1967-2012: Storia del movimento dei prigionieri palestinesi
di Emma Mancini
La prigione israeliana non è solo sbarre, umiliazione, materassi a terra, cibo di bassa qualità, isolamento. Può trasformarsi in rinascita, lotta, coscienza. Questo è quello che le decine di migliaia di prigionieri palestinesi hanno saputo costruire nel tempo: fare della prigione una forma di educazione politica. Dall’epoca d’oro negli anni Ottanta fino al declino individualista di oggi.
“Sono tre le fasi che il movimento dei prigionieri ha vissuto dal 1967 ad oggi”, spiega all’Alternative Information Center Khader Abu Kabbara, presidente del Club Ortodosso di Beit Jala ed ex direttore dell’YMCA di Ramallah. Khader, da membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ha trascorso nove anni in diverse prigioni israeliane, negli anni Ottanta, poi di nuovo nel 1994 e infine all’inizio della Seconda Intifada.
“Nella lotta per la liberazione della Palestina – racconta – il movimento dei prigionieri ha avuto ed ha un ruolo fondamentale. È nelle prigioni che si è formata una generazione politica, una presa di coscienza. La cella è diventata per molti un’università”.
All’indomani dell’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967, le carceri si sono riempite di combattenti, molti provenienti dalla Giordania, giovani spesso analfabeti e con una scarsissima preparazione politica. “La prima fase del movimento dei prigionieri inizia nel 1967 e arriva fino al 1978-1980 – continua Khader Abu Kabbara – La situazione nelle carceri era terribile: si viveva in celle sovraffollate, si dormiva in materassi di gomma, non si poteva parlare né leggere. E la stragrande maggioranza dei prigionieri non era alfabetizzata e non possedeva conoscenze politiche o sociali”.
Una fase in cui la protesta non era ammessa: “Non si chiedeva nulla ai secondini. Domandare il rispetto dei propri diritti era considerato poco dignitoso, una vergogna. Nessuno doveva interagire con l’amministrazione carceraria. E quindi nessuno pensava di organizzare proteste per ottenere quanto spettava di diritto. Ma proprio le condizioni disumane in cui si era costretti a vivere nelle prigioni israeliane ha portato alla nascita di una nuova presa di coscienza. La consapevolezza che si trattava di diritti basilari ha permesso l’avvio delle prime forme di protesta e di organizzazione interna”.
Parte la transizione verso la seconda fase, attraverso due eventi di fondamentale importanza per il movimento dei detenuti palestinesi: i due scioperi della fame collettivi del 1976 e del 1980, il primo nella prigione di Ashkelon, il secondo in quella di Nafa. “Così siamo entrati in quella che definiamo ‘l’era d’oro’ – prosegue Abu Kabbara – La comunità dei prigionieri si organizza, diventa strutturata. Le proteste sono continue e collettive: tre scioperi della fame nel 1984, nel 1985 e nel 1987 attraverso i quali i detenuti ottengono vittorie importantissime: letti e non più solo materassi, celle meno affollate, coperte, televisione e radio, libri. Ma soprattutto sfidano il divieto dei carcerieri: i prigionieri si incontrano, parlano, condividono esperienze e posizioni politiche”.
Si sviluppano e si rafforzano le condizioni necessarie alla lotta politica, non solo dentro le carceri, ma anche al di fuori: se prima la comunità dei prigionieri viveva della propria quotidianità, di propri valori e tradizioni completamente separati da quelli della società esterna, nella seconda fase le due realtà si intersecano e si condizionano.
“La grande differenza tra il 1967 e il 1980 – spiega Khader all’AIC – è anche il tipo di prigionieri che finiscono in carcere: professori, insegnanti, medici, intellettuali, laureati. Le celle diventano aule universitarie. Ricordo che le mie lezioni di filosofia erano sempre affollate, ne tenevo anche cinque al giorno. Ma non solo: aumentano anche i contatti con la società esterna e con le altre carceri. Utilizzavamo il metodo delle capsule: arrotolavamo pezzi di carta con i messaggi da inviare fino a farli diventare piccoli come una pillola, li coprivamo con il nylon e poi li ingoiavamo. Lo facevamo quando avevamo visite e quando sapevamo di essere trasferiti, per poter recapitare il messaggio. Oppure, tagliavamo il cemento delle celle, ci nascondevamo dentro libri e archivi e poi fondevamo il pavimento di nuovo. Ogni volta che gli israeliani perquisivano le celle, non riuscivano a trovare nulla”.
“Pensate che nel 1994 nascosi l’intero archivio del PFLP, nomi, indirizzi, letteratura, nel pavimento della mia cella in Negev. Quando nel 2002 venni di nuovo arrestato in detenzione amministrativa, mi portarono in Negev, nella stessa cella. Ho controllato: l’archivio era ancora là”.
“La terza fase è cominciata con gli accordi di Oslo – continua Abu Kabbara – ed è considerabile la fase del declino. Proprio la nascita dell’Autorità Palestinese ha spezzato le gambe al movimento dei prigionieri. Con quegli accordi, è stata sconfitta la cultura della lotta e della resistenza. Sono cambiati i valori di base della società palestinese, ora alla caccia di una pacificazione a tutti i costi. La maggior parte dei prigionieri allora detenuti sono stati rilasciati e quelli ancora dietro le sbarre sono frustrati e incapaci di lottare come prima”.
Un obiettivo per cui le autorità israeliane hanno lavorato a lungo: un nuovo programma diretto alle carceri e volto a distruggere quello che resta di un movimento collettivo e strutturato. “Prima di tutto, l’aumento del costo di essere prigionieri. È lo stesso detenuto che paga il suo costo: deve comprarsi il cibo, i vestiti, le coperte, perché l’amministrazione carceraria non passa nulla se non cibo di scarsa qualità e quantità. In secondo luogo, i rilasci: nel 1985 ci fu lo scambio tra tre soldati israeliani e 1.150 prigionieri palestinesi: vennero liberati i leader del movimento e dei partiti politici che poi guidarono la Prima Intifada. Nello scambio dello scorso ottobre, Israele ha rilasciato pochissimi leader politici, molti sono stati arrestati poco dopo e altri sono stati deportati a Gaza o all’estero. Israele ha compreso la pericolosità di un ex prigioniero nella società”.
“Infine, si distraggono i prigionieri attraverso lavori manuali oggi consentiti che poi possono essere venduti all’esterno. Il tempo viene utilizzato individualmente, per produrre qualcosa di vendibile, e non più per la formazione politica, lo scambio e la condivisione. Non c’è tempo per leggere”.
“E proprio questo fattore ha spinto la comunità dei detenuti palestinesi a passare da un livello collettivo ad uno individuale – conclude Khader – Da un interesse comune e politico ad un interesse personale. basta guardare alle lotte messe in piedi in questo periodo da Khader Adnan e Hana Shalabi. In passato non sarebbe mai stato possibile uno sciopero della fame individuale e non collettivo”.
http://www.alternativenews.org/italiano/index.php/topics/11-aic-projects/3497-1967-2012-storia-del-movimento-dei-prigionieri-palestinesi
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