Object: to release Mohanned Abu Awwad
On the 23rd of January, IDF arrested Mohannad Abu Awad.
We know that two of his uncles were killed in conflict and that his twin
brother was strongly injured. But Mohammed still believes in peace and
understanding, as a young Palestinian peace activist.
His father, who taught him fo fight for democracy and human rights, is
Palestinian chairman of "Parents' Circle", an association of Palestinian and
Israeli families of the victims.
It is not acceptable for all of us, who are also peace and nonviolent
activists, that IDF arrested Mohannad without reasons: he is a young
palestinian leader who has many Israeli friends and who is convinced that
Israelis and Palestinians are able to live together respectfully and
trustfully.
So, we demand that Mohannad is not beaten and humiliated, we demand to release
him immediately!
Respectfully.
FIRMATO
…………………………………………..
Rome, 26th January 2010
venerdì 29 gennaio 2010
SENZA PAROLE.
> CISGIORDANIA, CONFESSIONI CHOC SOLDATESSE ISRAELE
>
>
> (ANSA) - TEL AVIV, 29 GEN - Confessioni choc di alcuni
> militari-donna israeliani su abusi compiuti da loro e dalle loro
> unità in Cisgiordania, la parte di territorio palestinese ancora
> sottoposta al controllo parziale dell'esercito dello Stato ebraico,
> compaiono in un nuovo rapporto diffuso in queste ore da Breaking
> the Silence: organizzazione israeliana di attivisti dei diritti
> umani impegnata da anni a far luce fra i ranghi delle forze
> armate. Impiegate in misura crescente in azioni di combattimento
> o di prima linea, le soldatesse ammettono - in alcuni casi - di
> aver partecipato o assistito a episodi di cui oggi si vergognano e
> che contrastano con i loro valori e con gli stessi principi
> insegnati nelle scuole militari. Si parla di atti di umiliazione o
> di pestaggi palestinesi compiuti solo per mostrarsi "più dure" dei
> commilitoni maschi, del brivido provato da qualcuna nel poter
> schiaffeggiare impunemente un ragazzo arabo, ma anche di una mano
> rotta a un ragazzino fermo a un posto di blocco. E persino - lo
> racconta una ragazza che è stata in servizio nelle Guardie di
> Frontiera - di un bambino di 9 anni ferito a morte da un colpo
> sparato così, alla cieca. Tutti casi che Breaking the Silence
> - organizzazione più volte criticata dall'establishment politico
> israeliano - continua a chiedere al governo e allo stato maggiore
> di approfondire. (ANSA).
>Flavia
>
>
> (ANSA) - TEL AVIV, 29 GEN - Confessioni choc di alcuni
> militari-donna israeliani su abusi compiuti da loro e dalle loro
> unità in Cisgiordania, la parte di territorio palestinese ancora
> sottoposta al controllo parziale dell'esercito dello Stato ebraico,
> compaiono in un nuovo rapporto diffuso in queste ore da Breaking
> the Silence: organizzazione israeliana di attivisti dei diritti
> umani impegnata da anni a far luce fra i ranghi delle forze
> armate. Impiegate in misura crescente in azioni di combattimento
> o di prima linea, le soldatesse ammettono - in alcuni casi - di
> aver partecipato o assistito a episodi di cui oggi si vergognano e
> che contrastano con i loro valori e con gli stessi principi
> insegnati nelle scuole militari. Si parla di atti di umiliazione o
> di pestaggi palestinesi compiuti solo per mostrarsi "più dure" dei
> commilitoni maschi, del brivido provato da qualcuna nel poter
> schiaffeggiare impunemente un ragazzo arabo, ma anche di una mano
> rotta a un ragazzino fermo a un posto di blocco. E persino - lo
> racconta una ragazza che è stata in servizio nelle Guardie di
> Frontiera - di un bambino di 9 anni ferito a morte da un colpo
> sparato così, alla cieca. Tutti casi che Breaking the Silence
> - organizzazione più volte criticata dall'establishment politico
> israeliano - continua a chiedere al governo e allo stato maggiore
> di approfondire. (ANSA).
>Flavia
Due pesi e due misure
In teoria, niente da dire: coloni minorenni sospettati di aver dato fuoco alla moschea cisgiordana rilasciati, per insufficienza di prove. Solo che: il rabbino della colonia, pure sotto accusa, è stato rilasciato ieri, dopo che aveva rifiutato di fornire il nome dei colpevoli
... e se fossero arrestati un imam e minorenni palestinesi, accusati di aver dato fuoco a una sinagoga?
http://www.haaretz.com/hasen/spages/1145648.html
... e se fossero arrestati un imam e minorenni palestinesi, accusati di aver dato fuoco a una sinagoga?
http://www.haaretz.com/hasen/spages/1145648.html
giovedì 28 gennaio 2010
Come Israele risponde alla non-violenza
Durante la notte scorsa, alle 3.20 del mattino, alcuni soldati dell’Esercito
israeliano hanno fatto irruzione nell’abitazione di Khaled Abu Awwad, Direttore
Generale dell’associazione palestinese “Parents Circle – Families Forum”,
svegliando tutti i membri della famiglia con una bomba scagliata contro la
porta di casa. I soldati, urlando, hanno intimato loro di uscire in un minuto,
o avrebbero bombardato la loro abitazione e distrutto la loro automobile. La
moglie di Khaled, Jalila, e i loro figli, erano tutti in casa al momento dell’
irruzione. I tre figli più grandi – Mohannad, Moayad e Shadi – sono stati fatti
salire su una Jeep dell’Esercito e il maggiore, Mohannad, è stato bendato e
incatenato.
Contemporaneamente la moglie di Khaled e le figlie maggiori – Worood e Sana –
insieme ai tre bambini più piccoli, sono stati costretti a rimanere fuori di
casa, al freddo, in mezzo alle montagne di Hebron. Urlando, i militari sono
entrati in casa con un cane, uscendone solo dopo mezz’ora, e portandosi via
Mohannad. Quando agli alti membri della famiglia è stato permesso di rientrare
in casa, hanno trovato tutto sottosopra, sporco di fango e di urina di cane.
Mohannad negli ultimi anni ha seguito le orme dei suoi familiari, diventando
uno dei giovani leader più attivi all’interno del Parents Circle, e portando
avanti il suo impegno per la pace, la nonviolenza e la democrazia: per fermare
tutto questo, e per ostacolare la missione di pace del Parents Circle, i
militari israeliani lo hanno arrestato. Mohannad ha scelto di seguire questa
strada anche dopo l’uccisione di suo zio, e il ferimento dei suoi fratelli
gemelli. Il suo arresto si inserisce inoltre nel quadro di una più vasta
operazione repressiva delle autorità israeliane contro la campagna di
resistenza nonviolenta portata avanti dai Comitati popolari dei villaggi di
Bil'in, Nil'in e Al Massara, i cui leader ormai da giugno 2009 vengono
sistematicamente arrestati.
La speranza è che Mohannad in carcere non venga picchiato e umiliato ancora di
più dai soldati, e che torni in libertà il prima possibile.
La pace ha bisogno dell’aiuto di tutte e tutti: è necessario attivarsi per
protestare contro il suo arresto, inviando l'email che trovate a seguire,
scritta da Action for Peace, alle autorità militari israeliane a questo
indirizzo: cogatspokesman@gmail.com, o alle ambasciate israeliane dei propri
paesi, o inviando un fax al numero +972 3 697 6306, per chiedere l’immediato
rilascio di Mohanned Abu Awwad.
Luisa Morgantini
Associazione per la Pace
israeliano hanno fatto irruzione nell’abitazione di Khaled Abu Awwad, Direttore
Generale dell’associazione palestinese “Parents Circle – Families Forum”,
svegliando tutti i membri della famiglia con una bomba scagliata contro la
porta di casa. I soldati, urlando, hanno intimato loro di uscire in un minuto,
o avrebbero bombardato la loro abitazione e distrutto la loro automobile. La
moglie di Khaled, Jalila, e i loro figli, erano tutti in casa al momento dell’
irruzione. I tre figli più grandi – Mohannad, Moayad e Shadi – sono stati fatti
salire su una Jeep dell’Esercito e il maggiore, Mohannad, è stato bendato e
incatenato.
Contemporaneamente la moglie di Khaled e le figlie maggiori – Worood e Sana –
insieme ai tre bambini più piccoli, sono stati costretti a rimanere fuori di
casa, al freddo, in mezzo alle montagne di Hebron. Urlando, i militari sono
entrati in casa con un cane, uscendone solo dopo mezz’ora, e portandosi via
Mohannad. Quando agli alti membri della famiglia è stato permesso di rientrare
in casa, hanno trovato tutto sottosopra, sporco di fango e di urina di cane.
Mohannad negli ultimi anni ha seguito le orme dei suoi familiari, diventando
uno dei giovani leader più attivi all’interno del Parents Circle, e portando
avanti il suo impegno per la pace, la nonviolenza e la democrazia: per fermare
tutto questo, e per ostacolare la missione di pace del Parents Circle, i
militari israeliani lo hanno arrestato. Mohannad ha scelto di seguire questa
strada anche dopo l’uccisione di suo zio, e il ferimento dei suoi fratelli
gemelli. Il suo arresto si inserisce inoltre nel quadro di una più vasta
operazione repressiva delle autorità israeliane contro la campagna di
resistenza nonviolenta portata avanti dai Comitati popolari dei villaggi di
Bil'in, Nil'in e Al Massara, i cui leader ormai da giugno 2009 vengono
sistematicamente arrestati.
La speranza è che Mohannad in carcere non venga picchiato e umiliato ancora di
più dai soldati, e che torni in libertà il prima possibile.
La pace ha bisogno dell’aiuto di tutte e tutti: è necessario attivarsi per
protestare contro il suo arresto, inviando l'email che trovate a seguire,
scritta da Action for Peace, alle autorità militari israeliane a questo
indirizzo: cogatspokesman@gmail.com, o alle ambasciate israeliane dei propri
paesi, o inviando un fax al numero +972 3 697 6306, per chiedere l’immediato
rilascio di Mohanned Abu Awwad.
Luisa Morgantini
Associazione per la Pace
ALTRO CHE AIUTI!
PRIORITA' USA AD HAITI: BLOCCO AERONAVALE E OCCUPAZIONE MILITARE PER IMPEDIRE LESODO VERSO LA FLORIDA.
di Lucio Manisco
Incapacità degli Stati Uniti dAmerica di gestire lassistenza umanitaria ad Haiti? A questo interrogativo si rifanno le critiche mosse dai mass media al governo di Washington per il caos del dopo terremoto che in due settimane ha aggiunto qualche decina di migliaia di morti ai 200.000 del sisma.
I fatti, non le opinioni, dimostrano che le priorità degli Stati Uniti sono ben diverse, sacrificano anche se non azzerano gli intenti umanitari e si articolano su una mobilitazione di mezzi bellici senza precedenti in tempi di pace.
Al 24 gennaio erano 12.000 i militari statunitensi sbarcati nella seconda più antica repubblica indipendente del continente americano; a fine mese saranno 15.000 e entro la prima metà di febbraio si arriverà a 20.000.
Non si tratta di riservisti della Guardia nazionale, agenti di polizia o altri corpi della difesa civile, bensì di truppe da combattimento e di pronto impiego: marines, 82ma aero trasportata, paracadutisti, corpi speciali come i sea bees, marinai e corpi da sbarco.
Tutti militari addestrati ad uccidere e non a distribuire medicinali, viveri ed acqua potabile.
Basta guardare allimponente armada navale e aeronavale che entro il 21 gennaio aveva raggiunto le acque di Haiti: portaerei Carl Wilson, due porta-elicotteri la Bataan e la Nassau -, due incrociatori lanciamissili la Normandy e la Bunker Hill -, il cacciatorpediniere lanciamissili Higgins, cinque unità per il trasporto di mezzi da sbarco la Messa Verde, la Ashland, la Gunston Hall, la Fort McHenry, la Carter Hall -, la fregata Underwood, tre navi porta contenitori di materiali militari che non richiedono moli di attracco, unità appoggio sommergibili e recuperi sottomarini, navi cisterna e da rifornimento, altre undici unità minori. Ed infine una nave ospedale da 1.000 letti.
Tutto quanto serve, secondo i materiali del Pentagono, per mantenere sul piede di guerra e in combattimento per 90 giorni un corpo di spedizione di 20.000 uomini.
Sotto questo aspetto non ci sono state disorganizzazioni, situazioni caotiche, interruzioni della catena di comando, carenze di altro tipo: tutto ha funzionato a meraviglia anche se ha richiesto di bloccare o dirottare 1.340 voli umanitari dallEuropa, ritardare larrivo di 5.800 uomini delle ONG dallAmerica Latina, la distribuzione di generi di prima necessità, lallestimento della sua struttura logistica su un suo territorio di 27.000 chilometri quadrati (2.000 in più del Piemonte) con 9 milioni di abitanti (600.000 meno della Lombardia).
Le priorità sottaciute di una sì vasta operazione militare sono altre. Prima tra tutte rendere impenetrabile un blocco aero-navale che impedisca lesodo in massa dei sopravvissuti al terremoto dell11 gennaio ed alla fame ed allo spietato sfruttamento economico di due secoli. E un fenomeno ricorrente degli ultimi settanta anni: lultima volta alla fine del secolo scorso questa politica dei respingimenti applicata con un certo ritardo portò alla deportazione temporanea a Guantanamo ed al rimpatrio coercitivo ad Haiti di 21.000 profughi approdati con mezzi di fortuna e con centinaia di vittime in mare sulle spiagge della Florida. Sotto traccia i pregiudizi razziali, sociali e storici: gli haitiani hanno la pelle più scura degli afro-americani, un livello intellettivo uguale se non più alto (sono altamente competitivi come ogni altra minoranza etnica). E poi ci sono le realtà e i miti storici dei cosiddetti giacobini neri guidati nel 1791 da Toussaint Louverture e da Jean-Jacques Dessalines che portarono al successo una rivolta di schiavi, la difesero dalla guerra scatenata da Napoleone con 30.000 soldati francesi guidati dal famoso generale Leclerc e proclamarono nel 1804 lindipendenza della prima repubblica nera del continente americano e forse del mondo intero. Non cè dubbio che delle atrocità contro i bianchi vennero perpetrate in quei tredici anni e subito dopo, ma quelle atrocità vennero elevate allennesima potenza da una propaganda accanita di chi vedeva nellabolizione della schiavitù un colpo mortale alleconomia americana ed europea. Selvagge e senza fine le rappresaglie degli Stati Uniti, della Francia, della Gran Bretagna e degli altri paesi Europei: sanzioni economiche ammontanti a risarcimenti per 98 milioni di dollari di quei tempi, pari allincirca al debito pubblico dellItalia di oggi (lultima quota è stata pagata dalla Repubblica di Haiti nel 1947), blocco delle esportazioni agricole e quattro protratte invasioni militari.
E poi altre priorità: il controllo di un paese troppo vicino alla Cuba di Fidel Castro (1.200 i medici cubani che operano da anni ad Haiti i cui abitanti non sono certo insensibili ai fermenti progressisti dellAmerica Latina come dimostrato dal duplice avvento al potere del teologo della liberazione Aristide, due volte vittima dei colpi di stato allestiti dai servizi segreti USA). Ed infine il pericolo di una rivolta popolare contro condizioni di vita inaccettabili in qualsiasi altro paese del mondo, una rivolta che nelle fantasie dei dottor Stranamore di Washington potrebbe seguire la falsariga gi quella guidata dai leggendari Toussaint Louverture e Jean-Jaques Dessalines.
di Lucio Manisco
Incapacità degli Stati Uniti dAmerica di gestire lassistenza umanitaria ad Haiti? A questo interrogativo si rifanno le critiche mosse dai mass media al governo di Washington per il caos del dopo terremoto che in due settimane ha aggiunto qualche decina di migliaia di morti ai 200.000 del sisma.
I fatti, non le opinioni, dimostrano che le priorità degli Stati Uniti sono ben diverse, sacrificano anche se non azzerano gli intenti umanitari e si articolano su una mobilitazione di mezzi bellici senza precedenti in tempi di pace.
Al 24 gennaio erano 12.000 i militari statunitensi sbarcati nella seconda più antica repubblica indipendente del continente americano; a fine mese saranno 15.000 e entro la prima metà di febbraio si arriverà a 20.000.
Non si tratta di riservisti della Guardia nazionale, agenti di polizia o altri corpi della difesa civile, bensì di truppe da combattimento e di pronto impiego: marines, 82ma aero trasportata, paracadutisti, corpi speciali come i sea bees, marinai e corpi da sbarco.
Tutti militari addestrati ad uccidere e non a distribuire medicinali, viveri ed acqua potabile.
Basta guardare allimponente armada navale e aeronavale che entro il 21 gennaio aveva raggiunto le acque di Haiti: portaerei Carl Wilson, due porta-elicotteri la Bataan e la Nassau -, due incrociatori lanciamissili la Normandy e la Bunker Hill -, il cacciatorpediniere lanciamissili Higgins, cinque unità per il trasporto di mezzi da sbarco la Messa Verde, la Ashland, la Gunston Hall, la Fort McHenry, la Carter Hall -, la fregata Underwood, tre navi porta contenitori di materiali militari che non richiedono moli di attracco, unità appoggio sommergibili e recuperi sottomarini, navi cisterna e da rifornimento, altre undici unità minori. Ed infine una nave ospedale da 1.000 letti.
Tutto quanto serve, secondo i materiali del Pentagono, per mantenere sul piede di guerra e in combattimento per 90 giorni un corpo di spedizione di 20.000 uomini.
Sotto questo aspetto non ci sono state disorganizzazioni, situazioni caotiche, interruzioni della catena di comando, carenze di altro tipo: tutto ha funzionato a meraviglia anche se ha richiesto di bloccare o dirottare 1.340 voli umanitari dallEuropa, ritardare larrivo di 5.800 uomini delle ONG dallAmerica Latina, la distribuzione di generi di prima necessità, lallestimento della sua struttura logistica su un suo territorio di 27.000 chilometri quadrati (2.000 in più del Piemonte) con 9 milioni di abitanti (600.000 meno della Lombardia).
Le priorità sottaciute di una sì vasta operazione militare sono altre. Prima tra tutte rendere impenetrabile un blocco aero-navale che impedisca lesodo in massa dei sopravvissuti al terremoto dell11 gennaio ed alla fame ed allo spietato sfruttamento economico di due secoli. E un fenomeno ricorrente degli ultimi settanta anni: lultima volta alla fine del secolo scorso questa politica dei respingimenti applicata con un certo ritardo portò alla deportazione temporanea a Guantanamo ed al rimpatrio coercitivo ad Haiti di 21.000 profughi approdati con mezzi di fortuna e con centinaia di vittime in mare sulle spiagge della Florida. Sotto traccia i pregiudizi razziali, sociali e storici: gli haitiani hanno la pelle più scura degli afro-americani, un livello intellettivo uguale se non più alto (sono altamente competitivi come ogni altra minoranza etnica). E poi ci sono le realtà e i miti storici dei cosiddetti giacobini neri guidati nel 1791 da Toussaint Louverture e da Jean-Jacques Dessalines che portarono al successo una rivolta di schiavi, la difesero dalla guerra scatenata da Napoleone con 30.000 soldati francesi guidati dal famoso generale Leclerc e proclamarono nel 1804 lindipendenza della prima repubblica nera del continente americano e forse del mondo intero. Non cè dubbio che delle atrocità contro i bianchi vennero perpetrate in quei tredici anni e subito dopo, ma quelle atrocità vennero elevate allennesima potenza da una propaganda accanita di chi vedeva nellabolizione della schiavitù un colpo mortale alleconomia americana ed europea. Selvagge e senza fine le rappresaglie degli Stati Uniti, della Francia, della Gran Bretagna e degli altri paesi Europei: sanzioni economiche ammontanti a risarcimenti per 98 milioni di dollari di quei tempi, pari allincirca al debito pubblico dellItalia di oggi (lultima quota è stata pagata dalla Repubblica di Haiti nel 1947), blocco delle esportazioni agricole e quattro protratte invasioni militari.
E poi altre priorità: il controllo di un paese troppo vicino alla Cuba di Fidel Castro (1.200 i medici cubani che operano da anni ad Haiti i cui abitanti non sono certo insensibili ai fermenti progressisti dellAmerica Latina come dimostrato dal duplice avvento al potere del teologo della liberazione Aristide, due volte vittima dei colpi di stato allestiti dai servizi segreti USA). Ed infine il pericolo di una rivolta popolare contro condizioni di vita inaccettabili in qualsiasi altro paese del mondo, una rivolta che nelle fantasie dei dottor Stranamore di Washington potrebbe seguire la falsariga gi quella guidata dai leggendari Toussaint Louverture e Jean-Jaques Dessalines.
Medioevo prossimo venturo
Medioevo prossimo venturo
Invio, pur non essendo un buon articolo, questo: http://www.forward.com/articles/123925/ : mette in evidenza che i servizi segreti israeliani hanno arrestato coloni troppo estremisti persino per loro (IV paragrafo), mentre riporta solo dopo che rabbini israeliani di alto rango, fra cui il figlio di Ovadia Yosef, hanno sostenuto il libro che incita a uccidere i non ebrei, bambini compresi, e che la yeshiva produttrice del libro è ampiamente finanziata dallo stato di Israele. I due paragrafi più importanti, però, mi sembrano quello che inizia con At the entrance, e i tre successivi: il libro è liberamente in vendita in Israele e nelle colonie (e vende pure bene) (chisssà, chissà: nella speranza che non accada, ma: cosa direbbe la propaganda israeliana se trovasse un libro fondamentalista islamico, che incita a uccidere gli ebrei, bambini compresi, liberamente in vendita a Gaza o in Siria/Libano/Iran/, e la cui casa editrice è ampiamente finanziata da chi governa?)
Sulle armi di militari USA, in Iraq e in Afghanistan, incisi riferimenti a versetti neotestamentari, in modo che, ispirati, questi ammazzino meglio
http://abcnews.go.com/Blotter/us-military-weapons-inscribed-secret-jesus-bible-codes/story?id=9575794&page=1 (con video)
Invio, pur non essendo un buon articolo, questo: http://www.forward.com/articles/123925/ : mette in evidenza che i servizi segreti israeliani hanno arrestato coloni troppo estremisti persino per loro (IV paragrafo), mentre riporta solo dopo che rabbini israeliani di alto rango, fra cui il figlio di Ovadia Yosef, hanno sostenuto il libro che incita a uccidere i non ebrei, bambini compresi, e che la yeshiva produttrice del libro è ampiamente finanziata dallo stato di Israele. I due paragrafi più importanti, però, mi sembrano quello che inizia con At the entrance, e i tre successivi: il libro è liberamente in vendita in Israele e nelle colonie (e vende pure bene) (chisssà, chissà: nella speranza che non accada, ma: cosa direbbe la propaganda israeliana se trovasse un libro fondamentalista islamico, che incita a uccidere gli ebrei, bambini compresi, liberamente in vendita a Gaza o in Siria/Libano/Iran/, e la cui casa editrice è ampiamente finanziata da chi governa?)
Sulle armi di militari USA, in Iraq e in Afghanistan, incisi riferimenti a versetti neotestamentari, in modo che, ispirati, questi ammazzino meglio
http://abcnews.go.com/Blotter/us-military-weapons-inscribed-secret-jesus-bible-codes/story?id=9575794&page=1 (con video)
sabato 23 gennaio 2010
Gli esperti affermano che il muro dell’Egitto distruggerà la falda idrica di Gaza”
Gaza – Ma’an – Domenica, durante un simposio intitolato Il Muro di Metallo tra l’Egitto e Gaza: ripercussioni e conseguenze, di tipo ambientale ed umano, tenutosi a Gaza, gli esperti hanno stabilito che il muro sotterraneo di acciaio dell’Egitto porterà alla distruzione della falda acquifera di Gaza.
Esperti e specialisti hanno fatto appello a università e a centri di ricerca perché compartecipino agli studi sull’impatto del muro di acciaio dell’Egitto lungo i confini di Gaza.
Riserva idrica sotterranea ed erosione del terreno.
L’esperto idrologo Nezar Al-Weheidi ha notato che il muro di metallo mette a rischio il sistema del comprensorio idrico sotterraneo di Gaza e, a seguito dell’inquinamento, causerà la distruzione della falda acquifera. Ciò, a sua volta, produrrà ripercussioni devastanti di tipo ambientale, economico e sociale a carico di entrambi, sia degli egiziani che dei palestinesi, cioè la distruzione dei pozzi di acqua da bere e di quelli utilizzati per l’agricoltura e per le altre industrie.
Scavi molto estesi potrebbero portare alla risalita di acqua salina per pompaggio, con il conseguente sprofondamento del terreno. Al-Weheidi ha avvertito che ciò potrebbe determinare il crollo dei palazzi di Gaza. I tunnel, ha detto, contribuirebbero al flusso dell’acqua salina.
Distruzione della falda idrica.
Abed Al-Fattah Abed Rabu, docente in Scienze Ambientali presso l’Università Islamica ha affermato che “ il muro di metallo, interrato ad una profondità dai 20 ai 30 metri, ostruirà il flusso dell’acqua nella falda idrica comune posta tra il Sinai e Gaza, metterà a rischio la falda idrica che è già sofferente per numerosi problemi, inclusa la mancanza di acqua, l’inquinamento e la cattiva gestione.”
“La costruzione del muro contribuirà alla contaminazione della falda idrica a causa della debolezza e dell’incoerenza del terreno il quale, a sua volta, contribuirà al degrado della qualità dell’acqua. Ciò porterà ad un aumento dell’impoverimento dell’ambiente locale e influenzerà le condizioni di salute ed ambientali di Gaza.”
Diramazioni economiche.
Mu’een Rajab, economista dell’Università Al-Azhar, ha rilevato che: “il lavoro incerto nei tunnel impedirà ai mercati locali di avere accesso ai prodotti che giungono attraverso le gallerie, quali forniture di cibo e di materiali da costruzione. Ciò determinerebbe l’abbattimento dello sviluppo dei mercati locali – un problema che contribuirà allo sviluppo di una grave recessione economica.”
“In tale situazione, Gaza svilupperà un mercato nero, per una gran quantità di beni compresi quelli essenziali, un’andare alle stelle dei prezzi e lunghe file infinite.
Crescendo il grado di disoccupazione, Rajab ha valutato che più di 30.000 lavoratori avrebbero perso il loro lavoro.
Il ruolo dei mezzi di informazione.
Samir Hamtu, un giornalista esperto in Palestina, ha affermato che le testate giornalistiche devono assumere una linea professionale nel trattare quelle che sono le ripercussioni della costruzione del muro, dedicando particolare attenzione agli aspetti umani, geografici e demografici di questo problema, invece di promuovere campagne che porteranno ad un aumento di tensione nei rapporti tra gli egiziani e i palestinesi.
Hamtu ha spronato le testate giornalistiche a giocare un ruolo importante nel trasmettere i punti di vista di entrambe le parti che risentono del muro.
“Il problema più importante è quello di mettere a fuoco l’urgenza dell’apertura del posto di confine e di porre termine all’assedio senza che ci sia un innalzamento delle tensioni che avrebbero danneggiato gli interessi dei palestinesi.”
(tradotto da mariano mingarelli)
Esperti e specialisti hanno fatto appello a università e a centri di ricerca perché compartecipino agli studi sull’impatto del muro di acciaio dell’Egitto lungo i confini di Gaza.
Riserva idrica sotterranea ed erosione del terreno.
L’esperto idrologo Nezar Al-Weheidi ha notato che il muro di metallo mette a rischio il sistema del comprensorio idrico sotterraneo di Gaza e, a seguito dell’inquinamento, causerà la distruzione della falda acquifera. Ciò, a sua volta, produrrà ripercussioni devastanti di tipo ambientale, economico e sociale a carico di entrambi, sia degli egiziani che dei palestinesi, cioè la distruzione dei pozzi di acqua da bere e di quelli utilizzati per l’agricoltura e per le altre industrie.
Scavi molto estesi potrebbero portare alla risalita di acqua salina per pompaggio, con il conseguente sprofondamento del terreno. Al-Weheidi ha avvertito che ciò potrebbe determinare il crollo dei palazzi di Gaza. I tunnel, ha detto, contribuirebbero al flusso dell’acqua salina.
Distruzione della falda idrica.
Abed Al-Fattah Abed Rabu, docente in Scienze Ambientali presso l’Università Islamica ha affermato che “ il muro di metallo, interrato ad una profondità dai 20 ai 30 metri, ostruirà il flusso dell’acqua nella falda idrica comune posta tra il Sinai e Gaza, metterà a rischio la falda idrica che è già sofferente per numerosi problemi, inclusa la mancanza di acqua, l’inquinamento e la cattiva gestione.”
“La costruzione del muro contribuirà alla contaminazione della falda idrica a causa della debolezza e dell’incoerenza del terreno il quale, a sua volta, contribuirà al degrado della qualità dell’acqua. Ciò porterà ad un aumento dell’impoverimento dell’ambiente locale e influenzerà le condizioni di salute ed ambientali di Gaza.”
Diramazioni economiche.
Mu’een Rajab, economista dell’Università Al-Azhar, ha rilevato che: “il lavoro incerto nei tunnel impedirà ai mercati locali di avere accesso ai prodotti che giungono attraverso le gallerie, quali forniture di cibo e di materiali da costruzione. Ciò determinerebbe l’abbattimento dello sviluppo dei mercati locali – un problema che contribuirà allo sviluppo di una grave recessione economica.”
“In tale situazione, Gaza svilupperà un mercato nero, per una gran quantità di beni compresi quelli essenziali, un’andare alle stelle dei prezzi e lunghe file infinite.
Crescendo il grado di disoccupazione, Rajab ha valutato che più di 30.000 lavoratori avrebbero perso il loro lavoro.
Il ruolo dei mezzi di informazione.
Samir Hamtu, un giornalista esperto in Palestina, ha affermato che le testate giornalistiche devono assumere una linea professionale nel trattare quelle che sono le ripercussioni della costruzione del muro, dedicando particolare attenzione agli aspetti umani, geografici e demografici di questo problema, invece di promuovere campagne che porteranno ad un aumento di tensione nei rapporti tra gli egiziani e i palestinesi.
Hamtu ha spronato le testate giornalistiche a giocare un ruolo importante nel trasmettere i punti di vista di entrambe le parti che risentono del muro.
“Il problema più importante è quello di mettere a fuoco l’urgenza dell’apertura del posto di confine e di porre termine all’assedio senza che ci sia un innalzamento delle tensioni che avrebbero danneggiato gli interessi dei palestinesi.”
(tradotto da mariano mingarelli)
venerdì 22 gennaio 2010
GLI ABITANTI DI GAZA SOSTENGONO HAITI
Avi Issacharoff
Selon l’agence de presse Ma’an, lundi 18 janvier, les Palestiniens de Gaza apportent des dons et du soutien financier aux victimes du séisme dévastateur qui a frappé Haïti, dans les locaux de la Croix Rouge.
D’après Ma’an, des Gazaouis, membres de familles de prisonniers détenus en Israël, ont également pris part à cet effort, offrant de l’argent et des biens tels des couvertures ainsi que de la nourriture et du lait pour les enfants. Ce rapport a été publié après que l’Autorité palestinienne qui contrôle la Cisjordanie a déclaré vouloir envoyer de l’aide humanitaire à Haïti à la suite du tremblement de terre dévastateur qui a quasiment rasé la capitale de l’île, ajoutant qu’elle travaillait à assurer la sécurité de la communauté palestinienne sur l’île .
Jamal Al-Khudary, responsable du Comité pour Mettre Fin au Siège [de Gaza] a affirmé que "les gens peuvent s’étonner de notre capacité à rassembler des dons offerts par notre peuple à Gaza, mais nous leur disons qu’il s’agit d’une situation humanitaire et que nous sommes un peuple qui aime la vie et paix ".
"Nous sommes ici aujourd’hui pour soutenir Haïti. Nous sommes d’autant plus proches d’eux que nous avons subi notre propre tremblement de terre pendant la guerre d’Israël contre Gaza." [1] Selon Al-Khudary, le directeur de la Croix Rouge n’a pu accepter que les dons en argent car il est quasi impossible de transférer des biens hors de la Bande de Gaza.
Pendant ce temps, des centaines de milliers de Haïtiens continuaient à se battre pour trouver de la nourriture et un abri après le tremblement de terre de la semaine passée, tandis que les agences d’aide internationales signalaient un grave manque de ravitaillement malgré la demande pressante.
"Il n’y a guère de signe d’une distribution significative de l’aide," a déclaré un représentant de Médecins sans Frontières, de Genève. L’ONG se plaint aussi de priorités mal posées et de l’engorgement à l’aéroport que contrôlent les Etats-Unis, et elle demande aux militaires américains de préciser qu’ils donnent la priorité aux fournitures et équipements médicaux.
Lundi, l’équipe de secours israélienne envoyée sur place pour chercher des survivants dans les décombres laissés par le tremblement de terre meurtrier [2], avait apparemment cessé ses efforts, considérant que les chances de trouver d’autres survivants au bout de 4 jours étaient minimes. [3]
[1] voir la vidéo sur Euronews http://fr.euronews.net/2010/01/18/t...
[2] Dimanche soir 17 janvier, le journal de 20h sur la 2 montre des Haitiens scandant" Israël bon boulot, Israël bon boulot" quand des sauveteurs israéliens (membres de l’armée israélienne) sortent des décombres un Haitien en vie.
Les journalistes, absents de Gaza pendant la guerre dévastatrice qu’Israël amenée contre la population de Gaza l’hiver dernier insistent sur ce sauvetage, amenant les téléspectateurs français à admirer le dévouement des soldats israéliens.
Il en est de même en Israël, et le journaliste d’Haaretz, Akiva Eldar,remarque : "Cependant cette identification remarquable avec les victimes de la tragédie dans la lointaine Haïti ne fait que souligner l’indifférence à l’égard des souffrances persistantes des habitants de Gaza".... "Les lecteurs des journaux israéliens sont informés qu’un bébé a été retiré des décombres à Port-au-Prince. Peu d’entre eux ont entendu parler des nourrissons qui dorment dans les ruines de leur maison familiale à Gaza".... "Le désastre en Haïti est une catastrophe naturelle, celui de Gaza est l’ouvrage honteux de l’homme. Notre ouvrage. L’armée n’envoie pas à Gaza d’avions-cargos bourrés de médicaments et d’équipement médical" http://www.haaretz.com/hasen/pages/...
[3] Résumé de la suite de l’article : le responsable des troupes de l’ONU demande plus d’hommes momentanément après des violences sporadiques dues au manque de nourriture au regard de la demande. Les gens réclament de la nourriture et des abris. La police a tiré sur des émeutiers qui brûlaient des magasins. Voir sur l’article source en anglais
publié par Haaretz
http://www.haaretz.com/hasen/pages/...
traductionj et notes : C. Léostic, Afps
Selon l’agence de presse Ma’an, lundi 18 janvier, les Palestiniens de Gaza apportent des dons et du soutien financier aux victimes du séisme dévastateur qui a frappé Haïti, dans les locaux de la Croix Rouge.
D’après Ma’an, des Gazaouis, membres de familles de prisonniers détenus en Israël, ont également pris part à cet effort, offrant de l’argent et des biens tels des couvertures ainsi que de la nourriture et du lait pour les enfants. Ce rapport a été publié après que l’Autorité palestinienne qui contrôle la Cisjordanie a déclaré vouloir envoyer de l’aide humanitaire à Haïti à la suite du tremblement de terre dévastateur qui a quasiment rasé la capitale de l’île, ajoutant qu’elle travaillait à assurer la sécurité de la communauté palestinienne sur l’île .
Jamal Al-Khudary, responsable du Comité pour Mettre Fin au Siège [de Gaza] a affirmé que "les gens peuvent s’étonner de notre capacité à rassembler des dons offerts par notre peuple à Gaza, mais nous leur disons qu’il s’agit d’une situation humanitaire et que nous sommes un peuple qui aime la vie et paix ".
"Nous sommes ici aujourd’hui pour soutenir Haïti. Nous sommes d’autant plus proches d’eux que nous avons subi notre propre tremblement de terre pendant la guerre d’Israël contre Gaza." [1] Selon Al-Khudary, le directeur de la Croix Rouge n’a pu accepter que les dons en argent car il est quasi impossible de transférer des biens hors de la Bande de Gaza.
Pendant ce temps, des centaines de milliers de Haïtiens continuaient à se battre pour trouver de la nourriture et un abri après le tremblement de terre de la semaine passée, tandis que les agences d’aide internationales signalaient un grave manque de ravitaillement malgré la demande pressante.
"Il n’y a guère de signe d’une distribution significative de l’aide," a déclaré un représentant de Médecins sans Frontières, de Genève. L’ONG se plaint aussi de priorités mal posées et de l’engorgement à l’aéroport que contrôlent les Etats-Unis, et elle demande aux militaires américains de préciser qu’ils donnent la priorité aux fournitures et équipements médicaux.
Lundi, l’équipe de secours israélienne envoyée sur place pour chercher des survivants dans les décombres laissés par le tremblement de terre meurtrier [2], avait apparemment cessé ses efforts, considérant que les chances de trouver d’autres survivants au bout de 4 jours étaient minimes. [3]
[1] voir la vidéo sur Euronews http://fr.euronews.net/2010/01/18/t...
[2] Dimanche soir 17 janvier, le journal de 20h sur la 2 montre des Haitiens scandant" Israël bon boulot, Israël bon boulot" quand des sauveteurs israéliens (membres de l’armée israélienne) sortent des décombres un Haitien en vie.
Les journalistes, absents de Gaza pendant la guerre dévastatrice qu’Israël amenée contre la population de Gaza l’hiver dernier insistent sur ce sauvetage, amenant les téléspectateurs français à admirer le dévouement des soldats israéliens.
Il en est de même en Israël, et le journaliste d’Haaretz, Akiva Eldar,remarque : "Cependant cette identification remarquable avec les victimes de la tragédie dans la lointaine Haïti ne fait que souligner l’indifférence à l’égard des souffrances persistantes des habitants de Gaza".... "Les lecteurs des journaux israéliens sont informés qu’un bébé a été retiré des décombres à Port-au-Prince. Peu d’entre eux ont entendu parler des nourrissons qui dorment dans les ruines de leur maison familiale à Gaza".... "Le désastre en Haïti est une catastrophe naturelle, celui de Gaza est l’ouvrage honteux de l’homme. Notre ouvrage. L’armée n’envoie pas à Gaza d’avions-cargos bourrés de médicaments et d’équipement médical" http://www.haaretz.com/hasen/pages/...
[3] Résumé de la suite de l’article : le responsable des troupes de l’ONU demande plus d’hommes momentanément après des violences sporadiques dues au manque de nourriture au regard de la demande. Les gens réclament de la nourriture et des abris. La police a tiré sur des émeutiers qui brûlaient des magasins. Voir sur l’article source en anglais
publié par Haaretz
http://www.haaretz.com/hasen/pages/...
traductionj et notes : C. Léostic, Afps
PHR-IL (Physicians for Human Rights – Israel)
12.01.2010
"Israele ha impedito a 17 videolesi di Gaza di recarsi in tempo per operazioni di trapianto della cornea; una donazione di dozzine di cornee è finita nella fogna."
Questa settimana, le autorità israeliane al checkpoint di Erez hanno impedito l’uscita dalla Striscia di Gaza a 17 pazienti videolesi, affetti da varie patologie agli occhi, per essere sottoposti a trapianti di cornea, un intervento che non è effettuabile nel sistema sanitario di Gaza. A causa di questo ritardo, per tali pazienti è venuta a mancare l’opportunità del varco sanitario perché i trapianti venissero eseguiti, in quanto le cornee possono essere trapiantate solo entro un breve intervallo di tempo (24 – 48 ore dopo che sono state estratte dai corpi dei donatori). I pazienti di Gaza la cui uscita era stata impedita dovranno perciò attendere per un’altra donazione, che può esserci oppure no.
All’inizio della settimana i Medici per i Diritti Umani – Israele (PHR-Israel) avevano ricevuto un avviso dal Centro Medico Musallam di Gaza. In base a tale istanza, un gruppo numeroso di 14 pazienti di Gaza, che erano stati invitati a Ramallah per il trapianto della cornea da domenica a mercoledì di questa settimana (3-5 gennaio 2010), non aveva raggiunto la loro destinazione. Altri tre pazienti si erano rivolti al PHR_Israel separatamente. Il gruppo di pazienti comprende alcune persone che erano in attesa per il trapianto della cornea da settimane o persino da mesi. L’attesa più lunga era quella del 31 enne S.A.. che era rimasto ad aspettare per questo tipo di intervento per ben tre anni.
Questa settimana, il principale Centro Medico Musallam a Ramallah aveva ricevuto dagli Stati Uniti due consegne di dozzine di cornee, donate dalla Banca Internazionale del Tessuto, un’organizzazione americana che promuove trapianti di cornee e di tessuti. Ogni anno, durante l’intervallo natalizio, vengono inviate delle cornee, in quanto in quel periodo negli Stati Uniti non hanno luogo quei tipi di operazioni, come donazione al sistema sanitario palestinese, e destinate in particolar modo agli ammalati agli occhi di Gaza.
L’indagine svolta dal Centro Medico di Ramallah sollevò la preoccupazione che l’uscita dei pazienti di Gaza era stata impedita dalle autorità israeliane e di conseguenza domenica il PHR-Israel aveva fatto una petizione urgente al DCO (District Coordination Office) di Gaza, responsabile per la concessione dei permessi di uscita ai pazienti. In tale istanza al DCO, il PHR aveva avvertito che impedendo l’uscita dei pazienti videolesi per le operazioni agli occhi questa settimana provocherà di conseguenza a loro la perdita dell’opportunità del trapianto della cornea eventualmente nel prossimo futuro, in quanto le cornee destinate ai trapianti hanno una data di scadenza molto vicina.
Questo caso, con le sue conseguenze di vasta portata per i pazienti videolesi che ora hanno perduto l’occasione di porre un riparo alla loro vista, chiarisce le molte difficoltà che devono affrontare coloro che abitano a Gaza che necessitano di assistenza sanitaria che non è dispensabile nella Striscia di Gaza. i ritardi, l’apatia e il rifiuto da parte delle autorità israeliane che ogni mese limitano l’accesso alle cure mediche a dozzine di pazienti, assume un significato particolarmente grave in questo caso, in quanto l’impedimento dell’uscita da Gaza a questi pazienti ha determinato la perdita delle cornee (che possono essere trapiantate sono entro e non più tardi delle 48 ore dalla loro donazione). Orbene, i pazienti dovranno attendere per la donazione di un’altra cornea un tempo indeterminato e la probabilità che ciò avvenga.
Il PHR – Israel protesta perciò con gran forza contro la sfrontata trascuratezza delle autorità del check point di Erez nei confronti dell’urgenza sanitaria connessa al permesso di uscita dei pazienti per gli interventi di trapianto della cornea.
Per ulteriori informazioni rivolgersi a ranyaron@phr.org.ilIndirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo
(tradotto da mariano mingarelli)
Ultimo aggiornamento ( Wednesday 20 January 2010 )
12.01.2010
"Israele ha impedito a 17 videolesi di Gaza di recarsi in tempo per operazioni di trapianto della cornea; una donazione di dozzine di cornee è finita nella fogna."
Questa settimana, le autorità israeliane al checkpoint di Erez hanno impedito l’uscita dalla Striscia di Gaza a 17 pazienti videolesi, affetti da varie patologie agli occhi, per essere sottoposti a trapianti di cornea, un intervento che non è effettuabile nel sistema sanitario di Gaza. A causa di questo ritardo, per tali pazienti è venuta a mancare l’opportunità del varco sanitario perché i trapianti venissero eseguiti, in quanto le cornee possono essere trapiantate solo entro un breve intervallo di tempo (24 – 48 ore dopo che sono state estratte dai corpi dei donatori). I pazienti di Gaza la cui uscita era stata impedita dovranno perciò attendere per un’altra donazione, che può esserci oppure no.
All’inizio della settimana i Medici per i Diritti Umani – Israele (PHR-Israel) avevano ricevuto un avviso dal Centro Medico Musallam di Gaza. In base a tale istanza, un gruppo numeroso di 14 pazienti di Gaza, che erano stati invitati a Ramallah per il trapianto della cornea da domenica a mercoledì di questa settimana (3-5 gennaio 2010), non aveva raggiunto la loro destinazione. Altri tre pazienti si erano rivolti al PHR_Israel separatamente. Il gruppo di pazienti comprende alcune persone che erano in attesa per il trapianto della cornea da settimane o persino da mesi. L’attesa più lunga era quella del 31 enne S.A.. che era rimasto ad aspettare per questo tipo di intervento per ben tre anni.
Questa settimana, il principale Centro Medico Musallam a Ramallah aveva ricevuto dagli Stati Uniti due consegne di dozzine di cornee, donate dalla Banca Internazionale del Tessuto, un’organizzazione americana che promuove trapianti di cornee e di tessuti. Ogni anno, durante l’intervallo natalizio, vengono inviate delle cornee, in quanto in quel periodo negli Stati Uniti non hanno luogo quei tipi di operazioni, come donazione al sistema sanitario palestinese, e destinate in particolar modo agli ammalati agli occhi di Gaza.
L’indagine svolta dal Centro Medico di Ramallah sollevò la preoccupazione che l’uscita dei pazienti di Gaza era stata impedita dalle autorità israeliane e di conseguenza domenica il PHR-Israel aveva fatto una petizione urgente al DCO (District Coordination Office) di Gaza, responsabile per la concessione dei permessi di uscita ai pazienti. In tale istanza al DCO, il PHR aveva avvertito che impedendo l’uscita dei pazienti videolesi per le operazioni agli occhi questa settimana provocherà di conseguenza a loro la perdita dell’opportunità del trapianto della cornea eventualmente nel prossimo futuro, in quanto le cornee destinate ai trapianti hanno una data di scadenza molto vicina.
Questo caso, con le sue conseguenze di vasta portata per i pazienti videolesi che ora hanno perduto l’occasione di porre un riparo alla loro vista, chiarisce le molte difficoltà che devono affrontare coloro che abitano a Gaza che necessitano di assistenza sanitaria che non è dispensabile nella Striscia di Gaza. i ritardi, l’apatia e il rifiuto da parte delle autorità israeliane che ogni mese limitano l’accesso alle cure mediche a dozzine di pazienti, assume un significato particolarmente grave in questo caso, in quanto l’impedimento dell’uscita da Gaza a questi pazienti ha determinato la perdita delle cornee (che possono essere trapiantate sono entro e non più tardi delle 48 ore dalla loro donazione). Orbene, i pazienti dovranno attendere per la donazione di un’altra cornea un tempo indeterminato e la probabilità che ciò avvenga.
Il PHR – Israel protesta perciò con gran forza contro la sfrontata trascuratezza delle autorità del check point di Erez nei confronti dell’urgenza sanitaria connessa al permesso di uscita dei pazienti per gli interventi di trapianto della cornea.
Per ulteriori informazioni rivolgersi a ranyaron@phr.org.ilIndirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo
(tradotto da mariano mingarelli)
Ultimo aggiornamento ( Wednesday 20 January 2010 )
L'alluvione di Gaza si chiama Israele
| di Michele Giorgio
Gaza, altro che alluvione
Non c'è fine alle sofferenze della Striscia di Gaza. A un anno dalla devastante offensiva militare israeliana «Piombo fuso» è arrivata anche un'alluvione. La più devastante da dieci anni a questa parte. Ma quello che qualcuno ha rapidamente descritto come un semplice disastro naturale, conseguenza delle piogge torrenziali che si sono abbattute sulla regione dopo un lungo periodo di siccità - dal cielo sono caduti in poche ore fino a 70 millilitri di acqua, due terzi delle precipitazioni medie regionali dell'intero inverno - in realtà è frutto anche, se non soprattutto, della decisione da parte delle autorità israeliane di aprire una diga ad est della Striscia senza coordinarsi in alcun modo o, almeno, avvertire gli abitanti di Gaza. Lo hanno denunciato ieri fonti palestinesi correggendo le informazioni divulgate inizialmente dalle agenzie di stampa.
Così da un giorno all'altro un centinaio di famiglie, in gran parte beduine (circa 800 persone), residenti nel wadi, la valle nei pressi di Gaza city, si ritrovano senza alcun riparo e vanno ad aggiungersi alle tante altre che hanno perduto la casa nella guerra di un anno fa.
Le famiglie vittime dell'alluvione si erano stabilite nel wadi perché da quelle parti di acqua non se ne vedeva più da un bel po' di tempo. Israele, per mettere le mani sulla (poca) acqua piovana caduta in quella zona negli ultimi anni, ha infatti costruito un mega serbatoio e una diga ad est della Striscia, impedendo in questo modo alla pioggia di scorrere verso il wadi che sfocia sulla costa di Gaza. Ad attirare in quella zona i beduini allevatori di pecore è stata anche l'erba, leggermente più abbondante rispetto al resto del territorio di Gaza, presente nel letto del fiume secco. Ieri però, stando al resoconto fornito della Difesa civile di Gaza, di fronte all'improvvisa abbondanza di acqua frutto delle eccezionali precipitazioni, gli israeliani hanno aperto senza preavviso la diga che regola il mega serbatoio e ben 3 milioni di metri cubi di acqua hanno inondato il wadi travolgendo ogni cosa.
A Jurok a-Dik e a Nuseirat l'acqua ha raggiunto altezze fino quattro metri inondando le case e le povere tende e strutture di lamiera dei beduini. Solo l'intervento dei vigili del fuoco e dei volontari della Difesa civile ha evitato il peggio, permettendo di salvare più di una persona dalla furia delle acque. Non sono scampate alle morte però molte decine di capi di bestiame, unica fonte di sostentamento per tante famiglie nella Gaza sotto assedio. Secondo un'agenzia di stampa, invece, «al colmo della sventura», l'acqua sarebbe semplicemente tracimata a cascata dalle falle prodottesi nel mega serbatoio israeliano, allagando il wadi nel raggio di circa 8 km, dal confine orientale con lo Stato ebraico fino al Mar Mediterraneo. Una versione smentita a Gaza dove, al contrario, si lanciano accuse pesanti a Israele che, da quando il movimento islamico Hamas ha preso il potere nel 2007, non mantiene attivo alcun canale di collegamento diretto con le autorità palestinesi nella Striscia.
Gaza, altro che alluvione
Non c'è fine alle sofferenze della Striscia di Gaza. A un anno dalla devastante offensiva militare israeliana «Piombo fuso» è arrivata anche un'alluvione. La più devastante da dieci anni a questa parte. Ma quello che qualcuno ha rapidamente descritto come un semplice disastro naturale, conseguenza delle piogge torrenziali che si sono abbattute sulla regione dopo un lungo periodo di siccità - dal cielo sono caduti in poche ore fino a 70 millilitri di acqua, due terzi delle precipitazioni medie regionali dell'intero inverno - in realtà è frutto anche, se non soprattutto, della decisione da parte delle autorità israeliane di aprire una diga ad est della Striscia senza coordinarsi in alcun modo o, almeno, avvertire gli abitanti di Gaza. Lo hanno denunciato ieri fonti palestinesi correggendo le informazioni divulgate inizialmente dalle agenzie di stampa.
Così da un giorno all'altro un centinaio di famiglie, in gran parte beduine (circa 800 persone), residenti nel wadi, la valle nei pressi di Gaza city, si ritrovano senza alcun riparo e vanno ad aggiungersi alle tante altre che hanno perduto la casa nella guerra di un anno fa.
Le famiglie vittime dell'alluvione si erano stabilite nel wadi perché da quelle parti di acqua non se ne vedeva più da un bel po' di tempo. Israele, per mettere le mani sulla (poca) acqua piovana caduta in quella zona negli ultimi anni, ha infatti costruito un mega serbatoio e una diga ad est della Striscia, impedendo in questo modo alla pioggia di scorrere verso il wadi che sfocia sulla costa di Gaza. Ad attirare in quella zona i beduini allevatori di pecore è stata anche l'erba, leggermente più abbondante rispetto al resto del territorio di Gaza, presente nel letto del fiume secco. Ieri però, stando al resoconto fornito della Difesa civile di Gaza, di fronte all'improvvisa abbondanza di acqua frutto delle eccezionali precipitazioni, gli israeliani hanno aperto senza preavviso la diga che regola il mega serbatoio e ben 3 milioni di metri cubi di acqua hanno inondato il wadi travolgendo ogni cosa.
A Jurok a-Dik e a Nuseirat l'acqua ha raggiunto altezze fino quattro metri inondando le case e le povere tende e strutture di lamiera dei beduini. Solo l'intervento dei vigili del fuoco e dei volontari della Difesa civile ha evitato il peggio, permettendo di salvare più di una persona dalla furia delle acque. Non sono scampate alle morte però molte decine di capi di bestiame, unica fonte di sostentamento per tante famiglie nella Gaza sotto assedio. Secondo un'agenzia di stampa, invece, «al colmo della sventura», l'acqua sarebbe semplicemente tracimata a cascata dalle falle prodottesi nel mega serbatoio israeliano, allagando il wadi nel raggio di circa 8 km, dal confine orientale con lo Stato ebraico fino al Mar Mediterraneo. Una versione smentita a Gaza dove, al contrario, si lanciano accuse pesanti a Israele che, da quando il movimento islamico Hamas ha preso il potere nel 2007, non mantiene attivo alcun canale di collegamento diretto con le autorità palestinesi nella Striscia.
SHASHAT, schermi al femminile in Palestina
Shashat in arabo significa “schermi”. Ma Shashat è anche una ONG palestinese con sede a Ramallah (Cisgiordania), il cui principale obiettivo è la promozione del cinema al femminile. Fondata nel 2005, con registe e esperte di cinema ma anche registi uomini, lavora in collaborazione con istituzioni sull’intero territorio palestinese, soprattutto dove la vita culturale presenta aspetti di debolezza o discontinuità.
Le attività di Shashat si centrano sull’analisi delle implicazioni culturali legate alle immagini usate per rappresentare le donne o per autorappresentarsi e l’accesso delle donne alla produzione culturale, cinematografica in primis. Da 5 anni organizza e promuove l’unico festival di cinema al femminile in tutto il mondo arabo. Nella edizione di quest’anno i film in programma hanno fatto il tour di tutta la Palestina, con proiezioni anche all’interno dei campi profughi, conferenze pubbliche, dibattiti e iniziative nelle scuole. Tra i temi chiave: Gerusalemme, capitale della cultura araba nel 2009; la storia del cinema in Palestina dagli albori a oggi; il legame tra donne e conflitti. Nella sezione Gerusalemme, che ha aperto il festival, 8 giovanissime palestinesi si sono cimentate nella regia di cortometraggi, raccolti sotto un unico titolo “Jerusalem… So near… So far” (Gerusalemme così vicino così lontano), 43 minuti in cui ogni singolo video contiene una storia, un’emozione, una riflessione legata a Gerusalemme, al suo accesso negato a molti palestinesi, ma anche ad alcuni aspetti culturali della vita a Gerusalemme Est, sicuramente diversa dalla vista di altre città della West Bank.
A partire dalla seconda Intifada c’è stata un’ondata nella produzione filmica al femminile; se da una parte l’occupazione militare (con tutte le sue conseguenze) e la maggiore restrizione dei movimenti imposta da Israele ai palestinesi a partire dal 2000 hanno frammentato la produzione artistica, d’altra parte l’hanno anche resa estremamente prolifica e il festival di Shashat ne è la riprova.
Le attività di Shashat si centrano sull’analisi delle implicazioni culturali legate alle immagini usate per rappresentare le donne o per autorappresentarsi e l’accesso delle donne alla produzione culturale, cinematografica in primis. Da 5 anni organizza e promuove l’unico festival di cinema al femminile in tutto il mondo arabo. Nella edizione di quest’anno i film in programma hanno fatto il tour di tutta la Palestina, con proiezioni anche all’interno dei campi profughi, conferenze pubbliche, dibattiti e iniziative nelle scuole. Tra i temi chiave: Gerusalemme, capitale della cultura araba nel 2009; la storia del cinema in Palestina dagli albori a oggi; il legame tra donne e conflitti. Nella sezione Gerusalemme, che ha aperto il festival, 8 giovanissime palestinesi si sono cimentate nella regia di cortometraggi, raccolti sotto un unico titolo “Jerusalem… So near… So far” (Gerusalemme così vicino così lontano), 43 minuti in cui ogni singolo video contiene una storia, un’emozione, una riflessione legata a Gerusalemme, al suo accesso negato a molti palestinesi, ma anche ad alcuni aspetti culturali della vita a Gerusalemme Est, sicuramente diversa dalla vista di altre città della West Bank.
A partire dalla seconda Intifada c’è stata un’ondata nella produzione filmica al femminile; se da una parte l’occupazione militare (con tutte le sue conseguenze) e la maggiore restrizione dei movimenti imposta da Israele ai palestinesi a partire dal 2000 hanno frammentato la produzione artistica, d’altra parte l’hanno anche resa estremamente prolifica e il festival di Shashat ne è la riprova.
Diritto allo studio
Duemila copertoni per il diritto allo studio
Nel villaggio beduino Jahalin di Al Akmar un progetto con materiale riciclato rischia di essere demolito per far posto alla statale Gerusalemme-Gerico o all’ennesima espansione delle colonie
Barbara Antonelli
Scuola di gomme del villaggio beduino - Foto di Lazar Simeonov
Quella dei beduini in Palestina è una storia fatta di espulsioni, demolizioni e confische di terre e proprietà. Forzatamente allontanati dalle loro case tradizionali nell’area del Neghev, tre quarti di loro sono diventati profughi nel 1948, come migliaia di palestinesi, in seguito alla creazione dello Stato di Israele, per poi spostarsi in diverse aree della West Bank. All’inizio degli anni 50 solo 11.000 beduini delle 7 tribù nomadi rimanevano infatti nel Neghev e fino al 1952 Israele non ha mai rilasciato loro alcun tipo di documento identificativo. Circa il 20% dei beduini non è nemmeno registrato nella voce “rifugiato”, di fatto sulla carta è come se non esistessero.
Ai beduini che si sono spostati in West Bank non è andata meglio: hanno subito ripetuti spostamenti e, non essendo concentrati in grandi agglomerati urbani come i palestinesi, gli accordi di Oslo li hanno segregati nella cosidetta Area C (1), quindi sotto il controllo amministrativo e militare di Israele e in aree dove l’espansione delle colonie è andata avanti a ritmi vertiginosi. Da sempre costituiscono un gruppo distinto dalla società palestinese, quasi sempre marginalizzato e privato di diritti.
La comunità beduina Jahalin, diventata principalmente stanziale, vive a sud-est di Gerusalemme, sulla strada che collega la città “santa” e Gerico. Niente luce, né acqua, nessuna infrastruttura, niente servizi di assistenza. Molti di loro lavorano nelle cave di pietra della zona o nelle colonie Israeliane. Vivono in baracche di lamiera, freddissime di inverno e caldissime d’estate, dato che in Area C il governo Israeliano consente la costruzione solo di strutture temporanee, senza fondamenta, e vieta l’uso di cemento o altri materiali da costruzione.
Negli ultimi mesi la comunità Jahalin del villaggio di Al Akmar è finita sotto i riflettori dei grandi media; CNN, Al Jazeera, BBC, diverse testate della stampa israeliana, e anche Rai Tre, hanno parlato del miracolo della scuola fatta di gomme. Quattro aule di 50-60 metri quadri ognuna e una segreteria-ufficio, tutte costruite con pneumatici posizionati a file sfalsate come i mattoni, riempiti di terriccio e argilla e con una copertura sul tetto in lamiera sandwich coibentata. Il progetto è stato gestito e realizzato dalla Onlus milanese Vento di Terra, in collaborazione con il Jerusalem Beduins Cooperative Committee di Anata (Gerusalemme Est). Un giovane gruppo di ingegneri e dottorandi con il supporto dell’Università di Pavia, a partire dall’analisi dei limiti del territorio (clima desertico e impossibilità dell’uso di materiali da costruzione) ha ideato questo progetto innovativo e poco costoso.
Valerio Marazzi, uno degli architetti che a luglio ha coordinato i 10 beduini e i volontari internazionali venuti a dare una mano nella costruzione, racconta “Quando siamo arrivati in questo posto, abbiamo visto che c’era argilla e tanti rifiuti. Abbiamo allora deciso di utilizzare il materiale locale e abbiamo pensato di riciclare uno dei materiali più difficili da riutilizzare, i copertoni appunto. La gomma delle automobili ha infatti una resistenza enorme, mantiene la temperatura interna ed esterna”. Costo totale della scuola, 25.000 euro, grazie alle risorse donate da tre comuni dell’hinterland milanese, dalla CEI (conferenza Episcopale Italiana), dalle suore comboniane e di tanto fundraising.
Pneumatici riempiti di terriccio e argilla - Foto di Lazar Simeonov
Dietro al progetto c’è la passione e l’impegno di una donna palestinese, Inam, coordinatrice educativa del progetto di Vento di Terra nel campo profughi di Shu’fat. Inam ha origini beduine; è stata lei a chiedere alla Onlus italiana di visitare alcune comunità vicino ad Anata, ad ascoltarne i bisogni. Donne anche le quattro insegnanti inviate dal Ministero dell’Educazione dell’Autorità Palestinese, che ad agosto ha ufficialmente riconosciuto la scuola per poi inaugurarla lo scorso 19 settembre.
“La costruzione di una scuola in questa area viene incontro soprattutto alle esigenze di mandare a scuola i bambini della comunità Jahalin, prima costretti ad andare anche a piedi a scuola, a oltre 15 km a piedi da qui. Su una strada dove le automobile sfrecciano”, racconta Inam. “Diversi bambini - prosegue Inam - sono stati investiti e tre di loro sono morti negli ultimi anni, per questo la scuola è stata accolta con grande entusismo dalla comunità locale. Ovviamente i genitori hanno avuto bisogno di tempo per acquisire fiducia nella scuola, avevano paura che qui non si insegnasse bene. All’inizio avevamo 37 bambini, dai 6 ai 9 anni, ma il numero è arrivato a 48”. Anche le insegnanti erano all’inizio reticenti, a conferma appunto della separazione che esiste tra la società palestinese e le comunità beduine. Del resto come pensare di spostare il proprio figlio da una scuola sicura ad Abu Dis, Anata o Gerico - anche se lontana - in una scuola che è sotto ordine di demolizione? Nonostante l’attenzione mediatica infatti, ad agosto è arrivato l’ordine da parte delle autorità israeliane dell’immediato stop ai lavori e di demolizione degli edifici costruiti con le gomme. Solo due mesi dopo che la scuola era già stata costruita si è venuto a sapere che secondo la legge Israeliana nessun edificio deve essere costruito a meno di 75 metri dalla strada statale.
Due diversi procedimenti legali sono stati aperti contro la scuola. Da una parte la richiesta presentata dai coloni della vicina Kfar Adumin (colonia illegale secondo il diritto internazionale e le risoluzioni ONU, nda) all’Alta Corte di Giustizia per la demolizione della scuola, perchè costruita senza permesso. Dall’altra un’ulteriore mozione presentata da un’impresa israeliana, Maat, che chiede la demolizione dell’edificio e il suo spostamento dall’altra parte della statale Gerusalemme-Gerico, di cui è previsto un ampliamento. L’avvocato israeliano Schlomo Leaker che segue la vicenda ha ottenuto l’unificazione dei due procedimenti pendenti e lo scorso 9 novembre la Corte Suprema Israeliana si è riunita per deliberare in merito, decidendo di stabilire un tavolo di trattative per trovare una soluzione entro 45 giorni.
“Sapevamo dall’inizio che secondo la legge israeliana è vietato costruire in Area C - spiega Dario Franchetti di Vento di Terra - ma abbiamo sostenuto il progetto, in accordo con i beduini, anche per dare un segnale politico e riaffermare il diritto allo studio dei bambini della comunità Jahalin. Nessuno di noi si aspetta un riconoscimento ufficiale dell’edificio da parte delle autorità israeliane, ma speriamo di arrivare a una situazione in cui la presenza della scuola sia almeno tollerata”.
Del resto tutte le baracche di lamiera sono sotto ordine di demolizione, dato che l’intento delle autorità, sotto pressione dei coloni, è quello di spostare tutte le comunità Jahalin al di là della vallata. La visibilità ha finora protetto la scuola da un’immediata demolizione. Ma non vi è purtroppo alcuna certezza che i bambini arrivino alla fine dell’anno scolastico.
(1) Gli Accordi di Oslo del 1993 hanno definito l’assetto attuale della West Bank, dividendola in tre aree. Area A (soprattutto città palestinesi e alcune aree rurali) di cui l’Autorità Palestinese è responsabile dal punto di vista amministrativo e della sicurezza. Area B, soprattutto costituita da aree rurali, con controllo suddiviso tra AP e Israele; e l’Area C (pur essendo territorio palestinese, comprende tutte le colonie e le strade a uso esclusivo dei coloni) sotto pieno controllo di Israele.
Nel villaggio beduino Jahalin di Al Akmar un progetto con materiale riciclato rischia di essere demolito per far posto alla statale Gerusalemme-Gerico o all’ennesima espansione delle colonie
Barbara Antonelli
Scuola di gomme del villaggio beduino - Foto di Lazar Simeonov
Quella dei beduini in Palestina è una storia fatta di espulsioni, demolizioni e confische di terre e proprietà. Forzatamente allontanati dalle loro case tradizionali nell’area del Neghev, tre quarti di loro sono diventati profughi nel 1948, come migliaia di palestinesi, in seguito alla creazione dello Stato di Israele, per poi spostarsi in diverse aree della West Bank. All’inizio degli anni 50 solo 11.000 beduini delle 7 tribù nomadi rimanevano infatti nel Neghev e fino al 1952 Israele non ha mai rilasciato loro alcun tipo di documento identificativo. Circa il 20% dei beduini non è nemmeno registrato nella voce “rifugiato”, di fatto sulla carta è come se non esistessero.
Ai beduini che si sono spostati in West Bank non è andata meglio: hanno subito ripetuti spostamenti e, non essendo concentrati in grandi agglomerati urbani come i palestinesi, gli accordi di Oslo li hanno segregati nella cosidetta Area C (1), quindi sotto il controllo amministrativo e militare di Israele e in aree dove l’espansione delle colonie è andata avanti a ritmi vertiginosi. Da sempre costituiscono un gruppo distinto dalla società palestinese, quasi sempre marginalizzato e privato di diritti.
La comunità beduina Jahalin, diventata principalmente stanziale, vive a sud-est di Gerusalemme, sulla strada che collega la città “santa” e Gerico. Niente luce, né acqua, nessuna infrastruttura, niente servizi di assistenza. Molti di loro lavorano nelle cave di pietra della zona o nelle colonie Israeliane. Vivono in baracche di lamiera, freddissime di inverno e caldissime d’estate, dato che in Area C il governo Israeliano consente la costruzione solo di strutture temporanee, senza fondamenta, e vieta l’uso di cemento o altri materiali da costruzione.
Negli ultimi mesi la comunità Jahalin del villaggio di Al Akmar è finita sotto i riflettori dei grandi media; CNN, Al Jazeera, BBC, diverse testate della stampa israeliana, e anche Rai Tre, hanno parlato del miracolo della scuola fatta di gomme. Quattro aule di 50-60 metri quadri ognuna e una segreteria-ufficio, tutte costruite con pneumatici posizionati a file sfalsate come i mattoni, riempiti di terriccio e argilla e con una copertura sul tetto in lamiera sandwich coibentata. Il progetto è stato gestito e realizzato dalla Onlus milanese Vento di Terra, in collaborazione con il Jerusalem Beduins Cooperative Committee di Anata (Gerusalemme Est). Un giovane gruppo di ingegneri e dottorandi con il supporto dell’Università di Pavia, a partire dall’analisi dei limiti del territorio (clima desertico e impossibilità dell’uso di materiali da costruzione) ha ideato questo progetto innovativo e poco costoso.
Valerio Marazzi, uno degli architetti che a luglio ha coordinato i 10 beduini e i volontari internazionali venuti a dare una mano nella costruzione, racconta “Quando siamo arrivati in questo posto, abbiamo visto che c’era argilla e tanti rifiuti. Abbiamo allora deciso di utilizzare il materiale locale e abbiamo pensato di riciclare uno dei materiali più difficili da riutilizzare, i copertoni appunto. La gomma delle automobili ha infatti una resistenza enorme, mantiene la temperatura interna ed esterna”. Costo totale della scuola, 25.000 euro, grazie alle risorse donate da tre comuni dell’hinterland milanese, dalla CEI (conferenza Episcopale Italiana), dalle suore comboniane e di tanto fundraising.
Pneumatici riempiti di terriccio e argilla - Foto di Lazar Simeonov
Dietro al progetto c’è la passione e l’impegno di una donna palestinese, Inam, coordinatrice educativa del progetto di Vento di Terra nel campo profughi di Shu’fat. Inam ha origini beduine; è stata lei a chiedere alla Onlus italiana di visitare alcune comunità vicino ad Anata, ad ascoltarne i bisogni. Donne anche le quattro insegnanti inviate dal Ministero dell’Educazione dell’Autorità Palestinese, che ad agosto ha ufficialmente riconosciuto la scuola per poi inaugurarla lo scorso 19 settembre.
“La costruzione di una scuola in questa area viene incontro soprattutto alle esigenze di mandare a scuola i bambini della comunità Jahalin, prima costretti ad andare anche a piedi a scuola, a oltre 15 km a piedi da qui. Su una strada dove le automobile sfrecciano”, racconta Inam. “Diversi bambini - prosegue Inam - sono stati investiti e tre di loro sono morti negli ultimi anni, per questo la scuola è stata accolta con grande entusismo dalla comunità locale. Ovviamente i genitori hanno avuto bisogno di tempo per acquisire fiducia nella scuola, avevano paura che qui non si insegnasse bene. All’inizio avevamo 37 bambini, dai 6 ai 9 anni, ma il numero è arrivato a 48”. Anche le insegnanti erano all’inizio reticenti, a conferma appunto della separazione che esiste tra la società palestinese e le comunità beduine. Del resto come pensare di spostare il proprio figlio da una scuola sicura ad Abu Dis, Anata o Gerico - anche se lontana - in una scuola che è sotto ordine di demolizione? Nonostante l’attenzione mediatica infatti, ad agosto è arrivato l’ordine da parte delle autorità israeliane dell’immediato stop ai lavori e di demolizione degli edifici costruiti con le gomme. Solo due mesi dopo che la scuola era già stata costruita si è venuto a sapere che secondo la legge Israeliana nessun edificio deve essere costruito a meno di 75 metri dalla strada statale.
Due diversi procedimenti legali sono stati aperti contro la scuola. Da una parte la richiesta presentata dai coloni della vicina Kfar Adumin (colonia illegale secondo il diritto internazionale e le risoluzioni ONU, nda) all’Alta Corte di Giustizia per la demolizione della scuola, perchè costruita senza permesso. Dall’altra un’ulteriore mozione presentata da un’impresa israeliana, Maat, che chiede la demolizione dell’edificio e il suo spostamento dall’altra parte della statale Gerusalemme-Gerico, di cui è previsto un ampliamento. L’avvocato israeliano Schlomo Leaker che segue la vicenda ha ottenuto l’unificazione dei due procedimenti pendenti e lo scorso 9 novembre la Corte Suprema Israeliana si è riunita per deliberare in merito, decidendo di stabilire un tavolo di trattative per trovare una soluzione entro 45 giorni.
“Sapevamo dall’inizio che secondo la legge israeliana è vietato costruire in Area C - spiega Dario Franchetti di Vento di Terra - ma abbiamo sostenuto il progetto, in accordo con i beduini, anche per dare un segnale politico e riaffermare il diritto allo studio dei bambini della comunità Jahalin. Nessuno di noi si aspetta un riconoscimento ufficiale dell’edificio da parte delle autorità israeliane, ma speriamo di arrivare a una situazione in cui la presenza della scuola sia almeno tollerata”.
Del resto tutte le baracche di lamiera sono sotto ordine di demolizione, dato che l’intento delle autorità, sotto pressione dei coloni, è quello di spostare tutte le comunità Jahalin al di là della vallata. La visibilità ha finora protetto la scuola da un’immediata demolizione. Ma non vi è purtroppo alcuna certezza che i bambini arrivino alla fine dell’anno scolastico.
(1) Gli Accordi di Oslo del 1993 hanno definito l’assetto attuale della West Bank, dividendola in tre aree. Area A (soprattutto città palestinesi e alcune aree rurali) di cui l’Autorità Palestinese è responsabile dal punto di vista amministrativo e della sicurezza. Area B, soprattutto costituita da aree rurali, con controllo suddiviso tra AP e Israele; e l’Area C (pur essendo territorio palestinese, comprende tutte le colonie e le strade a uso esclusivo dei coloni) sotto pieno controllo di Israele.
Raccolta fondi per Haiti
Associazione Ya Basta appoggia la raccolta fondi di Via Campesina per Haiti
Etichette: Centro America
18 / 1 / 2010
L’Associazione Ya Basta raccoglie l’invito di Via Campesina ad appoggiare la popolazione di Haiti inviando fondi alle organizzazioni di base contadine dell’isola. Il terremoto che ha colpito in maniera così drammatica l’isola caraibica ha messo in luce l’estrema povertà della popolazione e uno sviluppo finora basato sullo sfruttamento dell’ambiente. La popolazione ha bisogno ora del reale aiuto di tutti. Per questo sentendoci vicini a chi in tutto il mondo immagina un futuro di giustizia, di sviluppo diverso, di equilibrio ambientale appoggiamo la raccolta fondi di Via Campesina perchè gli aiuti non siano l’occasione per perpetrare una situazione di ingiustizia.
I fondi raccolto verranno inviati al Conto Bancario aperto da Via Campesina.
Per inviare i tuoi contributi:
Conto Corrente Banca Popolare Etica intestato a Associazione Ya Basta IBAN: IT06 J050 1812 1010 0000 0100 737 con la causale "Via Campesina per Haiti".
Per info contatta le sedi di Ya Basta
Vai all'appello e al sito Via campesina
Appello Via Campesina
Care e cari compagni, amici e amiche:
Attraverso questa lettera, vogliamo mostrare il nostro più profondo cordoglio e la nostra solidarietà con il popolo haitiano, che da alcuni giorni fa è stato colpito da un devastante terremoto, terremoto che ha causato migliaia di morti, feriti e dispersi.
Desideriamo condividere il nostro dolore per il disastro e inviare un abbraccio di solidarietà per il popolo haitiano, e in particolare ai nostri fratelli de La Via Campesina di Haiti, che ci auguriamo possa presto superare questa difficile situazione. Non per nulla, e facendo memoria storica, ricordiamo la forza e la determinazione del popolo di Haiti, che è stato il primo in America ad abolire il sistema della schiavitù in modo indipendente e durevole nel tempo.
Non possiamo non rimarcare e denunciare che gli effetti di qualunque catastrofe naturale sono sempre più acuti in contesti di povertà, vulnerabilità ed esclusione. Ci rendiamo conto che queste forze della natura non sono controllabili o prevedibili, e che non sono sotto la responsabilità della comunità internazionale, ma la questione è: come è possibile che la stessa comunità internazionale continui a consentire un mondo fondato sulle ingiustizie e inequità, che moltiplicano gli effetti distruttivi e il numero delle vittime del terremoto che hanno sofferto per Haiti?
La Via Campesina chiede con urgenza la solidarietà internazionale per il popolo di Haiti, con l'intenzione di trasmettere tutti gli aiuti finanziari raccolti attraverso i movimenti sociali nel paese, in particolare attraverso le organizzazioni haitiane contadine che fanno parte del movimento contadino internazionale.
Questo è il conto corrente bancario in cui la Via Campesina Centrale raccoglie il sostegno economico di tutte le persone e le organizzazioni che desiderano sostenere il popolo haitiano.
Titolare del conto:
ASOCIACIÓN LURBIDE – EL CAMINO DE LA TIERRA
Banco: IPAR KUTXA
Indirizzo: Gudari, 2 – AMOREBIETA (Bizkaia) – País Vasco - Spain
Nº di conto: 3084-0023- 53-6400061004
IBAN: ES54 3084 0023 5364 0006 1004
Swift: CVRVES2B
Causale: SOLIDARIDAD HAITÍ
Etichette: Centro America
18 / 1 / 2010
L’Associazione Ya Basta raccoglie l’invito di Via Campesina ad appoggiare la popolazione di Haiti inviando fondi alle organizzazioni di base contadine dell’isola. Il terremoto che ha colpito in maniera così drammatica l’isola caraibica ha messo in luce l’estrema povertà della popolazione e uno sviluppo finora basato sullo sfruttamento dell’ambiente. La popolazione ha bisogno ora del reale aiuto di tutti. Per questo sentendoci vicini a chi in tutto il mondo immagina un futuro di giustizia, di sviluppo diverso, di equilibrio ambientale appoggiamo la raccolta fondi di Via Campesina perchè gli aiuti non siano l’occasione per perpetrare una situazione di ingiustizia.
I fondi raccolto verranno inviati al Conto Bancario aperto da Via Campesina.
Per inviare i tuoi contributi:
Conto Corrente Banca Popolare Etica intestato a Associazione Ya Basta IBAN: IT06 J050 1812 1010 0000 0100 737 con la causale "Via Campesina per Haiti".
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Appello Via Campesina
Care e cari compagni, amici e amiche:
Attraverso questa lettera, vogliamo mostrare il nostro più profondo cordoglio e la nostra solidarietà con il popolo haitiano, che da alcuni giorni fa è stato colpito da un devastante terremoto, terremoto che ha causato migliaia di morti, feriti e dispersi.
Desideriamo condividere il nostro dolore per il disastro e inviare un abbraccio di solidarietà per il popolo haitiano, e in particolare ai nostri fratelli de La Via Campesina di Haiti, che ci auguriamo possa presto superare questa difficile situazione. Non per nulla, e facendo memoria storica, ricordiamo la forza e la determinazione del popolo di Haiti, che è stato il primo in America ad abolire il sistema della schiavitù in modo indipendente e durevole nel tempo.
Non possiamo non rimarcare e denunciare che gli effetti di qualunque catastrofe naturale sono sempre più acuti in contesti di povertà, vulnerabilità ed esclusione. Ci rendiamo conto che queste forze della natura non sono controllabili o prevedibili, e che non sono sotto la responsabilità della comunità internazionale, ma la questione è: come è possibile che la stessa comunità internazionale continui a consentire un mondo fondato sulle ingiustizie e inequità, che moltiplicano gli effetti distruttivi e il numero delle vittime del terremoto che hanno sofferto per Haiti?
La Via Campesina chiede con urgenza la solidarietà internazionale per il popolo di Haiti, con l'intenzione di trasmettere tutti gli aiuti finanziari raccolti attraverso i movimenti sociali nel paese, in particolare attraverso le organizzazioni haitiane contadine che fanno parte del movimento contadino internazionale.
Questo è il conto corrente bancario in cui la Via Campesina Centrale raccoglie il sostegno economico di tutte le persone e le organizzazioni che desiderano sostenere il popolo haitiano.
Titolare del conto:
ASOCIACIÓN LURBIDE – EL CAMINO DE LA TIERRA
Banco: IPAR KUTXA
Indirizzo: Gudari, 2 – AMOREBIETA (Bizkaia) – País Vasco - Spain
Nº di conto: 3084-0023- 53-6400061004
IBAN: ES54 3084 0023 5364 0006 1004
Swift: CVRVES2B
Causale: SOLIDARIDAD HAITÍ
L'uso coloniale dell'archeologia a Gerusalemme est
Archaeology in Jerusalem
Past & Present
http://www.alt-arc.org/petition.php
“Petizione: sottrarre dalle mani di Elad l’archeologia nella Città di Davide.”
Per quasi un decennio, tutto il lavoro archeologico nell’area Wadi Hilwe di Silwan a Gerusalemme Est – che è la città di Davide, il centro dell’antica Gerusalemme ed uno dei luoghi archeologici più delicati in Israele – è stato sotto il controllo della Elad, una organizzazione di coloni israeliani di destra. Più precisamente, l’Autorità Nazionale per la Protezione dei Parchi e della Natura in Israele (INPA), che ha la responsabilità legale di quest’area, ha designato l’Elad come suo sub-appaltatore a Silwan; Elad, a sua volta, ha affidato all’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA) di effettuare gli scavi in questo quartiere. Per di più, il permesso di effettuare gli scavi a Silwan è stato accordato grazie ad un procedimento interno entro la IAA, diverso dalle norme usualmente applicate in altri siti in Israele nel caso di scavi su larga scala. Ciò sta a significare che Elad dispone su qualsiasi cosa sia importante in relazione ai siti di Wadi Hilwe – compresa la decisione di allargare e di estendere gli scavi come viene stimato più opportuno, senza prendere in considerazione i diritti e le necessità dei residenti palestinesi di Silwan. Non c’è alcun precedente in Israele riguardante l’affidamento della responsabilità di seri lavori archeologici ad una organizzazione politica con lo stesso programma chiaramente estremista.
Inoltre Elad dirige un centro per visitatori che propone una versione fortemente unilaterale, nazionalista della storia di questo quartiere. Coloro che visitano il sito ricevono, insieme al biglietto di ingresso che hanno acquistato, un pamphlet propagandistico che include questa narrazione storicamente deformata. Generosamente sovvenzionata da donatori stranieri, Elad è impegnata in un incessante processo di trasformazione di Silwan in una zona di colonie ebraiche con la simultanea espropriazione di molti dei residenti palestinesi.
Di recente i residenti di Silwan hanno accusato che il proseguire dei lavori archeologici sta mettendo in pericolo le fondamenta delle loro case. Una protesta di base nel quartiere , compreso un appello alla Corte Suprema di Giustizia, si sono scontrate con la violenta repressione della polizia, inclusi il maltrattamento e gli arresti diffusi di coloro che hanno sottoscritto l’appello. Il 17 marzo 2008, la Corte Suprema ha deliberato un ordine restrittivo nei confronti di Elad ed ha sospeso temporaneamente una ulteriore estensione degli scavi.
L’archeologia è, o dovrebbe essere, una disciplina non contaminata dai ristretti interessi della politica o di segreteria.Nel caso di Silwan, è deplorevole che l’archeologia – e l’Autorità Israeliana per le Antichità – vengano apertamente utilizzate per obiettivi puramente politici che includono l’espulsione di civili innocenti dalle loro case. Noi richiediamo al governo di Israele, alla Municipalità di Gerusalemme, all’INPA , all’IAA e a tutti i membri responsabili della comunità accademica di porre fine una volta per tutte a questa sfrontata perversione e alla pericolosa politicizzazione di un campo di intervento accademico.
Seguono le firme di docenti universitari di tutto il mondo.
(tradotto da mariano mingarelli)
Ultimo aggiornamento ( Thursday 21 January 2010 )
Past & Present
http://www.alt-arc.org/petition.php
“Petizione: sottrarre dalle mani di Elad l’archeologia nella Città di Davide.”
Per quasi un decennio, tutto il lavoro archeologico nell’area Wadi Hilwe di Silwan a Gerusalemme Est – che è la città di Davide, il centro dell’antica Gerusalemme ed uno dei luoghi archeologici più delicati in Israele – è stato sotto il controllo della Elad, una organizzazione di coloni israeliani di destra. Più precisamente, l’Autorità Nazionale per la Protezione dei Parchi e della Natura in Israele (INPA), che ha la responsabilità legale di quest’area, ha designato l’Elad come suo sub-appaltatore a Silwan; Elad, a sua volta, ha affidato all’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA) di effettuare gli scavi in questo quartiere. Per di più, il permesso di effettuare gli scavi a Silwan è stato accordato grazie ad un procedimento interno entro la IAA, diverso dalle norme usualmente applicate in altri siti in Israele nel caso di scavi su larga scala. Ciò sta a significare che Elad dispone su qualsiasi cosa sia importante in relazione ai siti di Wadi Hilwe – compresa la decisione di allargare e di estendere gli scavi come viene stimato più opportuno, senza prendere in considerazione i diritti e le necessità dei residenti palestinesi di Silwan. Non c’è alcun precedente in Israele riguardante l’affidamento della responsabilità di seri lavori archeologici ad una organizzazione politica con lo stesso programma chiaramente estremista.
Inoltre Elad dirige un centro per visitatori che propone una versione fortemente unilaterale, nazionalista della storia di questo quartiere. Coloro che visitano il sito ricevono, insieme al biglietto di ingresso che hanno acquistato, un pamphlet propagandistico che include questa narrazione storicamente deformata. Generosamente sovvenzionata da donatori stranieri, Elad è impegnata in un incessante processo di trasformazione di Silwan in una zona di colonie ebraiche con la simultanea espropriazione di molti dei residenti palestinesi.
Di recente i residenti di Silwan hanno accusato che il proseguire dei lavori archeologici sta mettendo in pericolo le fondamenta delle loro case. Una protesta di base nel quartiere , compreso un appello alla Corte Suprema di Giustizia, si sono scontrate con la violenta repressione della polizia, inclusi il maltrattamento e gli arresti diffusi di coloro che hanno sottoscritto l’appello. Il 17 marzo 2008, la Corte Suprema ha deliberato un ordine restrittivo nei confronti di Elad ed ha sospeso temporaneamente una ulteriore estensione degli scavi.
L’archeologia è, o dovrebbe essere, una disciplina non contaminata dai ristretti interessi della politica o di segreteria.Nel caso di Silwan, è deplorevole che l’archeologia – e l’Autorità Israeliana per le Antichità – vengano apertamente utilizzate per obiettivi puramente politici che includono l’espulsione di civili innocenti dalle loro case. Noi richiediamo al governo di Israele, alla Municipalità di Gerusalemme, all’INPA , all’IAA e a tutti i membri responsabili della comunità accademica di porre fine una volta per tutte a questa sfrontata perversione e alla pericolosa politicizzazione di un campo di intervento accademico.
Seguono le firme di docenti universitari di tutto il mondo.
(tradotto da mariano mingarelli)
Ultimo aggiornamento ( Thursday 21 January 2010 )
PASTORE TORTURATO
“At-Tuwani: pastore torturato per cinque ore da soldati e polizia israeliana.”
blackeyeMusabmusarabai01.JPGIl 7 gennaio 2010, dei soldati imprigionarono Musab Musa Raba’i dopo aver aggredito lui e i componenti della sua famiglia mentre stavano obbedendo all’ordine dei militari di allontanare le loro greggi dalla terra di proprietà della loro famiglia.
Gli stessi otto soldati che avevano arrestato Raba’i ed aggredito la sua famiglia, lo portarono in una base militare nei pressi della colonia di Suseya. Per quattro ore, i militari lo percossero nella schiena, in faccia e lo sbatterono contro le pareti. I soldati gli posero domande sui suoi fratelli. Raba’i si rifiutò di fornire qualsiasi informazione e si rifiutò di parlare in ebraico con loro, tanto che se ne andarono su tutte le furie. I soldati gli raccontarono che si sarebbero recati a casa sua nei prossimi giorni e avrebbero picchiato e ucciso lui e i suoi fratelli. Cercarono di costringerlo a dire che loro erano i migliori soldati nell’IDF( Israeli Defence Forces) e lo percossero quando egli si rifiutò.
Raba’i raccontò ai componenti del CPT che i militari gli avevano legato mani e piedi, lo avevano bendato e lo avevano fatto sedere su una sedia. Raba’i aveva posto la sua testa nel suo grembo, nel tentativo di proteggere la sua testa ed i suoi genitali e si rifiutò di sollevarla. Ha affermato che ad un certo punto un soldato aveva armato il suo fucile e gli aveva detto di sollevare la sua testa o gli avrebbe sparato. Raba’i si rifiutò. Quando una altro soldato cercò di porgergli pane e acqua, dato che il militare è legalmente obbligato a comportarsi così in una situazione di quel tipo, i soldati che lo stavano torturando imprecarono contro il soldato e gli dissero di andarsene.
I soldati si rifiutarono anche di permettere a Raba’i di pregare.
Dopo quattro ore di questo interrogatorio e di queste torture, essi portarono Raba’i alla stazione di polizia nella colonia di Kiryat Arba.La polizia israeliana gli raccontò che essi di solito forniscono ai detenuti sia da mangiare che da bere, ma non avevano intenzione di dargli nulla perché volevano punirlo.Essi dissero che se avessero mai visto la sua faccia di nuovo, lo avrebbero ucciso.
Dopo trenta minuti, la polizia legò le sue mani e i suoi piedi, lo bendò e lo condusse in un luogo a lui sconosciuto, e lo tirarono giù dalla jeep.
Temendo che i soldati, la polizia o i coloni lo potessero vedere, si nascose in un cespuglio fino a che vide l’auto della sua famiglia.
Raba’i era stato in grado di chiamare la sua famiglia, che, accompagnata dai componenti del Christian Pacemaker Team, lo scoprì e lo condusse a casa sua.
(tradotto da mariano mingarelli)
blackeyeMusabmusarabai01.JPGIl 7 gennaio 2010, dei soldati imprigionarono Musab Musa Raba’i dopo aver aggredito lui e i componenti della sua famiglia mentre stavano obbedendo all’ordine dei militari di allontanare le loro greggi dalla terra di proprietà della loro famiglia.
Gli stessi otto soldati che avevano arrestato Raba’i ed aggredito la sua famiglia, lo portarono in una base militare nei pressi della colonia di Suseya. Per quattro ore, i militari lo percossero nella schiena, in faccia e lo sbatterono contro le pareti. I soldati gli posero domande sui suoi fratelli. Raba’i si rifiutò di fornire qualsiasi informazione e si rifiutò di parlare in ebraico con loro, tanto che se ne andarono su tutte le furie. I soldati gli raccontarono che si sarebbero recati a casa sua nei prossimi giorni e avrebbero picchiato e ucciso lui e i suoi fratelli. Cercarono di costringerlo a dire che loro erano i migliori soldati nell’IDF( Israeli Defence Forces) e lo percossero quando egli si rifiutò.
Raba’i raccontò ai componenti del CPT che i militari gli avevano legato mani e piedi, lo avevano bendato e lo avevano fatto sedere su una sedia. Raba’i aveva posto la sua testa nel suo grembo, nel tentativo di proteggere la sua testa ed i suoi genitali e si rifiutò di sollevarla. Ha affermato che ad un certo punto un soldato aveva armato il suo fucile e gli aveva detto di sollevare la sua testa o gli avrebbe sparato. Raba’i si rifiutò. Quando una altro soldato cercò di porgergli pane e acqua, dato che il militare è legalmente obbligato a comportarsi così in una situazione di quel tipo, i soldati che lo stavano torturando imprecarono contro il soldato e gli dissero di andarsene.
I soldati si rifiutarono anche di permettere a Raba’i di pregare.
Dopo quattro ore di questo interrogatorio e di queste torture, essi portarono Raba’i alla stazione di polizia nella colonia di Kiryat Arba.La polizia israeliana gli raccontò che essi di solito forniscono ai detenuti sia da mangiare che da bere, ma non avevano intenzione di dargli nulla perché volevano punirlo.Essi dissero che se avessero mai visto la sua faccia di nuovo, lo avrebbero ucciso.
Dopo trenta minuti, la polizia legò le sue mani e i suoi piedi, lo bendò e lo condusse in un luogo a lui sconosciuto, e lo tirarono giù dalla jeep.
Temendo che i soldati, la polizia o i coloni lo potessero vedere, si nascose in un cespuglio fino a che vide l’auto della sua famiglia.
Raba’i era stato in grado di chiamare la sua famiglia, che, accompagnata dai componenti del Christian Pacemaker Team, lo scoprì e lo condusse a casa sua.
(tradotto da mariano mingarelli)
giovedì 21 gennaio 2010
APARTHEID
Divieto d'accesso a poveri e ignoranti, così Tel Aviv legalizza l'apartheid
Michele Giorgio *
Primo sì del parlamento ai «comitati di ammissione» che escludono gli arabi
da comunità e villaggi riservati, di fatto, solo a ebrei.Di quei tre piccoli
centri abitati - Manof, Yavalim e Mitzpeh Aviv - nel distretto regionale di
Misgav, aveva scritto qualche mese fa il quotidiano Ha'aretz. Aveva suscitato
attenzione il progetto annunciato dagli amministratori di quelle località di
dare vita a «comitati di ammissione» incaricati di selezionare i nuovi arrivi
nelle loro comunità sulla base di un criterio principale: l'adesione dei
richiedenti agli ideali del sionismo.
Una condizione volta, evidentemente, ad impedire l'insediamento di cittadini
arabi nelle tre comunità. In Israele anche un bambino sa che un cittadino
palestinese, persino il più integrato e rispettoso delle leggi e delle
istituzioni, non proclamerà mai la sua adesione agli ideali del movimento che
fondò lo Stato ebraico. Ma era anche una bella trovata per aggirare una
sentenza dell'Alta Corte di Giustizia che qualche anno fa, stabilendo un
precedente, aveva sancito il diritto dei coniugi Kaadan e dei loro figli, una
famiglia del villaggio arabo di Baqa al Gharbiyeh, a risiedere nella cittadina
di Katzir dove, con vari pretesti, avevano impedito il loro arrivo.
Subirono critiche, poche in verità, gli amministratori di Manof, Yavalim e
Mitzpeh Aviv che, sdegnati, ripetevano di rappresentare i sentimenti più veri
della maggioranza ebraica del paese. Per loro è l'ora della rivincita. La
commissione ministeriale per la legislazione ha approvato qualche giorno fa
alla Knessert, in prima lettura e a larga maggioranza, la legalizzazione nei
centri abitati della Galilea e del Neghev dei «comitati di ammissione».
Dovranno però far riferimento a criteri diversi da quelli adottati inizialmente
a Manof, Yavalim e Mitzpeh Aviv. Diversi nella forma, perché nella sostanza il
fine rimane quello di tenere separati i cittadini ebrei da quelli arabi. E non
è certo insignificante il fatto che a sollecitare la legalizzazione dei
«filtri» sia stato un deputato, Israel Hasson, del partito «centrista» Kadima
guidato dall'ex ministro degli esteri Tzipi Livni. Una proposta analoga è stata
presentata anche da un parlamentare, David Rotem, della formazione di estrema
destra Yisrael Beitenu, terza forza politica del paese e rappresentata nel
governo dal ministro degli esteri Avigdor Lieberman. Un abbinamento centro-
destra estrema non insolito visto che, durante i negoziati per la formazione
del governo la scorsa primavera, i delegati di Kadima e di Yisrael Beitenu
dichiararono di aver raggiunto intese sul 90% dei temi affrontati (poi Livni
scelse di rimanere all'opposizione).
Se la legge, come sembra, verrà approvata in via definitiva, coloro che
vorranno acquistare una casa in un centro abitato ebraico in Galilea e nel
Neghev dovranno prima risultare compatibili con gli abitanti per risorse
economiche, livello culturale e stile di vita. Criteri che ufficialmente
riguarderanno tutti, senza eccezioni, ma che di fatto permetteranno ai
«selezionatori» di respingere le richieste degli arabo-israeliani. «È razzismo
camuffato dal bisogno di omogeneità sociale, è la legge dell'uomo bianco», ha
commentato il deputato arabo israeliano Ahmed Tibi.
Amare le considerazioni di Jafar Faraa, direttore del centro «Mosawa» per
l'uguaglianza tra ebrei e arabi. «Esiste un consenso tra le principali forze
politiche israeliane per spingere la minoranza araba alla disperazione - ha
detto Faraa al manifesto - lo Stato prima ha requisito le nostre terre, poi non
ha permesso l'espansione orizzontale dei centri abitati arabi, quindi ha
cominciato a demolire le nostre case abusive, infine vuole impedirci di andare
a vivere in una comunità ebraica. Presto i palestinesi di Israele vivranno
circondati da muri».
* Da Il Manifesto
Michele Giorgio *
Primo sì del parlamento ai «comitati di ammissione» che escludono gli arabi
da comunità e villaggi riservati, di fatto, solo a ebrei.Di quei tre piccoli
centri abitati - Manof, Yavalim e Mitzpeh Aviv - nel distretto regionale di
Misgav, aveva scritto qualche mese fa il quotidiano Ha'aretz. Aveva suscitato
attenzione il progetto annunciato dagli amministratori di quelle località di
dare vita a «comitati di ammissione» incaricati di selezionare i nuovi arrivi
nelle loro comunità sulla base di un criterio principale: l'adesione dei
richiedenti agli ideali del sionismo.
Una condizione volta, evidentemente, ad impedire l'insediamento di cittadini
arabi nelle tre comunità. In Israele anche un bambino sa che un cittadino
palestinese, persino il più integrato e rispettoso delle leggi e delle
istituzioni, non proclamerà mai la sua adesione agli ideali del movimento che
fondò lo Stato ebraico. Ma era anche una bella trovata per aggirare una
sentenza dell'Alta Corte di Giustizia che qualche anno fa, stabilendo un
precedente, aveva sancito il diritto dei coniugi Kaadan e dei loro figli, una
famiglia del villaggio arabo di Baqa al Gharbiyeh, a risiedere nella cittadina
di Katzir dove, con vari pretesti, avevano impedito il loro arrivo.
Subirono critiche, poche in verità, gli amministratori di Manof, Yavalim e
Mitzpeh Aviv che, sdegnati, ripetevano di rappresentare i sentimenti più veri
della maggioranza ebraica del paese. Per loro è l'ora della rivincita. La
commissione ministeriale per la legislazione ha approvato qualche giorno fa
alla Knessert, in prima lettura e a larga maggioranza, la legalizzazione nei
centri abitati della Galilea e del Neghev dei «comitati di ammissione».
Dovranno però far riferimento a criteri diversi da quelli adottati inizialmente
a Manof, Yavalim e Mitzpeh Aviv. Diversi nella forma, perché nella sostanza il
fine rimane quello di tenere separati i cittadini ebrei da quelli arabi. E non
è certo insignificante il fatto che a sollecitare la legalizzazione dei
«filtri» sia stato un deputato, Israel Hasson, del partito «centrista» Kadima
guidato dall'ex ministro degli esteri Tzipi Livni. Una proposta analoga è stata
presentata anche da un parlamentare, David Rotem, della formazione di estrema
destra Yisrael Beitenu, terza forza politica del paese e rappresentata nel
governo dal ministro degli esteri Avigdor Lieberman. Un abbinamento centro-
destra estrema non insolito visto che, durante i negoziati per la formazione
del governo la scorsa primavera, i delegati di Kadima e di Yisrael Beitenu
dichiararono di aver raggiunto intese sul 90% dei temi affrontati (poi Livni
scelse di rimanere all'opposizione).
Se la legge, come sembra, verrà approvata in via definitiva, coloro che
vorranno acquistare una casa in un centro abitato ebraico in Galilea e nel
Neghev dovranno prima risultare compatibili con gli abitanti per risorse
economiche, livello culturale e stile di vita. Criteri che ufficialmente
riguarderanno tutti, senza eccezioni, ma che di fatto permetteranno ai
«selezionatori» di respingere le richieste degli arabo-israeliani. «È razzismo
camuffato dal bisogno di omogeneità sociale, è la legge dell'uomo bianco», ha
commentato il deputato arabo israeliano Ahmed Tibi.
Amare le considerazioni di Jafar Faraa, direttore del centro «Mosawa» per
l'uguaglianza tra ebrei e arabi. «Esiste un consenso tra le principali forze
politiche israeliane per spingere la minoranza araba alla disperazione - ha
detto Faraa al manifesto - lo Stato prima ha requisito le nostre terre, poi non
ha permesso l'espansione orizzontale dei centri abitati arabi, quindi ha
cominciato a demolire le nostre case abusive, infine vuole impedirci di andare
a vivere in una comunità ebraica. Presto i palestinesi di Israele vivranno
circondati da muri».
* Da Il Manifesto
lunedì 18 gennaio 2010
Gli olivi di Gaza
Arabrenewal.com
9.12.2009
“Il fosforo bianco lanciato dagli Israeliani durante l'invasione
dell'anno scorso ha reso gli alberi d'olivo sterili.”
olive01.JPG
Gli ulivi di Gaza che si sono salvati dalla devastazione israeliana dei terreni coltivabili, non si sono salvati dalla conseguenza fatale del fosforo bianco. I contadini palestinesi hanno denunciato la diminuzione drastica del loro raccolto questo anno.
Azzam Il-Najjar, contadino palestinese, 74 anni di Kan Younes, ha confermato tristemente che il raccolto del suo oliveto durante la campagna non ha superato il 5% della produzione attesa. Signor Azzam continua: "come se non ci bastasse la devastazione totale dei nostri campi e lo sradicamento intenzionale dei nostri olivi, quelli che sono rimasti in piedi sono ormai sterili". "questa catastrofe non conosce confini di terreno e ha toccato quasi tutti i terreni agricoli a Gaza".
Il ministero dell'agricoltura palestinese ha commentato che la causa maggiore della riduzione della produzione di questo anno è lo sradicamento degli alberi, infatti l'esercito ha devastato più di 878 ettari di oliveti durante l'invasione. Ha aggiunto dicendo: "il ministero non è stato in grado di effettuare una ricerca valida che ci confermi il legame tra l'aborto dei fiori dell'olivo e il fosforo bianco lanciato dagli Israeliani".
Un ingegnere ambientale del ministero dell'ambiente palestinese, ha preferito di non rilasciarci il sul nome, ha affermato che il legame tra la sterilità degli olivi e il fosforo bianco esiste in quanto l'ultime persiste per lungo nell'ambiente dove è stato rilasciato ed influisce sulla qualità dell'acqua e dell'area e del suolo e di tutti gli organismi viventi.
Ultimo aggiornamento ( Saturday 16 January 2010 )
9.12.2009
“Il fosforo bianco lanciato dagli Israeliani durante l'invasione
dell'anno scorso ha reso gli alberi d'olivo sterili.”
olive01.JPG
Gli ulivi di Gaza che si sono salvati dalla devastazione israeliana dei terreni coltivabili, non si sono salvati dalla conseguenza fatale del fosforo bianco. I contadini palestinesi hanno denunciato la diminuzione drastica del loro raccolto questo anno.
Azzam Il-Najjar, contadino palestinese, 74 anni di Kan Younes, ha confermato tristemente che il raccolto del suo oliveto durante la campagna non ha superato il 5% della produzione attesa. Signor Azzam continua: "come se non ci bastasse la devastazione totale dei nostri campi e lo sradicamento intenzionale dei nostri olivi, quelli che sono rimasti in piedi sono ormai sterili". "questa catastrofe non conosce confini di terreno e ha toccato quasi tutti i terreni agricoli a Gaza".
Il ministero dell'agricoltura palestinese ha commentato che la causa maggiore della riduzione della produzione di questo anno è lo sradicamento degli alberi, infatti l'esercito ha devastato più di 878 ettari di oliveti durante l'invasione. Ha aggiunto dicendo: "il ministero non è stato in grado di effettuare una ricerca valida che ci confermi il legame tra l'aborto dei fiori dell'olivo e il fosforo bianco lanciato dagli Israeliani".
Un ingegnere ambientale del ministero dell'ambiente palestinese, ha preferito di non rilasciarci il sul nome, ha affermato che il legame tra la sterilità degli olivi e il fosforo bianco esiste in quanto l'ultime persiste per lungo nell'ambiente dove è stato rilasciato ed influisce sulla qualità dell'acqua e dell'area e del suolo e di tutti gli organismi viventi.
Ultimo aggiornamento ( Saturday 16 January 2010 )
domenica 17 gennaio 2010
La sinistra non c’è più Il nostro Israele si è imbarbarito»
«La sinistra non c’è più Il nostro Israele si è imbarbarito» - Intervista a Shulamit Aloni
di Umberto De Giovannangeli
La sinistra dovrebbe incarnare una idea progressiva di democrazia. Dovrebbe essere portatrice di una visione aperta della società. Una sinistra degna di questo nome avrebbe dovuto denunciare l’imbarbarimento della società, dicendo chiaro e forte che democrazia e oppressione esercitata contro un altro popolo sono tra loro inconciliabili. E su questa linea avrebbe dovuto rappresentare un’alternativa ideale, politica, etica, alla destra fondamentalista e razzista che oggi governa. Una destra che alimenta l’estremismo fascista dei coloni, la destra che giudica i suoi avversari dei traditori da neutralizzare. Una sinistra, mi riferisco al partito laburista, che non solo non contrasta questa destra ma addirittura ci governa assieme, è una sinistra che non ha ragion d’essere». A sostenerlo è una delle figure storiche della sinistra laica e pacifista d’Israele: Shulamit Aloni. Con l’intervista alla fondatrice di «Peace Now», l’Unità prosegue l’inchiesta su Israele e la crisi della sinistra avviata con un articolo dello storico Zeev Sternhell e un’intervista all’ex segretario generale del Labour, Ophir Pines-Paz. Gli strali di Shulamit Aloni s’indirizzano soprattutto verso il leader laburista e attuale ministro della Difesa, Ehud Barak: «È un politico pericoloso, tronfio», afferma decisa. Come giudica la sinistra israeliana? «La sinistra? Perché esiste una sinistra oggi in Israele? Questa sì che sarebbe una notizia. La verità, amarissima, è che la destra ha due mani sinistre, ma oggi la sinistra semplicemente non esiste. Netanyahu chiude e apre...». Ed Ehud Barak? «Ha fatto del “poltronismo” la sua unica fede politica. È un politico pericoloso a causa del suo temperamento estremista e perché è un uomo di guerra. Ma come può continuare a definirsi di “sinistra” un uomo che ha rivendicato la guerra di Gaza con i crimini, le punizioni collettive, le devastazioni perpetrate?». Pericoloso quanto i coloni oltranzisti? . «La loro protervia mi spaventa, il loro razzismo verso i palestinesi e gli arabi israeliani m’indigna. Costoro sono un cancro che rischia di propagarsi in tutto il corpo della società israeliana, devastando ciò che resta del nostro tessuto democratico. Questa destra non vuole la pace, ma l’intera Terrasanta senza arabi e moschee. Mi piange il cuore nel dire che oggi Israele, il Paese per cui ho combattuto, è marchiato dal fanatismo religioso». Cosa dovrebbe fare una sinistra «degna di questo nome»? «Difendere la democrazia. E per farlo affermare con nettezza che democrazia e oppressione esercitata su un altro popolo sono tra loro inconciliabili. Una sinistra degna di questo nome , dovrebbe dire che ciò che stiamo facendo in Cisgiordania è peggiore di tutti i pogrom compiuti contro gli ebrei...». Affermazione pesantissima... «Mi riferisco ai pogrom compiuti da quei cosacchi tanto ammirati da Avigdor Lieberman (ministro degli Esteri e leader del partito russofono ultranazionalista Israel Beitenu, ndr). È straziante, ma lo Stato di Israele non è più una democrazia. Noi viviamo in una etnocrazia soggetta a un ordinamento “ebraico e democratico”». Un tema che divide Israele è quello della trattativa con Hamas legata alla liberazione di Gilad Shalit, il giovane caporale di Tsahal rapito oltre tre ani è mezzo fa da un commando palestinese. Il premier Netanyahu ha affermato che non ha alcuna intenzione di liberare palestinesi che hanno le mani macchiate del sangue di ebrei...». «Nessuno dovrebbe tirare fuori questa sciocchezza del “sangue sulle mani”. Dal 2000, con lo scoppio della seconda intifada, abbiamo ucciso migliaia di persone. Anche noi abbiamo sangue sulle nostre mani. Non ci limitiamo a negare alla popolazione palestinese i diritti umani. Non rubiamo loro solo la libertà, la terra e l’acqua. Applichiamo punizioni collettive a milioni di persone. E tutto questo in nome di un diritto di difesa che tutto giustifica e legittima...Una sinistra degna di questo nome dovrebbe scatenare una rivolta morale contro questa ignominia...». Non si sente sola in questo j’accuse... «Per fortuna non lo sono, ma anche se lo fossi non smetterei di difendere quei valori, quei principi, quelle idee che hanno segnato la mia vita. Che mi hanno portato a combattere per difendere Israele, il suo diritto all’esistenza e la sua democrazia. Una democrazia oggi minacciata dall’interno».
14 gennaio 2010 pubblicato nell'edizione Nazionale (pagina 28) nella sezione "Esteri"
di Umberto De Giovannangeli
La sinistra dovrebbe incarnare una idea progressiva di democrazia. Dovrebbe essere portatrice di una visione aperta della società. Una sinistra degna di questo nome avrebbe dovuto denunciare l’imbarbarimento della società, dicendo chiaro e forte che democrazia e oppressione esercitata contro un altro popolo sono tra loro inconciliabili. E su questa linea avrebbe dovuto rappresentare un’alternativa ideale, politica, etica, alla destra fondamentalista e razzista che oggi governa. Una destra che alimenta l’estremismo fascista dei coloni, la destra che giudica i suoi avversari dei traditori da neutralizzare. Una sinistra, mi riferisco al partito laburista, che non solo non contrasta questa destra ma addirittura ci governa assieme, è una sinistra che non ha ragion d’essere». A sostenerlo è una delle figure storiche della sinistra laica e pacifista d’Israele: Shulamit Aloni. Con l’intervista alla fondatrice di «Peace Now», l’Unità prosegue l’inchiesta su Israele e la crisi della sinistra avviata con un articolo dello storico Zeev Sternhell e un’intervista all’ex segretario generale del Labour, Ophir Pines-Paz. Gli strali di Shulamit Aloni s’indirizzano soprattutto verso il leader laburista e attuale ministro della Difesa, Ehud Barak: «È un politico pericoloso, tronfio», afferma decisa. Come giudica la sinistra israeliana? «La sinistra? Perché esiste una sinistra oggi in Israele? Questa sì che sarebbe una notizia. La verità, amarissima, è che la destra ha due mani sinistre, ma oggi la sinistra semplicemente non esiste. Netanyahu chiude e apre...». Ed Ehud Barak? «Ha fatto del “poltronismo” la sua unica fede politica. È un politico pericoloso a causa del suo temperamento estremista e perché è un uomo di guerra. Ma come può continuare a definirsi di “sinistra” un uomo che ha rivendicato la guerra di Gaza con i crimini, le punizioni collettive, le devastazioni perpetrate?». Pericoloso quanto i coloni oltranzisti? . «La loro protervia mi spaventa, il loro razzismo verso i palestinesi e gli arabi israeliani m’indigna. Costoro sono un cancro che rischia di propagarsi in tutto il corpo della società israeliana, devastando ciò che resta del nostro tessuto democratico. Questa destra non vuole la pace, ma l’intera Terrasanta senza arabi e moschee. Mi piange il cuore nel dire che oggi Israele, il Paese per cui ho combattuto, è marchiato dal fanatismo religioso». Cosa dovrebbe fare una sinistra «degna di questo nome»? «Difendere la democrazia. E per farlo affermare con nettezza che democrazia e oppressione esercitata su un altro popolo sono tra loro inconciliabili. Una sinistra degna di questo nome , dovrebbe dire che ciò che stiamo facendo in Cisgiordania è peggiore di tutti i pogrom compiuti contro gli ebrei...». Affermazione pesantissima... «Mi riferisco ai pogrom compiuti da quei cosacchi tanto ammirati da Avigdor Lieberman (ministro degli Esteri e leader del partito russofono ultranazionalista Israel Beitenu, ndr). È straziante, ma lo Stato di Israele non è più una democrazia. Noi viviamo in una etnocrazia soggetta a un ordinamento “ebraico e democratico”». Un tema che divide Israele è quello della trattativa con Hamas legata alla liberazione di Gilad Shalit, il giovane caporale di Tsahal rapito oltre tre ani è mezzo fa da un commando palestinese. Il premier Netanyahu ha affermato che non ha alcuna intenzione di liberare palestinesi che hanno le mani macchiate del sangue di ebrei...». «Nessuno dovrebbe tirare fuori questa sciocchezza del “sangue sulle mani”. Dal 2000, con lo scoppio della seconda intifada, abbiamo ucciso migliaia di persone. Anche noi abbiamo sangue sulle nostre mani. Non ci limitiamo a negare alla popolazione palestinese i diritti umani. Non rubiamo loro solo la libertà, la terra e l’acqua. Applichiamo punizioni collettive a milioni di persone. E tutto questo in nome di un diritto di difesa che tutto giustifica e legittima...Una sinistra degna di questo nome dovrebbe scatenare una rivolta morale contro questa ignominia...». Non si sente sola in questo j’accuse... «Per fortuna non lo sono, ma anche se lo fossi non smetterei di difendere quei valori, quei principi, quelle idee che hanno segnato la mia vita. Che mi hanno portato a combattere per difendere Israele, il suo diritto all’esistenza e la sua democrazia. Una democrazia oggi minacciata dall’interno».
14 gennaio 2010 pubblicato nell'edizione Nazionale (pagina 28) nella sezione "Esteri"
SCHIACCIARE LA PROTESTA NON VIOLENTA DEI PALESTINESI
Schiacciare la protesta pacifica dei palestinesi
di Neve Gordon
The Guardian, 23 dicembre 2009
Mi è stato spesso domandato perché i palestinesi non avessero mai sviluppato un movimento pacifista come l'israeliano Peace Now.
È un quesito in sé problematico, fondato su numerose assunzioni erronee, come la nozione che vi sia una simmetria tra le due parti (palestinese e israeliana) e che Peace Now rappresenti un movimento politicamente efficace. Ma la più importante è la falsa supposizione che i palestinesi abbiano fallito a creare un movimento popolare pacifista.
Nel settembre del 1967 – tre mesi dopo la guerra decisiva nella quale la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est furono occupate – i leader palestinesi decisero di lanciare una campagna contro l'introduzione di nuovi libri di testo israeliani nelle scuole palestinesi. Questo movimento non diede vita ad attacchi terroristici, come la letteratura dominante circa l'opposizione palestinese può portare a credere, ma i dissidenti palestinesi adottarono piuttosto delle metodologie ispirate a Mahatma Gandhi e si mobilitarono attraverso uno sciopero generale della scuola: gli insegnanti non andarono a lavorare, i bambini protestarono per le strade contro l'occupazione, e molti commercianti tenettero chiusi i propri negozi.
La risposta israeliana a quel primo sciopero fu immediata e severa, con una serie di ordini militari che criminalizzavano come insurrezione tutte le forme di resistenza – includendo le proteste, i raduni politici, lo sfoggiare bandiere o altri simboli nazionali, il pubblicare e distribuire articoli o fotografie dai connotati politici e persino cantare o ascoltare canzoni patriottiche.
Ma ancora più importante, Israele organizzò rapidamente delle forze di sicurezza per sopprimere l'opposizione, lanciando delle campagne punitive a Nablus, dove vivevano i leader dello sciopero. Come specifica nel suo libro “La carota e il bastone” il generale maggiore Shlomo Gazit, coordinatore delle attività nei territori occupati in quel periodo, il messaggio che Israele voleva imprimere era chiaro: ogni atto di resistenza si sarebbe concluso con una risposta israeliana spropositata, finalizzata a far soffrire la popolazione a tal punto che la resistenza sarebbe apparsa inutile.
Dopo alcune settimane di coprifuoco notturno, di linee telefoniche bloccate, di detenzione nelle carceri dei leader, e di una vessazione imposta alla popolazione sempre maggiore, Israele riuscì a spezzare lo sciopero.
Sebbene sia passata molta acqua sotto il ponte da quel primo tentativo di resistenza nella forma di “disobbedienza civile”, nel corso delle scorse cinque decadi i palestinesi hanno continuamente sviluppato metodi non violenti di opposizione per sfidare l'occupazione. Israele, d'altra parte, ha sempre utilizzato contromisure violente per soffocare questi tentativi.
Spesso ci si dimentica che persino la seconda Intifada, che si manifestò in un crescendo di violenza, iniziò invece come una rivolta popolare pacifica. Il giornalista di Haaretz Akiva Eldar ha rivelato molti anni dopo che i vertici della sicurezza israeliana avevano deciso di radicalizzare il livello dello scontro già durante le prime settimane della rivolta. Akiva cita Amos Malka, il generale dell'esercito responsabile dell'intelligence in quel periodo, dicendo che durante il primo mese della seconda Intifada, quando questa era ancora principalmente caratterizzata da proteste popolari non violente, l'esercito sparava già proiettili 1.3 millimetri in Cisgiordania e a Gaza. L'idea era di innalzare il livello di violenza dello scontro, pensando che questo avrebbe condotto ad una vittoria militare decisiva e al soffocamento della ribellione. La rivolta e la sua soppressione si radicalizzarono di conseguenza.
Ma di nuovo, negli scorsi cinque anni, palestinesi da villaggi e cittadine segnate come Bil'in e Jayyous hanno sviluppato nuove forme di resistenza pacifica che hanno attratto l'attenzione della comunità internazionale. Persino il primo ministro dell'Autorità palestinese (Anp) Salam Fayyad ha recentemente esortato i propri elettori ad adottare strategie simili. Israele, in risposta, ha decido di trovare il modo di metter fine alle proteste una volta per tutte, e ha iniziato una ben architettata campagna che prende di mira i leader locali di questa resistenza.
Uno di questi leader, Abdallah Abu Rhamah, un insegnate di scuola superiore, coordinatore del Comitato popolare contro il Muro di Bil'in, è uno dei tanti palestinesi sulla lista nera dei militari israeliani. Alle due del mattino del dieci dicembre (la giornata mondiale per i diritti umani), nove veicoli militari hanno circondato la sua casa. Soldati israeliani hanno fatto irruzione sfondando la porta, e dopo avergli concesso di salutare la moglie Majida e i tre figli, lo hanno bendato e preso in custodia. È stato accusato del lancio di pietre, del possesso di armi (in realtà vecchi lacrimogeni conservati al museo di Bil'in), e di istigazione dei seguaci palestinesi, che, tradotto, significa organizzare dimostrazioni contro l'occupazione.
Il giorno prima dell'arresto di Abu Ramah, l'esercito israeliano si è dispiegato in un'operazione coordinata nella regione di Nablus, irrompendo nelle case di quegli attivisti di base presi di mira per il loro impegno politico contro la violazione dei diritti umani. Wa'el al-Faqeeh Abu as-Sabe, di 45 anni, è una delle nove persone arrestate. È stato prelevato da casa sua all'una del mattino e, come Abu Ramah, è adesso accusato d'istigazione. Mayasar Itiany, conosciuta per il suo lavoro con la Women's Union di Nablus e attivista per i diritti dei prigionieri politici è stata anch'ella presa in custodia, come anche Mussa Salama, attiva nel Medical Relief for Workers. Anche Jamal Juma’, direttore di una ong chiamata Stop the Wall, è ora dietro le sbarre di una cella.
Gli arresti notturni mirati dei leader delle comunità palestinesi sono diventati pratica comune in Cisgiordiania, in special modo nel villaggio di Bil'in dove, sin dallo scorso giugno, 31 residenti sono stati arrestati per il loro coinvolgimento nelle dimostrazioni contro il Muro. Tra questi c'è Abeed Abu Rhamah, un attivista di spicco che è rimasto in cella per circa cinque mesi e che rischia ora di essere imprigionato per ulteriori quattordici mesi.
Chiaramente, la strategia israeliana è quella di arrestare tutti i leader e di accusarli d'istigazione, innalzando il prezzo e il rischio nell'organizzare proteste contro l'oppressione subita dalla popolazione palestinese. L'obbiettivo è quello di metter fine alla resistenza popolare pacifica all'interno dei villaggi e di schiacciare una volta per tutte il movimento pacifista in Palestina.
Per questo motivo, la mia risposta a coloro che mi chiedono a proposito di un Peace Now palestinese è che un movimento pacifista dal basso è sempre esistito in Palestina. E al processo di Abdallah Abu Rhamah del prossimo giovedì (il riferimento è giovedì 31 dicembre, ndr) chiunque potrà essere testimone di alcuni dei metodi “legali” che sono stati costantemente sviluppati da Israele per distruggere tale movimento.
(Traduzione a cura di Indymedia Emilia Romagna)
di Neve Gordon
The Guardian, 23 dicembre 2009
Mi è stato spesso domandato perché i palestinesi non avessero mai sviluppato un movimento pacifista come l'israeliano Peace Now.
È un quesito in sé problematico, fondato su numerose assunzioni erronee, come la nozione che vi sia una simmetria tra le due parti (palestinese e israeliana) e che Peace Now rappresenti un movimento politicamente efficace. Ma la più importante è la falsa supposizione che i palestinesi abbiano fallito a creare un movimento popolare pacifista.
Nel settembre del 1967 – tre mesi dopo la guerra decisiva nella quale la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est furono occupate – i leader palestinesi decisero di lanciare una campagna contro l'introduzione di nuovi libri di testo israeliani nelle scuole palestinesi. Questo movimento non diede vita ad attacchi terroristici, come la letteratura dominante circa l'opposizione palestinese può portare a credere, ma i dissidenti palestinesi adottarono piuttosto delle metodologie ispirate a Mahatma Gandhi e si mobilitarono attraverso uno sciopero generale della scuola: gli insegnanti non andarono a lavorare, i bambini protestarono per le strade contro l'occupazione, e molti commercianti tenettero chiusi i propri negozi.
La risposta israeliana a quel primo sciopero fu immediata e severa, con una serie di ordini militari che criminalizzavano come insurrezione tutte le forme di resistenza – includendo le proteste, i raduni politici, lo sfoggiare bandiere o altri simboli nazionali, il pubblicare e distribuire articoli o fotografie dai connotati politici e persino cantare o ascoltare canzoni patriottiche.
Ma ancora più importante, Israele organizzò rapidamente delle forze di sicurezza per sopprimere l'opposizione, lanciando delle campagne punitive a Nablus, dove vivevano i leader dello sciopero. Come specifica nel suo libro “La carota e il bastone” il generale maggiore Shlomo Gazit, coordinatore delle attività nei territori occupati in quel periodo, il messaggio che Israele voleva imprimere era chiaro: ogni atto di resistenza si sarebbe concluso con una risposta israeliana spropositata, finalizzata a far soffrire la popolazione a tal punto che la resistenza sarebbe apparsa inutile.
Dopo alcune settimane di coprifuoco notturno, di linee telefoniche bloccate, di detenzione nelle carceri dei leader, e di una vessazione imposta alla popolazione sempre maggiore, Israele riuscì a spezzare lo sciopero.
Sebbene sia passata molta acqua sotto il ponte da quel primo tentativo di resistenza nella forma di “disobbedienza civile”, nel corso delle scorse cinque decadi i palestinesi hanno continuamente sviluppato metodi non violenti di opposizione per sfidare l'occupazione. Israele, d'altra parte, ha sempre utilizzato contromisure violente per soffocare questi tentativi.
Spesso ci si dimentica che persino la seconda Intifada, che si manifestò in un crescendo di violenza, iniziò invece come una rivolta popolare pacifica. Il giornalista di Haaretz Akiva Eldar ha rivelato molti anni dopo che i vertici della sicurezza israeliana avevano deciso di radicalizzare il livello dello scontro già durante le prime settimane della rivolta. Akiva cita Amos Malka, il generale dell'esercito responsabile dell'intelligence in quel periodo, dicendo che durante il primo mese della seconda Intifada, quando questa era ancora principalmente caratterizzata da proteste popolari non violente, l'esercito sparava già proiettili 1.3 millimetri in Cisgiordania e a Gaza. L'idea era di innalzare il livello di violenza dello scontro, pensando che questo avrebbe condotto ad una vittoria militare decisiva e al soffocamento della ribellione. La rivolta e la sua soppressione si radicalizzarono di conseguenza.
Ma di nuovo, negli scorsi cinque anni, palestinesi da villaggi e cittadine segnate come Bil'in e Jayyous hanno sviluppato nuove forme di resistenza pacifica che hanno attratto l'attenzione della comunità internazionale. Persino il primo ministro dell'Autorità palestinese (Anp) Salam Fayyad ha recentemente esortato i propri elettori ad adottare strategie simili. Israele, in risposta, ha decido di trovare il modo di metter fine alle proteste una volta per tutte, e ha iniziato una ben architettata campagna che prende di mira i leader locali di questa resistenza.
Uno di questi leader, Abdallah Abu Rhamah, un insegnate di scuola superiore, coordinatore del Comitato popolare contro il Muro di Bil'in, è uno dei tanti palestinesi sulla lista nera dei militari israeliani. Alle due del mattino del dieci dicembre (la giornata mondiale per i diritti umani), nove veicoli militari hanno circondato la sua casa. Soldati israeliani hanno fatto irruzione sfondando la porta, e dopo avergli concesso di salutare la moglie Majida e i tre figli, lo hanno bendato e preso in custodia. È stato accusato del lancio di pietre, del possesso di armi (in realtà vecchi lacrimogeni conservati al museo di Bil'in), e di istigazione dei seguaci palestinesi, che, tradotto, significa organizzare dimostrazioni contro l'occupazione.
Il giorno prima dell'arresto di Abu Ramah, l'esercito israeliano si è dispiegato in un'operazione coordinata nella regione di Nablus, irrompendo nelle case di quegli attivisti di base presi di mira per il loro impegno politico contro la violazione dei diritti umani. Wa'el al-Faqeeh Abu as-Sabe, di 45 anni, è una delle nove persone arrestate. È stato prelevato da casa sua all'una del mattino e, come Abu Ramah, è adesso accusato d'istigazione. Mayasar Itiany, conosciuta per il suo lavoro con la Women's Union di Nablus e attivista per i diritti dei prigionieri politici è stata anch'ella presa in custodia, come anche Mussa Salama, attiva nel Medical Relief for Workers. Anche Jamal Juma’, direttore di una ong chiamata Stop the Wall, è ora dietro le sbarre di una cella.
Gli arresti notturni mirati dei leader delle comunità palestinesi sono diventati pratica comune in Cisgiordiania, in special modo nel villaggio di Bil'in dove, sin dallo scorso giugno, 31 residenti sono stati arrestati per il loro coinvolgimento nelle dimostrazioni contro il Muro. Tra questi c'è Abeed Abu Rhamah, un attivista di spicco che è rimasto in cella per circa cinque mesi e che rischia ora di essere imprigionato per ulteriori quattordici mesi.
Chiaramente, la strategia israeliana è quella di arrestare tutti i leader e di accusarli d'istigazione, innalzando il prezzo e il rischio nell'organizzare proteste contro l'oppressione subita dalla popolazione palestinese. L'obbiettivo è quello di metter fine alla resistenza popolare pacifica all'interno dei villaggi e di schiacciare una volta per tutte il movimento pacifista in Palestina.
Per questo motivo, la mia risposta a coloro che mi chiedono a proposito di un Peace Now palestinese è che un movimento pacifista dal basso è sempre esistito in Palestina. E al processo di Abdallah Abu Rhamah del prossimo giovedì (il riferimento è giovedì 31 dicembre, ndr) chiunque potrà essere testimone di alcuni dei metodi “legali” che sono stati costantemente sviluppati da Israele per distruggere tale movimento.
(Traduzione a cura di Indymedia Emilia Romagna)
Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni
Venerdì 15 Gennaio 2010 21:53 Rete-ECO |
10 gennaio 2010
Le continue violazioni da parte di Israele dei diritti umani dei Palestinesi hanno raggiunto limiti intollerabili sia in Israele sia nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) ed a Gaza. Oltre le violazioni del diritto internazionale, sancito da numerose dichiarazioni della Nazioni Unite alle quali Israele ha formalmente aderito, Israele si è reso colpevole di gravissimi crimini contro l’Umanità. Recentemente a Gaza l’esercito israeliano ha compiuto un immane massacro di civili, con oltre 1400 morti tra cui numerosi bambini ed infanti, ben documentato nella relazione della Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite, presieduta dal giudice Goldstone. Un simile massacro era stato commesso da Israele nel 2006, in Libano. L’invasione da parte di coloni israeliani, appoggiati dall’esercito, nei TPO di Cisgiordania, è proseguita e prosegue tuttora, accompagnata dalla espulsione dei Palestinesi dalle loro case e dalle loro terre. A nulla sono valse, sinora, le condanne da parte di varie Istituzioni delle Nazioni Unite: Israele non ha ascoltato nessuna delle ingiunzioni, forte dell’appoggio degli Stati Uniti d’America e del colpevole silenzio o comunque mancanza di sanzioni da parte dell’Unione Europea.
In questa situazione, occorre arrivare ad un nuovo livello di attivismo e di presenza politica a fianco dei Palestinesi. Può avere risultati importanti e duraturi un’iniziativa delle nazioni che rispettano il Diritto Internazionale e che sanzioni Israele sia moralmente sia economicamente. L’iniziativa si è sviluppata, con numerosi consensi di Associazioni, e persone singole, in tutto il mondo, e richiede il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) economiche e politiche di Israele. Questo significa disinvestire da attività economiche in Israele o da cui Israele tragga vantaggio ( o comunque approvare e sostenere il disinvestimento, per chi non è investitore di capitali), e richiedere sanzioni politiche ed economiche contro Israele, che aboliscano ogni associazione di Israele ad attività militari ed economiche della Comunità Europea e degli USA. Dagli USA infatti provengono enormi sovvenzioni alle attività militari di Israele (il finanziamento militare, rinnovato dall’amministrazione Obama, ammonta a 4,1 miliardi di dollari per il 2010). L’Europa fornisce molto rilevanti finanziamenti per la ricostruzione di case e strutture palestinesi che vengono continuamente distrutte da Israele, senza che dalla Comunità Europea né dai singoli paesi vengano adottate sanzioni che vadano oltre le proteste verbali, sistematicamente ignorate da Israele. Occorre anzi osservare che Israele gode di speciali privilegi negli scambi culturali e cultural-commerciali con l’Europa. Su questo dobbiamo prendere una posizione di severa sanzione, tale da render noto agli studiosi, artisti ed accademici israeliani che debbono rendersi conto che la loro posizione nei riguardi della politica del loro governo verso i palestinesi non può essere neutrale. Essi debbono dichiarare apertamente il loro giudizio sulle azioni del loro Paese contro tutte le libertà dei palestinesi (compresa quella di far funzionare scuole ed università), sia quelli che hanno la cittadinanza israeliana sia gli abitanti dei Territori Occupati: simile dichiarazione hanno firmato 403 universitari israeliani, su un totale di circa 9000. Richiami al coraggio di agire, scrivere e parlare per la libertà e la uguaglianza dei palestinesi sono stati fatti da alcune ed alcuni israeliane/i noti nel mondo della cultura, dell’informazione ed accademici; ed in modo eccellente dai giovani che rifiutano il servizio militare nell’esercito oppressore. Dobbiamo proporre, rinunciando al termine “boicottaggio”, appropriato per gli scambi commerciali ma non per gli scambi culturali, che sia richiesto a studiosi ed artisti israeliani che vengano a comunicare in Italia ed in Europa, di dichiarare il loro pensiero sulla oppressione gravissima dei diritti umani e civili dei palestinesi e sui massacri come a Gaza ed in Libano, che non hanno il diritto di ignorare.
Unendosi all’European Jews for a Just Peace (EJJP) di cui fa parte, ECO aderisce al programma BDS, e si impegna ad esaminare caso per caso le azioni da intraprendere, in solidarietà con EJJP e con le organizzazioni palestinesi che hanno proposto il progetto PACBI.
10 gennaio 2010
Le continue violazioni da parte di Israele dei diritti umani dei Palestinesi hanno raggiunto limiti intollerabili sia in Israele sia nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) ed a Gaza. Oltre le violazioni del diritto internazionale, sancito da numerose dichiarazioni della Nazioni Unite alle quali Israele ha formalmente aderito, Israele si è reso colpevole di gravissimi crimini contro l’Umanità. Recentemente a Gaza l’esercito israeliano ha compiuto un immane massacro di civili, con oltre 1400 morti tra cui numerosi bambini ed infanti, ben documentato nella relazione della Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite, presieduta dal giudice Goldstone. Un simile massacro era stato commesso da Israele nel 2006, in Libano. L’invasione da parte di coloni israeliani, appoggiati dall’esercito, nei TPO di Cisgiordania, è proseguita e prosegue tuttora, accompagnata dalla espulsione dei Palestinesi dalle loro case e dalle loro terre. A nulla sono valse, sinora, le condanne da parte di varie Istituzioni delle Nazioni Unite: Israele non ha ascoltato nessuna delle ingiunzioni, forte dell’appoggio degli Stati Uniti d’America e del colpevole silenzio o comunque mancanza di sanzioni da parte dell’Unione Europea.
In questa situazione, occorre arrivare ad un nuovo livello di attivismo e di presenza politica a fianco dei Palestinesi. Può avere risultati importanti e duraturi un’iniziativa delle nazioni che rispettano il Diritto Internazionale e che sanzioni Israele sia moralmente sia economicamente. L’iniziativa si è sviluppata, con numerosi consensi di Associazioni, e persone singole, in tutto il mondo, e richiede il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) economiche e politiche di Israele. Questo significa disinvestire da attività economiche in Israele o da cui Israele tragga vantaggio ( o comunque approvare e sostenere il disinvestimento, per chi non è investitore di capitali), e richiedere sanzioni politiche ed economiche contro Israele, che aboliscano ogni associazione di Israele ad attività militari ed economiche della Comunità Europea e degli USA. Dagli USA infatti provengono enormi sovvenzioni alle attività militari di Israele (il finanziamento militare, rinnovato dall’amministrazione Obama, ammonta a 4,1 miliardi di dollari per il 2010). L’Europa fornisce molto rilevanti finanziamenti per la ricostruzione di case e strutture palestinesi che vengono continuamente distrutte da Israele, senza che dalla Comunità Europea né dai singoli paesi vengano adottate sanzioni che vadano oltre le proteste verbali, sistematicamente ignorate da Israele. Occorre anzi osservare che Israele gode di speciali privilegi negli scambi culturali e cultural-commerciali con l’Europa. Su questo dobbiamo prendere una posizione di severa sanzione, tale da render noto agli studiosi, artisti ed accademici israeliani che debbono rendersi conto che la loro posizione nei riguardi della politica del loro governo verso i palestinesi non può essere neutrale. Essi debbono dichiarare apertamente il loro giudizio sulle azioni del loro Paese contro tutte le libertà dei palestinesi (compresa quella di far funzionare scuole ed università), sia quelli che hanno la cittadinanza israeliana sia gli abitanti dei Territori Occupati: simile dichiarazione hanno firmato 403 universitari israeliani, su un totale di circa 9000. Richiami al coraggio di agire, scrivere e parlare per la libertà e la uguaglianza dei palestinesi sono stati fatti da alcune ed alcuni israeliane/i noti nel mondo della cultura, dell’informazione ed accademici; ed in modo eccellente dai giovani che rifiutano il servizio militare nell’esercito oppressore. Dobbiamo proporre, rinunciando al termine “boicottaggio”, appropriato per gli scambi commerciali ma non per gli scambi culturali, che sia richiesto a studiosi ed artisti israeliani che vengano a comunicare in Italia ed in Europa, di dichiarare il loro pensiero sulla oppressione gravissima dei diritti umani e civili dei palestinesi e sui massacri come a Gaza ed in Libano, che non hanno il diritto di ignorare.
Unendosi all’European Jews for a Just Peace (EJJP) di cui fa parte, ECO aderisce al programma BDS, e si impegna ad esaminare caso per caso le azioni da intraprendere, in solidarietà con EJJP e con le organizzazioni palestinesi che hanno proposto il progetto PACBI.
Gli insediamenti sono in espansione
martedì 12 Gennaio 2010 07:08 Mustafa Barghouthi |
The New York Times | International Herald Tribune, 16 dicembre 2009
Ramallah, West Bank. Ho vissuto l’intera mia vita di adulto sotto l’occupazione israeliana, mentre sui miei movimenti, sulla mia vita di tutti i giorni gli israeliani esercitavano un controllo assoluto.
Quando agenti di polizia israeliani mi costringono a sedermi per terra e i soldati mi picchiano durante una manifestazione pacifica, io reprimo il mio odio. Chi esercita diritti riconosciuti in tutto l’Occidente non dovrebbe mai essere costretto a sedersi per terra.
E’ profondamente preoccupante che l’amministrazione Obama non sia ancora in grado di tener testa a Israele e alla lobby filoisraeliana. Il nostro sogno di libertà è schiacciato sotto il peso degli insediamenti israeliani, sempre più grandi e inamovibili.
Giorni or sono, tutto quello che il portavoce del Dipartimento di Stato, Ian Kelly, è riuscito a dire di quelle costruzioni illegali è stato che incutono sgomento. Ogniqualvolta George Mitchell, l’inviato americano, parla di Gerusalemme Est, il ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman, si alza e se ne va.
E Javier Solana, vicino a lasciare la carica di capo della politica estera dell’Unione Europea, pretende che i palestinesi debbano fare passi avanti verso la creazione di uno Stato gradualmente, con calma, al momento opportuno. Aggiunge: non credo che questo sia il momento di parlarne.
Quando, per l’esattezza, è il momento opportuno per la libertà dei palestinesi? Mi appello alla persona che succede a Solana, Catherine Ashton, perché compia azioni concrete capaci di portare alla pace palestinese anziché posporla.
Se Israele persiste a rifarsi alle vecchie nozioni circa la determinazione della libertà di un altro popolo, allora incombe ai palestinesi di organizzarsi e dimostrare come sia moralmente ripugnante un tale modo di vedere.
Attraverso i decenni di occupazione e spossessamento, il 90 per cento della lotta palestinese è stato di carattere non violento, e la grande maggioranza dei palestinesi ha sostenuto questo metodo di lotta. Oggi i palestinesi che prendono parte alla resistenza organizzata non violenta sono sempre più numerosi.
Di fronte all’inerzia europea e americana, è cruciale per noi continuare a tenere viva la nostra cultura di impegno collettivo, mettendo in atto una vigorosa resistenza non violenta contro la dominazione che Israele esercita su di noi.
Sono azioni che chiunque, uomo, donna o bambino, può compiere. Il movimento non violento si sta sviluppando nei villaggi di Jayyous, Bilin e Naalin, dove il muro di separazione israeliano minaccia di cancellare la vita produttiva.
Il presidente Obama, forse involontariamente, ha incoraggiato i nostri sforzi in questo senso, nell’invocare nel suo discorso del Cairo la non violenza palestinese. I palestinesi, ha detto, devono metter fine alle azioni violente. Per secoli, i neri d’America hanno sofferto l’umiliazione e la segregazione. Ma non è stato con la violenza che hanno ottenuto pieni e pari diritti. E’ stato grazie a una pacifica e determinata insistenza sugli ideali che sono al centro della fondazione degli Stati Uniti.
Eppure, nei dieci mesi della presidenza Obama, senza che si facesse sentire la minima protesta da parte degli americani, i soldati israeliani hanno ucciso e ferito molti palestinesi non violenti, tra i quali ricordo soprattutto Bassem Abu Rahme, ucciso in aprile da un proiettile di gas lacrimogeno ad alta velocità. Con un proiettile simile in marzo è stato gravemente ferito dall’esercito israeliano il cittadino americano Tristan Anderson, che è tuttora in coma profondo. Entrambi protestavano contro il sequestro di terra da parte di Israele e contro il muro israeliano. Sono centinaia gli altri casi analoghi, sconosciuti all’esterno.
Una nuova generazione di leader palestinesi tenta di parlare al mondo il linguaggio della campagna non violenta di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, proprio come fecero Martin Luther King Junior e migliaia di altri afroamericani con il boicottaggio del bus di Montgomery a metà degli anni 50.
Riteniamo legittimo usare la stessa tattica per far rispettare i nostri diritti. Il mondo che respinge l’uso della violenza da parte dei palestinesi, anche nel caso di evidente autodifesa, non dovrebbe rimproverarci la non violenza a cui prima di noi ricorsero uomini come King e Gandhi.
Data la letargia dell’Occidente può essere ormai troppo tardi per la soluzione dei due Stati. Se davvero sarà così, la colpa ricadrà su chi non è stato capace di bloccare l’edificazione degli insediamenti da parte di Israele. Dichiarando che gli insediamenti a Gerusalemme Est continueranno a svilupparsi e nella West Bank vi saranno edifici pubblici e migliaia di unità abitative vi sono già in costruzione, Benjamin Netanyahu volge in ridicolo il termine “congelamento”.
Noi palestinesi siamo abituati agli avvertimenti di Netanyahu e non abbiamo nessuna intenzione di accettarli.
Se la soluzione dei due Stati si rivelerà impraticabile, la sola alternativa sarà una nuova lotta per la parità dei diritti, all’interno di un unico Stato. Israele, che così disastrosamente è per la supremazia anziché per l’integrazione dei suoi vicini palestinesi, avrà attirato su di sé la nuova lotta con il portare avanti inesorabilmente gli insediamenti. Nessuno potrà dire che non sia stato messo in guardia.
Alla fine saremo liberi nel nostro paese, sia nel caso si realizzi la soluzione dei due Stati ovvero in un nuovo Stato integrato.
C’è un momento in cui non si può più subire l’ingiustizia, e per i palestinesi questo momento è giunto.
Il dottor Mustafa Barghouthi è segretario generale della Palestinian National Initiative (Iniziativa nazionale palestinese) e membro del Consiglio Legislativo palestinese.
Testo originale in http://www.nytimes.com/2009/12/17/opinion/17iht-edbarghouthi.html?_r - tradotto da Marilla Boffito
The New York Times | International Herald Tribune, 16 dicembre 2009
Ramallah, West Bank. Ho vissuto l’intera mia vita di adulto sotto l’occupazione israeliana, mentre sui miei movimenti, sulla mia vita di tutti i giorni gli israeliani esercitavano un controllo assoluto.
Quando agenti di polizia israeliani mi costringono a sedermi per terra e i soldati mi picchiano durante una manifestazione pacifica, io reprimo il mio odio. Chi esercita diritti riconosciuti in tutto l’Occidente non dovrebbe mai essere costretto a sedersi per terra.
E’ profondamente preoccupante che l’amministrazione Obama non sia ancora in grado di tener testa a Israele e alla lobby filoisraeliana. Il nostro sogno di libertà è schiacciato sotto il peso degli insediamenti israeliani, sempre più grandi e inamovibili.
Giorni or sono, tutto quello che il portavoce del Dipartimento di Stato, Ian Kelly, è riuscito a dire di quelle costruzioni illegali è stato che incutono sgomento. Ogniqualvolta George Mitchell, l’inviato americano, parla di Gerusalemme Est, il ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman, si alza e se ne va.
E Javier Solana, vicino a lasciare la carica di capo della politica estera dell’Unione Europea, pretende che i palestinesi debbano fare passi avanti verso la creazione di uno Stato gradualmente, con calma, al momento opportuno. Aggiunge: non credo che questo sia il momento di parlarne.
Quando, per l’esattezza, è il momento opportuno per la libertà dei palestinesi? Mi appello alla persona che succede a Solana, Catherine Ashton, perché compia azioni concrete capaci di portare alla pace palestinese anziché posporla.
Se Israele persiste a rifarsi alle vecchie nozioni circa la determinazione della libertà di un altro popolo, allora incombe ai palestinesi di organizzarsi e dimostrare come sia moralmente ripugnante un tale modo di vedere.
Attraverso i decenni di occupazione e spossessamento, il 90 per cento della lotta palestinese è stato di carattere non violento, e la grande maggioranza dei palestinesi ha sostenuto questo metodo di lotta. Oggi i palestinesi che prendono parte alla resistenza organizzata non violenta sono sempre più numerosi.
Di fronte all’inerzia europea e americana, è cruciale per noi continuare a tenere viva la nostra cultura di impegno collettivo, mettendo in atto una vigorosa resistenza non violenta contro la dominazione che Israele esercita su di noi.
Sono azioni che chiunque, uomo, donna o bambino, può compiere. Il movimento non violento si sta sviluppando nei villaggi di Jayyous, Bilin e Naalin, dove il muro di separazione israeliano minaccia di cancellare la vita produttiva.
Il presidente Obama, forse involontariamente, ha incoraggiato i nostri sforzi in questo senso, nell’invocare nel suo discorso del Cairo la non violenza palestinese. I palestinesi, ha detto, devono metter fine alle azioni violente. Per secoli, i neri d’America hanno sofferto l’umiliazione e la segregazione. Ma non è stato con la violenza che hanno ottenuto pieni e pari diritti. E’ stato grazie a una pacifica e determinata insistenza sugli ideali che sono al centro della fondazione degli Stati Uniti.
Eppure, nei dieci mesi della presidenza Obama, senza che si facesse sentire la minima protesta da parte degli americani, i soldati israeliani hanno ucciso e ferito molti palestinesi non violenti, tra i quali ricordo soprattutto Bassem Abu Rahme, ucciso in aprile da un proiettile di gas lacrimogeno ad alta velocità. Con un proiettile simile in marzo è stato gravemente ferito dall’esercito israeliano il cittadino americano Tristan Anderson, che è tuttora in coma profondo. Entrambi protestavano contro il sequestro di terra da parte di Israele e contro il muro israeliano. Sono centinaia gli altri casi analoghi, sconosciuti all’esterno.
Una nuova generazione di leader palestinesi tenta di parlare al mondo il linguaggio della campagna non violenta di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, proprio come fecero Martin Luther King Junior e migliaia di altri afroamericani con il boicottaggio del bus di Montgomery a metà degli anni 50.
Riteniamo legittimo usare la stessa tattica per far rispettare i nostri diritti. Il mondo che respinge l’uso della violenza da parte dei palestinesi, anche nel caso di evidente autodifesa, non dovrebbe rimproverarci la non violenza a cui prima di noi ricorsero uomini come King e Gandhi.
Data la letargia dell’Occidente può essere ormai troppo tardi per la soluzione dei due Stati. Se davvero sarà così, la colpa ricadrà su chi non è stato capace di bloccare l’edificazione degli insediamenti da parte di Israele. Dichiarando che gli insediamenti a Gerusalemme Est continueranno a svilupparsi e nella West Bank vi saranno edifici pubblici e migliaia di unità abitative vi sono già in costruzione, Benjamin Netanyahu volge in ridicolo il termine “congelamento”.
Noi palestinesi siamo abituati agli avvertimenti di Netanyahu e non abbiamo nessuna intenzione di accettarli.
Se la soluzione dei due Stati si rivelerà impraticabile, la sola alternativa sarà una nuova lotta per la parità dei diritti, all’interno di un unico Stato. Israele, che così disastrosamente è per la supremazia anziché per l’integrazione dei suoi vicini palestinesi, avrà attirato su di sé la nuova lotta con il portare avanti inesorabilmente gli insediamenti. Nessuno potrà dire che non sia stato messo in guardia.
Alla fine saremo liberi nel nostro paese, sia nel caso si realizzi la soluzione dei due Stati ovvero in un nuovo Stato integrato.
C’è un momento in cui non si può più subire l’ingiustizia, e per i palestinesi questo momento è giunto.
Il dottor Mustafa Barghouthi è segretario generale della Palestinian National Initiative (Iniziativa nazionale palestinese) e membro del Consiglio Legislativo palestinese.
Testo originale in http://www.nytimes.com/2009/12/17/opinion/17iht-edbarghouthi.html?_r - tradotto da Marilla Boffito
mercoledì 13 gennaio 2010
NO ALL'AEROPORTO A VITERBO
ASSOCIAZIONE "RESPIRARE": SALVARE IL BULICAME, POTENZIARE LE FERROVIE, EVITARE UN DISASTRO SANITARIO
Nel dibattito politico-amministrativo di questi giorni nella citta' di Viterbo troppe forze politiche e troppi pubblici amministratori tendono ad eludere alcune questioni cruciali.
*
1. La necessita' di salvare l'area di immenso valore naturalistico, archeologico e termale del Bulicame.
La realizzazione nel cuore di essa di un illegale e insensato mega-aeroporto distruggerebbe per sempre un bene insostituibile (che se difeso e valorizzato sarebbe il fulcro per un'economia sostenibile).
*
2. La necessita' di potenziare le ferrovie: che devono costituire il vero perno - adeguato e sostenibile - del collegamento tra Viterbo e Roma, Viterbo e il centro intermodale di Orte, Viterbo e il porto di Civitavecchia.
Ma le ferrovie non vengono potenziate perche' una lobby speculativa ed i suoi favoreggiatori progettano invece di sperperare immensi finanziamenti pubblici per realizzare un mega-aeroporto fuorilegge (che peraltro se fosse criminalmente realizzato farebbe anche immediatamente collassare le fragilissime infrastrutture dell'Alto Lazio).
*
3. La necessita' di difendere il diritto alla salute della popolazione dell'Alto Lazio: che gia' subisce i nefasti effetti inquinanti di scelte energetiche dissennate, delle devastazioni speculative, dell'impatto su ambiente e salute di attivita' economiche illegali.
Per difendere la salute e la sicurezza della popolazione viterbese e' assolutamente necessario opporsi alla realizzazione del mega-aeroporto che provocherebbe un inquinamento enorme dagli effetti altamente tossici come dimostrano gli studi scientifici realizzati dai piu' prestigiosi cattedratici a livello internazionale sull'inquinamento determinato dal trasporto aereo.
*
Salvare il Bulicame, potenziare le ferrovie, evitare un disastro sanitario: ne consegue che opporsi al mega-aeroporto a Viterbo dovrebbe essere un elemento decisivo di ogni ragionevole programma amministrativo per Viterbo e l'Alto Lazio.
L'associazione "Respirare"
Viterbo, 12 gennaio 2010
L'associazione "Respirare" e' stata promossa a Viterbo da associazioni e movimenti ecopacifisti e nonviolenti, per il diritto alla salute e la difesa dell'ambiente. Per informazioni e contatti: www.coipiediperterra.org e anche http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Nel dibattito politico-amministrativo di questi giorni nella citta' di Viterbo troppe forze politiche e troppi pubblici amministratori tendono ad eludere alcune questioni cruciali.
*
1. La necessita' di salvare l'area di immenso valore naturalistico, archeologico e termale del Bulicame.
La realizzazione nel cuore di essa di un illegale e insensato mega-aeroporto distruggerebbe per sempre un bene insostituibile (che se difeso e valorizzato sarebbe il fulcro per un'economia sostenibile).
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2. La necessita' di potenziare le ferrovie: che devono costituire il vero perno - adeguato e sostenibile - del collegamento tra Viterbo e Roma, Viterbo e il centro intermodale di Orte, Viterbo e il porto di Civitavecchia.
Ma le ferrovie non vengono potenziate perche' una lobby speculativa ed i suoi favoreggiatori progettano invece di sperperare immensi finanziamenti pubblici per realizzare un mega-aeroporto fuorilegge (che peraltro se fosse criminalmente realizzato farebbe anche immediatamente collassare le fragilissime infrastrutture dell'Alto Lazio).
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3. La necessita' di difendere il diritto alla salute della popolazione dell'Alto Lazio: che gia' subisce i nefasti effetti inquinanti di scelte energetiche dissennate, delle devastazioni speculative, dell'impatto su ambiente e salute di attivita' economiche illegali.
Per difendere la salute e la sicurezza della popolazione viterbese e' assolutamente necessario opporsi alla realizzazione del mega-aeroporto che provocherebbe un inquinamento enorme dagli effetti altamente tossici come dimostrano gli studi scientifici realizzati dai piu' prestigiosi cattedratici a livello internazionale sull'inquinamento determinato dal trasporto aereo.
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Salvare il Bulicame, potenziare le ferrovie, evitare un disastro sanitario: ne consegue che opporsi al mega-aeroporto a Viterbo dovrebbe essere un elemento decisivo di ogni ragionevole programma amministrativo per Viterbo e l'Alto Lazio.
L'associazione "Respirare"
Viterbo, 12 gennaio 2010
L'associazione "Respirare" e' stata promossa a Viterbo da associazioni e movimenti ecopacifisti e nonviolenti, per il diritto alla salute e la difesa dell'ambiente. Per informazioni e contatti: www.coipiediperterra.org e anche http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
La follia delirante dei muri
INTERVISTA | di Mi. Gio. - GERUSALEMME
SIGAL ROSEN
«Così la destra uccide il diritto all'asilo sull'altare della crisi»
Soltanto un paio di settimane fa Hotline for migrant workers (Hmw) aveva celebrato la «giornata del migrante», per sensibilizzare l'opinione pubblica israeliana sulle politiche repressive del ministro dell'interno contro migranti e richiedenti asilo politico. Nell'organizzazione non governativa è scattato l'allarme rosso dopo la decisione del governo Netanyahu di far costruire un nuovo muro, al confine con l'Egitto, per fermare l'arrivo degli africani che cercano lavoro in Israele, paese considerato da molti migranti - da quando si è fatto più difficile attraversare il Mediterraneo in direzione dell'Italia e della Spagna - come la principale porta d'accesso al benessere. Per Sigal Rosen, la portavoce di Hmw, la barriera in cantiere ha tuttavia un solo obiettivo: placare gli animi dei tanti israeliani che accusano gli stranieri di portargli via il lavoro.
Perché ritiene che questo nuovo muro non solo violi i diritti, ma sia pure inutile?
Senza ombra di dubbio è inutile. La ragione è semplice. Se il governo, come sostiene, vuole fermare il flusso di migranti, allora dovrebbe guardare non alla frontiera meridionale con l'Egitto ma all'aeroporto internazionale Ben Gurion. È dallo scalo di Tel Aviv che arrivano nel paese gran parte dei migranti alla ricerca d'impiego, non dal sud. Via terra, attraverso la frontiera con l'Egitto passano, secondo dati ufficiali, poche migliaia di persone ogni anno. Nei primi nove mesi del 2009 meno di tremila, tra i quali solo un migliaio erano effettivamente alla ricerca di un lavoro. Nello stesso periodo è stato lo stesso ministero dell'interno a garantire 120mila permessi di lavoro a chi è entrato dall'aeroporto, non vedo perciò il motivo di dare inizio ad un progetto così grande per poche migliaia di persone.
Qual è allora la posta in gioco. Il governo Netanyahu sostiene che questo progetto servirà sul lungo periodo anche garantire la maggioranza ebraica di Israele minacciata dall'afflusso di tanti stranieri.
Il governo dice tante cose ma questo progetto serve solo a mandare un segnale alla popolazione in una fase di crisi economica in cui tanti hanno perduto il lavoro e puntano l'indice contro la presenza o l'arrivo di nuovi migranti. Poco importa se la realtà racconta cose molto diverse. I migranti nel nostro paese, come in tutti i paesi ricchi, svolgono nella maggior parte dei casi lavori umili o molto faticosi che le popolazioni locali non intendono fare. Netanyahu invece segue una strada opposta e dice agli israeliani: guardate, il governo fa qualcosa di concreto, sta facendo la sua parte per frenare i migranti. La gente si tranquillizza. Intanto si mettono a forte rischio i diritti anche di chi cerca asilo, di chi fugge dalla guerra.
Parliamo proprio di chi cerca asilo.
Un problema serio, che riguarda tanti africani che fuggono dalle zone di guerra, ad esempio il Sudan o il Corno d'Africa. Israele, ripete il governo, ha il diritto di costruire una barriera lungo un confine riconosciuto. D'accordo, ma abbiamo anche dei doveri. Il nostro paese ha firmato una risoluzione internazionale sui rifugiati politici e deve rispettarla. Con questo nuovo muro come si potrà far entrare chi chiede asilo? Le guardie di frontiera controlleranno i documenti e lo status di uomini, donne e bambini che busseranno alle nostre porte meridionali? Ne dubito fortemente. E non dimentichiamo il problema, gravissimo, del pugno di ferro che gli egiziani, dall'altra parte del confine, usano con gli africani che tentano di raggiungere Israele. Negli ultimi anni non hanno esitato a fare fuoco uccidendo decine di persone.
Hotline for migrant workers peraltro respinge la differenza che tanti fanno tra migranti e richiedenti asilo quando parlano di coloro che attraversano illegalmente la frontiera tra Egitto e Israele.
La nostra posizione è chiara. Chi entra dal Sud vuole asilo, punto. Poco importa se poi cerca anche un lavoro una volta giunto in Israele. Il governo deve riconoscere che gli africani che tentano di entrare nel paese sono persone che si lasciano alle spalle una guerra e hanno bisogno di accoglienza. E in ogni caso un migrante cerca solo una vita migliore e un lavoro qualsiasi per sopravvivere.
SIGAL ROSEN
«Così la destra uccide il diritto all'asilo sull'altare della crisi»
Soltanto un paio di settimane fa Hotline for migrant workers (Hmw) aveva celebrato la «giornata del migrante», per sensibilizzare l'opinione pubblica israeliana sulle politiche repressive del ministro dell'interno contro migranti e richiedenti asilo politico. Nell'organizzazione non governativa è scattato l'allarme rosso dopo la decisione del governo Netanyahu di far costruire un nuovo muro, al confine con l'Egitto, per fermare l'arrivo degli africani che cercano lavoro in Israele, paese considerato da molti migranti - da quando si è fatto più difficile attraversare il Mediterraneo in direzione dell'Italia e della Spagna - come la principale porta d'accesso al benessere. Per Sigal Rosen, la portavoce di Hmw, la barriera in cantiere ha tuttavia un solo obiettivo: placare gli animi dei tanti israeliani che accusano gli stranieri di portargli via il lavoro.
Perché ritiene che questo nuovo muro non solo violi i diritti, ma sia pure inutile?
Senza ombra di dubbio è inutile. La ragione è semplice. Se il governo, come sostiene, vuole fermare il flusso di migranti, allora dovrebbe guardare non alla frontiera meridionale con l'Egitto ma all'aeroporto internazionale Ben Gurion. È dallo scalo di Tel Aviv che arrivano nel paese gran parte dei migranti alla ricerca d'impiego, non dal sud. Via terra, attraverso la frontiera con l'Egitto passano, secondo dati ufficiali, poche migliaia di persone ogni anno. Nei primi nove mesi del 2009 meno di tremila, tra i quali solo un migliaio erano effettivamente alla ricerca di un lavoro. Nello stesso periodo è stato lo stesso ministero dell'interno a garantire 120mila permessi di lavoro a chi è entrato dall'aeroporto, non vedo perciò il motivo di dare inizio ad un progetto così grande per poche migliaia di persone.
Qual è allora la posta in gioco. Il governo Netanyahu sostiene che questo progetto servirà sul lungo periodo anche garantire la maggioranza ebraica di Israele minacciata dall'afflusso di tanti stranieri.
Il governo dice tante cose ma questo progetto serve solo a mandare un segnale alla popolazione in una fase di crisi economica in cui tanti hanno perduto il lavoro e puntano l'indice contro la presenza o l'arrivo di nuovi migranti. Poco importa se la realtà racconta cose molto diverse. I migranti nel nostro paese, come in tutti i paesi ricchi, svolgono nella maggior parte dei casi lavori umili o molto faticosi che le popolazioni locali non intendono fare. Netanyahu invece segue una strada opposta e dice agli israeliani: guardate, il governo fa qualcosa di concreto, sta facendo la sua parte per frenare i migranti. La gente si tranquillizza. Intanto si mettono a forte rischio i diritti anche di chi cerca asilo, di chi fugge dalla guerra.
Parliamo proprio di chi cerca asilo.
Un problema serio, che riguarda tanti africani che fuggono dalle zone di guerra, ad esempio il Sudan o il Corno d'Africa. Israele, ripete il governo, ha il diritto di costruire una barriera lungo un confine riconosciuto. D'accordo, ma abbiamo anche dei doveri. Il nostro paese ha firmato una risoluzione internazionale sui rifugiati politici e deve rispettarla. Con questo nuovo muro come si potrà far entrare chi chiede asilo? Le guardie di frontiera controlleranno i documenti e lo status di uomini, donne e bambini che busseranno alle nostre porte meridionali? Ne dubito fortemente. E non dimentichiamo il problema, gravissimo, del pugno di ferro che gli egiziani, dall'altra parte del confine, usano con gli africani che tentano di raggiungere Israele. Negli ultimi anni non hanno esitato a fare fuoco uccidendo decine di persone.
Hotline for migrant workers peraltro respinge la differenza che tanti fanno tra migranti e richiedenti asilo quando parlano di coloro che attraversano illegalmente la frontiera tra Egitto e Israele.
La nostra posizione è chiara. Chi entra dal Sud vuole asilo, punto. Poco importa se poi cerca anche un lavoro una volta giunto in Israele. Il governo deve riconoscere che gli africani che tentano di entrare nel paese sono persone che si lasciano alle spalle una guerra e hanno bisogno di accoglienza. E in ogni caso un migrante cerca solo una vita migliore e un lavoro qualsiasi per sopravvivere.
Lo stato BLINDATO
Michele Giorgio - GERUSALEMME
Il premier Netanyahu annuncia la creazione d'una nuova barriera, tra Israele e l'Egitto: per garantire il carattere ebraico della nazione e bloccare terroristi e lavoratori irregolari
Israele sarà come Sparta non come Atene, spiegava ieri il politologo Eitan Haber sulle pagine di Yediot Ahronot commentando la mossa del primo ministro Benyamin Netanyahu che ha annunciato la costruzione di una barriera lungo il confine con l'Egitto, per impedire l'ingresso ai migranti provenienti dall'Africa.
«Ho preso la decisione di chiudere la frontiera meridionale agli infiltrati e ai terroristi. Si tratta di una scelta strategica, per garantire il carattere democratico ed ebraico di Israele» ha proclamato Netanyahu con tono solenne. «Non possiamo lasciare che decine di migliaia di lavoratori irregolari s'infiltrino in Israele attraverso il confine meridionale e che il nostro paese sia inondato da stranieri illegali», ha aggiunto il premier. Dopo il muro israeliano in Cisgiordania per ingabbiare i palestinesi, nei prossimi anni ne sorgerà un altro lungo molti dei 266 km della frontiera con l'Egitto, «paese fratello» nella lotta ai palestinesi, agli attivisti politici e ai migranti. Costerà un miliardo di shekel (poco più di 180 milioni di euro), e dovrebbe essere completato tra due anni. Un sofisticato sistema di sorveglianza inoltre aiuterà la polizia di frontiera a bloccare gli «infiltrati».
Israele rimarrà chiusa al resto della regione, ha spiegato Haber che avrebbe preferito un paese come Atene. E invece sarà ancora Sparta, persino più che in passato, impenetrabile ai migranti, specie quelli africani, alla ricerca di un lavoro e di un esistenza degna di questo nome in uno Stato ricco. Rimarrà inaccessibile anche ai profughi palestinesi che il loro diritto al ritorno nella terra d'origine lo custodiscono in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la numero 194. Una fortezza nella quale forse non entreranno più neppure i corpi dei «sudanim almonim», (i sudanesi ignoti, in lingua ebraica), così come vengono chiamati i migranti, non solo quelli provenienti dal Sudan, uccisi dal fuoco dei soldati egiziani, ritrovati sul versante israeliano del confine e sepolti nel Neghev. Nel biennio 2007-08 le guardie di frontiera egiziane hanno ucciso almeno una quarantina di africani. Lo scorso anno una ventina, in gran parte nel mese di settembre. Tanti altri, tra cui donne e bambini, sono stati feriti. E tra coloro che sono entrati in Israele, tanti sono finiti in prigione, dopo essere stati catturati dagli uomini dell'unità speciale, «Oz», creata dal ministero dell'interno per dare la caccia a migranti e lavoratori stranieri senza più un permesso valido.
Secondo dati ufficiali, i «sans papier» in Israele sono circa 280 mila: 118mila sono lavoratori stranieri (soprattutto asiatici e dell'Europa dell'est) entrati regolarmente nel paese e che sono rimasti oltre la data di scadenza del visto di lavoro. Altri 90mila sono «turisti» che non sono più usciti da Israele. Ventiquattromila sono entrati dall'Egitto mentre 2mila bambini nati in Israele da genitori stranieri non hanno uno status preciso. Tra questi 1.200 rischiano l'espulsione alla fine dell'anno scolastico, per ordine del ministro dell'interno Eli Yishai (del partito religioso ortodosso Shas) deciso a cacciar via tutti i clandestini. A nulla sono serviti i recenti appelli di Amnesty international e Human rights watch all'Egitto e, indirettamente, a Israele a riconsiderare le loro politiche lungo la frontiera comune. Le raffiche di mitra egiziane non cesseranno e presto davanti a loro i migranti africani troveranno il nuovo muro israeliano che spezzerà, forse per sempre, i loro sogni.
Il premier Netanyahu annuncia la creazione d'una nuova barriera, tra Israele e l'Egitto: per garantire il carattere ebraico della nazione e bloccare terroristi e lavoratori irregolari
Israele sarà come Sparta non come Atene, spiegava ieri il politologo Eitan Haber sulle pagine di Yediot Ahronot commentando la mossa del primo ministro Benyamin Netanyahu che ha annunciato la costruzione di una barriera lungo il confine con l'Egitto, per impedire l'ingresso ai migranti provenienti dall'Africa.
«Ho preso la decisione di chiudere la frontiera meridionale agli infiltrati e ai terroristi. Si tratta di una scelta strategica, per garantire il carattere democratico ed ebraico di Israele» ha proclamato Netanyahu con tono solenne. «Non possiamo lasciare che decine di migliaia di lavoratori irregolari s'infiltrino in Israele attraverso il confine meridionale e che il nostro paese sia inondato da stranieri illegali», ha aggiunto il premier. Dopo il muro israeliano in Cisgiordania per ingabbiare i palestinesi, nei prossimi anni ne sorgerà un altro lungo molti dei 266 km della frontiera con l'Egitto, «paese fratello» nella lotta ai palestinesi, agli attivisti politici e ai migranti. Costerà un miliardo di shekel (poco più di 180 milioni di euro), e dovrebbe essere completato tra due anni. Un sofisticato sistema di sorveglianza inoltre aiuterà la polizia di frontiera a bloccare gli «infiltrati».
Israele rimarrà chiusa al resto della regione, ha spiegato Haber che avrebbe preferito un paese come Atene. E invece sarà ancora Sparta, persino più che in passato, impenetrabile ai migranti, specie quelli africani, alla ricerca di un lavoro e di un esistenza degna di questo nome in uno Stato ricco. Rimarrà inaccessibile anche ai profughi palestinesi che il loro diritto al ritorno nella terra d'origine lo custodiscono in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la numero 194. Una fortezza nella quale forse non entreranno più neppure i corpi dei «sudanim almonim», (i sudanesi ignoti, in lingua ebraica), così come vengono chiamati i migranti, non solo quelli provenienti dal Sudan, uccisi dal fuoco dei soldati egiziani, ritrovati sul versante israeliano del confine e sepolti nel Neghev. Nel biennio 2007-08 le guardie di frontiera egiziane hanno ucciso almeno una quarantina di africani. Lo scorso anno una ventina, in gran parte nel mese di settembre. Tanti altri, tra cui donne e bambini, sono stati feriti. E tra coloro che sono entrati in Israele, tanti sono finiti in prigione, dopo essere stati catturati dagli uomini dell'unità speciale, «Oz», creata dal ministero dell'interno per dare la caccia a migranti e lavoratori stranieri senza più un permesso valido.
Secondo dati ufficiali, i «sans papier» in Israele sono circa 280 mila: 118mila sono lavoratori stranieri (soprattutto asiatici e dell'Europa dell'est) entrati regolarmente nel paese e che sono rimasti oltre la data di scadenza del visto di lavoro. Altri 90mila sono «turisti» che non sono più usciti da Israele. Ventiquattromila sono entrati dall'Egitto mentre 2mila bambini nati in Israele da genitori stranieri non hanno uno status preciso. Tra questi 1.200 rischiano l'espulsione alla fine dell'anno scolastico, per ordine del ministro dell'interno Eli Yishai (del partito religioso ortodosso Shas) deciso a cacciar via tutti i clandestini. A nulla sono serviti i recenti appelli di Amnesty international e Human rights watch all'Egitto e, indirettamente, a Israele a riconsiderare le loro politiche lungo la frontiera comune. Le raffiche di mitra egiziane non cesseranno e presto davanti a loro i migranti africani troveranno il nuovo muro israeliano che spezzerà, forse per sempre, i loro sogni.
MURI
* COMMENTO | di Zvi Schuldiner
ISRAELE
Un muro tira l'altro: la politica della paura
Rosarno e la frontiera meridionale di Israele distano varie migliaia di chilometri, ma in fondo sono molto più vicine di quel che sembra. La notizia qui è che Israele costruisce un muri «anti-immigrati» lungo la frontiera meridionale con l'Egitto.
Nel 1989 molti hanno evocato «la scomparsa dei muri». La caduta della Germania comunista, il crollo del muro di Berlino sembravano aprire una nuova era, in cui l'espressione della libertà sarebbe stata un mondo libero dai muri che avevano imprigionato interi popoli. Non è stato così.
Nel settembre 2001 al Qaeda ha aiutato il regime di George W. Bush a costruire il decennio della paura.
In gran parte del mondo «sviluppato» la politica si è trasformata in politica della paura. Non si discute più dei mondi possibili preferiti ma di presunta lotta per la sopravvivenza. Grazie alla paura è più facile imporre un capitalismo svergognato, le guerre «sante» seminano morte ovunque, fiumi di sangue hanno rafforzato l'odio verso l'imperialismo in una delle sue fasi più sfacciate, e tutto questo ha aiutato a rafforzare la destra, nelle sue versioni moderata o sfrenata, in Italia come in Israele. Non solo la sinistra (radicale o moderata) ne sta pagando il prezzo, ma ogni forza socialdemocratica e elemento moderato è indebolita - e oggi paradossalmente sono i capri espiatori della crisi del capitalismo finanziario negli Stati uniti. In Francia, in Germania - forse domani in Spagna - la destra avanza perché è più facile formulare risposte basate sulla paura che riformulare reali alternative al capitalismo. Anche perché dalla caduta del muro di Berlino le sinistre, vere o presunte, sembrano aver accettato che l'unica logica, unico modello possibile è quello del mercato.
A Gerusalemme - la «eternamente unificata» - un muro invisibile ma reale separa israeliani e palestinesi. Nell'estate del 2005 il generale Ariel Sharon, allora primo ministro di Israele, ha inventato un altro mito, una menzogna che ha conquistato molti nel mondo occidentale: che Israele si ritirava dalla Striscia di Gaza. Un milione e mezzo di palestinesi hanno visto 8mila coloni israeliani ritirarsi dalla Striscia (appena 363 chilometri quadrati di territorio) e insieme hanno visto che continuavano a vivere accerchiati in una prigione. Dopo l'ultima guerra la situazione è ancora peggiorata, soldati israeliani da un lato, egiziani dall'altro sorvegliano la grande prigione che è Gaza.
Ora si tratta di un muro. Non che sia un'invenzione nuova, poiché da tempo avanza la costruzione di un altro muro di odio, che teoricamente separa Israele dai territori occupati palestinesi per garantire la lotta al terrore. Nella «sinistra» europea troppi hanno accettato la retorica della lotta al terrore, e sono stati incapaci di un'analisi critica del muro alzato dal governo israeliano.
I muri sono intesi a difendere la purezza - della nazione, della razza. L'«altro» - lo straniero, il nero, il musulmano, l'ebreo - minaccia la purezza, le nostre vite, è il terrorista di domani, negherà la nostra ebraicità o le qualità della nazione italiana. Era già successo in passato quando ebrei e omosessuali infettavano la purezza della razza ariana.
Il capitalismo globale rende inevitabili due fenomeni. Da un lato esporta lavoro in paesi meno sviluppati, dove il lavoro costa molto meno e si sfrutta di più, e così smantella fabbriche intere lasciando disoccupati a beneficio dei profitti degli imprenditori. Dall'altro «importa» manodopera a basso costo, gli «extracomunitari» che sono disposti a sobbarcarsi lunghe ore di lavoro, senza i normali diritti sindacali e con salari esigui anche se alti rispetto a quelli dei paesi da cui arrivano.
Parte della lotta sulla legalità o illegalità dei migranti nasconde un altro fenomeno: è necessario stabilire norme severe, così che poi si possa sfruttare meglio quanti non rientrano nelle norme ma, spinti dalla necessità, arrivano lo stesso, in barba alle leggi e alle polizie.
In Israele la «purezza» nazionale oggi è l'altra faccia della paura del terrorismo: non solo la sicurezza ma anche il futuro del «popolo ebreo». Il muro di odio separa Israele dai territori palestinesi mentre estende le frontiere del 1967 e legittima i numerosi coloni nei territori occupati. A Gaza, l'accerchiamento trasforma il milione e mezzo di abitanti palestinesi in detenuti con libera circolazione in una enorme prigione.
Intanto, alla frontiera meridionale, tra Egitto e Israele corre negli ultimi anni un fenomeno nuovo: sudanesi, etiopi e altri, in fuga da paesi africani per ragioni politiche o spinti dalla fame, attraversano l'Egitto e dopo varie odissee cercano rifugio e lavoro in Israele. Decine di queste persone sono state uccise dalle forze di sicurezza egiziane, ma migliaia ce l'hanno fatta e lavorano in mestieri semplici e subalterni... Ma cosa succederà alla sacra purezza della nazione, tanto cara agli integralisti e razzisti?
Ecco che il governo Netanyahu annuncia la soluzione, che avevano già approvato i governi precedenti: costruire uin altro muro su quella frontiera. La paura, la purezza della nazione e il capitalismo convergono in paesi che si difendono dall'«altro» anche se sono proprio loro che creano il fenomeno.
In Italia sembra che la 'ndrangheta abbia fomentato gli incidenti razziali, e mentre il ministro Roberto Maroni annuncia che il governo italiano ha «risolto in modo brillante un problema di ordine pubblico» il New York Times parla di un clima da Ku Klux Klan negli anni '60 negli Stati uniti.
In Israele un nuovo muro quasi non fa notizia. Amnesty e altri si rallegrano della promessa di Netanyahu che le porte si apriranno per i rifugiati politici. Ma la realtà dell'accerchiamento, un accerchiamento che ormai rinchiude tutti, in modo reale o virtuale, è la realtà del panico, la paura, la ricerca permanente della «sicurezza e purezza».
ISRAELE
Un muro tira l'altro: la politica della paura
Rosarno e la frontiera meridionale di Israele distano varie migliaia di chilometri, ma in fondo sono molto più vicine di quel che sembra. La notizia qui è che Israele costruisce un muri «anti-immigrati» lungo la frontiera meridionale con l'Egitto.
Nel 1989 molti hanno evocato «la scomparsa dei muri». La caduta della Germania comunista, il crollo del muro di Berlino sembravano aprire una nuova era, in cui l'espressione della libertà sarebbe stata un mondo libero dai muri che avevano imprigionato interi popoli. Non è stato così.
Nel settembre 2001 al Qaeda ha aiutato il regime di George W. Bush a costruire il decennio della paura.
In gran parte del mondo «sviluppato» la politica si è trasformata in politica della paura. Non si discute più dei mondi possibili preferiti ma di presunta lotta per la sopravvivenza. Grazie alla paura è più facile imporre un capitalismo svergognato, le guerre «sante» seminano morte ovunque, fiumi di sangue hanno rafforzato l'odio verso l'imperialismo in una delle sue fasi più sfacciate, e tutto questo ha aiutato a rafforzare la destra, nelle sue versioni moderata o sfrenata, in Italia come in Israele. Non solo la sinistra (radicale o moderata) ne sta pagando il prezzo, ma ogni forza socialdemocratica e elemento moderato è indebolita - e oggi paradossalmente sono i capri espiatori della crisi del capitalismo finanziario negli Stati uniti. In Francia, in Germania - forse domani in Spagna - la destra avanza perché è più facile formulare risposte basate sulla paura che riformulare reali alternative al capitalismo. Anche perché dalla caduta del muro di Berlino le sinistre, vere o presunte, sembrano aver accettato che l'unica logica, unico modello possibile è quello del mercato.
A Gerusalemme - la «eternamente unificata» - un muro invisibile ma reale separa israeliani e palestinesi. Nell'estate del 2005 il generale Ariel Sharon, allora primo ministro di Israele, ha inventato un altro mito, una menzogna che ha conquistato molti nel mondo occidentale: che Israele si ritirava dalla Striscia di Gaza. Un milione e mezzo di palestinesi hanno visto 8mila coloni israeliani ritirarsi dalla Striscia (appena 363 chilometri quadrati di territorio) e insieme hanno visto che continuavano a vivere accerchiati in una prigione. Dopo l'ultima guerra la situazione è ancora peggiorata, soldati israeliani da un lato, egiziani dall'altro sorvegliano la grande prigione che è Gaza.
Ora si tratta di un muro. Non che sia un'invenzione nuova, poiché da tempo avanza la costruzione di un altro muro di odio, che teoricamente separa Israele dai territori occupati palestinesi per garantire la lotta al terrore. Nella «sinistra» europea troppi hanno accettato la retorica della lotta al terrore, e sono stati incapaci di un'analisi critica del muro alzato dal governo israeliano.
I muri sono intesi a difendere la purezza - della nazione, della razza. L'«altro» - lo straniero, il nero, il musulmano, l'ebreo - minaccia la purezza, le nostre vite, è il terrorista di domani, negherà la nostra ebraicità o le qualità della nazione italiana. Era già successo in passato quando ebrei e omosessuali infettavano la purezza della razza ariana.
Il capitalismo globale rende inevitabili due fenomeni. Da un lato esporta lavoro in paesi meno sviluppati, dove il lavoro costa molto meno e si sfrutta di più, e così smantella fabbriche intere lasciando disoccupati a beneficio dei profitti degli imprenditori. Dall'altro «importa» manodopera a basso costo, gli «extracomunitari» che sono disposti a sobbarcarsi lunghe ore di lavoro, senza i normali diritti sindacali e con salari esigui anche se alti rispetto a quelli dei paesi da cui arrivano.
Parte della lotta sulla legalità o illegalità dei migranti nasconde un altro fenomeno: è necessario stabilire norme severe, così che poi si possa sfruttare meglio quanti non rientrano nelle norme ma, spinti dalla necessità, arrivano lo stesso, in barba alle leggi e alle polizie.
In Israele la «purezza» nazionale oggi è l'altra faccia della paura del terrorismo: non solo la sicurezza ma anche il futuro del «popolo ebreo». Il muro di odio separa Israele dai territori palestinesi mentre estende le frontiere del 1967 e legittima i numerosi coloni nei territori occupati. A Gaza, l'accerchiamento trasforma il milione e mezzo di abitanti palestinesi in detenuti con libera circolazione in una enorme prigione.
Intanto, alla frontiera meridionale, tra Egitto e Israele corre negli ultimi anni un fenomeno nuovo: sudanesi, etiopi e altri, in fuga da paesi africani per ragioni politiche o spinti dalla fame, attraversano l'Egitto e dopo varie odissee cercano rifugio e lavoro in Israele. Decine di queste persone sono state uccise dalle forze di sicurezza egiziane, ma migliaia ce l'hanno fatta e lavorano in mestieri semplici e subalterni... Ma cosa succederà alla sacra purezza della nazione, tanto cara agli integralisti e razzisti?
Ecco che il governo Netanyahu annuncia la soluzione, che avevano già approvato i governi precedenti: costruire uin altro muro su quella frontiera. La paura, la purezza della nazione e il capitalismo convergono in paesi che si difendono dall'«altro» anche se sono proprio loro che creano il fenomeno.
In Italia sembra che la 'ndrangheta abbia fomentato gli incidenti razziali, e mentre il ministro Roberto Maroni annuncia che il governo italiano ha «risolto in modo brillante un problema di ordine pubblico» il New York Times parla di un clima da Ku Klux Klan negli anni '60 negli Stati uniti.
In Israele un nuovo muro quasi non fa notizia. Amnesty e altri si rallegrano della promessa di Netanyahu che le porte si apriranno per i rifugiati politici. Ma la realtà dell'accerchiamento, un accerchiamento che ormai rinchiude tutti, in modo reale o virtuale, è la realtà del panico, la paura, la ricerca permanente della «sicurezza e purezza».
martedì 12 gennaio 2010
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