sabato 13 luglio 2013
Il bambino palestinese di 5 anni fermato dall’esercito israeliano
Il bambino palestinese di 5 anni fermato dall’esercito israeliano
7 video che hanno fatto molto discutere: il bambino era accusato di avere lanciato una pietra contro una macchina di un colono israeliano
Da giovedì sta girando molto online un video che mostra un bambino palestinese di cinque anni portato via da sette soldati israeliani, con l’accusa di avere lanciato una pietra contro la macchina di un colono israeliano a Hebron, in Cisgiordania. Il video, che è stato messo online dal gruppo B’Tselem - organizzazione che si occupa di diritti umani nei Territori Occupati e che fornisce le videocamere a diversi palestinesi per filmare episodi di questo tipo – è stato girato martedì insieme ad altri sei filmati brevi, anch’essi pubblicati sul sito dell’organizzazione, e in breve tempo è stato molto commentato, discusso e criticato.
Sul sito di B’Tselem l’incidente testimoniato dai sette video è stato diviso in due parti: nella prima parte, girata dal ricercatore di B’Tselem Manal al-Ja’bari, si vede il bambino, Wadi Maswadeh, tenuto per mano dal padre, Karam Maswadeh, mentre cammina per le strade di Hebron, seguito da alcuni soldati israeliani. Secondo il padre i militari sarebbero arrivati a casa della famiglia Maswadeh quando lui non c’era, e avrebbero cercato di convincere la moglie a consegnare il bambino alle autorità. La moglie si sarebbe rifiutata, e all’arrivo del padre a casa i militari avrebbero spiegato ai due genitori che Wadi aveva lanciato una pietra contro una macchina di un colono israeliano vicino al checkpoint di Abed, poco distante dalla Tomba dei Patriarchi a Hebron, e per questo dovevano fermarlo e interrogarlo.
VIDEO: http://www.youtube.com/watch?v=dl6YGt7O9eM&feature=player_embedded
Nella seconda parte, girata da un altro volontario dell’organizzazione, ‘Imad abu-Shamsiyeh, si vedono padre e figlio seduti su una panchina di un checkpoint israeliano, con il padre ammanettato e bendato.
VIDEO: http://www.youtube.com/watch?v=TLf1cjSxQp8&feature-player_embedded
Secondo B’Tselem le forze di sicurezza israeliane avrebbero accompagnato Wadi e Karam a un checkpoint militare israeliano, dove, come detto, il padre sarebbe stato ammanettato e bendato. A un certo punto, ha raccontato il padre a B’Tselem, sarebbe arrivato anche un alto ufficiale dell’esercito israeliano, che avrebbe ripreso gli altri militari per avere arrestato padre e figlio in presenza di una videocamera. Solo dopo questo episodio al padre sarebbero state tolte le manette e la benda.
VIDEO: http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=rEK3HcrkWGw
La Repubblica
12.07.2013
Quel bambino palestinese “arrestato” per un sasso
di Adriano Sofri
TRATTARE un bambino di cinque anni e nove mesi, che piange spaventato, come se fosse un pericoloso nemico adulto, e umiliare suo padre davanti a lui e a causa di lui, non è solo un’infamia: vuol dire fare di quello e di tanti altri bambini, asciugate le lacrime, irriducibili e temibili nemici.
È successo il 9 luglio a Hebron, il video è in rete da ieri, girato da un militante di B-Tselem. B-Tselem significa, dalla Genesi, “a sua immagine”, è una preziosa organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani nei territori occupati. Il bambino si chiama Waadi, il suo giovane padre Abu Karam Maswadeh. L’operazione è condotta da una decina di soldati e un ufficiale. Volevano portarlo via da solo – ha tirato un sasso all’auto di un colono, dicono; testimoni dicono che l’ha tirato a un cane – ma sua madre si è opposta, vuole che arrivi il padre, altri bambini, specialmente una minuscola e risoluta, lo circondano e lo incoraggiano.
Arriva Karam e chiede: “Perché volete arrestare un bambino di cinque anni?” Ha tirato un sasso. Lui cerca di farli ragionare, invano. Li fanno salire sulla camionetta, li portano via insieme, Waadi piange e si stringe al padre. Li chiudono per mezz’ora in caserma. Poi i soldati ammanettano il padre e gli bendano gli occhi con una fascia bianca, e li portano a piedi, in una ostentata gogna, fino al checkpoint 56 (non so se sia un numero ordinale, certo Hebron è piena di checkpoints), dove li trattengono un’altra mezz’ora.
L’uomo di B-Tselem filma tutto, i soldati lo fotografano più volte, per intimidirlo: ma tutta la scena si svolge in una surreale tranquillità. “Mera routine”, osserverà un commentatore israeliano, aggiungendo: “Mero razzismo”.
Arriva un ufficiale più alto in grado, il padre – che parla l’ebreo oltre all’arabo e l’inglese – è in grado di seguire i loro discorsi: l’ufficiale li rimprovera per averli arrestati platealmente davanti alle telecamere: danno d’immagine. Allora un soldato slega il padre, gli toglie la benda e gli dà dell’acqua. Padre e figlio vengono consegnati a poliziotti palestinesi, e subito rilasciati. Il video è un incidente, ma rivela che l’arresto di bambini e genitori e la loro consegna alla polizia è la norma, illegale, naturalmente.
L’età minima per la responsabilità penale è di 12 anni. Nessun bambino israeliano che tirasse pietre a palestinesi è mai stato arrestato, e neanche gli adulti.
Hebron, che per i palestinesi è Al Khalil, capoluogo della Cisgiordania meridionale, occupata dal 1967, sacra a tutte le religioni monoteiste, è abitata da più di 150 mila palestinesi, da 700 coloni israeliani, e più di mille soldati a loro difesa. A Hebron, nel 1994, Baruch Goldstein, medico colono dell’insediamento di Kiryat Arba, fece strage di palestinesi in preghiera nella moschea di Ibrahim – la tomba dei patriarchi: il primo attentato suicida avvenne proclamando di vendicare quella carneficina.
Dicono che il viaggio a Hebron stringa il cuore. Che i soldati israeliani e i bambini palestinesi giochino come il gatto coi topolini. Che l’esercito scorti i coloni e i visitatori sionisti in incursioni sprezzanti ai quartieri palestinesi. Che le aggressioni per sradicare colture e forzare i palestinesi a lasciare altre terre ai coloni siano continue. Dall’alto della città vecchia divenuta un luogo fantasma, è stesa una gran rete per impedire ai rifiuti, i sassi, le bottiglie lanciate dagli haredim incattiviti di colpire i passanti palestinesi. Dicono che ai più fanatici piaccia pisciargli sopra, dall’alto. Molti anni fa c’era in Israele un gruppo di riservisti pacifisti che aveva scelto per titolo “Yesh gvul”, che vuol dire “C’è un limite”. Non so se il gruppo ci sia ancora. Il limite dovrebbe esserci, sempre, dovrebbe esserci un limite a tutto. Il 9 luglio è stato di nuovo superato.
I cristiani sussultano specialmente alla vista di un giovane uomo incolpevole trascinato per le strade da armati con gli occhi bendati: gli ricorda un altro. E non c’era il bambino. Ma non occorre essere cristiani per sussultare.
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