sabato 21 maggio 2011

TRIPOLI SOTTO BOMBE NATO “SALVACIVILI”

Racconto dalla capitale e dalla Libia occidentale dove proseguono i bombardamenti "umanitari". La vita di civili ignorati dai media.

REPORTAGE DI MARINELLA CORREGGIA*

Tripoli, 21 maggio 2011, Nena News -“Benvenuti a Tripoli ma adesso allontanatevi. Potrebbero tornare”. Ha un aplomb libico il piccolo comandante della nave in fiamme e fumo sotto la grande luna. Un cargo o una nave militare, non è chiaro. Quattro i feriti portati via dalle ambulanze e per fortuna nessun morto. I pompieri tentano di spegnere il fuoco fra il fumo acre. Altre imbarcazioni più piccole stanno affondando. Sono presi di mira i porti, punto d’entrata fondamentale anche per i rifornimenti civili.
I missili Nato salvacivili hanno colpito diversi punti del porto nella notte fra giovedì e venerdì, susseguendosi fra le 23,08 e le 23,55. Alla prima esplosione due bambini sono scesi nel giardino della casa prospiciente il porto e si sono messi a urlare “Allah Muammar Libia e basta”. Un signore di Sabha uscito dall’hotel Radisson commenta: “Hanno volato basso, strano. Vogliono spaventarci ma non ci riescono. Ieri ci sono state manifestazioni contro la Nato e per la Libia perfino perfino a Bengasi”.
In effetti la notte precedente, fra mercoledì e giovedì è stata percorsa, secondo la tivù libica, da una serie di contemporanee manifestazioni anti-Nato e pro-governo, con bandiere verdi alle finestre e assembramenti in strada, in diverse città, per la prima volta anche nell’est a Bengasi, e in Tunisia ed Egitto, ai confini con la Libia. A Tripoli erano tanti, per ore si sono visti e sentiti caroselli stradali con clacson, bandiere e ritratti di Gheddafi, spari in aria e piccoli fuochi d’artificio.
Sempre nella capitale si susseguono gli incontri fra leader tribali (che settimane fa hanno firmato un patto unitario per la nuova costituzione e l’autodeterminazione, e contro le interferenze straniere) e altre aggregazioni (religiosi, donne, sindacati, agricoltori) con le parole d’ordine “no alla guerra, no al colonialismo, no all’assedio, sì alla riconciliazione nazionale e all’unità”. L’assemblea della “Unione generale delle organizzazioni della società civile” ha divulgato un documento che chiede il cessate il fuoco e ricostruisce i fatti dal 17 febbraio e seguenti, denuncia crimini contro l’umanità (“confermati da foto e prove”) da parte dei ribelli “che si nascondono in moschee e case” . Segue la richiesta (la stessa del governo) “alle organizzazioni internazionali e della società civile: venite in Libia per accertare davvero i fatti”.
Sempre a Tripoli, nel teatro di un centro giovanile tipo scout, giorni fa c’è stata la cerimonia di rilascio dalla prigione di 230 ribelli pentiti. Quasi tutti giovani ma Abdel Karim, aria dimessa, ha la barba grigia. E’ di Misrata. Suo fratello è soldato, lui “ingannato da Al Jazeera” è passato dall’altra parte per qualche settimana prima di essere catturato. Impossibile verificare lo status e le responsabilità di ognuno di loro. Fra i quali ci sarebbero 89 stranieri, “mercenari”. In realtà, dice Ines, giornalista algerina che ha parlato con un presunto mercenario egiziano, forse buona parte di loro erano solo sospettati. Ma il messaggio, aggiunge lei, è un altro appello alla riconciliazione.
No alle bugie e sì all’unità da ritrovare è il mantra dalle persone incontrate a Zliten, 50 chilometri da Misrata. La strada da Tripoli attraversa palmeti e uliveti. La regione è tranquilla, i posti di blocco rari. Lunghe code per la benzina surreali in un paese petrolifero (ma la Libia è sotto sanzioni e al tempo stesso ha una limitata capacità di raffinazione interna, peggiorata dal conflitto). Zliten è rifugio di molti sfollati da Misrata. Se ne occupa la Mezzaluna rossa. Muna e Mohamed sono due giovani funzionari e denunciano il danneggiamento di una loro ambulanza in un crocevia fra Dafnyia e Misrata; “tre missili da una nave Nato”.
Soldati feriti a Misrata la notte precedente sono ricoverati all’ospedale cittadino. Fra loro Hayed, colpito all’addome, viene da Hubari; pelle scurissima. Il dottor Mohamed, chirurgo, sussurra: “Vedete, è cittadino libico, non è un mercenario straniero, un muntasika; è un soldato regolare, un jundi”. In un’altra stanza una bambina ferita è attaccata all’alimentazione ma non è grave. Vittima del bombardamento Nato a Dafniya, presso Misurata, dicono.
Un uomo in divisa che vuole restare anonimo aggiunge: “Se avessimo voluto, prima degli attacchi Nato avremmo riconquistato le città in pochissimo tempo, facendo però molte vittime civili. I ribelli e i delinquenti si proteggono con quelle”. Spingono avanti un uomo; si chiama HuSsein Mohamed e dice di essere stato catturato a Misrata il 28 febbraio, di aver visto suoi commilitoni sgozzati, di essere stato liberato dopo un mese dai soldati.
Ottomila famiglie di Misrata sono sfollate nell’area di Zliten. Nei magazzini sono accumulati kit di emergenza per 25mila persone. Non ci sono tendopoli, le famiglie sono ospitate in case offerte da privati (anche uno scantinato, pieno di materassi colorati), in edifici governativi, e negli appartamenti lasciati dai lavoratori stranieri (indiani, ucraini, eccetera) di un cementificio, partiti tutti. E’ quest’ultima la sistemazione migliore. Mentre visitiamo una famiglia con due figlie grandi, che ha perso la casa negli scontri, decine di bambini giocano sotto il sole dolce del pomeriggio nello spiazzo. Rahma, quattro anni, è di Bengasi. Bengasiano anche Mohamed Omar, capo della…tifoseria della principale squadra di calcio: “C’è molta violenza a Bengasi, siamo scappati da tempo. Girano anche ex galeotti scappati e tanta gente armata. Tutti devono stare zitti”.
“Dite i fatti nei vostri paesi, dite che la protezione dei civili non si fa così, che la Nato non può confondere la protezione dei civili con l’appoggio ai ribelli armati, che il nostro esercito ha il diritto di combattere, che hanno mentito parlando di migliaia di morti, che non è giusto che siano le bombe a decidere chi ci deve governare, che Al Jazeera sta facendo un lavoro sporco per conto degli emiri, che qui la gente vuole vivere tranquilla” dice Mohamed Ahmed, un leader tribale incontrato in una riunione a Tarouna. Ci presenta sussurrando tre bambini, Jinet, Aisha e Mabruk, figli di un soldato che sarebbe stato sgozzato.
Nella piazza centrale di Zliten, nel pomeriggio altra manifestazione con uomini in piedi sulle automobili e perfino sulla pala di una escavatrice, musica e slogan. Alcuni di loro, dicono, si stanno unendo a un’altra marcia verso l’Est, “per la riconciliazione”. Dopo quella che a Brega una settimana fa ha visto morire “missilati” undici leader religiosi, 50 i feriti. Scuse Nato: “Pensavamo che fosse un centro di comando delle operazioni contro i civili”. Li hanno sepolti vicino al mare. In fosse individuali.

*corrispondente per Radio Citta’ Aperta, Roma

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