lunedì 15 luglio 2013
FESTA DI ROVINE RECENSIONE DI MARIA SAPORITO
Riflessi d'autore (a cura di Aurora Logullo)
Israeliani vs palestinesi.
Il racconto di un dissidio
vecchio più di un secolo
che invita a riflettere
di Maria Saporito
Da Città del sole, diciotto dolenti testimonianze su un duro scontro
politico che riapre una ferita profonda mai rimarginata
Un elenco doloroso apre la raccolta di racconti che l’autrice Miram Marino ha compilato col cuore gonfio di tristezza. È l’elenco, inevitabilmente parziale, dei troppi bambini rimasti vittime della guerra israelopalestinese nei primi anni del nuovo millennio. Un conflitto straziante e feroce, come tutti gli altri, ma che – questa la sua particolarità – sembra non finire mai. Una ferita che non vuole chiudersi e che rinnova il dolore di chi, impotente, assiste alla morte diventata prassi. Miriam Marino, ebrea italiana e attivista dell’associazione “Amici della mezzaluna rossa palestinese”, ha scelto di parlarne col garbo di chi conosce la sofferenza e sa tributarle il giusto rispetto. Con la saggezza di chi non celebra vinti, ma registra la miseria dell’uomo accecato da una rabbia troppo antica per meritare comprensione. Anche per questo nel Prologo di Feste di rovine (Città del sole, pp. 152, € 12,00) non le resta che annotare: «Mentre distrugge i palestinesi, strappando loro ciò che hanno di più caro: le nuove generazioni, le case, la terra, l’acqua, il futuro, Israele non si rende conto di avere i veri nemici dentro di sé».
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Dolore senza confini
Tuttavia non è un libro partigiano, quello di Miriam Marino: è semmai la coraggiosa testimonianza di una spettatrice coinvolta, che sceglie di assumere il punto di vista dell’altro per documentare un dolore comune, che non conosce etnia o geografia. E, infatti, la seconda parte del suo libro ospita racconti ambientati in Iraq, dove la democrazia importata dagli americani ha seminato morte e sfaceli lasciando rovine nella vita dei civili. I diciotto racconti compilati dalla scrittrice non ammettono consolazione: la mappa umana da lei tracciata è segnata da una sofferenza incontenibile e devastante. Eppure, nelle diverse latitudini percorse dalla guerra, c’è spazio per la speranza, che – come la più abbacinante delle luci – riesce talvolta a cancellare le tenebre e a consegnare un messaggio di inattesa salvezza.
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Martiri d’amore e militari in crisi
Tra le storie più toccanti, quella di Samira, giovane volontaria palestinese diventata martire. Il suo imprevisto sacrificio sconvolge la vita di amici e parenti, che non trovano risposte capaci di anestetizzare il dolore. «In lei c’era troppo amore – spiega un collega – voleva aiutare e non poteva, cosa può esserci di peggio? Una ferita troppo a lungo trascurata va in cancrena, se qualcuno ti impedisce di curarla va in putrefazione e non c’è più cura, c’è solo necrosi». Vittima del suo amore frustrato, Samira trova nell’autodistruzione l’unica via d’uscita: «Tutte le strade erano chiuse davanti a me – ammette in uno dei passaggi più struggenti – e il mondo si era ristretto così tanto da diventare un posto di blocco».
Ciò che la scrittrice sembra rimarcare in ogni storia è l’ineluttabilità della sconfitta che travolge chiunque venga inghiottito dalla spirale di morte innescata dalla guerra, a prescindere dal credo religioso o dall’ideologia politica. Una sconfitta inevitabile, ma che in taluni personaggi trova un riscatto dignitoso eppure pietosissimo. Come accade a Eitan Liberman, giovane militare israeliano “folgorato” dall’innocenza degli occhi di un nemico palestinese. Lo scambio di sguardi tra i due segna l’inizio di un tormento crescente, che costringerà Eitan a rivalutare ogni cosa: «Portava lo smarrimento di chi aveva sempre guardato il mondo con i suoi occhi miopi e se l’era sempre allargato e ristretto a suo comodo quel mondo, ed ecco che ora indossava per la prima volta occhiali che correggevano il suo difetto e gli presentavano i contorni delle cose con nitidezza».
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La finta democrazia
In questo mappamondo imbrattato dal sangue e dalla polvere da sparo, si prende il suo spazio anche l’Iraq “liberato” dagli americani. In tre racconti intitolati Bambini di Bagdad, Miriam Marino riporta la vicenda di una famiglia straziata dalla guerra. Una cronaca minuziosa e incalzante che, dopo aver condotto il lettore nei meandri della paura che non conosce sollievo, lascia in lui il ricordo del buio che annuncia la fine. E poi Rastrellamento, ovvero la lenta agonia di un giovane iracheno che, forzatamente prelevato dalla sua casa da un gruppo di militari americani, concluderà la sua vita in una prigione dimenticata. «Diventerò un morto vivente – gli fa dire la scrittrice – la mia vita è finita a vent’anni. È certo una strana democrazia quella che ci hanno portato!». A contrappuntare ogni racconto una poesia, che Miriam Marino inserisce per contenere l’onda d’urto provocata da tanta violenza. Un rifugio nel lirismo, inteso come unico antidoto alla bruttura e all’insensatezza dell’agire umano che spogliano di speranza le esistenze. A precedere l’ultimo racconto ‒ quello che celebra la vittoria della pace oltre i limiti temporali imposti dalla vita terrena ‒ è un componimento del poeta palestinese Mahmoud Darwish: «Io sono te nelle parole / e un medesimo libro ci unisce. / Siamo coperti dalla stessa cenere. / Eravamo nell’ombra / solo due vittime, due testimoni, / due brevi poemi sulla natura / mentre si conclude / la festa delle rovine…».
Maria Saporito
(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 71, luglio 2013)
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