that Border Guard Policemen chased a number of youth before violently attacking the seven-year-old child, and striking him with their batons on different parts of his body.

Adam’s father stated that his child was moved to the hospital unconscious and heavily bleeding, and was directly sent to the Intensive Care Unit suffering from a number of fractures and bruises.
category jerusalem | israeli attacks | news report author email saed at imemc dot org
printable version with comments
Digg this del.icio.us Furl Reddit Technorati
<< Back To Newswire

Saccheggio di libri palestinesi durante la Nakba per seppellire cultura e memoria palestinese

Associazione di Amicizia Italo-Palestinese, 22 Novembre 2010
Electronic Intifada.net
9.11.2010
Un nuovo documentario svela un capitolo nascosto della Nakba – l’espulsione e la fuga dei palestinesi per mano delle milizie sioniste al momento della fondazione di Israele nel 1948 – che ha visto il saccheggio sistematico di più di 60.000 libri palestinesi da parte delle forze israeliane e il tentativo di distruggere la cultura palestinese.

Libri palestinesi rubati, etichettati “proprietà d’assente” (Per gentile concessione di The Great Book Robbery)
Non appena esplose la violenza che sopravenne per segnare il formarsi di Israele, le famiglie palestinesi che vivevano nei centri urbani e nei villaggi del paese abbandonarono le loro case alla ricerca di sicurezza e di un rifugio. Una famiglia palestinese dopo l’altra si dette alla fuga, credendo che presto avrebbe potuto far ritorno, molte lasciarono indietro i loro beni più preziosi. Tuttavia, non appena, nello stordimento del conflitto, le case palestinesi divennero silenziose, prese l’avvio una campagna sistematica israeliana consistente nel penetrare nelle case e nel derubarle di un bene prezioso – i loro libri.
Tra il maggio 1948 e il febbraio 1949, dei bibliotecari della Jewish National Library e della Hebrew University Library entrarono nelle case palestinesi rimaste disabitate di Gerusalemme ovest e si impossessarono di ben 30.000 libri, manoscritti e quotidiani unici. Questo patrimonio culturale che era appartenuto alle famiglie istruite palestinesi e all’elite, venne quindi “prestato” alla National Library dov’è rimasto fino ad ora. Inoltre, dipendenti della Banca Depositaria delle Proprietà degli Assenti, movendosi da una parte all’altra di città quali Jaffa, Haifa, Tiberias e Nazareth raccolsero circa 40.000 – 50.000 libri appartenenti a palestinesi. In seguito, la maggior parte venne rivenduta agli arabi, anche se circa 26.000 libri vennero ritenuti non idonei in contenevano “materiale che incita contro lo stato [Israele]” e vennero venduti come carta straccia.
Questa storia non raccontata della Nakba è rimasta occultata nel corso degli anni fino a che, per un caso fortuito, un dottorando israeliano Gish Amit non si è imbattuto negli archivi che documentavano il sistematico saccheggio di libri palestinesi. “Sono incappato in questo argomento abbastanza casualmente,” ammette Gish. “Ho passato i primi mesi dei miei studi di dottorato presso diversi archivi, tra i quali l’archivio della Jewish national and university library, dove un giorno, mi sono imbattuto nei primi documenti relativi alla raccolta del materiale delle librerie palestinesi lasciato alle spalle durante la guerra del 1948. In ogni caso, mi ci sono voluti un paio di settimane – e una dozzina di documenti – per rendermi conto che c’era una storia da raccontare. Una storia che non è stata ancora detta e che potrebbe arricchire la nostra conoscenza della cultura palestinese e la sua cancellazione.”
Anche se molte famiglie palestinesi erano a conoscenza del fatto che i loro libri erano stati presi nel periodo successivo al 1948, non immaginavano che ci fosse la volontà cosciente e sistematica di appropriarsene.
Ghada Karmi, un’attivista palestinese e scrittrice che era vissuta a Gerusalemme fino al 1948 quando la sua famiglia era stata costretta a fuggire, si ricorda di come suo padre fosse un lettore avido ed avesse una libreria personale impressionante. “La mia famiglia faceva parte a quel tempo di una piccola élite in Palestina abbastanza colta che possedeva una gran quantità di libri,” precisa. “Da parte dei sionisti rubare quei libri…Non lo so, è scioccante. Beh, hanno rubato di tutto, così ritengo che la cosa non mi debba affatto sorprendere.”
La distruzione della cultura che avvenne durante la Nakba è rimasta un aspetto relativamente marginale del racconto più ampio delle cose sofferte dei palestinesi. E’ stata considerata come un piccolo dettaglio, irrilevante, che ha colpito una piccola minoranza delle élite urbane che vivevano nelle città, se confrontato al completo annientamento dei villaggi palestinesi che ha interessato una larga parte della popolazione palestinese.
“Quello che si deve capire è che le perdite dei palestinesi furono così massicce che questi dettagli ne sono risultati sopraffatti,” afferma Karmi, che attualmente vive e lavora come lettrice universitaria in Gran Bretagna. E’ pure autrice di diversi libri, tra cui In Search of Fatima, un libro di memorie sull’esperienze vissute dalla sua famiglia durante la Nakba. “La gente perse le proprie case, le proprie vite, le proprie terre e ritengo che la scomparsa di libri nelle case di una piccola élite palestinese, non avrebbe raggiunto un alto livello di considerazione sul piatto della bilancia. Ora, che sono passati tutti questi anni dal momento della Nakba, questi particolari stanno cominciando a spuntare fuori e sta venendo riconosciuta la loro importanza.”
Difatti, il regista cinematografico Benny Brunner, Arjan El Fassed (co-fondatore di The Electronic Intifada) ed altri si sono impegnati per dare risalto al saccheggio del 1948 – 49 sponsorizzato dallo stato. The Great Book Robbery è un progetto e un documentario in fase di realizzazione che spera di esporre la storia non raccontata del saccheggio dei libri e di aiutare i palestinesi a reclamare il loro patrimonio culturale e farlo perfino rivivere (un breve video è disponibile nel sito web).
Brunner, un cittadino Olandese e israeliano che ha lavorato alla realizzazione di diversi film connessi a Israele e ai palestinesi, afferma: “La storia è davvero importante in quanto vennero saccheggiati di fatto più di 60.000 libri – e ciò equivale alla distruzione di una cultura. Questo è il reale impatto di quanto avvenuto; questo è il suo reale significato e ritengo che sia necessario darne comunicazione. E, se possibile, ci si deve impegnare nel far rivivere il mondo culturale perduto che è stato distrutto nel 1948.”
Prima che la Nakba disseminasse le élite palestinesi, città come Gerusalemme e in particolar modo Jaffa erano una fucina di attività culturali e politiche. Elite molto acculturate pubblicavano giornali, settimanali, libri e club culturali e di poesia prosperavano, i caffè servivano come luoghi di discussione su questioni importanti. Tutto ciò, nel 1948, giunse ad una fine improvvisa ed ora, nella storia culturale palestinese, rappresenta un capitolo quasi c completamente dimenticato.
Mentre, inizialmente, i libri sequestrati dagli israeliani erano stati contrassegnati con il nome dei proprietari palestinesi, negli anni ’60 questa politica subì una trasformazione e i libri vennero successivamente siglati con solo due lettere “AP” o “proprietà abbandonata”. Con il passare del tempo, gli stessi diventarono libri “israeliani” in particolar modo perché una gran maggioranza di loro venne incorporata nella collezione nazionale tanto che diventò impossibile rintracciare i libri palestinesi saccheggiati. “Sono divenuti libri ‘nostri’ e parte dell’eredità culturale ‘nostra’,” afferma Brunner.
Come spiega Karmi, “Quello che è veramente orribile riguardo al furto dei libri è che è come dire, ‘Non vi ruberò solo la casa e la terra, ma anche l’eredità culturale’ perché hanno preso questi libri, li hanno messi nelle loro biblioteche israeliane, e hanno preteso che fossero stati sempre lì. Siamo, quindi, il lotta perché non stiamo solo cercando di recuperare qualcosa che è rimasto sempre lì a raccogliere polvere – stiamo cercando di reclamare qualcosa prima che venga distrutto. E questo è il motivo per cui è tanto urgente e perché il progetto [di Brunner] è estremamente prezioso.”
Al momento, Brunner sta cercando di rintracciare il maggior numero di palestinesi che sono stati testimoni del saccheggio o che hanno perduto i loro libri nella Nakba. “Vogliamo che la gente ci dica come vede ciò che è accaduto, per analizzarlo e per fornirci un contributo, non solo finanziario – anche se questo ci aiuterebbe – bensì delle loro storie.”
“Se la gente pone attenzione al proprio passato e fa un serio tentativo di far rivivere una parte dell’eredità culturale, essa deve far parte di questo progetto,” sostiene Brunner. Egli esorta i palestinesi a “rivolgere lo sguardo all’interno della storia della propria famiglia per vedere se c’è qualcosa che possa fornire un contributo a questo progetto” e stabilire, se possono, un contatto diretto.
Karmi sottolinea l’urgenza di ricuperare questa parte della storia palestinese e il significato di questo momento: “Non siamo più nella fase di trauma e di spavento nella quale i palestinesi sono rimasti per così tanto tempo. Lo shock reale di perdere ogni cosa e di doversi riprendere ha tenuto impegnate le energie della gente per troppo tempo. Ora, è venuto il momento di recuperare la nostra storia, la nostra cultura, le nostre città, la nostra architettura, la nostra geografia prima che gli israeliani demoliscano ogni cosa.”
Ma anche Karmi ammette che alcune cose sono andate perdute per sempre. Manoscritti che non sono mai stati pubblicati, libri venduti come carta straccia, diari personali o persino il vocabolario Arabo-Inglese sul quale il padre di Karmi stava lavorando al tempo della Nakba, ora sono definitivamente perduti. Anche così, entrambi, Karmi e Brunner, credono che Israele debba restituire ai loro legittimi proprietari i 6.000 libri che sono contrassegnati con chiarezza essere di proprietà palestinese.
Karmi aggiunge pure che è venuto il momento che sorga un movimento palestinese – parallelo al movimento che recupera opere culturali ebraiche e di altri perdute sotto il nazismo – destinato al ricupero dei pezzi dell’eredità culturale andati perduti durante la Nakba. The Great Book Robbery si propone di evidenziare l’entità delle perdite e di operare, ci si augura, in modo da costituire un primo passo in questa direzione.
Arwa Aburawa è una giornalista freelance che risiede in Gran Bretagna e che ha scritto sul Medio Oriente, sull’ambiente e su diverse questioni sociali

Testo inglese in http://electronicintifada.net/v2/article11617.shtml - tradotto da Mariano Mingarelli

http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&view=article&id=2342:nakba-furto-della-cultura-palestinese&catid=23:interventi&Itemid=43

Libri palestinesi rubati da Israele durante la Nakba

mercoledì 24 novembre 2010

Israeliani a Decimomannu

22 novembre 2010

I caccia israeliani sfrecciano a bassa quota, lanciando bombe e missili sugli obiettivi. Non è una scena dell’operazione «Piombo fuso» contro Gaza, ma dell’esercitazione Vega 2010 in corso nella base aerea di Decimomannu (Cagliari) dal 16 al 26 novembre. Vi partecipano 30 aerei da guerra e oltre 500 militari italiani e israeliani. L’esercitazione, spiega un comunicato stampa, si inserisce «nel più ampio contesto di cooperazione internazionale allo scopo di confrontare differenti tecniche di impiego e garantire l’addestramento avanzato unitamente allo scambio di esperienze fra equipaggi delle aeronautiche militari italiana e israeliana». Sicuramente, nello scambio di esperienze, i piloti israeliani hanno molto da insegnare a quelli italiani. L’aviazione israeliana continua infatti i raid contro la popolazione di Gaza, uno dei quali è stato effettuato il 19 novembre. I piloti israeliani hanno però anche da imparare. La base di Decimomannu, sede del Reparto sperimentale e di standardizzazione al tiro aereo (Rssta), è dotata delle più moderne tecnologie. Tra queste un sistema elettronico che, attraverso sensori agganciati ai velivoli, permette di seguire, in diretta su ampi schermi, lo svolgimento del volo come se ci si trovasse a bordo di ogni singolo velivolo. Dopo i dieci giorni di esercitazione, i piloti israeliani saranno quindi in grado di condurre attacchi ancora più micidiali. Perfezionando allo stesso tempo le tecniche per l’attacco nucleare. L’esercitazione di Decimomannu rientra nella cooperazione militare Italia-Israele, stabilita dalla Legge 17 maggio 2005, che prevede anche attività congiunte di formazione e addestramento. Rientra allo stesso tempo nel «Programma di cooperazione individuale» con Israele, ratificato dalla Nato il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell’attacco israeliano a Gaza. Esso comprende una vasta gamma di settori in cui «Nato e Israele cooperano pienamente»: aumento delle esercitazioni militari congiunte; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; allargamento della «cooperazione contro la proliferazione nucleare». Ignorando che Israele, unica potenza nucleare della regione, rifiuta di firmare il Trattato di non-proliferazione ed ha respinto la proposta Onu di una conferenza per la denuclearizzazione del Medio Oriente.

http://www.manifestosardo.org/?p=6104#more-6104

martedì 23 novembre 2010

Normale usare bimbi palestinesi come scudi umani

LIBERI SOLDATI CHE USARONO BIMBO COME SCUDO UMANO
Il procuratore militare israeliano Avichai Mandelblit è stato minacciato per aver fatto rinviare a giudizio due militari che obbligarono un bambino di Gaza ad aprire sacchi che sospettavano pieni di esplosivo

Gerusalemme, 22 novembre 2010, Nena News – E’ un colpo al procuratore militare israeliano Avichai Mandelblit ma più di tutto è uno schiaffo alle convezioni internazionali contro i crimini di guerra e alle leggi per la tutela dell’infanzia, la decisione presa ieri della corte militare del comando meridionale israeliano di comminare una condanna, con la condizionale, ad appena per tre mesi di carcere a due soldati israeliani accusati di aver usato un bambino palestinese come uno «scudo umano» durante l’offensiva militare Piombo fuso lanciata da Israele alla fine del 2008 contro la Striscia di Gaza. Il piccolo palestinese fu costretto con la forza ad ispezionare sacchetti sospetti dove i soldati ritenevano fossero nascosti ordigni esplosivi.

I due militari, scrive oggi il quotidiano israeliano Jerusalem Post, non sconteranno neanche un giorno di carcere, grazie alla condizionale, e il fatto che siano stati degradati non avrà alcun effetto pratico poiché entrambi hanno terminato il servizio di leva. I soldati avevano confessato ma la Corte militare ha giudicato un semplice «errore» quello che per le convenzioni internazionali è un crimine di guerra.

Per il procuratore Avichai Mandelbilt – minacciato alcuni giorni fa con scritte sotto la sua abitazione per aver chiesto la condanna severa dei due soldati – è una chiara sconfitta. La destra (e non solo) lo accusava di aver voluto fare dei due militari fatti rinviare a giudizio una sorta di «capro espiatorio». Una accusa che, per motivi opposti, rivolgono a Mandelbit anche coloro che chiedono a Israele di accogliere le conclusioni e le raccomandazioni contenute nel rapporto del giudice Richard Goldstone (Onu) su Piombo fuso e di non limitarsi a condannare a pochi mesi di carcere qualche militare. Proprio Mandelblit è stato l’ autore di un rapporto sulla condotta dell’esercito durante l’offensiva a Gaza, l’unico redatto da Israele e che di fatto conferma quanto è già stato reso pubblico da Goldstone. Anche sull’uso di proiettili con fosforo bianco contro il compound delle Nazioni Unite a Gaza city, in aperta contraddizione con i risultati dell’inchiesta svolta dall’esercito israeliano dell’aprile 2009 che smentisce l’utilizzo di questo tipo di munizioni nelle aree abitate di Gaza.

Non è un caso che il rapporto Mandelblit non sia mai stato commentato pubblicamente, se non nelle pagine interne di qualche quotidiano israeliano, e secondo quanto riportato dal giornale Yediot Ahronot, il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman si è rifiutato di pubblicarlo sul sito del ministero in versione ebraica, rendendolo disponibile solo nella versione inglese.

Sono 400 i casi di violazioni e abusi commessi da ufficiali e soldati israeliani durante l’offensiva contro Gaza (dicembre 2008 – gennaio 2009), che ha ucciso circa 1.400 palestinesi, di cui 330 bambini. La polizia militare israeliana ha interrogato oltre 600 militari: sui casi investigati, per 50 si sono aperte vere e proprie indagini criminali, 20 hanno ricevuto degli avvisi di garanzia mentre 3 soldati sono stati accusati di aver commesso crimini e abusi. Mandelblit ha anche indagato sull’operato del colonnello Ilan Malka che ordinò il bombardamento sull’edificio dove viveva la famiglia al-Samuni, nel quartiere di Zaitun (Gaza City), che provocò 29 vittime e oltre 45 feriti, tutti componenti dello stesso clan familiare. Mandelblit però ha deciso di procedere ad azioni legali solo in 4 sui 23 casi menzionati nel rapporto Goldstone (crimini di guerra documentati, perpetrati a danno di civili palestinesi), procedendo all’archiviazione di tutti gli altri.

Per buona parte dei media israeliani e per la quasi totalità dell’opinione pubblica, a Gaza furono commessi solo «errori» e non crmini di guerra, a causa del «difficile» teatro nel quale operarono i militari durante Piombo fuso. Nena News

domenica 21 novembre 2010

CRIMINI DI GUERRA E COMPLICITA' DEI MEDIA

I crimini di guerra e i crimini contro l'umanità di Israele non vengono denunciati dai media, Norman Finkelstein

di The Canadian Charter

Di recente, in una presentazione sponsorizzata presso l'Università di Toronto dai Canadesi per la Giustizia e la Pace in Medio Oriente (CPME), lo studioso americano Dr. Norman Finkelstein ha detto che a Gaza non c'è stata una guerra: la cosiddetta guerra di Gaza è stato un massacro. Ha detto anche che la devastazione di Gaza del 2008-2009, può essere un preludio di quello che sta per avvenire in Libano.



Finkelstein ha conseguito il dottorato dalla Princeton University nel 1988, e successivamente ha insegnato presso la Rutgers, la New York University, il Brooklyn College, l’Hunter College e la DePaul University (Chicago). La sua ricerca scientifica si è concentrata sul conflitto israelo-palestinese e la sua rappresentazione nei discorsi politici.

Ha detto che, anche se Israele ha effettuato 2.800-3.000 voli per missioni di combattimento, non un singolo aereo è stato danneggiato, in quanto Hamas se ne è stato seduto nel suo bunker per tutto il tempo; un analista israeliano ha dichiarato che non è stata combattuta una sola battaglia.

"Dopo la prima settimana di attacco aereo è cominciato l'assalto di terra. I soldati israeliani avevano equipaggiamento speciale per la guerriglia notturna, in tal modo Hamas non riusciva nemmeno a vederli. Un soldato israeliano ha detto: 'Non c'era niente. Era una città fantasma, con solo il bestiame”. Un altro soldato ha dichiarato: "Non ho visto un solo arabo per tutta la settimana”. Un altro soldato israeliano ha affermato: "Mi sentivo come nella stagione della caccia. Mi ricordava un videogioco della playstation”.

Anche se questo può sembrare surreale, Finkelstein ha sostenuto che la realtà su questa cosiddetta guerra di Gaza è che sono stati 22 giorni di morte e distruzione inflitti al popolo palestinese di Gaza. Ha detto che l'esercito israeliano ha esploso proiettili al fosforo bianco - che brucia ad una temperatura di 816 gradi Celsius – su scuole, ospedali e mercati, causando 1400 morti palestinesi.

"I quattro quinti di queste morti era dato da civili, 400 erano bambini. Israele ha avuto 10 morti in combattimento e quattro civili. Il rapporto di vittime è stato di 100 a uno. Si tratta di una guerra o di un massacro? "

Successivamente ha chiesto al pubblico di alzare la mano se avevano sentito dire che Israele ha affermato che l'alto numero di morti tra i civili è stato perché Hamas ha usato scudi umani ed ha costretto la gente a raccogliersi intorno alle postazioni di Hamas. Anche se molti tra il pubblico hanno alzato le mani, pochi lo hanno fatto quando ha chiesto loro quanti sapevano che delle 300 organizzazioni dei diritti umani che hanno indagato, non una ha riportato alcuna prova del fatto che Hamas abbia usato scudi umani o costretto la gente a rimanere intorno agli edifici controllati da Hamas.

“Ciò dimostra il potere dei media ", ha detto Finkelstein. "I fatti fondamentali non sono molto noti."

Ha aggiunto che Amnesty International ha dichiarato che, anche se le accuse israeliane sull'utilizzo di scudi umani fossero vere, non spiegherebbero comunque le morti di Gaza.

"Molti sono stati uccisi nelle loro case o mentre si recavano alle loro attività quotidiane. Dei 400 bambini uccisi, molti stavano studiando o giocando sui tetti o nelle loro case. Tutte le organizzazioni per i diritti umani hanno detto che questi interventi sono stati crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Hanno detto che Hamas ha commesso crimini equiparabili, ma non su una scala che si possa paragonare”.

Ha riconosciuto che Israele ha il diritto di impedire alle armi di entrare a Gaza, ma ha osservato che, poiché entrambe le parti si sono rese colpevoli di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani; in base al diritto internazionale, entrambe le parti dovrebbero essere sottoposte ad un embargo sulle armi.

Finkelstein ha detto di ritenere che la vera ragione dell'attacco di Gaza fosse parte di un piano finalizzato a ripristinare la capacità di dissuasione di Israele, dopo le sconfitte militari subite in Libano nel 2000 e il 2006. Ha detto che un ex ambasciatore americano in Israele ha predetto che entro i prossimi 18 mesi Israele attaccherà il Libano.

"Israele ha chiarito che ha intenzione di fare in Libano quello che ha fatto a Gaza - usare la forza contro le infrastrutture civili. Israele ha sostenuto che la prossima guerra sarà un gioco diverso. Il capo di Hezbollah, Nasrallah, ha replicato che la prossima guerra sarà una guerra pan per focaccia - di una fabbrica per una fabbrica e di un aeroporto per un aeroporto. Se i missili colpiranno Tel Aviv ci saranno perdite umane enormi. Non c'è modo che Israele accetti una terza sconfitta in Libano. Se Hezbollah cominciasse a perdere, è quasi certo che l'Iran entrerebbe in guerra, sapendo di essere il prossimo obiettivo. E' difficile sapere come andrebbe a finire, ma entrambe le parti, probabilmente ricorreranno a misure estreme.

"Con la possibilità della guerra all'orizzonte, molto è stato fatto per tentare di risolvere il conflitto israelo-palestinese; ma, secondo quanto detto da Finkelstein, non c'è mai stato un processo di pace: è stata solo una facciata per permettere l'annessione di nuovi territori.

"Nel settembre del 1993, quando è stato firmato l'accordo di pace di Oslo, c'erano 250 mila coloni. Ora, 17 anni dopo, ce ne sono 500.000. Il quarantadue per cento della Cisgiordania è stata occupata. Quando i palestinesi si lamentano di questo, Israele dice la questione degli insediamenti deve essere negoziata nel processo di pace ".

(tradotto da barbara gagliardi)

SI POSSONO OPPORRE COME VOGLIONO MA LA REALTA' NON CAMBIA: ISRAELE E' UNO STATO RAZZISTA DI APARTHEID

ISRAELE E USA CONTRO DURBAN III
Tel Aviv e Washigton si oppongono alle celebrazioni all'Onu per il decimo anniversario conferenza contro il razzismo che ha rivolto dure accuse alle politiche israeliane

Roma, 20 novembre 2010 (foto dal sito www.inminds.com), Nena News – Gli Stati Uniti, con il pieno sostegno di Israele, si oppongono allo svolgimento il 21 settembre 2011 alle Nazioni Unite delle celebrazioni per il decimo anniversario di Durban I, la conferenza internazionale sul razzismo che dieci anni fa in Sudafrica e lo scorso anno a Ginevra (Durban II) ha, tra le altre cose, rivolto forti critiche alle politiche israeliane verso i palestinesi.

Per Washington e Tel Aviv – riferiva ieri il quotidiano Jerusalem Post – l’appuntamento del prossimo anno non sarebbe altro che una Durban III, una nuova conferenza internazionale sul razzismo volta a rilanciare accuse a Israele (e Stati Uniti). Patrick Vendell, portavoce della missione americana presso l’Onu, ha detto al J. Post che «gli Usa non sosterranno la decisione di tenere le celebrazioni al Palazzo di Vetro. Non crediamo che sia la sede appropriata e il momento giusto per tale evento». In azione sono entrate anche diverse Ong filo-israeliane come UN Watch, con sede a Ginevra, che attraverso il suo responsabile Hillel Neuer ha già avvertito di essere pronta a ridare vita alle iniziative di protesta tenute lo scorso anno per Durban II. Gerald Steinberg, di Ong Monitor, una associazione israeliana che controlla le attività delle Ong internazionali impegnate nella questione israelo-palestinese, ha accusato gli organizzatori di Durban di aver dato di fatto via libera alla campagna BDS (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) contro Israele e di legalizzato l’utilizzo del termine «apartheid» per definire le politiche nei confronti dei palestinesi. Il direttore dell’Anti-Defamation League Abraham Foxman, ha definito la possibilità che l’Onu permetta Durban III al Palazzo di Vetro «una vergogna e un oltraggio». Secondo la stampa israeliana a guidare gli europei favorevoli a tenere la commemorazione alle Nazioni Unite è il Belgio.

Da parte loro Israele e Usa contano sull’appoggio di diversi Paesi occidentali. Tra di essi potrebbe esserci ancora l’Italia. Lo scorso anno il governo Berlusconi boicottò Durban II in sostegno alle posizioni israeliane e per manifestare la sua contrarietà alla presenza a Ginevra del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad.

Durban I, che si svolse in Sudafrica dal 31 agosto all’8 settembre 2001, si occupò molto della condizione dei palestinesi sotto occupazione. Stati Uniti e Israele abbandonarono la conferenza in segno di protesta per un progetto di risoluzione che condannava Tel Aviv e di fatto equiparava il sionismo al razzismo. Durban II si è tenuta a Ginevra, dal 20 aprile al 24 aprile 2009, con l’assenza di Canada, Israele, USA, Germania, Italia, Svezia, Olanda e Austral del 2001.

Marcia antirazzista di Durban

venerdì 19 novembre 2010

ONU A ISRAELE: STOP USO RISORSE NATURALI ARABE

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite chiede a Tel Aviv di interrompere lo sfruttamento delle risorse naturali palestinesi e arabe nei territori che occupa dal 1967.

Roma, 19 novembre 2010 (foto dal sito biology.clc.uc.edu), Nena News – La Commissione per l’economia e la finanza dell’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato ieri una risoluzione che chiede a Israele di interrompere lo sfruttamento e il danneggiamento delle risorse naturali nei territori palestinesi ed arabi che ha occupato nel 1967, al termine della Guerra dei Sei Giorni. Lo riferisce l’agenzia di stampa palestinese «Wafa».

Il testo è stato approvato con il voto favorevole di 162 paesi membri, sette contrari (Australia, Canada, Israel, Marshall Islands, Federated States of Micronesia, Nauru, United States) e tre astensioni (Costa d’Avorio, Panama, Papua New Guinea).

Prima del voto, il rappresetante israeliano aveva affermato «l’impegno» del suo paese nella difesa della natura e dell’ambiente e ricordato che diverse intese in questo campo sono stati raggiunte proprio con l’Autorità nazionale palestinese. Il rappresentante della missione permanente palestinese alle Nazioni Unite ha replicato che «l’aver organizzato seminari e conferenze sull’acqua e l’ambiente» non da’ a Israele il diritto di violare e controllare le risorse naturali palestinesi. Ha quindi ringraziato i paesi che hanno approvato il testo per aver riaffermato il «rifiuto» dell’occupazione israeliana.

Tel Aviv afferma di tutelare l’ambiente ma i dati sembrano indicare un atteggiamento diverso, almeno nei territori palestinesi ed arabi che occupa da 42 anni. A causare i maggiori rischi per la natura e le risorse naturali sono le colonie israeliane. Il centro per i diritti umani Betselem ha riferito nel 2009 che dei 121 insediamenti ebraici in Cisgiordania 81 sono dotati di impianti per il trattamento delle acque reflue, alcuni dei quali però usano metodologie superate, non seguono gli standard adottati nello stesso Stato di Israele o sono inadatti a coprire le necessità di colonie in forte boom demografico.

In un servizio pubblicato da Nena News lo scorso 1 luglio (http://www.nena-news.com/?p=2083), Barbara Antonelli e Nicolas Helms Grovas riferivano che le acque reflue prodotte annualmente in Cisgiordania, sia dalle colonie israeliane che dai palestinesi, ammontano a circa 91 milioni di metri cubi: l’equivalente dell’acqua contenuta in 36.400 piscine olimpiche. La maggior parte di queste acque di scarico non riceve alcun trattamento di depurazione. Gli agenti contaminanti – aggiungevano Antonelli e Helms Grovas – si riversano direttamente in Cisgiordania, con conseguenze devastanti per il territorio e l’Acquifero, la più importante risorsa di approvvigionamento idrico per israeliani e palestinesi. In 43 anni di occupazione – proseguivano i due giornalisti – le autorità israeliane non si sono curate minimamente di installare impianti per il trattamento delle acque di scarico. Soltanto le colonie producono 17,5 milioni metri cubi all’anno di acque impure. Altri impianti non funzionano a pieno regime o sono stati parzialmente o del tutto disattivati, con la conseguenza che 5,5 milioni di metri cubi di acque reflue prodotte dalle colonie non ricevono alcun trattamento, riversandosi nelle vallate palestinesi.

Ma anche il 90% delle acque reflue prodotte dai palestinesi non viene trattato. In questo caso le regole del gioco le detta ancora Israele: la cosiddetta Amministrazione civile (formata da militari) negli ultimi 15 anni non ha approvato progetti per gli impianti di depurazione dei liquami urbani, presentati da istituzioni palestinesi, con i fondi europei o internazionali; in altri casi li avrebbe approvati solo con la condizione di poter collegare a quegli stessi impianti anche le colonie. Sempre Israele ha imposto all’Autorità Palestinese di costruire impianti all’avanguardia (non usati nemmeno in Israele) che rispondono a parametri che neanche l’Organizzazione Mondiale della Sanità richiede; cosa che fa aumentare i costi di costruzione, operativi e di mantenimento. Con la conseguenza che sia USA che Germania, principali finanziatori di tali impianti, hanno ridotto in modo considerevole i finanziamenti ai palestinesi per questo tipo di progetti.

Sempre ieri la Seconda Commissione dell’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato una risoluzione che per il quinto anno consecutivo chiede a Israele di risarcire il Libano per il bombardamento sulla costa mediterranea della centrale elettrica di El-Jiyeh – durante la guerra del 2006 – che ha causato enormi danni all’ambiente marino e inquinato ampie porzioni del territorio circostante. Nena News

giovedì 18 novembre 2010

TRIBUNALE RUSSEL

COMUNICATO STAMPA



SECONDA SESSIONE INTERNAZIONALE DEL TRIBUNALE RUSSELL PER LA PALESTINA



LONDRA 20 - 22 Dicembre 2010



“La complicità delle compagnie e delle aziende nelle violazioni della Legalità Internazionale e dei Diritti Umani compiute dallo Stato di Israele”





Dall' Italia parteciperà una delegazione di cittadine e cittadini ita tra cui Luisa Morgantini, già Vice Presidente del Parlamento Europeo, dell' Associazione per la Pace e Gianni Tognoni del Tribunale Permanente dei Popoli - Fondazione Internazionale Lelio Basso.



***

Si svolgerà a Londra, dal 20 al 22 novembre 2010 presso la sede della Law Socety, Cancery Lane, la Seconda Sessione Internazionale del Tribunale Russell sulla Palestina, dopo l’esperienza ed il successo della prima Sessione, ospitata a Barcellona dal 1° al 3 febbraio 2010.

La Seconda Sessione - che vedrà nuovamente una Giuria di comprovata competenza e statura morale ascoltare numerose testimonianze - avrà per tema l’accertamento delle eventuali responsabilità e complicità delle compagnie e delle aziende, sia israeliane che internazionali, nelle violazioni alla Legalità Internazionale e ai Diritti Umani commesse da Israele attraverso l’occupazione militare dei Territori Palestinesi.



Dopo aver accertato quali siano le responsabilità e gli obblighi cui devono sottostare le corporazioni e le aziende in base al Diritto Internazionale, la Sessione del Tribunale Russell per la Palestina valuterà la condotta di diverse compagnie in base a molteplici aspetti delle violazioni dei diritti del popolo palestinese commesse da Israele. Il Tribunale inoltre cercherà di scoprire quale sia il sistema di fondo che permette a queste corporazioni di porre in essere un comportamento illecito, e di capire se gli Stati e gli Organismi Internazionali possano esserne a loro volta considerati responsabili.



Nel corso della Sessione, la Giuria esaminerà i seguenti casi:



- Corporazioni o aziende che forniscono servizi concreti ed infrastrutture che supportino gli insediamenti illegali israeliani nei Territori Palestinesi Occupati, sia in Cisgiordania che a Gaza che a Gerusalemme Est;



- Banche straniere e altri Istituti di Credito stranieri che forniscono servizi finanziari agli insediamenti illegali e alle Banche israeliane per la costruzione degli insediamenti;



- Compagnie straniere che producono i propri beni di consumo all’interno degli insediamenti illegali e delle zone industriali in Cisgiordania, e le compagnie israeliane che esportano prodotti agricoli e ortofrutticoli dagli insediamenti e dalle zone industriali in Cisgiordania;



- Compagnie straniere coinvolte nell’esportazione di armi e infrastrutture di guerra, occupazione, colonizzazione e repressione nei Territori Palestinesi Occupati, e compagnie israeliane che esportano armi e knowledge di repressione all’estero.





Così come nel corso della Sessione Internazionale di Barcellona, esperti e testimoni saranno invitati a presentarsi di fronte alla Giuria. Tutte le compagnie, le aziende e le corporazioni la cui condotta verrà presa in esame nel corso della Sessione sono state invitate a prenderne parte per difendere la propria posizione, prima che la Giuria raggiunga le sue conclusioni e le esponga in conferenza stampa.



Le seguenti personalità hanno confermato la propria partecipazione come membri della Giuria:





Mairead Corrigan Maguire, premio Nobel nel 1976, Irlanda del Nord

John Dugard, Docente di Diritto Internazionale, già inviato speciale per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi, Sud Africa

Ronald Kasrils, scrittore e attivista, Sud Africa

Michael Mansfield, Penalista, Presidente della Haldane Society of Socialist Lawyers, Inghilterra

José Antonio Martin Pallin, Giudice Emerito della Corte Suprema, Spagna

Cynthia McKinney, già membro del Congresso Statunitense, Partito Verde, Stati Uniti

Aminata Traoré, autrice e già Ministro della Cultura, Mali

Alice Walker, poetessa e scrittrice, Stati Uniti





Le testimonianze saranno rese il 20 e 21 novembre presso la sede della Law Socety, Cancery Lane, Londra. Le conclusioni della giuria saranno invece rese note il 22 novembre nel corso di una conferenza stampa presso la sede di Amnesty International – Human Rights Action Center, New Inn Yard, Londra.




Nel corso della Sessione sarà possibile richiedere interviste con gli organizzatori, i testimoni e i membri della Giuria.

Il Comitato Nazionale di sostegno al Tribunale Russell per la Palestina


Per info: Luisa Morgantini +39 348 3921465

Per richieste di interviste e accrediti:
Paul Collins
+44 (0)20 7342 5054
+44 (0)7983 550728
PCollins@waronwant.org
www.russelltribunalonpalestine.com











--

mercoledì 17 novembre 2010

L'ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI PREMIA IL "REMEDIAL EDUCATIONAL CENTER" DI GAZA

INCONTRO PUBBLICO

VENERDI’ 19 NOVEMBRE alle ore 20.30 c/o la SALA VERDE in CORSO MATTEOTTI 14-MILANO

“LE CONDIZIONI DI VITA NELLA STRISCIA DI GAZA E LE ATTIVITA' DEL REMEDIAL EDUCATION CENTER"

dr.Husam Hamdouna (Direttore, Remedial Education Center, R.E.C., Gaza)

dr. Alaa Jarada (Psicologo, Remedial Education Center, R.E.C., Gaza)

A scuola di democrazia di Marina Forti da il Manifesto del 14/11/2010

Tra Gaza City e il campo profughi di Jabalia, il «Remedial Education center» è una scuola molto speciale. Indipendente e non dottrinaria, insegna a bambine e bambini a sviluppare senso critico e partecipazione, accettare le differenze e aprirsi al mondo, ci dice il direttore Husan Hamdouna. A Gaza isolata «quello che più ci manca è la libertà di uscire»



Per molti aspetti, il Rec di Gaza è una scuola d'avanguardia: un esperimento di pedagogia fondato su principi di partecipazione e inclusione, apertura al mondo e senso critico. E questo in un contesto per lo meno difficile: il Remedial Education Centre si trova a est di Jabalia, agglomerato urbano che include una cittadina di 85mila abitanti e un campo di profughi palestinesi - quelli che nel 1948 dovettero sfollare dal territorio diventato il nuovo stato di Israele. Allora nel campo di Jabalia arrivarono 35mila profughi; oggi sono 108 mila persone, sempre nello stesso chilometro e mezzo quadrato. Quattro chilometri a sud c'è Gaza city, mezzo milione di abitanti; a nord i villaggi di Beit Hanoun o Beit Lahia, a ridosso del confine con Israele.

Da tutta questa zona così densamente popolata vengono i circa 170 allievi del Rec, dai piccoli dell'asilo nido a ragazzi di 14 e 15 anni, maschi e femmine. E c'è voluta tutta la dedizione di un piccolo gruppo di insegnanti, psicologi e operatori sociali per far crescere un simile esperimento educativo in un contesto così travagliato, fino a farne un'istituzione civile apprezzata da tutti.

«Ai nostri operatori spesso dico di ricordare la nostra infanzia», ci dice Husam Hamdouna, uno dei fondatori e oggi direttore del Rec: «Gran parte di noi non ha vissuto una vera infanzia. Ma possiamo riviverla, e recuperarla, attraverso questi bambini». Hamdouna, insieme a Jaradh Alaa, psicologo di formazione, in questi giorni è in Italia: venerdì a Roma hanno ricevuto dall'Accademia nazionale dei Lincei il premio attribuito al Rec dalla Fondazione Antonio Feltrinelli per un'opera «di eccezionale valore umanitario».

E' cominciato tutto con una lettera di accredito e 5.000 dollari di finanziamento dall'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni unite per l'assistenza ai profughi palestinesi, spiega Hamdouna. Era il 1993, verso la fine della prima Intifada, e la striscia di Gaza era sotto occupazione israeliana. In sette tra insegnanti e operatori sociali avevano presentato un progetto di sostegno educativo a bambini con difficoltà di aprendimento. «A volte si tratta di ritardi mentali più o meno gravi, a volte sono le conseguenze di traumi o difficoltà sociali. In ogni caso, la nostra idea è che per aiutare bambini con difficoltà non bisogna separarli, ma al contrario farli lavorare insieme agli altri. E questo va a vantaggio anche di quelli "normali", che imparano ad accettare le differenze. In fondo, l'educazione ai diritti umani comincia così», dice Hamdouna.

«Spesso inventiamo attività, magari parlando del cibo o delle abitudini quotidiane, per insegnare ai ragazzi che esistono altre culture, persone che parlano altre lingue, fanno cose diverse. Questo si fa nelle aule e fuori, puntiamo a promuovere la partecipazione di tutta la comunità». Parla di «community participation», di campi estivi. «Credimi: i bambini sono ricettivi, capiscono e accettano questi discorsi».

Oggi il Rec ha 62 operatori («in gran parte donne») insegnanti, assistenti sociali, psicologi, educatrici. Ha la cooperazione di gruppi italiani come Edicaid di Rimini e Salaam Ragazzi dell'Olivo di Milano; l'Unrwa a volte finanzia progetti specifici.

Per affermare il "diritto all'istruzione", dice il direttore del Rec, «non basta dire che i bambini sono iscritti a scuola. Bisogna che siano in grado di frequentare, con il sostegno necessario. Ci sono molte scuole a Gaza: quelle dell'Unrwa, quelle per i ceti sfavoriti, quelle "buone", ma noi crediamo che invece di separare per classe sociale bisogna integrare». Bisogna superare l'educazione dottrinaria impartita dalle istituzioni tradizionali come le scuole religiose, dice. Insiste sulla partecipazione: «Siamo circondati da enti per la "protezione" dei bambini, ma non è quello che ci interessa. Ovvio, i bambini vanno protetti quando sono esposti a pericoli. Ma quello che ci interessa e incoraggiare la loro capacità di partecipare, a scuola, in aula: imparare a lavorare insieme, discutere, scegliere, avere un giudizio». Per tutto questo è essenziale il rapporto con le famiglie: «Siamo riusciti a stabilire una buona cooperazione», dice Hamdouna, anche se è più facile parlare con le madri che con i padri («gli uomini sono meno capaci di cambiare, è il retaggio di una società maschile»).

Il momento più delicato della scuola, ricorda Hamdouna, è stato l'attacco dell'esercito israeliano nel dicembre 2008-gennaio 2009, l'offensiva «piombo fuso»: la scuola fu devastata, un bambino ucciso, l'asilo infantile vandalizzato. «Pensate: sulla lavagna i soldati avevano scritto "sorry ragazzi, abbiamo distrutto i vostri giocattoli. Siete nati nel posto sbagliato nel momento sbagliato". Abbiamo organizzato un incontro con le famiglie per discuterne e infine chiesto di non dire ai bambini che i soldati israeliani avevano distrutto i loro giochi: per non instillargli odio e desiderio di vendetta. Non vogliamo allevare una generazione che odia».

Istruzione non dottrinaria, bambini e bambine, partecipazione, spirito critico. Ma che rapporti ha una scuola così evidentemente laica e indipendente con le autorità? In quasi 18 anni di vita il Rec è passato dal regime di occupazione israeliana alla giurisdizione dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), a quella di Hamas. «Come ong educativa, nel '97 abbiamo chiesto e ottenuto il riconoscimento giuridico all'Anp, dipartimento affari sociali e istruzione. Ci hanno chiesto però di registrarci presso i servizi di sicurezza, e abbiamo rifiutato: siamo una istituzione civile, abbiamo risposto, facciamo un lavoro professionale. Questa indipendenza ci ha permesso di passare attraverso la rottura tra Fatah e Hamas, che ha lacerato la società palestinese in modo che forse non immaginate: con il nostro lavoro abbiamo il rispetto delle famiglie di entrambe le parti».

Nella società palestinese, spiega Hamdouna, stenta ad affermarsi l'idea di welfare pubblico: «Di solito sono i partiti o le moschee che provvedono assistenza alle famiglie dei propri sostenitori: coloro che non "appartengono" a un partito sono i più vulnerabili, costretti a umiliarsi andando a implorare aiuto. Noi assistiamo tutti senza differenze, pensiamo che sia dovere di un'istituzione sociale. Anche per questo siamo rispettati». La pressione dei partiti sulle ong sociali e civili è forte, ammette il direttore del Rec: «La nostra lezione è che essere indipendenti è una protezione».

Il vero problema di Gaza, conclude Hamdouna, è l'isolamento. «Ciò che davvero manca agli abitanti della Striscia è la libertà di circolare. Non poter andare a curarsi, mandare i figli a studiare, muoversi, pesa più di ogni altra cosa. Mancano molte cose: materiale sanitario negli ospedali, materiale didattico per le scuole, antiparassitari per l'agricoltura. Ma se parli di vita quotidiana, il cibo c'è e attraverso i tunnel l'essenziale arriva. Muoversi, uscire: questo è il sogno di tutti».

-----------------------------------------------------------------------------------------------------------

Laica e aperta. Una scuola di Gaza premiata a Roma di Giorgio Forti - Il Manifesto, 11 Novembre 2010

È insolito che un'importante istituzione nazionale italiana dia un riconoscimento a una'istituzione palestinese, per di più di Gaza, visto l'atteggiamento sbilanciato a favore di Israele tenuto da tempo dalla politica estera italiana. Lo ha fatto l'Accademia Nazionale dei Lincei, che ha assegnato il premio «Antonio Feltrinelli» per «un'impresa eccezionale di alto valore morale e umanitario» per 2009 a una scuola di Gaza, il Remedial Educational Center (Rec): il direttore di questa scuola, Husam Hamdouna, riceverà il riconoscimento domani nella sede dell'Accademia, a Roma, alla presenza del presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Il premio (250mila euro), finanziato dalla Fondazione Feltrinelli, è attribuito da una commissione eletta dall'Accademia stessa.

Il Rec è nato per fornire istruzione e assistenza a bambini e scolari, dalla scuola materna alla fine della scuola media, selezionati privilegiando l'istruzione dei più diseredati. Questa scuola non comune è diventata nel corso degli anni anche un punto di riferimento per la formazione di educatori e insegnanti della Striscia di Gaza. Grazie a criteri educativi scientifici e alla grande professionalità e dedizione del suo direttore e di tutto il personale, ha potuto svilupparsi adattando i principi alle condizioni reali del difficilissimo ambiente di Gaza, assediata e isolata dal mondo. Per il Rec infatti non basta che tutti i bambini siano iscritti a una scuola: «Riteniamo che "diritto all'istruzione" significhi fornire un'istruzione di alta qualità che soddisfi le esigenze educative di tutti i bambini, senza discriminazioni e senza distinzione di razza, religione, sesso e status socioeconomico. Questo richiede di tener conto dei diversi livelli e delle diverse capacità dei bambini, in modo da fornire un'educazione all'interno della scuola che sia ambiente naturale per la crescita dei bambini e il loro sviluppo», scrive Hamdouna. Significa ad esempio rivolgersi alle famiglie, spesso le più sfavorite di Gaza, con dialogo e supporti edicativi. Significa poi un continuo aggiornamento di metodi e invenzione di attività a favore dei bambini, per favorire «la costruzione di una personalità completa e capace di autostima e accettazione degli altri, per la costituzione di una società civile democratica».

Leggendo i resoconti dell'attività del Rec, e parlando con questo singolare direttore di una scuola di Gaza, tornano alla mente vecchie parole scritte e messe in pratica da Don Milani nella scuola di Barbiana, e oggi cancellate dalla pochezza di mente e aridità di cuore di chi governa il nostro paese all'esclusivo servizio del mercato.








Salaam Ragazzi dell'Olivo - Comitato di Milano - Onlus
Salaam Children of Olive Tree - Milan Committee - Onlus
20159 Milano - Italy - via Pepe 14
tel +39 339 8451825
E-mail comitatosalaam@virgilio.it





--

martedì 16 novembre 2010

A Gaza continua nel silenzio il lento genocidio

MORTE A GAZA: CRIMINI O ATTI DI GUERRA?
Dall'inizio dell'anno 56 palestinesi sono stati uccisi a Gaza dalle forze israeliane, 22 dei quali civili innocenti. 222 i feriti.

ANALISI DI CHANTAL MELONI*

Gaza, 15 novembre 2010, Nena News (le foto sono di Chantal Meloni) – Il report settimanale sulla protezione dei civili redatto da OCHA, l’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari sul territorio palestinese occupato, è un bollettino di morte .

I numeri sono impressionanti. Nella settimana tra il 3 e il 10 Novembre 2010, ad esempio, 23 civili palestinesi sono stati feriti dalle forze armate israeliane, di cui la maggior parte durante manifestazioni di protesta a Gerusalemme Est. Due militari israeliani sono rimasti feriti nello stesso periodo. Il numero totale di palestinesi – civili non prendenti parte alle ostilità - feriti da parte dell’esercito israeliano dall’inizio dell’anno ammonta a 1051 (il 40 % in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente), di cui quasi la metà in relazione a scontri avvenuti durante manifestazioni a Gerusalemme Est. Da notare è che tra questi feriti circa un quarto è rappresentato da minori (237 dall’inizio dell’anno). Nella sola ultima settima 19 minori – tra i 10 e 15 anni – sono stati feriti da proiettili rivestiti di gomma sparati dai soldati israeliani durante gli scontri a Gerusalemme.

Ma è in particolare la lettura della parte del report relativa alla Striscia di Gaza che dà le dimensioni del bollettino di morte: dall’inizio dell’anno 56 palestinesi sono stati uccisi a Gaza dalle forze israeliane, più di un terzo dei quali (22, secondo le stime di OCHA) civili non prendenti parte alle ostilità. Dei 222 feriti ben 196 sarebbero civili non coinvolti nel conflitto, sempre secondo le stime dell’agenzia ONU.

La maggior parte di tali incidenti ha luogo nella cosiddetta “zona cuscinetto” (buffer zone), improprio termine che indica quella porzione di terra lungo tutto il confine nord-orientale della Striscia ove Israele ha imposto una sorta di “terra di nessuno” dalle dimensioni mai ufficialmente chiarite. Quel che è certo è che si estende ben oltre i 300 metri menzionati nei volantini di avvertimento distribuiti occasionalmente dall’esercito israeliano: l’OCHA considera che le restrizioni di accesso si estendano fino a 1500 metri dal confine, una porzione di terra che rappresenta il 17% del territorio della Striscia ed oltre 1/3 delle terre coltivabili .

Nella “zona cuscinetto” si spara a vista, e talvolta senza avvertimento, non importa se si tratta di agricoltori che cercano di raccogliere qualche ortaggio nei loro campi ormai impossibili da coltivare; di disoccupati che coi loro carretti vanno a raccattare pezzi di macerie e resti di metallo da riutilizzare per opere di edilizia improvvisata (una delle attività che rende qualche soldo sul mercato nero di Gaza, data la cronica mancanza di cemento e altri materiali da costruzione); di giovani, donne, attivisti internazionali e persino bambini che protestano contro l’imposizione della “zona cuscinetto” e conseguente sottrazione di terre.

Da notare è anche che a differenza di quanto avviene a Gerusalemme e in Cisgiordania, ove alle manifestazioni si sparano – normalmente – lacrimogeni e proiettili rivestiti di gomma, qui a Gaza – anche contro manifestanti armati della sola bandiera – si spara con “live ammunitions”, proiettili veri insomma.

In certi casi casi le uccisioni a Gaza sarebbero “mirate” (e giustificate a parere delle autorità israeliane) all’eliminazione di appartenenti a gruppi armati palestinesi. Ad esempio il 3 novembre l’esercito israeliano ha ucciso un uomo sospettato di appartenere ad un gruppo armato palestinese attaccandolo con un ordigno esplosivo da un aereo mentre guidava la sua auto nel mezzo di Gaza city. Una donna che si trovava nelle vicinanze è rimasta ferita nel corso dell’attacco.

Sulle legittimità di tali omicidi mirati, i c.d. “targeted killings”, si discute in diritto internazionale da anni; tale pratica è infatti ormai in auge non più solo nel contesto del conflitto israelo-palestinese ma si è allargata a tutta la amorfa guerra al terrorismo che si combatte da parte degli Stati Uniti e i suoi alleati in Afghanistan, Pakistan, Iraq e paesi limitrofi, nonchè da parte della Russia in particolare contro il terrorismo ceceno.



Le problematiche giuridiche relative a tale pratica sono ben riflesse nel rapporto presentato lo scorso giugno allo Human Rights Council dal professor Philip Alston, nella sua qualità di Special Rapporteur nominato dall’ONU “on extrajudicial, summary or arbitrary executions”, che mette in luce come in assenza di stretti requisiti i targeted killings siano illegali e possano costituire crimini di guerra. In particolare, in base alle regole di diritto umanitario internazionale, nel contesto di un conflitto armato (di carattere internazionale e non) il ricorso agli omicidi mirati è legale solo nei confronti di un “combattente” o di un civile nel momento in cui prende parte direttamente al conflitto. L’eliminazione fisica deve inoltre essere militarmente necessaria e l’uso della forza deve essere proporzionato “così che ogni vantaggio militare atteso sia considerato alla luce del danno atteso ai civili nelle vicinanze” e “tutto il possibile deve essere fatto per evitare errori e minimizzare i danni ai civili”.

Al di fuori di un contesto di conflitto armato , il regime di protezione internazionale dei diritti umani fondamentali – ed in particolare del diritto alla vita – comporta che i targeted killings, intesi come l’uccisione intenzionale, premedita e deliberata di un “criminale” (ivi compreso un “sospetto terrorista” o “membro di un gruppo armato”) da parte delle forze dell’ordine, non possa mai essere legittima, se non in risposta ad un immediato pericolo che renda il ricorso alla forza letale necessario in ordine a salvare vite umane.

Il punto è che, sebbene l’uso della forza nei conflitti amati internazionali possa offrire in alcune situazioni una giustificazione per il ricorso alla pratica dei targeted killings, la legittimità nel caso concreto dipende dalle specifiche circostanze e da chi è il soggetto di cui si vuole l’eliminazione fisica. Particolarmente problematica è la situazione in cui contrapposto ad un esercito regolare si trova un gruppo armato amorfo, il che rende difficile individuare chi siano i civili “che partecipano direttamente alle ostilità”.

È in ogni caso un principio riconosciuto in diritto umanitario internazionale che il tipo e la quantità di forza utilizzata in una operazione militare devono essere limitate a ciò che è in concreto necessario per raggiungere un legittimo obiettivo militare nelle circostanze del caso . Come affermato dal report di Alston “specialmente in un contesto di uccisioni mirate di civili che prendono direttamente parte alle ostilità, e dato che il diritto umanitario internazionale non stabilisce un illimitato diritto di uccidere, l’approccio migliore per uno Stato è quello di minimizzare l’uso della forza letale per quanto permesso dalle circostanze”.

Il punto è che – detto in parole semplici – in base alle regole di diritto internazionale ed ai principi generali di diritto penale uccidere qualcuno anziché procedere alla sua cattura o al suo arresto è illegale in tutti quei casi in cui il ricorso alla forza letale non era assolutamente necessario per proteggere altre vite e non vi fossero altri mezzi a disposizione per neutralizzare il pericolo.

In una situazione come quella palestinese, e di Gaza in particolare, su cui Israele mantiene l’effettivo controllo, come dimostrato tra l’altro dalle continue incursioni dei carri amati israeliani proprio nella “zona cuscinetto”, procedere alla cattura piuttosto che all’uccisione di combattenti nemici sarebbe nella maggior parte dei casi non solo possibile ma anche doveroso. Ancora il rapporto di Alston sottolinea come misure non letali sono specialmente appropriate quando uno Stato ha il controllo sull’area dove è condotta l’operazione militare, quando le forze armate operano contro determinati individui in situazioni comparabili a quelle di polizia (peacetime policing)” .

Occorre chiarire che diverso è il caso del ricorso alla forza in situazioni di immediato pericolo (anche in assenza di scontro a fuoco). Vi sono ovviamente casi limite, di difficile valutazione. Ad esempio il 27 ottobre 2010 un uomo sarebbe stato ucciso nella striscia di Gaza da un colpo di mortaio israeliano mentre insieme ad altri uomini armati cercava di installare un esplosivo a Beit Hanoun, vicino al confine nord tra Gaza ed Israele. Ipotizzando che le circostanze così come riportate dalle autorità israeliane siano corrette, e che quindi vi fosse un immediato pericolo per la vita dei soldati al confine, in ipotesi come queste il ricorso alla forza, anche letale, potrebbe essere giustificato in base ai principi di diritto bellico e di diritto penale. Come potrebbe essere legalmente giustificata una risposta immediata e proporzionata contro coloro che lanciano razzi o colpi di mortaio dal nord della striscia di Gaza verso il sud di Israele, compreso contro le postazioni militari al confine.

Troppo spesso tuttavia tale imminente pericolo ed il requisito della proporzionalità appaiono del tutto assenti nelle operazioni militari condotte dall’esercito israeliano. Lasciando da parte l’operazione ‘Piombo Fuso’ del dicembre 2008-gennaio 2009, che merita un capitolo a parte, non si giustifica in base alle leggi di guerra il fuoco che colpisce in modo indiscriminato nella “zona cuscinetto” civili disarmati in assenza di ogni ogni necessità e proporzionalità. Come non si giustifica di regola il ricorso alla forza letale per eliminare presunti appartenenti a gruppi armati palestinesi al di fuori di qualsiasi confronto a fuoco; senza contare la perdita di innocenti vite di civili uccisi per errore o considerati fatali danni collaterali delle operazioni militari israeliane. Basti ricordare due “incidenti” avvenuti nel mese di luglio di quest’anno: il 12 luglio una giovane madre di 5 bambini - Nema Abu Said – è stata uccisa nella sua casa, ed altri 3 membri della sua famiglia feriti, dalle flechette esplose dall’ordigno in un’operazione – per stessa ammissione israeliana – rivolta verso il target sbagliato; il 21 luglio a Beit Hanoun contestualmente all’uccisione di due giovani uomini appartenenti a forze armate palestinesi sono stati gravemente feriti, sempre dalle flechette, 8 civili tra cui 5 bambini e una donna .

Purtroppo la situazione è tale anche perchè manca il giudice che attualmente possa (o voglia) decidere su cosa sia legittimo e cosa invece criminale in tale contesto. È eloquente in proposito il caso dell’ “assassinio mirato” (le virgolette son a questo punto d’obbligo) di Salah Shehadeh (leader di Hamas, ucciso dall’aviazione israeliana con una bomba da una tonnellata sganciata sull’edificio ove viveva, nella notte del 22 luglio 2002), ove hanno perso la vita 14 civili e oltre 150 sono rimasti feriti e che nonostante sia stato portato immediatamente dalle vittime davanti ai giudici israeliani (e poi anche a quelli spagnoli), tra un rimando, una sospensione e un cambio di giudice, aspetta da oltre 8 anni di vedere l’inizio delle indagini.

* Ricercatrice di diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano

NOTE

“Protections of Civilians weekly reports” di OCHA sono consultabili su http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104

Si veda il report di OCHA e World Food Program “The Humanitarian Impact of Israeli-Imposed Restrictions on Access to Land and Sea in the Gaza Strip, Agosto 2010: http://www.ochaopt.org/Reports.aspx?id=14

A/HRC/14/24/Add.6, par. 76, che a sua volta fa riferimento alle Linee-guida della ICRC sulla interpretazione del concetto di “civile che prende direttamente parte alle ostilità”.

Si vedano i periodici report settimanali del Palestinian Centre for Human Rights: http://www.pchrgaza.org.

Casa della famiglia Abu Said colpita da migliaia di fleshettes

lunedì 15 novembre 2010

USA-Israele uniti nella strage

Stati Uniti portano in Israele altri 400 milioni di dollari di equipaggiamenti militari di emergenza

Attrezzature a disposizione di Israele in caso di emergenza; l'aumento porterà il valore del materiale militare americano accumulato in Israele a 1,2 miliardi di dollari entro il 2012.

di Anshel Pfeffer

Il governo americano porterà in Israele, nei prossimi due anni, un ulteriore valore di 400 milioni di dollari di equipaggiamenti militari di emergenza.
L'attrezzatura, che comprende le cosiddette bombe intelligenti, sarà a disposizione di Israele in caso di emergenza.

Il mese scorso, il Congresso USA ha approvato l'aumento che porterà il valore delle scorte di equipaggiamenti militari americani in Israele entro il 2012 a 1,2 miliardi di dollari. La storia è stata riportata questa settimana dalla reporter in Israele della rivista Defense News, Barbara Opall-Roma.
f-35 lightning ii



Gli Stati Uniti portano armi in Israele in virtù di una clausola speciale del diritto che disciplina gli aiuti americani con cui si riservano scorte di guerra per gli alleati. Secondo la clausola, l'equipaggiamento può essere utilizzato dalle forze statunitensi in tutto il mondo e, in caso di emergenza, dai militari nel paese in cui è immagazzinata l'attrezzatura.

La clausola, originariamente, era destinata a consentire l'uso del materiale americano alla Corea del Sud in caso di un attacco a sorpresa da parte della Corea del Nord. Il tipo di armi stoccate in Israele è deciso attraverso il dialogo tra le Forze di Difesa di Israele e il Comando Europeo dell'esercito statunitense.

La questione è stata sollevata, la scorsa settimana, nelle discussioni durante la visita al Pentagono, a Washington, da parte del Capo della logistica delle IDF, il Mag. Gen. Dan Bitossi.

L'accordo tra le due forze armate include anche le condizioni alle quali l'esercito israeliano può utilizzare l'apparecchiatura.

Si ritiene che gran parte delle attrezzature sarà costituita da armi di precisione da lanciare dal cielo. Il capo di stato maggiore dell'IDF, Gabi Ashkenazi, questa settimana ha detto che le future guerre di Israele avranno bisogno di molte armi di precisione per colpire obiettivi urbani dal cielo senza ferire civili.

Durante l'Operazione Piombo Fuso, l' 81 per cento dei missili e delle bombe lanciate dal cielo dell'esercito israeliano erano del tipo di precisione.

L'uso delle armi americane è consentito con l'autorizzazione dell'amministrazione americana; Israele ha usato queste armi durante la seconda guerra del Libano.

Le armi sono state portate in Israele, per la prima volta, nel 1990, quando il massimale fissato era di 100 milioni di dollari, poi è stato alzato a $ 300 milioni durante la prima guerra del Golfo e poi è stato rilanciato a $ 400 milioni. E' stato raddoppiato nel 2007, dopo la seconda guerra in Libano, e, com'è noto, raggiungerà 1,2 miliardi dollari entro il 2012.

In Israele si presume che l'amministrazione americana abbia chiesto al Congresso di aumentare il valore degli equipaggiamenti militari di emergenza per segnalare il suo costante impegno per la sicurezza di Israele. Si ritiene inoltre che l'aumento vada inteso come un'indicazione a Israele che non avrà bisogno di preparare un attacco a sorpresa contro le strutture nucleari iraniane perché potrebbe mettere a rischio la pace.

Israele si aspetta che sia consentito un suo maggiore coinvolgimento nella scelta dei tipi di attrezzature e di armi che devono essere conservati sul suo territorio, e una maggiore libertà nell'usarlo in caso di emergenza. Le apparecchiature sono tenute in basi speciali che sono sotto la supervisione americana.

L'aeroporto Ben-Gurion e una base a Nevatim sono pronte per l'arrivo per via aerea di scorte di armi statunitensi, sia durante la guerra che in tempo di pace.

L'accordo sulle scorte aggiuntive è parte del significativo miglioramento nelle relazioni di sicurezza tra Israele e gli Stati Uniti che ha visto anche un maggior numero di esercitazioni congiunte, durante le quali si è addestrato anche il comando congiunto delle operazioni complesse. Il rafforzamento delle relazioni nel campo della sicurezza prevede anche l'assegnazione di $ 500 milioni per finanziare l'acquisto di una batteria Iron Dome e la firma, due mesi fa, di un accordo per fornire la IAF con il primo squadrone dei futuri F-35.

(tradotto da barbara gagliardi)

Non gli basta distruggere le case lasciando centinaia di famiglie senza tetto si divertono pure!

VIDEO: SOLDATI GIOISCONO PER CASE DISTRUTTE
Guarda il filmato girato dagli stessi militari israeliani durante i bombardamenti di due anni fa contro Gaza

Gerusalemme, 12 novembre 2010, Nena News – A distanza di quasi due anni dall’inizio dell’offensiva “Piombo fuso”, che causo’ circa 1.400 e 5.000 feriti tra i palestinesi, continuano ad emergere documenti, anche filmati, su crimini, violenze ed abusi compiuti dalle Forze Armate israeliane nei centri abitati della Striscia di Gaza. Nel videoche propone Nena News (dal titolo eloquente “La banalita’ del male”, sottotitolato in inglese), messo in rete da pacifisti israeliani, l’artiglieria prende di mira alcune case in una localita’ non precisata di Gaza. Esplosioni e distruzioni si materializzano tra risate, battute ed esortazioni a continuare il bombardamento di alcuni soldati israeliani che assistono da lontano e girano “per ricordo” il film di quanto accade. Nena News



http://www.nena-news.com/?p=4902

VIDEO: SOLDATI GIOISCONO PER CASE DISTRUTTE
Guarda il filmato girato dagli stessi militari israeliani durante i bombardamenti di due anni fa contro Gaza

Gerusalemme, 12 novembre 2010, Nena News – A distanza di quasi due anni dall’inizio dell’offensiva “Piombo fuso”, che causo’ circa 1.400 e 5.000 feriti tra i palestinesi, continuano ad emergere documenti, anche filmati, su crimini, violenze ed abusi compiuti dalle Forze Armate israeliane nei centri abitati della Striscia di Gaza. Nel videoche propone Nena News (dal titolo eloquente “La banalita’ del male”, sottotitolato in inglese), messo in rete da pacifisti israeliani, l’artiglieria prende di mira alcune case in una localita’ non precisata di Gaza. Esplosioni e distruzioni si materializzano tra risate, battute ed esortazioni a continuare il bombardamento di alcuni soldati israeliani che assistono da lontano e girano “per ricordo” il film di quanto accade. Nena News



http://www.nena-news.com/?p=4902

VIDEO: SOLDATI GIOISCONO PER CASE DISTRUTTE
Guarda il filmato girato dagli stessi militari israeliani durante i bombardamenti di due anni fa contro Gaza

Gerusalemme, 12 novembre 2010, Nena News – A distanza di quasi due anni dall’inizio dell’offensiva “Piombo fuso”, che causo’ circa 1.400 e 5.000 feriti tra i palestinesi, continuano ad emergere documenti, anche filmati, su crimini, violenze ed abusi compiuti dalle Forze Armate israeliane nei centri abitati della Striscia di Gaza. Nel videoche propone Nena News (dal titolo eloquente “La banalita’ del male”, sottotitolato in inglese), messo in rete da pacifisti israeliani, l’artiglieria prende di mira alcune case in una localita’ non precisata di Gaza. Esplosioni e distruzioni si materializzano tra risate, battute ed esortazioni a continuare il bombardamento di alcuni soldati israeliani che assistono da lontano e girano “per ricordo” il film di quanto accade. Nena News



http://www.nena-news.com/?p=4902

sabato 13 novembre 2010

Bambini palestinesi uccisi e abusati Rapporto shock sui coloni israeliani

Bambini palestinesi uccisi e abusati Rapporto shock sui coloni israeliani
di Umberto De Giovannangeli

Si moltiplicano le denunce di aggressioni compiute da coloni israeliani contro ragazzi e bambini palestinesi in Cisgiordania. A rivelarlo è un rapporto di Defence for Children International.

I palestinesi come Nemici mortali. E non importa se il nemico è un ragazzo o un bambino. Vanno colpiti, se possibile eliminati. Agghiacciante. Documentato. Si moltiplicano le denunce di aggressioni compiute da coloni israeliani contro ragazzi e bambini palestinesi in Cisgiordania. A rivelarlo è un rapporto di Defence for Children International (Dci), un'organizzazione non governativa (ong) che si occupa di diritti umani e tutela dell'infanzia. Nel rapporto, che l'Unità ha potuto visionare in anteprima nella sua interezza, si sottolinea come all'aumento della violenza corrisponda l'impunità pressoché totale dei responsabili.


Biennio nero Stando al rapporto, che prende in esame la situazione dell'ultimo biennio, dal 2008 sono almeno 38 gli episodi censiti di attacchi violenti perpetrati da coloni contro minorenni palestinesi, con un bilancio di tre ragazzi uccisi e alcune decine di feriti. In 13 circostanze risulta che i coloni abbiano usato anche armi da fuoco, mentre in una minoranza di casi (otto) i fatti si sarebbero svolti sotto gli occhi (e talora con la complicità) di soldati israeliani presenti sul posto.

Le aggressioni, a quanto ha potuto accertare l'ong, sono concentrate soprattutto nella zona di Hebron e di Nablus, roccaforti degli insediamenti più militanti inseriti nella galassia dell'ideologia ultranazionalista ebraica. Gli autori del rapporto riferiscono delle preoccupazioni manifestate anche dalle autorità civili o militari israeliani per alcune delle aggressioni più clamorose, ma notano come nessuno dei 38 episodi descritti abbia trovato finora un qualsiasi colpevole condannato in tribunale.

Un ragazzo di quindici anni, Mohammed, e suo fratello Bilal, di un anno maggiore, sono stati arrestati a casa loro alle due di notte. Decine di poliziotti erano andati a cercarli, col viso coperto e nascosti tutt'intorno alla casa. Mohammed, dopo essere stato minacciato e picchiato per quattro ore, ha finito per ammettere di essere effettivamente colpevole... colpevole di aver lanciato delle pietre contro i cani dei coloni ebrei insediati dall'altra parte della strada. È stato per questo condannato a sette mesi di prigione. Suo fratello, Bilal, in seguito all'interrogatorio, è stato ricoverato in ospedale per le contusioni interne riportate ed è stato condannato a un anno di prigione per avere lanciato sassi contro le case dei coloni.

Un'altra storia emblematica è quella di Mufid Mansur, un bambino palestinese di 8 anni che era stato investito, l'8 ottobre, da un colono israeliano mentre lanciava pietre contro la sua auto. Quattro giorni dopo, il bimbo è stato prelevato all'alba dalla sua abitazione di Silwan, quartiere periferico di Gerusalemme Est abitato da arabi, ed è stato impedito al padre di accompagnarlo in commissariato. Mufid era stato investito nei giorni scorsi mentre colpiva con delle pietre l'auto di David Beeri, leader di un'organizzazione di estrema destra israeliana, il quale dopo l'incidente è stato fermato e poi rilasciato dalla polizia. Il colono si è giustificato sostenendo di aver investito il bimbo involontariamente, per cercare di sfuggire alla sassaiola di alcuni ragazzini contro la sua vettura. Il padre del bambino aveva invece detto che il bambino non aveva fatto in tempo a scansarsi dalla strada mentre l'auto procedeva ad alta velocità.

CENTO CASI Solo nel 2009, Dci ha investigato su 100 dichiarazioni sotto giuramento rilasciate da bambini palestinesi: il 97% dei bambini hanno dichiarato di avere avuto le mani legate durante gli interrogatori, il 92% hanno detto che avevano gli occhi bendati o che era stato messo loro un cappuccio nero, l'81% hanno detto di essere stati forzati a confessare,- 69% hanno detto di essere stati picchiati e di aver ricevuto dei calci, il 65% che erano stati arrestati tra la mezzanotte e le 4 del mattino, il 50% di essere stati insultati, il 49% che erano stati minacciati o avevano tentato di persuaderli, il 32% sono stati obbligati a firmare delle confessioni scritte in ebraico, lingua che essi non comprendevano, il 26% hanno detto che erano stati obbligati a restare in una posizione assai penosa, il 14% hanno detto di essere stati tenuti in isolamento, il 12% sono stati minacciati di abusi sessuali, E il 4% è stato vittima di abusi sessuali, come quello di stringere loro i testicoli fino alla confessione o di minacciare dei bambini di 13 anni di stupro se avessero rifiutato di confessare «di aver lanciato pietre sulle auto dei coloni israeliani nella Cisgiordania occupata».

Nel maggio 2010, Defence for Children International ha chiesto al Rapporteur speciale dell’ONU sulla tortura di aprire un’inchiesta su 14 casi di abusi sessuali dei quali avevano avuto conoscenza e che erano stati commessi da soldati, investigatori e poliziotti dal gennaio 2009 ad aprile 2010. I bambini vittime di questi abusi avevano da 13 a 16 anni ed erano stati arrestati per aver lanciato pietre che non avevano ferito nessuno.

Fonte: Unità

venerdì 12 novembre 2010

Galilea: razzismo a rotta di collo

LA MILIZIA DI CARMIEL: CACCIA ALL’ARABO
Le città della Galilea si stanno guadagnando il titolo di città tra le più razziste di Israele. A Carmiel ogni notte 150 volontari controllano che gli arabi non entrino in città.

Gerusalemme 10 Novembre 2010 Nena News (foto da Haartez) – In Italia si chiamano ronde, e se ne parla da almeno 10 anni, da quando a Torino e non solo, sono apparsi “i City Angels”, ronde notturne organizzate da privati cittadini contro gli immigrati e sponsorizzate dalla Lega Nord. Nel nord della Galilea, in Israele, la squadra notturna di oltre 150 volontari che da qualche settimana, con turni dalle 20 alle 24 di ogni giorno, pattugliano le entrate della città di Carmiel, controlla che nessun arabo metta piede in città. Si chiamano “City Guard”, pattuglia cittadina, operano in stretta collaborazione con la polizia locale, visionano i documenti di identità di qualunque persona voglia entrare in città, soprattutto se si tratta di arabi. Anche se sul sito del municipio si legge che l’obiettivo della “City Guard” è di “prevenire la criminalità, fermare gli automobilisti ubriachi, scoprire chi fa uso di droghe”.

A lanciare l’allarme è stato il gruppo pacifista Gush Shalom a ottobre, che ha definito i guardiani di Carmiel “una milizia razzista e di destra”. Soprattutto, l’associazione israeliana ha messo in luce come dietro la milizia organizzata, ci sia il vice-sindaco di Carmiel, Oren Milstein, che due anni fa si conquistò la poltrona a colpi di una campagna elettorale razzista anti-araba che proponeva “la salvaguardia del carattere ebraico di Carmiel.” E’ stato del resto lo stesso Milstein a rivelare candidamente, in una sua recente intervista su una pubblicazione di destra, “Be’Sheva”, che “Carmiel è una città ebraica”. Detto, fatto. “E’ stata fondata – ha aggiunto il vice sindaco – con lo scopo di giudaizzare la Galilea. Non è consono per le famiglie arabe, vivere qui. In anni recenti, ci sono stati tentativi dei nostri vicini (arabi) di migrare dai villaggi della Galilea occidentale a Carmiel, un fenomeno che non può essere ignorato”.

Carmiel, fa notare Uri Avenry, ex membro della Knesset e portavoce di Gush Shalom, “è stata costruita espressamente per giudaizzare la Galilea, è situata nel mezzo di proprietà dove una volta c’erano villaggi arabi, più cresce (Carmiel) e più priva di terre gli arabi.” Ma a spaventare Milstein è proprio il fatto che sui 580.000 residenti della Galilea occidentale, il 32% siano arabi.

Gush Shalom ha iniziato una protesta per vie legali contro il vice-sindaco e la creazione della milizia di Carmiel, tanto che la scorsa settimana, dopo aver minacciato di rivolgersi alla Corte Suprema, è arrivata la decisione del sindaco di rimuovere Milstein dal suo incarico. Il 5 novembre, il sindaco Adi Eldar ha sciolto la coalizione del consiglio municipale e ha sostituito Milstein con Rina Greenberg, anche lei di Ysrael Beitenu, il partito della destra nazionalista guidato dal ministro degli esteri Avigdor Liberman, promotore di varie iniziative di legge volte a restringere i diritti della minoranza araba (il 20% in Israele).

Secondo alcune fonti israeliane e in particolare l’agenzia di informazione Ynet, l’ex vice sindaco sarebbe anche l’artefice di un’altra iniziativa a sfondo razzista, la “Purple Email” anche nota sulla stampa come “Informer Email”: avrebbe creato e diffuso su una rivista locale un indirizzo di posta elettronica al quale segnalare i nominativi di residenti ebrei che affittano o vendono immobili a arabi. L’annuncio sarebbe stato pubblicizzato su un giornale locale di Carmiel con il titolo “Carmiel. Una città ebraica”. Milstein si è difeso dichiarando che l’indirizzo e-mail è gestito da un privato ma sempre nell’intervista a “Be’Sheva” ha lasciato intendere che l’iniziativa ha impedito finora la vendita di 30 appartamenti a arabi. E’ stato lo stesso Milstein a citare nell’intervista l’associazione “Taatzumot Israel” (“la potenza di Israele”), un’associazione registrata a Carmiel, il cui sito web dice di occuparsi della “colonizzazione della terra di Israele”.

“Gli ebrei israeliani vivono nel terrore che gli arabi diventino la maggioranza in Galilea” ha detto Avnery, citando “Come giudaizzare la Galilea” un rapporto pubblicato negli anni Sessanta che sollevò scandalo allora, ma che sembra rispecchiare anche le attuali paure.

E infatti come ha fatto notare in un recente editoriale su Haaretz, Gideon Levy, le città della Galilea si stanno guadagnando il titolo di città tra le più razziste di Israele. Safed, a soli 32 km da Carmiel, roccaforte del giudaismo, è stata per giorni sulle pagine della stampa israeliana per l’ “editto” (secondo l’halacha’ cioè il complesso delle norme codificate della legge ebraica) lanciato da uno dei rabbini più anziani della città, Schmuel Eliyahu, che ha intimato i residenti a non vendere né affittare case ai non-ebrei. In un recente incontro, i 18 rabbini della cittadina, hanno parlato di rischio di “assimilazione” facendo riferimento al fatto che uomini arabi escono e frequentano donne ebree, e hanno parlato di “ presa del controllo” da parte degli arabi. A safed, dove il numero degli studenti arabi è arrivato a oltre 1300, in seguito all’espansione del polo universitario, una campagna anti-araba ha invaso i muri della città con poster che incitavano a bruciare la casa di un anziano ebreo, Eliyahu Zvieli, 89 anni, accusato di affittare case a due studenti beduini. Per giorni telefonate anonime lo hanno intimidito e minacciato: “affitti agli arabi? Ti bruciamo casa!” Tvieli arrivò a Safed nel 1950, e ironia della sorte vive nello stesso quartiere del rabbino capo Eliyahu.

Sempre in un editoriale apparso in questi giorni, il giornalista Jonathan Cook, che da anni vive in Galilea, ha diffuso la notizia che il sindaco di Nazareth alta, Shimon Gapso (anche lui nei ranghi del partito Yisrael Beitenu) ha annunciato la costruzione di un quartiere per 300 ultra ortodossi ebrei, per fermare quello che ha definito “deterioramento demografico” (Nena News)

Perché non credo che i progetti di collaborazione scientifica israelo-palestinesi portino alla riconciliazione e alla pace tra i due popoli

Perché non credo che i progetti di collaborazione scientifica israelo-palestinesi portino alla riconciliazione e alla pace tra i due popoli

Angelo Stefanini, 23 luglio 2010

Un caro amico mi scrive stupito per il comunicato della “Campagna degli Studenti Palestinesi per il Boicottaggio Accademico di Israele” (PSCABI) e dell'“Associazione dei Docenti Universitari Palestinesi” (UTAP)[1] che disapprova il progetto di collaborazione tra l’università La Sapienza di Roma, l’università palestinese Al Quds di Gerusalemme e tre università israeliane. L'iniziativa è patrocinata dalla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Esteri italiano con il sostegno dell'UNESCO.

Mi scrive: “...io avevo visto con favore un tentativo di avvicinamento attraverso gli studi tra studenti palestinesi e israeliani. Naturalmente dipende dagli equilibri numerici e il contenuto dell'insegnamento (la sua obiettività). Pur essendo completamente d'accordo sul boycott verso l'attività governativa (e certa cultura israeliana), io sono convintamente dell'opinione che è attraverso l'educazione delle  future generazioni alla tolleranza, alla convivenza e finalmente alla condivisione che si costruisce la pace. Naturalmente ci sono delle premesse politiche e strutturali che vanno affrontate su altri piani (Gaza, assedio, repressione, muri,  colonie in territorio palestinese, etc..)...”

Questa è la mia risposta:

Sono naturalmente d’accordo sulla necessità di educare i giovani alla tolleranza, alla convivenza e alla mondialità per costruire la pace, anche creando opportunità di incontro e di scambio che superino l'“oggetto della contesa” tra avversari. Sono anche convinto, tuttavia, che per ottenere risultati sia necessario lavorare in territori neutri, equidistanti e simmetrici. Per neutralità non intendo tanto la località geografica o nemmeno il contenuto su cui fare incontrare le parti.

La scienza e la medicina sono spesso utilizzate come terreno e contenuto neutrale utile per fare incontrare i contendenti, nella certezza che esse possano servire da veicolo per scambiare non solo conoscenze e tecnologie, ma anche valori comuni all’intero genere umano destinati a fare scoccare la scintilla della pace. E così nascono progetti come “Health as a Bridge for Peace”, “Science for Peace” e lo sventurato, a mio avviso, e inevitabilmente travagliato “Saving Children - Medicine for Peace” delle regioni Toscana ed Emilia-Romagna con il Peres Centre israeliano.

L’argomento della scienza come ponte per la pace potrebbe essere giustificato, a mio parere, nelle situazioni conflittuali che nascono da uno “scontro di civiltà”, allorquando gruppi umani sono in contrapposizione e vengono alle mani (o alle armi) per ragioni sostanzialmente di incomprensione o perché sono vittime di pregiudizi storici, ma che si trovano tuttavia in una situazione di sostanziale simmetria in termini di potere (politico, economico, militare, mediatico, culturale, ecc.). È soltanto in tali condizioni che può nascere un dialogo genuino che si fondi soltanto sulla forza delle ragioni e in cui le divergenze possano essere superate attraverso una migliore conoscenza reciproca.

Converrai che i casi di autentica equidistanza sono ben rari. E non è certo quello di Israele e Palestina. È proprio qui che invece viene compiuto un errore colpevole, frutto non solo di superficialità e negligenza da parte nostra, ma anche dell’abile strategia di occultamento e mistificazione utilizzata dalla propaganda ufficiale di Israele in tutti questi anni. Uno dei suoi maggiori successi degli ultimi decenni è il quasi totale oscuramento della realtà storica e politica dell’occupazione del territorio palestinese da parte di Israele. Ci sono voluti i cosiddetti “nuovi storici israeliani”, come Benny Morris, Avi Shlaim e Ilan Pappé, per riscrivere criticamente pagine fino ad ora considerate “eroiche” dello Stato di Israele. Giornalisti ebrei israeliani coraggiosi come Amira Hass o Gideon Levy sono tuttora vagamente conosciuti e quasi soltanto dagli attivisti pro-palestinesi in Italia o all’estero.

Un’indagine per le strade di Bologna o di Milano probabilmente rivelerebbe che soltanto una minoranza della popolazione è conscia (nel senso che almeno una volta si è soffermata seriamente a considerare che cosa significa in pratica) del fatto che da 43 anni lo Stato di Israele sta occupando militarmente, e a tutti gli effetti politicamente ed amministrativamente, una terra che la comunità internazionale ha assegnato al popolo palestinese. E tra coloro che ne hanno sentito parlare, quanti veramente conoscono le crudeli conseguenze quotidiane che tale occupazione porta con sé e le politiche coloniali e di discriminazione perseguite da Israele nei confronti dei palestinesi, sia nel territorio occupato che all’interno della “grande democrazia israeliana”, che anche l’ex-presidente Jimmy Carter è giunto a definire apartheid?

Il successo che Israele ha ottenuto e ancora mantiene nel promuovere la sua narrazione della storia recente e il suo linguaggio come l’unico corretto è frutto anche dell’opera di “normalizzazione” condotta, più o meno intenzionalmente, su diversi fronti e che porta a legittimare lo status quo attuale, a descriverlo come “normale”, appunto, e quindi accettabile per quello che è, o che sembra essere. Ecco allora perché gli studenti palestinesi scrivono che “partecipare in progetti, iniziative o attività locali o internazionali che mirano a mettere insieme, direttamente o indirettamente, giovani palestinesi o arabi con israeliani (sia individui che istituzioni) ma non sono esplicitamente intesi a resistere o denunciare l’occupazione e tutte le forme di discriminazione e oppressione inflitte al popolo palestinese equivale a normalizzare la situazione attuale e va quindi contrastato.”[2]

La triste realtà è invece quella di una potenza occupante e di un popolo oppresso in violazione di svariate risoluzioni delle Nazioni Unite. Un sostanziale aspetto che spesso sfugge di questa realtà è che le istituzioni del potere occupante, comprese le università e i centri di ricerca, fanno parte integrante delle strutture di dominio, di controllo e di “normalizzazione”. Delle reali intenzioni di organizzazioni come il Centro Peres per la Pace, tanto corteggiato dai promotori dei progetti per la pace e la riconciliazione, così scrive Meron Benvenisti, ex vice-sindaco di Gerusalemme: “Nell’attività del Centro Peres per la Pace non c’è nessuno sforzo palese compiuto per un cambiamento dello status quo politico e socioeconomico nei Territori Occupati, ma proprio l’opposto: gli sforzi sono fatti per addestrare la popolazione palestinese ad accettare la sua inferiorità e prepararla a sopravvivere sotto le costrizioni imposte da Israele per garantire la superiorità etnica degli ebrei.” (Ha'aretz, [3])

Credo quindi che sia legittimo denunciare come pericolose e rifiutarsi di partecipare ad iniziative che, se non riconoscono esplicitamente i diritti inalienabili dei palestinesi e non denunciano con forza l’ingiustizia dell’occupazione, della colonizzazione e della discriminazione a cui una delle due parti è soggetta, finiscono per dare una falsa immagine di uguaglianza tra i due contendenti, spalmando di una vernice di legittimità e magnanimità l’immagine pubblica di Israele.

Io stesso rimasi vittima di questa trappola quando nel 2002, allora rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il Territorio Occupato, mi feci promotore entusiasta di una rivista di sanità pubblica prodotta da medici israeliani e palestinesi. “Bridges”, così si chiamava, avrebbe dovuto appunto gettare “ponti di pace” tra le due società aiutando il dialogo reciproco, a partire dai professionisti sanitari. Ben presto apparve chiaro il divario esistente tra le due parti. Ciò che mi colpì soprattutto fu il rifiuto dei medici e degli accademici israeliani ad affrontare temi “sensibili”, come appunto l’impatto sulla salute di occupazione, discriminazione e colonizzazione, pur utilizzando un approccio evidence-based e fonti bibliografiche ineccepibili. È quello che invece da due anni sta facendo la rivista medica The Lancet.

Era ovvio fin dall’inizio che in conflitti di questo genere non è possibile essere neutrali, che cioè i tuoi valori, la tua visione della vita, il tuo cuore ti costringono inevitabilmente a prendere una posizione: quella del più debole e dell’oppresso. È tuttavia indispensabile essere imparziali, ossia fare in modo che gli stessi standard obiettivi siano applicati nello stesso modo ad entrambe le parti, cercando di condurle entrambe al tavolo dei negoziati. Allora compresi ben presto che i ponti che credevo di gettare erano sbilenchi, che per una delle due parti il percorso era stretto e tutto in salita e per l’altro largo e tutto in discesa; che una ci guadagnava e l’altra ci perdeva.

Negli anni mi sono convinto che queste iniziative, per quanto il più delle volte frutto di buona fede, servono soltanto a promuovere l’immagine falsa di un Israele “democrazia illuminata” oscurando il fatto che essa è una enorme potenza militare e nucleare che giustifica la sua costante violazione della legislazione internazionale umanitaria e sui diritti umani come legittima difesa nei confronti di una nazione, quella palestinese, senza esercito e privata del controllo su beni e mezzi (come territorio, tempo, risorse umane e naturali) essenziali per potersi gestire in modo davvero autonomo e indipendente dall’aiuto esterno.

Resistere a questa subdola opera di normalizzazione e legittimazione di una situazione inaccettabile vuol dire lavorare per l’educazione non solo dell’oppresso, ma anche dell’oppressore. Quest'ultimo, infatti, vede come oppressione su di sé tutto ciò che limita il suo diritto di opprimere poiché non gli permette di “stare in pace”. È necessario che l’ingiustizia perduri affinché possa agire come “generoso”, mettendosi con magnanimità, ma ben conscio della sua superiorità, al tavolo della collaborazione “scientifica” con l’oppresso. Al contrario, la conquista implicita del dialogo è quella del mondo che i due soggetti realizzano insieme. Come diceva Paulo Freire, nessuno si salva da solo ma insieme all'altro.

Troppo spesso la tattica usata da molti di noi per evitare possibili conflittualità è il silenzio e l’inazione (diciamo pure l'ignavia). Come quando si contribuisce a cancellare con il linguaggio l'occupazione israeliana utilizzando il termine “Territori Autonomi Palestinesi” anziché quello ufficiale di “Territorio Palestinese Occupato” (impiegato da Nazioni Unite e Unione Europea).

Scriveva il magistrato Dante Troisi (1920-1989):
“…quando dovrà giudicarci, Dio stesso si troverà a disagio, tanto abile è la commistione di bene e male, così perfetta la nostra tecnica dell’approssimazione all’uno e all’altro estremo. Ogni giorno ci adoperiamo ad intricare il processo che ci aspetta, mescolando ignavia e coraggio, angoscia e superbia e umiltà, sicché l’esistenza diventi un groviglio inestricabile, e soprattutto non sia più di un crepuscolo: se verso la notte o il giorno, toccherà di interpretarlo al Signore. Il quale, certamente, non vorrà degradarsi, competere con noi, giocolieri del compromesso, ed esigere un rendiconto: ci lascerà passare, scrollandosi nelle spalle.”

______________