A tutti gli antifascisti
Ai soci dell’ANPI
Agli iscritti all’ANPI giovani
Oggi a Roma il comizio convocato dall’ANPI a Porta San Paolo è stata l’occasione per assistere a una serie di gravissime provocazioni che come antifascisti e democratici non siamo disposti a tollerare e di cui chiediamo conto alla direzione dell’ANPI nazionale e romana.
Alla commemorazione del 25 aprile è stata invitata la neo-presidente della Regione Lazio Renata Polverini; un invito reso più grave dall’imminenza del 7 maggio, giorno in cui il blocco studentesco ha convocato la sua marcia su Roma insultando la storia di una città medaglia d’oro della Resistenza: un merito riaffermato nel corso degli anni dalle lotte antifasciste delle generazioni di giovani che si sono susseguite. Renata Polverini è parte di una coalizione politica reazionaria, promotrice di politiche classiste, razziste, clericali e omofobe.
Come se non bastasse, erano presenti e sono stati invitati sul palco esponenti dell’Associazione Romana Amici d’Israele, calata a Porta San Paolo con un delirante volantino inneggiante al sionismo e a Israele, e sventolando bandiere israeliane, tra cui faceva bella mostra di sè la bandiera dell’aviazione israeliana; l’aviazione israeliana l’anno scorso ha perpetrato – lo ricordiamo a chi se lo fosse dimenticato - il massacro di Gaza bruciando oltre 1400 vite in 20 giorni, e continua a bombardare quotidianamente la striscia di Gaza stretta in un assedio criminale. Cosa c’entrano questi sciacalli con la Resistenza ? La nostra Resistenza ha combattuto per dare a tutti la possibilità di emanciparsi e di vivere in uno stato laico e ospitale: il sionismo è un’ideologia neocoloniale che mira alla supremazia del popolo ebraico e alla sopraffazione del popolo palestinese, negandogli il diritto alla vita, alla terra e alla libertà; “il problema è la natura etnica del sionismo: il sionismo non ha gli stessi margini di pluralismo che offre il giudaismo, meno che mai per i palestinesi. Essi non potranno essere mai parte dello stato e dello spazio sionista e continueranno a lottare” (da “La pulizia etnica della Palestina” di Ilan Pappè, docente israeliano rifugiatosi in Inghilterra, all’università di Exeter).
Contro la politica di apartheid dello stato israeliano in tutto il mondo sta crescendo una campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni: “La stessa questione della uguaglianza è ciò che motiva il movimento per il disinvestimento di oggi, che ha come obiettivo la fine dell'occupazione israeliana da 43 anni e l'iniquo trattamento del popolo palestinese dal governo israeliano. Gli abusi che i palestinesi si trovano ad affrontare sono reali, e nessuna persona dovrebbe essere offesa da atti di principio, moralmente coerente e nonviolenta per opporvisi. Non è affatto sbagliato accusare Israele in particolare per i suoi abusi come non lo era accusare il regime dell'Apartheid in particolare per i suoi abusi”. (Desmond Tutu, arcivescovo emerito di Città del Capo).
L’ANPI ospita invece i sostenitori di Israele!
A coloro che ingiustamente vi accusano di slealtà o danno a loro arrecato da questa vostra richiesta di disinvestimento, vi propongo, con umiltà, che il danno subito dal confrontarsi con pensieri che sfidano le proprie opinioni impallidisce rispetto al danno fatto da una vita sotto occupazione e quotidiana negazione dei diritti fondamentali e della dignità. Non è con rancore che critichiamo il governo israeliano, ma con speranza, una speranza che si possa realizzare un futuro migliore per israeliani e palestinesi, un futuro in cui sia la violenza degli occupanti che la conseguente resistenza violenta degli occupati finiscano, e dove una popolazione non domini su un'altra, generando sofferenza, umiliazione e ritorsioni.
In mezzo a loro c’era non solo il neofascista Riccardo Pacifici ma anche la deputata del PDL nonché colona sionista israeliana Fiamma Nirenstein che si è dichiarata sorpresa dalla contestazione e così farnetica nel suo blog: “E' del tutto sconcertante assistere ad atteggiamenti di tale aggressività da parte di gente che ancora osa sventolare bandiere con falce e martello e soprattutto bandiere palestinesi nel giorno della Liberazione”.
Sono le nostre bandiere: non tollereremo mai più simili offese nè che una simile razzista abbia agibilità nei nostri cortei.
Chiediamo conto ai dirigenti dell’ANPI di queste scelte: è chiaro il vostro tentativo di voler riscrivere la storia e i valori dell’antifascismo, invitando personaggi come Renata Polverini, Fiamma Nirenstein e associazioni che sostengono uno stato guerrafondaio e razzista come lo stato di Israele. L’apologia di Israele non ha niente a che vedere con la lotta di liberazione, la politica di Israele contraddice apertamente l’articolo 11 della costituzione italiana (così spesso citato dall’ANPI): Israele ha sempre utilizzato la guerra e il terrore come strumento politico principale. E’ di questi giorni il decreto militare di espulsione emesso da Israele, che colpirà decine di migliaia di palestinesi residenti in Cisgiordania perché privi di documenti che Israele stessa si rifiuta di dargli.
Ci rivolgiamo ai giovani iscritti all’ANPI e a tutti gli iscritti all’ANPI perché si facciano promotori di una protesta presso i loro dirigenti, colpevoli di scelte che snaturano i valori di questa associazione!
Agli antifascisti: difendiamo i valori dell’antifascismo! Nessuno spazio per i sionisti e per i revisionisti! Ora e sempre resistenza a fianco dei popoli oppressi.
Comitato “Palestina nel cuore” – Roma, 25 aprile 2010
lunedì 26 aprile 2010
domenica 25 aprile 2010
BUON 25 APRILE!
1945-2010 CONTROPIANO
IL MANIFESTO DEI RESISTENTI
Noi Resistenti abbiamo cominciato presto a guardare in faccia il nostro vero nemico. Eravamo già attivi nella resistenza spagnola che mise in fuga i mamelucchi di Murat e fece impazzire i generali di Napoleone. Ci riconoscerete dipinti da Goya ne "La fucilazione alla montagna del Principe Pio" e nella urla di gioia che accompagnarono la fuga dei francesi nel 1813. Nasce da qui l'onda lunga che ha portato alla Repubblica del '36 e alla resistenza antifranchista fino ai nostri giorni.
Ci siamo aperti la strada con le armi in pugno insieme a Garibaldi, mentre cadeva la Repubblica romana ed Antonio Brunetti - Ciceruacchio per il suo popolo - insieme al figlio Lorenzo cadeva sotto il plotone di esecuzione. Ma, come fece Gasparazzo contadino indomito, non ci siamo fidati dei garibaldini di Nino Bixio che in Sicilia fucilarono la nostra gente a Bronte, ed insieme a Gasparazzo ci siamo dati alla macchia rendendo per anni la vita difficile ai piemontesi, ai nuovi padroni e ai proprietari terrieri.
A metà dell'ottocento ebbero tanto paura delle nostre barricate che il prefetto Haussman dovette rifare Parigi da capo a piedi. Sventrarono i vicoli e costruirono i grandi boulevard come "strade di una caserma opportunamente ampliata" perché i padroni temevano di incontrare in strade troppo strette i Resistenti come Charles Delescluze o Flourens. Venti anni dopo le barricate infiammarono di nuovo la Parigi della Comune e noi Resistenti fummo conosciuti come "Communards". I soldati del gen. Lacombe furono mandati contro di noi a Montmartre, ma si rifiutarono di sparare sul popolo ed alla fine rivolsero i fucili contro il generale stesso, sono formidabili Resistenti coloro che sanno comprendere chi è il vero nemico.
Ci scatenarono contro altri soldati e i cannoni messi a disposizione dai prussiani, ci fucilarono a migliaia o ci deportarono alla Cayenna. Eppure, come disse l'uomo di Treviri - la testa migliore degli ultimi due secoli - "dopo la Pentecoste del 1871 non ci può essere né pace né tregua tra gli operai francesi e gli appropriatori del prodotto del loro lavoro". Capite adesso perché lo sciopero dei lavoratori in Francia andò così bene anche nel 1995?
Ma noi Resistenti non siamo e non eravamo solo sulle barricate e nelle officine delle grandi metropoli. Nascevamo e crescevamo anche nelle nuove colonie di quello che diventerà l'imperialismo moderno. Eravamo nel deserto algerino e sui Monti dell'Atlante con Abd el Kader che tenne alla larga i turchi e umiliò per anni i legionari del generale francese Bugeaud.
Eravamo nascosti nel pubblico e ci tormentavamo le mani, impotenti in quella occasione, quando gli invasori italiani, nell'ottobre del 1912, fucilarono a Tripoli l'arabo Husein. Ci vollero tre scariche della fucileria del plotone d'esecuzione per vederlo cadere a terra. Husein e i suoi Resistenti avevano fatto impazzire i militari italiani nelle uadi o sulle strade carovaniere. Per rabbia e per rappresaglia gli italiani fucilarono centinaia di persone e ne deportarono 3.053 nelle isole Tremiti, a Ustica, a Favignana, a Ponza e a Gaeta.
"Non ci inganna che si dica un'epoca di progresso. Quel che dicono è invero la peggiore delle menzogne" tuonavano i versi del poeta arabo Macruf ar Rusufi " Non li vedi tra l'Egitto e la Tunisia violare con stragi e massacri il sacro suolo dell'Islam? E non sia addossata la colpa ai soli italiani ma tutto l'occidente sia considerato colpevole".
Nelle colonie pensavano di aver vinto, legando i sepoys alle bocche dei cannoni e facendo fuoco come fecero gli inglesi in India o fucilando e impiccandoci a decine come fecero gli italiani in Libia. Ma gli arabi hanno un cuore indomito e venti anni dopo il Leone del deserto, Omar Al Muktar tornò a seminare il panico tra i soldati e le camicie nere che occupavano la Libia. Il generale fascista Graziani, quello che aveva massacrato con i gas gli etiopi, fece impiccare Omar Al Muktar. Ma il suo fantasma inquieta così tanto gli eredi di Graziani da impedire che in Italia si possa vedere il film che parla della sua storia. Fanno paura anche da morti i Resistenti!!!
Mentre il capitalismo si annunciava con i mercanti, noi Resistenti eravamo già dovunque e da tempo. Avevamo viaggiato sulle loro navi con le catene ai piedi e ai polsi. A cominciare la resistenza furono proprio gli schiavi neri deportati in Brasile che fondarono la loro repubblica a Quilombo e resistettero fino al 1697 contro i colonialisti portoghesi. Cento anni dopo, i nipoti di quegli schiavi, diventati creoli o rimasti neri come i loro antenati, si ribellarono a Bahia, la disinibita città degli incanti e del candomblé cantata dalle pagine di Jorge Amado. Ma eravamo anche più a Nord, eravamo nella selva e sulle Ande con la resistenza di Tupac Amaru. Gli spagnoli lo hanno squartato con i cavalli per smembrarne il corpo ma duecento anni dopo il suo nome ha fatto tremare i governanti corrotti di Lima e Montevideo chiamando alla lotta nella selva e nelle città.
Eravamo a cavalcare al fianco di Artigas nelle grandi pianure della Banda Oriental ed eravamo al fianco del creolo Simon Bolivàr tra selve e paludi per gridare a schiavi, creoli, indigeni e popoli che volevamo una sola nazione, "la Nuestra America. E potevate vederci insieme a José, Antonio e Felipe, senza scarpe e senza saper leggere quando a Morelos Emiliano Zapata lesse il programma che scosse le montagne e mise i brividi ai latifondisti. Tante volte abbiamo resistito, accerchiati dai rurales e dai federales, tante volte li abbiamo umiliati trasformando le sconfitte in vittorie. E ci avete visto anche sessanta anni dopo. Eravamo di nuovo là, nel Guerrero, a Oaxaca, nei Loxichas a fare scudo a Lucio Gutierrez, vendicando con la coerenza tra parole e fatti gli studenti massacrati a Città del Messico o il lento genocidio di indios e campesinos. E venti anni più tardi eravamo tra quelli che dopo il massacro di Aguas Blancas giurarono di fargliela pagare agli assassini.
Eravamo in Bolivia con l'acqua fino alla cintura al guado del Yeso quando l'imboscata dei militari uccise sette di noi tra cui Tamara Burke "Tania". Diciotto giorni dopo nel canalone di "El Yuro" veniva ferito e poi assassinato Ernesto Guevara detto "Il Che" insieme al Chino e a Willy. Quando due anni fa ci siamo rivoltati a Cochabamba contro la privatizzazione dell'acqua, avevano la sua immagine sulle nostre bandiere, la stessa immagine e le stesse bandiere che sventolano sulle terre occupate del Brasile dei Sem Terra, nelle zone liberate dalla FARC in Colombia tra i piqueteros in Argentina. I militari, gli jacuncos o quei perros degli "aucisti", sentono un brivido lungo la schiena quando invece di indios e campesinos impauriti si trovano di fronte i Resistenti.
Ci avrete visto anche più a Nord, ma non ci avete riconosciuto. Eravamo sulle sponde del Rosebud ed avevamo il viso pitturato con i colori di guerra quando insieme al capo Gall abbiamo difeso i teepee degli Hunkpapa e dei Santee dai soldati in giacca blu del colonnello Reno. Li abbiamo battuti e messi in fuga nel giugno del 1876 permettendo così alle altre tribù di sconfiggere il generale Custer a Little Big Horn. Nelle riserve o nella cella di Leonard Peltier ancora si racconta della nostra resistenza.
Ed eravamo ben presenti tra i siderugici dello sciopero di Homestead quando furono messi in fuga gli agenti assoldati dall'agenzia Pinkerton e i padroni dell'acciaio scoprirono che gli immigrati, diventati operai, sapevano unirsi e tenere duro.
E quasi settanta anni dopo i poliziotti bianchi impallidirono quando i nostri fratelli neri opposero resistenza nel ghetto di Wyatt o misero a soqquadro il tribunale di Soledad e le celle di Attica e S. Quintino. George, Dramgo e Jonathan Jackson sono stati un incubo per l'America dei Wasp, bianchi, anglosassoni e protestanti, di conseguenza....razzisti. Mumia Abu Jamal é ancora vivo perché i Resistenti non mollano tanto facilmente, hanno la pelle dura e sanno guardare ben oltre le sbarre della loro cella.
Ma le pagine più belle della nostra storia di Resistenti le abbiamo scritte nel cuore dell'Europa messa a ferro e fuoco dal nazifascismo. Le abbiamo scritte tra le macerie della Fabbrica di Trattori a Stalingrado. "I nazisti, non potendo prenderci vivi volevano ridurci in cenere" ha scritto Aleksej Ockin il più giovane di noi. Insieme a lui ed a noi c'erano Stepan Kukhta e il vecchio Pivoravov veterano cinquantenne. Li abbiamo tenuti in scacco per mesi e mesi e alla fine li abbiamo battuti. La nostra resistenza diede coraggio a tutti gli altri e accese il fuoco che portò le nostre bandiere a sventolare fin sopra il tetto del Reichstag di Berlino. Eravamo invincibili, eravamo gli eredi di Kamo, che fece impazzire la polizia zarista e fornì quanto serviva alla rivoluzione dellOttobre. Il mio insostituibile Kamo diceva Ulianov preparando il primo assalto al cielo.
Ma eravamo anche a Varsavia, nascosti dopo aver esaurito le munizioni nelle fogne e nelle cantine del ghetto. Eravamo anche lì, insieme a Emmanuel Ringelbaum e a Mordechai Anielewicz che si suicidò per non arrendersi ai nazisti che stavano rastrellando il ghetto in rivolta. Resistenti per sopravvivere alla deportazione e ai campi di concentramento ma anche per riscattare la vergogna dei collaborazionisti dello Judenrat.
Ma eravamo anche nel cuore della Jugoslavia quando sulla Neretva abbiamo umiliato le armate dei nazisti, dei fascisti e degli ustascia croati mandate ad annientarci. Ivo Lola Ribar hanno dovuto ucciderlo e così Joakim Rakovac, ma i Resistenti jugoslavi dimostrarono ai nemici e agli amici che sapevano farcela da soli.
Per anni serbi, croati, sloveni, bosniaci hanno saputo combattere fianco a fianco, per anni abbiamo sfidato la storia tenendo insieme un paese che volevano lacerato. Eravamo pronti anche alla fine del secolo scorso a resistere contro i contingenti inviati dalla NATO ma i dirigenti scelsero altre strade, scelsero la strada che porta in occidente, la stessa che ha mandato in frantumi il nostro paese.
"Banditi" così ci chiamavano in Italia i nazisti e i fascisti ma la gente era con noi Resistenti. Erano con noi i ferrovieri e gli operai di Milano, Genova e Torino, erano con noi i popolani della periferia romana e i contadini emiliani o dell'Oltrepò pavese. C'è una canzone che narra di come ancora oggi i fascisti temano il fantasma del partigiano Dante Di Nanni che gira fischiettando per Milano. "Cammina frut" scriveva Amerigo che fu Resistente sul fronte difficile della frontiera con l'Est. E piano piano eravamo ovunque: Maquis in Francia, partigiani nella pianura belga e olandese o sulle montagne greche.
Tanti di noi si erano "fatti le ossa" nella guerra di Spagna, affrontando le armate franchiste, i legionari fascisti e i bombardamenti tedeschi. Con l'immagine delle rovine di Guernica negli occhi, abbiamo resistito oltre ogni limite, lasciati soli dalle democrazie europee che temevano il nazifascismo ma temevano ancora di più la rivoluzione popolare e l'onda lunga dell'ottobre sovietico. Quando finì la guerra non eravamo tutti convinti che fosse finita veramente. In Emilia-Romagna come dice Vitaliano che fu partigiano e vietcong - non consentimmo ai fascisti di cavaresela a buon mercato e in Grecia resistemmo con le armi in pugno contro gli inglesi e gli americani che ci volevano, noi che avevamo combattuto contro i tedeschi e gli italiani, servi di un nuovo padrone. I Resistenti di Euskadi non considerano ancora chiusa la partita con gli eredi del franchismo in Spagna. Vi meravigliate ancora perchè in Italia, in Spagna e in Grecia ci sono ancora i movimenti di lotta più forti e decisi d'Europa?
Ma noi Resistenti ci siamo diffusi in tutto il mondo. Eravamo Umkomto We Sizwe, la Lancia della Nazione che i negri sudafricani hanno impugnato per decenni contro il regime razzista, siamo stati i Mau Mau e i fratelli di Lumumba, abbiamo saputo essere poeti come Amilcare Cabral, colpendo, subendo e vincendo il dominio coloniale degli inglesi, dei portoghesi e dei belgi. Ce l'hanno fatta pagare lasciandoci un continente devastato dalle epidemie, dalla fame, dai saccheggi delle nostre risorse, ma nelle terre dell'Africa siamo arrivati dopo, ci prenderemo tutto il tempo che ci serve e poi ci riprenderemo tutto ciò che é nostro, a cominciare dalla dignità.
E poi avete cominciati a vederci ovunque, noi Resistenti. L'arrivo della televisione ci ha mostrato come "barbudos" a Cuba, con la kefija dei feddayn in Palestina e in Libano, piccoli e veloci contro i giganteschi marines, il loro napalm e i loro B 52 nelle giungle del Vietnam. L'immagine del piccolo Truong che scorta prigioniero un marines grande come una montagna ha tormentato i sonni degli uomini della Casa Bianca per decenni. I Resistenti non hanno mai molte cose a loro disposizione, ma per noi, come dice Truong Son "il poco diviene molto, la debolezza si trasforma in forza e un vantaggio si moltiplica per dieci".
Per cancellare questa immagine sono quindici anni che gli americani scatenano guerre contro avversari immensamente più deboli e vincono guerre facili.
Ad Al Karameh, nel 1965, eravamo molti di meno e peggio armati dei soldati israeliani ma li abbiamo sconfitti perchè noi Resistenti siamo fortemente motivati e loro non lo erano. Non lo erano neanche gli eserciti arabi messi in piedi da governi indecisi e spesso corrotti che riuscirono perdere due guerre in sette anni.
A Beirut, ad esempio, nonostante le cannonate della corazzata americana New Jersey abbiamo resistito e abbiamo cacciato via prima gli israeliani e poi gli americani, i francesi e gli italiani e poi lo hanno fatto quelli di noi che erano a Mogadiscio. In Nicaragua eravamo giovanissimi e stavamo mangiando carne di scimmia quando abbattemmo un elicottero e prendemmo prigioniero il consigliere della CIA Hasenfus rivelando al mondo l'aggressione statunitense contro un piccolo e coraggioso paese.
E poi sono arrivate le nuove generazioni di Resistenti, come quelli che hanno cacciato dal Libano del sud gli israeliani o che hanno animato la prima e la seconda Intifada. Le loro pietre pesano come macigni sull'occupazione israeliana e sulla cattiva coscienza dell'occidente. C'erano dei giovani e giovanissimi Resistenti nelle giornate di Napoli e di Genova, uno di essi, Carlo Giuliani, è caduto ma il suo volto da ragazzo si è moltiplicato su quelli di migliaia di ragazzi come lui, nuovi Resistenti che hanno bisogno di sapere, di conoscere, di mettere fine agli inganni e alle rimozioni che li circondano, che sfidano i potenti con la determinazione di Rachel Corrie.
Infine, ed è straordinario, sono sorti dei Resistenti anche in Iraq. Hanno sorpreso molti, soprattutto i loro nemici. Il vecchio Pietro ha riscattato in dieci righe la sua vita di tentennamenti scrivendo che la "Resistenza contro l'invasione è la prima condizione per la pace". I Resistenti sono ormai dovunque, sono diffusi in questo mondo reso più piccolo dalla globalizzazione e più insicuro dall'imperialismo e dalla guerra. E' arrivato il momento di unirli, di dargli una identità comune e condivisa, di riconoscerli e farli riconoscere a chi - da Bogotà a Manila, da Nablus a Salonicco, da Seattle a Durban - si è rimesso in marcia per rendere possibile un altro mondo. Fin quando ha agito la legalità formale delle democrazie è stato possibile disobbedire, ma alla guerra e all'imperialismo occorre resistere, improvvisare e disobbedire non basta più, oltre ai corpi serve la testa e una visione aggiornata della nostra storia. Alla democrazia fondata sulle bombe noi opponiamo il regno della libertà, allidea di libertà fondata sullhomo economicus noi proponiamo allumanità il passo avanti della liberazione. Per noi, il poco sta diventando molto, la debolezza si sta trasformando in forza, un vantaggio si sta moltiplicando per dieci. L'epoca delle Resistenze è cominciata.
IL MANIFESTO DEI RESISTENTI
Noi Resistenti abbiamo cominciato presto a guardare in faccia il nostro vero nemico. Eravamo già attivi nella resistenza spagnola che mise in fuga i mamelucchi di Murat e fece impazzire i generali di Napoleone. Ci riconoscerete dipinti da Goya ne "La fucilazione alla montagna del Principe Pio" e nella urla di gioia che accompagnarono la fuga dei francesi nel 1813. Nasce da qui l'onda lunga che ha portato alla Repubblica del '36 e alla resistenza antifranchista fino ai nostri giorni.
Ci siamo aperti la strada con le armi in pugno insieme a Garibaldi, mentre cadeva la Repubblica romana ed Antonio Brunetti - Ciceruacchio per il suo popolo - insieme al figlio Lorenzo cadeva sotto il plotone di esecuzione. Ma, come fece Gasparazzo contadino indomito, non ci siamo fidati dei garibaldini di Nino Bixio che in Sicilia fucilarono la nostra gente a Bronte, ed insieme a Gasparazzo ci siamo dati alla macchia rendendo per anni la vita difficile ai piemontesi, ai nuovi padroni e ai proprietari terrieri.
A metà dell'ottocento ebbero tanto paura delle nostre barricate che il prefetto Haussman dovette rifare Parigi da capo a piedi. Sventrarono i vicoli e costruirono i grandi boulevard come "strade di una caserma opportunamente ampliata" perché i padroni temevano di incontrare in strade troppo strette i Resistenti come Charles Delescluze o Flourens. Venti anni dopo le barricate infiammarono di nuovo la Parigi della Comune e noi Resistenti fummo conosciuti come "Communards". I soldati del gen. Lacombe furono mandati contro di noi a Montmartre, ma si rifiutarono di sparare sul popolo ed alla fine rivolsero i fucili contro il generale stesso, sono formidabili Resistenti coloro che sanno comprendere chi è il vero nemico.
Ci scatenarono contro altri soldati e i cannoni messi a disposizione dai prussiani, ci fucilarono a migliaia o ci deportarono alla Cayenna. Eppure, come disse l'uomo di Treviri - la testa migliore degli ultimi due secoli - "dopo la Pentecoste del 1871 non ci può essere né pace né tregua tra gli operai francesi e gli appropriatori del prodotto del loro lavoro". Capite adesso perché lo sciopero dei lavoratori in Francia andò così bene anche nel 1995?
Ma noi Resistenti non siamo e non eravamo solo sulle barricate e nelle officine delle grandi metropoli. Nascevamo e crescevamo anche nelle nuove colonie di quello che diventerà l'imperialismo moderno. Eravamo nel deserto algerino e sui Monti dell'Atlante con Abd el Kader che tenne alla larga i turchi e umiliò per anni i legionari del generale francese Bugeaud.
Eravamo nascosti nel pubblico e ci tormentavamo le mani, impotenti in quella occasione, quando gli invasori italiani, nell'ottobre del 1912, fucilarono a Tripoli l'arabo Husein. Ci vollero tre scariche della fucileria del plotone d'esecuzione per vederlo cadere a terra. Husein e i suoi Resistenti avevano fatto impazzire i militari italiani nelle uadi o sulle strade carovaniere. Per rabbia e per rappresaglia gli italiani fucilarono centinaia di persone e ne deportarono 3.053 nelle isole Tremiti, a Ustica, a Favignana, a Ponza e a Gaeta.
"Non ci inganna che si dica un'epoca di progresso. Quel che dicono è invero la peggiore delle menzogne" tuonavano i versi del poeta arabo Macruf ar Rusufi " Non li vedi tra l'Egitto e la Tunisia violare con stragi e massacri il sacro suolo dell'Islam? E non sia addossata la colpa ai soli italiani ma tutto l'occidente sia considerato colpevole".
Nelle colonie pensavano di aver vinto, legando i sepoys alle bocche dei cannoni e facendo fuoco come fecero gli inglesi in India o fucilando e impiccandoci a decine come fecero gli italiani in Libia. Ma gli arabi hanno un cuore indomito e venti anni dopo il Leone del deserto, Omar Al Muktar tornò a seminare il panico tra i soldati e le camicie nere che occupavano la Libia. Il generale fascista Graziani, quello che aveva massacrato con i gas gli etiopi, fece impiccare Omar Al Muktar. Ma il suo fantasma inquieta così tanto gli eredi di Graziani da impedire che in Italia si possa vedere il film che parla della sua storia. Fanno paura anche da morti i Resistenti!!!
Mentre il capitalismo si annunciava con i mercanti, noi Resistenti eravamo già dovunque e da tempo. Avevamo viaggiato sulle loro navi con le catene ai piedi e ai polsi. A cominciare la resistenza furono proprio gli schiavi neri deportati in Brasile che fondarono la loro repubblica a Quilombo e resistettero fino al 1697 contro i colonialisti portoghesi. Cento anni dopo, i nipoti di quegli schiavi, diventati creoli o rimasti neri come i loro antenati, si ribellarono a Bahia, la disinibita città degli incanti e del candomblé cantata dalle pagine di Jorge Amado. Ma eravamo anche più a Nord, eravamo nella selva e sulle Ande con la resistenza di Tupac Amaru. Gli spagnoli lo hanno squartato con i cavalli per smembrarne il corpo ma duecento anni dopo il suo nome ha fatto tremare i governanti corrotti di Lima e Montevideo chiamando alla lotta nella selva e nelle città.
Eravamo a cavalcare al fianco di Artigas nelle grandi pianure della Banda Oriental ed eravamo al fianco del creolo Simon Bolivàr tra selve e paludi per gridare a schiavi, creoli, indigeni e popoli che volevamo una sola nazione, "la Nuestra America. E potevate vederci insieme a José, Antonio e Felipe, senza scarpe e senza saper leggere quando a Morelos Emiliano Zapata lesse il programma che scosse le montagne e mise i brividi ai latifondisti. Tante volte abbiamo resistito, accerchiati dai rurales e dai federales, tante volte li abbiamo umiliati trasformando le sconfitte in vittorie. E ci avete visto anche sessanta anni dopo. Eravamo di nuovo là, nel Guerrero, a Oaxaca, nei Loxichas a fare scudo a Lucio Gutierrez, vendicando con la coerenza tra parole e fatti gli studenti massacrati a Città del Messico o il lento genocidio di indios e campesinos. E venti anni più tardi eravamo tra quelli che dopo il massacro di Aguas Blancas giurarono di fargliela pagare agli assassini.
Eravamo in Bolivia con l'acqua fino alla cintura al guado del Yeso quando l'imboscata dei militari uccise sette di noi tra cui Tamara Burke "Tania". Diciotto giorni dopo nel canalone di "El Yuro" veniva ferito e poi assassinato Ernesto Guevara detto "Il Che" insieme al Chino e a Willy. Quando due anni fa ci siamo rivoltati a Cochabamba contro la privatizzazione dell'acqua, avevano la sua immagine sulle nostre bandiere, la stessa immagine e le stesse bandiere che sventolano sulle terre occupate del Brasile dei Sem Terra, nelle zone liberate dalla FARC in Colombia tra i piqueteros in Argentina. I militari, gli jacuncos o quei perros degli "aucisti", sentono un brivido lungo la schiena quando invece di indios e campesinos impauriti si trovano di fronte i Resistenti.
Ci avrete visto anche più a Nord, ma non ci avete riconosciuto. Eravamo sulle sponde del Rosebud ed avevamo il viso pitturato con i colori di guerra quando insieme al capo Gall abbiamo difeso i teepee degli Hunkpapa e dei Santee dai soldati in giacca blu del colonnello Reno. Li abbiamo battuti e messi in fuga nel giugno del 1876 permettendo così alle altre tribù di sconfiggere il generale Custer a Little Big Horn. Nelle riserve o nella cella di Leonard Peltier ancora si racconta della nostra resistenza.
Ed eravamo ben presenti tra i siderugici dello sciopero di Homestead quando furono messi in fuga gli agenti assoldati dall'agenzia Pinkerton e i padroni dell'acciaio scoprirono che gli immigrati, diventati operai, sapevano unirsi e tenere duro.
E quasi settanta anni dopo i poliziotti bianchi impallidirono quando i nostri fratelli neri opposero resistenza nel ghetto di Wyatt o misero a soqquadro il tribunale di Soledad e le celle di Attica e S. Quintino. George, Dramgo e Jonathan Jackson sono stati un incubo per l'America dei Wasp, bianchi, anglosassoni e protestanti, di conseguenza....razzisti. Mumia Abu Jamal é ancora vivo perché i Resistenti non mollano tanto facilmente, hanno la pelle dura e sanno guardare ben oltre le sbarre della loro cella.
Ma le pagine più belle della nostra storia di Resistenti le abbiamo scritte nel cuore dell'Europa messa a ferro e fuoco dal nazifascismo. Le abbiamo scritte tra le macerie della Fabbrica di Trattori a Stalingrado. "I nazisti, non potendo prenderci vivi volevano ridurci in cenere" ha scritto Aleksej Ockin il più giovane di noi. Insieme a lui ed a noi c'erano Stepan Kukhta e il vecchio Pivoravov veterano cinquantenne. Li abbiamo tenuti in scacco per mesi e mesi e alla fine li abbiamo battuti. La nostra resistenza diede coraggio a tutti gli altri e accese il fuoco che portò le nostre bandiere a sventolare fin sopra il tetto del Reichstag di Berlino. Eravamo invincibili, eravamo gli eredi di Kamo, che fece impazzire la polizia zarista e fornì quanto serviva alla rivoluzione dellOttobre. Il mio insostituibile Kamo diceva Ulianov preparando il primo assalto al cielo.
Ma eravamo anche a Varsavia, nascosti dopo aver esaurito le munizioni nelle fogne e nelle cantine del ghetto. Eravamo anche lì, insieme a Emmanuel Ringelbaum e a Mordechai Anielewicz che si suicidò per non arrendersi ai nazisti che stavano rastrellando il ghetto in rivolta. Resistenti per sopravvivere alla deportazione e ai campi di concentramento ma anche per riscattare la vergogna dei collaborazionisti dello Judenrat.
Ma eravamo anche nel cuore della Jugoslavia quando sulla Neretva abbiamo umiliato le armate dei nazisti, dei fascisti e degli ustascia croati mandate ad annientarci. Ivo Lola Ribar hanno dovuto ucciderlo e così Joakim Rakovac, ma i Resistenti jugoslavi dimostrarono ai nemici e agli amici che sapevano farcela da soli.
Per anni serbi, croati, sloveni, bosniaci hanno saputo combattere fianco a fianco, per anni abbiamo sfidato la storia tenendo insieme un paese che volevano lacerato. Eravamo pronti anche alla fine del secolo scorso a resistere contro i contingenti inviati dalla NATO ma i dirigenti scelsero altre strade, scelsero la strada che porta in occidente, la stessa che ha mandato in frantumi il nostro paese.
"Banditi" così ci chiamavano in Italia i nazisti e i fascisti ma la gente era con noi Resistenti. Erano con noi i ferrovieri e gli operai di Milano, Genova e Torino, erano con noi i popolani della periferia romana e i contadini emiliani o dell'Oltrepò pavese. C'è una canzone che narra di come ancora oggi i fascisti temano il fantasma del partigiano Dante Di Nanni che gira fischiettando per Milano. "Cammina frut" scriveva Amerigo che fu Resistente sul fronte difficile della frontiera con l'Est. E piano piano eravamo ovunque: Maquis in Francia, partigiani nella pianura belga e olandese o sulle montagne greche.
Tanti di noi si erano "fatti le ossa" nella guerra di Spagna, affrontando le armate franchiste, i legionari fascisti e i bombardamenti tedeschi. Con l'immagine delle rovine di Guernica negli occhi, abbiamo resistito oltre ogni limite, lasciati soli dalle democrazie europee che temevano il nazifascismo ma temevano ancora di più la rivoluzione popolare e l'onda lunga dell'ottobre sovietico. Quando finì la guerra non eravamo tutti convinti che fosse finita veramente. In Emilia-Romagna come dice Vitaliano che fu partigiano e vietcong - non consentimmo ai fascisti di cavaresela a buon mercato e in Grecia resistemmo con le armi in pugno contro gli inglesi e gli americani che ci volevano, noi che avevamo combattuto contro i tedeschi e gli italiani, servi di un nuovo padrone. I Resistenti di Euskadi non considerano ancora chiusa la partita con gli eredi del franchismo in Spagna. Vi meravigliate ancora perchè in Italia, in Spagna e in Grecia ci sono ancora i movimenti di lotta più forti e decisi d'Europa?
Ma noi Resistenti ci siamo diffusi in tutto il mondo. Eravamo Umkomto We Sizwe, la Lancia della Nazione che i negri sudafricani hanno impugnato per decenni contro il regime razzista, siamo stati i Mau Mau e i fratelli di Lumumba, abbiamo saputo essere poeti come Amilcare Cabral, colpendo, subendo e vincendo il dominio coloniale degli inglesi, dei portoghesi e dei belgi. Ce l'hanno fatta pagare lasciandoci un continente devastato dalle epidemie, dalla fame, dai saccheggi delle nostre risorse, ma nelle terre dell'Africa siamo arrivati dopo, ci prenderemo tutto il tempo che ci serve e poi ci riprenderemo tutto ciò che é nostro, a cominciare dalla dignità.
E poi avete cominciati a vederci ovunque, noi Resistenti. L'arrivo della televisione ci ha mostrato come "barbudos" a Cuba, con la kefija dei feddayn in Palestina e in Libano, piccoli e veloci contro i giganteschi marines, il loro napalm e i loro B 52 nelle giungle del Vietnam. L'immagine del piccolo Truong che scorta prigioniero un marines grande come una montagna ha tormentato i sonni degli uomini della Casa Bianca per decenni. I Resistenti non hanno mai molte cose a loro disposizione, ma per noi, come dice Truong Son "il poco diviene molto, la debolezza si trasforma in forza e un vantaggio si moltiplica per dieci".
Per cancellare questa immagine sono quindici anni che gli americani scatenano guerre contro avversari immensamente più deboli e vincono guerre facili.
Ad Al Karameh, nel 1965, eravamo molti di meno e peggio armati dei soldati israeliani ma li abbiamo sconfitti perchè noi Resistenti siamo fortemente motivati e loro non lo erano. Non lo erano neanche gli eserciti arabi messi in piedi da governi indecisi e spesso corrotti che riuscirono perdere due guerre in sette anni.
A Beirut, ad esempio, nonostante le cannonate della corazzata americana New Jersey abbiamo resistito e abbiamo cacciato via prima gli israeliani e poi gli americani, i francesi e gli italiani e poi lo hanno fatto quelli di noi che erano a Mogadiscio. In Nicaragua eravamo giovanissimi e stavamo mangiando carne di scimmia quando abbattemmo un elicottero e prendemmo prigioniero il consigliere della CIA Hasenfus rivelando al mondo l'aggressione statunitense contro un piccolo e coraggioso paese.
E poi sono arrivate le nuove generazioni di Resistenti, come quelli che hanno cacciato dal Libano del sud gli israeliani o che hanno animato la prima e la seconda Intifada. Le loro pietre pesano come macigni sull'occupazione israeliana e sulla cattiva coscienza dell'occidente. C'erano dei giovani e giovanissimi Resistenti nelle giornate di Napoli e di Genova, uno di essi, Carlo Giuliani, è caduto ma il suo volto da ragazzo si è moltiplicato su quelli di migliaia di ragazzi come lui, nuovi Resistenti che hanno bisogno di sapere, di conoscere, di mettere fine agli inganni e alle rimozioni che li circondano, che sfidano i potenti con la determinazione di Rachel Corrie.
Infine, ed è straordinario, sono sorti dei Resistenti anche in Iraq. Hanno sorpreso molti, soprattutto i loro nemici. Il vecchio Pietro ha riscattato in dieci righe la sua vita di tentennamenti scrivendo che la "Resistenza contro l'invasione è la prima condizione per la pace". I Resistenti sono ormai dovunque, sono diffusi in questo mondo reso più piccolo dalla globalizzazione e più insicuro dall'imperialismo e dalla guerra. E' arrivato il momento di unirli, di dargli una identità comune e condivisa, di riconoscerli e farli riconoscere a chi - da Bogotà a Manila, da Nablus a Salonicco, da Seattle a Durban - si è rimesso in marcia per rendere possibile un altro mondo. Fin quando ha agito la legalità formale delle democrazie è stato possibile disobbedire, ma alla guerra e all'imperialismo occorre resistere, improvvisare e disobbedire non basta più, oltre ai corpi serve la testa e una visione aggiornata della nostra storia. Alla democrazia fondata sulle bombe noi opponiamo il regno della libertà, allidea di libertà fondata sullhomo economicus noi proponiamo allumanità il passo avanti della liberazione. Per noi, il poco sta diventando molto, la debolezza si sta trasformando in forza, un vantaggio si sta moltiplicando per dieci. L'epoca delle Resistenze è cominciata.
GIORNATA DELLA TERRA
http://www.commondreams.org/view/2010/04/24-2
La Giornata della Terra in Israele: L'Apartheid pitturato di verde
di Stephanie Westbrook
Il 22 aprile, nell'ambito delle celebrazioni globali per la Giornata della Terra, case, uffici ed
edifici pubblici in 14 città israeliane hanno spento le luci per un'ora con lo scopo di
"aumentare la consapevolezza della necessità vitale di ridurre i consumi di energia". Le
celebrazioni per la Giornata della Terra comprendevano proiezioni di scene di prati verdi,
generatori eolici e arcobaleni sulle mura della Città Vecchia di Gerusalemme, la premiazione
Green Globe per "eccezionali contributi per la difesa dell'ambiente" e un concerto in Piazza
Rabin a Tel Aviv alimentato da generatori ad olio vegetale, nonché dall'elettricità prodotta,
pedalando, da 48 ciclisti.
L'ironia di tutto ciò non è passata inosservata al milione e mezzo di abitanti di Gaza che
convivono da quasi tre anni con blackout giornalieri della durata di ore a causa dell'assedio
israeliano. Il Coordinatore delle attività del governo israeliano nei Territori (COGAT) riferisce
che ha permesso l'ingresso di oltre 100 milioni di litri di carburante a Gaza nel 2009, però,
come fa notare Gisha, ammonta a solo il 57% del fabbisogno. Con l'avvicinarsi dell'estate e
la domanda di picco, c'è una disperata necessità di pezzi di ricambio e di attrezzi per la
riparazione delle turbine. Attualmente ci sono più di 50 camion carichi di materiale elettrico
in attesa di essere autorizzati ad entrare a Gaza delle autorità israeliane.
Le costanti interruzioni delle furniture elettriche hanno portato molte famiglie a Gaza a
contare su generatori di scarsa qualità alimentati con combustibili di scarsa qualità,
entrambi importati attraverso i tunnel dall'Egitto, provocando un forte aumento di incidenti
con feriti e morti. Secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite OCHA, nei primi tre mesi del 2010,
17 persone sono morte in incidenti legati ai generatori, tra incendi e asfissie da monossido
di carbonio.
Il sindaco della cittadina israeliana di Ra'anana, di cui il 48% del suo territorio è riservato a
parchi pubblici, si è impegnato a piantare migliaia di alberi come parte del suo piano per una
città sostenibile. Anche i contadini palestinesi del villaggio Qaryut vicino a Nablus hanno
piantato alberi per ricordare la Giornata della Terra, solo per poi scoprire che i 250 alberelli di
ulivo erano stati sradicati dai coloni israeliani dell'insediamento Givat Hayovel. Altri 300
erano stati sradicati nella notte del 13 Aprile fuori dal villaggio palestinese di Mihmas dai
coloni provenienti dal vicino avamposto Migron. Il Centro palestinese per la ricerca sulle terre
stima che oltre 12.000 ulivi sono stati sradicati nella Cisgiordania nel 2009, di cui il 60% da
parte delle autorità israeliane per liberare il terreno per gli insediamenti e la costruzione del
muro, e il restante 40% da parte dei coloni.
A Gaza, la Giornata della Terra ha visto bulldozer blindati scortati da carri armati israeliani
distruggere campi di grano invernale, segale e lenticchie nella località di Al Faraheen vicino
a Khan Younis nella terra di nessuno imposta da Israele. I soldati israeliani hanno così tolto
il sostentamento a una famiglia palestinese perché, come ha spiegato Max Ajl , che ha
filmato l'intero vergognoso episodio, "Semplicemente possono".
(http://www.maxajl.com/?p=3482).
Ma il terreno di Gaza era già tutto compromesso. La Mine Action Service delle Nazioni Unite
ha scoperto e rimosso 345 ordigni inesplosi, tra cui 60 bombe al fosforo bianco, residuati
bellici dell'assalto israeliano. Circa la metà sono stati trovati sotto le macerie dei palazzi
distrutti.
Mentre il Ministero della Protezione Ambientale israeliano stava lanciando il programma
"Coste Pulite 2010" per la Giornata della Terra, circa 60 milioni di litri di liquami non trattati o
parzialmente trattati venivano versati nel Mar Mediterraneo dal depuratore di Gaza,
sovracarico, con le casse vuote e senza manutenzione. A causa dei danni da attacchi aerei
israeliani e dalla mancanza di energia elettrica e di pezzi di ricambio dovuta all'assedio, il
depuratore non riesce a far fronte alla domanda dei 1.5 milioni di abitanti di Gaza; i liquami
non trattati finiscono così nel mare ogni giorno con gravi pericoli per la salute.
Oltre ai Green Globe, il Ministero della Protezione Ambientale ha tenuto a marzo una sua
propria annuale premiazione in cui assegna dei riconoscimenti a unità militari, singoli soldati
e comandanti dell'esercito israeliano i quali hanno "dimostrato eccellenza nella tutela di
ambiente, risorse naturali e paesaggio". Il tema di quest'anno è stato l'acqua e comprendeva
progetti per la "protezione delle fonti d'acqua" e il "risparmio idrico".
Per i palestinesi residenti in Cisgiordania, la "protezione delle fonti d'acqua" è stata
documentata nella relazione di Amnesty International Troubled Water: "La distruzione da
parte dell'esercito israeliano degli impianti idrici palestinesi - sistemi per la raccolta
dell'acqua piovana, cisterne di accumulo, vasche agricole e fonti - effetuata perché costruiti
senza i permessi dell'esercito è spesso accompagnata da altre misure che mirano a limitare
o eliminare la presenza dei palestinesi da specifiche aree della Cisgiordania".
Il rapporto di Amnesty International rileva inoltre che per decenni, i coloni israeliani hanno
invece "avuto un accesso virtualmente illimitato all'approvvigionamento idrico per sviluppare
e irrigare le aziende agricole di grandi dimensioni che contribuiscono a sostenere l'economia
degli insediamenti israeliani illegali". In nessun altro luogo è più evidente che nella Valle del
Giordano. Occupata per il 95% da insediamenti, piantagioni e basi militari israeliane è dove
"l'estrazione di acqua da parte di Israele all'interno della Cisgiordania è la più elevata".
Una delle aziende che contribuiscono a sostenere l'economia illegale degli insediamenti è la
Carmel Agrexco, il più grande esportatore di prodotti agricoli freschi di Israele. I suoi stessi
rappresentanti hanno ammesso che la società, per metà proprietà dello Stato di Israele,
esporta il 70% dei prodotti coltivati negli insediamenti israeliani in Cisgiordania. L'Europa è
di gran lunga il suo mercato più grande, anche se i suoi prodotti arrivano fino nel Nord
America e nell'Estremo Oriente. Agrexco si spaccia per una società ecologica, con
un'attenzione all'uso di materiali ecologici e prodotti ortofrutticoli biologici, anche se il
trasporto dei peperoni biologici da Israele agli Stati Uniti non è proprio ecologico. L'Agrexco
vanta anche delle "navi verdi" che utilizza per trasportare i prodotti freschi in Europa i cui
nomi, Bio-Top e EcoFresh, prentenderebbero di rifarsi all'ecologia.
Ma non c'è nulla di ecologico nell'occupazione e nella colonizzazione, niente di verde nella
violazione dei diritti umani e della dignità. Ed è proprio per questo che una coalizione
internazionale a sostegno dell'appello palestinese per il boicottaggio dei prodotti israeliani si
è posto l'obiettivo di far sparire i prodotti della Carmel Agrexco da supermercati - e porti - in
tutta Europa.
La Giornata della Terra ha le sue origini in delle mobilitazioni dal basso, proteste pubbliche
per promuovere il cambiamento e la consapevolezza politica. Nelle celebrazioni della
Giornata della Terra in Israele, la pittura verde non riesce a nascondere l'apartheid.
--
La Giornata della Terra in Israele: L'Apartheid pitturato di verde
di Stephanie Westbrook
Il 22 aprile, nell'ambito delle celebrazioni globali per la Giornata della Terra, case, uffici ed
edifici pubblici in 14 città israeliane hanno spento le luci per un'ora con lo scopo di
"aumentare la consapevolezza della necessità vitale di ridurre i consumi di energia". Le
celebrazioni per la Giornata della Terra comprendevano proiezioni di scene di prati verdi,
generatori eolici e arcobaleni sulle mura della Città Vecchia di Gerusalemme, la premiazione
Green Globe per "eccezionali contributi per la difesa dell'ambiente" e un concerto in Piazza
Rabin a Tel Aviv alimentato da generatori ad olio vegetale, nonché dall'elettricità prodotta,
pedalando, da 48 ciclisti.
L'ironia di tutto ciò non è passata inosservata al milione e mezzo di abitanti di Gaza che
convivono da quasi tre anni con blackout giornalieri della durata di ore a causa dell'assedio
israeliano. Il Coordinatore delle attività del governo israeliano nei Territori (COGAT) riferisce
che ha permesso l'ingresso di oltre 100 milioni di litri di carburante a Gaza nel 2009, però,
come fa notare Gisha, ammonta a solo il 57% del fabbisogno. Con l'avvicinarsi dell'estate e
la domanda di picco, c'è una disperata necessità di pezzi di ricambio e di attrezzi per la
riparazione delle turbine. Attualmente ci sono più di 50 camion carichi di materiale elettrico
in attesa di essere autorizzati ad entrare a Gaza delle autorità israeliane.
Le costanti interruzioni delle furniture elettriche hanno portato molte famiglie a Gaza a
contare su generatori di scarsa qualità alimentati con combustibili di scarsa qualità,
entrambi importati attraverso i tunnel dall'Egitto, provocando un forte aumento di incidenti
con feriti e morti. Secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite OCHA, nei primi tre mesi del 2010,
17 persone sono morte in incidenti legati ai generatori, tra incendi e asfissie da monossido
di carbonio.
Il sindaco della cittadina israeliana di Ra'anana, di cui il 48% del suo territorio è riservato a
parchi pubblici, si è impegnato a piantare migliaia di alberi come parte del suo piano per una
città sostenibile. Anche i contadini palestinesi del villaggio Qaryut vicino a Nablus hanno
piantato alberi per ricordare la Giornata della Terra, solo per poi scoprire che i 250 alberelli di
ulivo erano stati sradicati dai coloni israeliani dell'insediamento Givat Hayovel. Altri 300
erano stati sradicati nella notte del 13 Aprile fuori dal villaggio palestinese di Mihmas dai
coloni provenienti dal vicino avamposto Migron. Il Centro palestinese per la ricerca sulle terre
stima che oltre 12.000 ulivi sono stati sradicati nella Cisgiordania nel 2009, di cui il 60% da
parte delle autorità israeliane per liberare il terreno per gli insediamenti e la costruzione del
muro, e il restante 40% da parte dei coloni.
A Gaza, la Giornata della Terra ha visto bulldozer blindati scortati da carri armati israeliani
distruggere campi di grano invernale, segale e lenticchie nella località di Al Faraheen vicino
a Khan Younis nella terra di nessuno imposta da Israele. I soldati israeliani hanno così tolto
il sostentamento a una famiglia palestinese perché, come ha spiegato Max Ajl , che ha
filmato l'intero vergognoso episodio, "Semplicemente possono".
(http://www.maxajl.com/?p=3482).
Ma il terreno di Gaza era già tutto compromesso. La Mine Action Service delle Nazioni Unite
ha scoperto e rimosso 345 ordigni inesplosi, tra cui 60 bombe al fosforo bianco, residuati
bellici dell'assalto israeliano. Circa la metà sono stati trovati sotto le macerie dei palazzi
distrutti.
Mentre il Ministero della Protezione Ambientale israeliano stava lanciando il programma
"Coste Pulite 2010" per la Giornata della Terra, circa 60 milioni di litri di liquami non trattati o
parzialmente trattati venivano versati nel Mar Mediterraneo dal depuratore di Gaza,
sovracarico, con le casse vuote e senza manutenzione. A causa dei danni da attacchi aerei
israeliani e dalla mancanza di energia elettrica e di pezzi di ricambio dovuta all'assedio, il
depuratore non riesce a far fronte alla domanda dei 1.5 milioni di abitanti di Gaza; i liquami
non trattati finiscono così nel mare ogni giorno con gravi pericoli per la salute.
Oltre ai Green Globe, il Ministero della Protezione Ambientale ha tenuto a marzo una sua
propria annuale premiazione in cui assegna dei riconoscimenti a unità militari, singoli soldati
e comandanti dell'esercito israeliano i quali hanno "dimostrato eccellenza nella tutela di
ambiente, risorse naturali e paesaggio". Il tema di quest'anno è stato l'acqua e comprendeva
progetti per la "protezione delle fonti d'acqua" e il "risparmio idrico".
Per i palestinesi residenti in Cisgiordania, la "protezione delle fonti d'acqua" è stata
documentata nella relazione di Amnesty International Troubled Water: "La distruzione da
parte dell'esercito israeliano degli impianti idrici palestinesi - sistemi per la raccolta
dell'acqua piovana, cisterne di accumulo, vasche agricole e fonti - effetuata perché costruiti
senza i permessi dell'esercito è spesso accompagnata da altre misure che mirano a limitare
o eliminare la presenza dei palestinesi da specifiche aree della Cisgiordania".
Il rapporto di Amnesty International rileva inoltre che per decenni, i coloni israeliani hanno
invece "avuto un accesso virtualmente illimitato all'approvvigionamento idrico per sviluppare
e irrigare le aziende agricole di grandi dimensioni che contribuiscono a sostenere l'economia
degli insediamenti israeliani illegali". In nessun altro luogo è più evidente che nella Valle del
Giordano. Occupata per il 95% da insediamenti, piantagioni e basi militari israeliane è dove
"l'estrazione di acqua da parte di Israele all'interno della Cisgiordania è la più elevata".
Una delle aziende che contribuiscono a sostenere l'economia illegale degli insediamenti è la
Carmel Agrexco, il più grande esportatore di prodotti agricoli freschi di Israele. I suoi stessi
rappresentanti hanno ammesso che la società, per metà proprietà dello Stato di Israele,
esporta il 70% dei prodotti coltivati negli insediamenti israeliani in Cisgiordania. L'Europa è
di gran lunga il suo mercato più grande, anche se i suoi prodotti arrivano fino nel Nord
America e nell'Estremo Oriente. Agrexco si spaccia per una società ecologica, con
un'attenzione all'uso di materiali ecologici e prodotti ortofrutticoli biologici, anche se il
trasporto dei peperoni biologici da Israele agli Stati Uniti non è proprio ecologico. L'Agrexco
vanta anche delle "navi verdi" che utilizza per trasportare i prodotti freschi in Europa i cui
nomi, Bio-Top e EcoFresh, prentenderebbero di rifarsi all'ecologia.
Ma non c'è nulla di ecologico nell'occupazione e nella colonizzazione, niente di verde nella
violazione dei diritti umani e della dignità. Ed è proprio per questo che una coalizione
internazionale a sostegno dell'appello palestinese per il boicottaggio dei prodotti israeliani si
è posto l'obiettivo di far sparire i prodotti della Carmel Agrexco da supermercati - e porti - in
tutta Europa.
La Giornata della Terra ha le sue origini in delle mobilitazioni dal basso, proteste pubbliche
per promuovere il cambiamento e la consapevolezza politica. Nelle celebrazioni della
Giornata della Terra in Israele, la pittura verde non riesce a nascondere l'apartheid.
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PRIGIONIERI
http://www.imemc.org/article/58462
“In occasione della Giornata dei Prigionieri:
8.500 detenuti sono ancora incarcerati da Israele.”
di Saed Bannoura
Come evidenziano i palestinesi nella Giornata dei Prigionieri di sabato 17 marzo, almeno 8.500 detenuti, compresi donne e bambini, come pure parecchi legislatori e funzionari, sono tuttora imprigionati da Israele in diverse carceri, centri per gli interrogatori e campi di detenzione.
Venerdì, il Centro Palestinese per la Difesa dei Detenuti e per i Diritti Umani ha dichiarato, in una conferenza stampa, che Israele sta tenendo ancora in carcere, violando in tal modo i loro diritti fondamentali, circa 8.500 detenuti, tra i quali sono inclusi 340 bambini, 37 donne, mentre 1.600 detenuti hanno necessità urgente di assistenza medica.
Questo numero comprende anche funzionari palestinesi eletti, legislatori e ministri.
Il Centro ha aggiunto che il numero dei detenuti che sono deceduti nelle prigioni israeliane a causa delle torture inflitte e della mancanza di assistenza medica è arrivato alla cifra di ben 196 detenuti.
Ci sono 340 bambini imprigionati da Israele e privati dei loro diritti fondamentali in violazione di tutte le normative internazionali e della IV Convenzione di Ginevra.
Il Centro ha precisato che Israele trattiene ancora nelle sue prigioni 16 legislatori, dei quali 13 sono legati ad Hamas, 2 a Fatah, più il Segretario Generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Ahmad Saadat, oltre all’ex Ministro per i Detenuti, Wasfy Qabha, e il leader di Fatah, Marwan Barghouthi.
Sono tuttora incarcerate da Israele 37 donne e 320 detenute sono state imprigionate da più di 25 anni.
Il Centro ha sollecitato le istituzioni palestinesi ed arabe, i gruppi regionali ed internazionali per i Diritti Umani perché esercitino una pressione quanto più elevata possibile nei confronti di Israele perché ponga fine ai reati contro i detenuti e le loro famiglie.
Martedì, il detenuto Abu Hammad, di 30 anni, originario della cittadina di Al Ezariyya (Bethany), Gerusalemme Est, è morto in una cella di isolamento nella prigione israeliana di Ehil-Be’er Shiva.
Aveva necessità urgenti di assistenza sanitaria, ma l’amministrazione del carcere aveva deciso di porlo in cella di isolamento invece di trasportarlo in un ospedale.
Ci sono parecchi detenuti che sono deceduti per le ferite inferte loro da colpi di arma da fuoco sparati dall’esercito, in quanto era stata negata loro la possibilità di ricevere un’adeguata assistenza medica per porre rimedio alla criticità della loro situazione.
(tradotto da mariano mingarelli)
“In occasione della Giornata dei Prigionieri:
8.500 detenuti sono ancora incarcerati da Israele.”
di Saed Bannoura
Come evidenziano i palestinesi nella Giornata dei Prigionieri di sabato 17 marzo, almeno 8.500 detenuti, compresi donne e bambini, come pure parecchi legislatori e funzionari, sono tuttora imprigionati da Israele in diverse carceri, centri per gli interrogatori e campi di detenzione.
Venerdì, il Centro Palestinese per la Difesa dei Detenuti e per i Diritti Umani ha dichiarato, in una conferenza stampa, che Israele sta tenendo ancora in carcere, violando in tal modo i loro diritti fondamentali, circa 8.500 detenuti, tra i quali sono inclusi 340 bambini, 37 donne, mentre 1.600 detenuti hanno necessità urgente di assistenza medica.
Questo numero comprende anche funzionari palestinesi eletti, legislatori e ministri.
Il Centro ha aggiunto che il numero dei detenuti che sono deceduti nelle prigioni israeliane a causa delle torture inflitte e della mancanza di assistenza medica è arrivato alla cifra di ben 196 detenuti.
Ci sono 340 bambini imprigionati da Israele e privati dei loro diritti fondamentali in violazione di tutte le normative internazionali e della IV Convenzione di Ginevra.
Il Centro ha precisato che Israele trattiene ancora nelle sue prigioni 16 legislatori, dei quali 13 sono legati ad Hamas, 2 a Fatah, più il Segretario Generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Ahmad Saadat, oltre all’ex Ministro per i Detenuti, Wasfy Qabha, e il leader di Fatah, Marwan Barghouthi.
Sono tuttora incarcerate da Israele 37 donne e 320 detenute sono state imprigionate da più di 25 anni.
Il Centro ha sollecitato le istituzioni palestinesi ed arabe, i gruppi regionali ed internazionali per i Diritti Umani perché esercitino una pressione quanto più elevata possibile nei confronti di Israele perché ponga fine ai reati contro i detenuti e le loro famiglie.
Martedì, il detenuto Abu Hammad, di 30 anni, originario della cittadina di Al Ezariyya (Bethany), Gerusalemme Est, è morto in una cella di isolamento nella prigione israeliana di Ehil-Be’er Shiva.
Aveva necessità urgenti di assistenza sanitaria, ma l’amministrazione del carcere aveva deciso di porlo in cella di isolamento invece di trasportarlo in un ospedale.
Ci sono parecchi detenuti che sono deceduti per le ferite inferte loro da colpi di arma da fuoco sparati dall’esercito, in quanto era stata negata loro la possibilità di ricevere un’adeguata assistenza medica per porre rimedio alla criticità della loro situazione.
(tradotto da mariano mingarelli)
DEMOLIZIONI IN ISRAELE E NEI TERRITORI OCCUPATI DI CASE PALESTINESI
http://electronicintifada.net/v2/printer11213.shtml
DIRITTI UMANI
“Agli occhi dello stato, noi, qui, non esistiamo.”
di Nora Barrows-Friedman
Mercoledì 14 aprile, le Forze Israeliane hanno portato a termine le operazioni di demolizione di alcune case di maggiori dimensioni all’interno di tre aree distinte nella West Bank occupata. Le demolizioni hanno lasciato senza casa dozzine di persone ad Hares (vicino alla città settentrionale di Tulkarem); e nelle cittadine di Beit Sahour e al-Khader vicine a Bethlehem. Ah Hares, pure alcuni negozi di proprietà di palestinesi sono stati ridotti in un cumulo di macerie, mentre ufficiali israeliani hanno minacciato gli abitanti di future demolizioni nell’area.
Jonathan Pollack degli Anarchici Contro il Muro e del Comitato di Coordinamento di Lotta Popolare in un comunicato stampa ha scritto: “Un enorme bulldozer israeliano ha demolito la casa di Ali Mousa [in al-Khader], che fungeva da abitazione per nove persone, compreso un bambino di un anno di età, mentre i soldati impedivano a chiunque di avvicinarsi alla casa – incluso l’avvocato della famiglia, che aveva mostrato ai soldati una ingiunzione [contro] la demolizione, emessa dal tribunale nel 2006.”
Questi attacchi di mercoledì evidenziano la crisi in corso dell’espansione della confisca israeliana delle terre palestinesi – ma queste pratiche non si limitano alle sole zone di confine della West Bank occupata e della Striscia di Gaza. Martedì, nel deserto del Negev, la polizia israeliana ha invaso il villaggio beduino di al-Araqib, distruggendo tre case. Nello stesso momento, a Twail Abu Jarwal le Forze Israeliane hanno raso al suolo, una volta ancora, tutte le tende, le baracche e i contenitori per la raccolta dell’acqua, con una operazione che il portavoce del Consiglio Regionale dei Villaggi Non-riconosciuti nel Negev ha dichiarato essere questa la “quarantesima volta in quest’ultimi pochi anni” in cui erano state demolite case e strutture.
E lunedì 12 aprile, nel villaggio di Dhammash, un villaggio non-riconosciuto lontano dal Negev e dall’attenzione dei mezzi di informazione, la polizia israeliana aveva distribuito 13 ordini di demolizioni di case ad altrettanti proprietari di abitazioni palestinesi.
Dhammash si trova tra due delle città più grandi tra quelle che, in Israele, vengono dette “città miste”, Lyyd e Ramla. A dieci minuti di distanza dall’aeroporto internazionale Ben Gurion, quest’area è uno dei siti nel Medio Oriente più antichi e abitati con continuità. Durante gli ultimi 62 anni i palestinesi hanno dovuto combattere per poter restare a Dhammash, sulla loro terra, dato che il governo israeliano continua a mettere in pratica provvedimenti draconiani per eliminarli.
Insieme ai 13 ordini di demolizione di case di questa settimana, la polizia israeliana sta tentando di chiudere da sud la strada per il villaggio di Dhammash, tra l’adiacente ferrovia e la città di Ramle. “Questo è un passo ulteriore per costringerci ad andarcene,” ha chiarito il portavoce della comunità di Dhammash, Arafat Ahmed Ismayil . “Gli abitanti [israeliani] di Dhammash risultano cittadini israeliani. Pagano le tasse. Votano durante le elezioni nazionali. Parlano sia l’arabo che l’ebraico. Ma come per tutti i cittadini palestinesi di Israele, nei loro confronti vengono fatte sistematicamente discriminazioni per costringerli a partire,” ha sostenuto Ismayil, “ proprio come se fossero cittadini di decima classe”
Ha precisato, “Noi non siamo provvisti di un sistema fognario o di una fornitura sufficiente di elettricità o di un servizio idrico. Siamo stati costretti a rivolgerci al tribunale diverse volte per ottenere che il governo procuri ai nostri figli degli autobus scolastici. Il sistema scolastico stesso per i giovani palestinesi è di per sé completamente discriminatorio – la qualità dell’istruzione è ben al di sotto del livello di quella dei ragazzi ebrei.”
Mentre stavano camminando attraverso il villaggio di Dhammash, responsabili della comunità hanno raccontato ad Electronic Intifada che le autorità israeliane hanno distrutto strategicamente un terreno agricolo pubblico, rendendolo sterile, per impiantare nel bel mezzo del villaggio un centro altamente inquinante per la lavorazione all’aperto di rottami metallici. “Ora, quello è l’unico posto dove la gente può trovare un lavoro a Dhammash,” ha aggiunto uno dei responsabili.
Ismayil ha detto che a Dhammash ci sono circa 600 palestinesi che vivono in 70 case. Molte delle case esistevano fin da prima della Naqba del 1948, quando circa tre-quarti dei palestinesi vennero cacciati o fuggirono dalla Palestina storica. Tutte le case – ha affermato – sono, e lo sono state per molti anni, sul ceppo per la decapitazione. Sei case vennero demolite fin dal 2005, ed ogni pochi mesi gli abitanti devono fare petizioni ai tribunali israeliani e firmare una istanza dopo l’altra per far ritirare i bulldozer che sono entrati nel villaggio.
“Loro vogliono costruire in quest’area un complesso condominiale per soli ebrei,” ha chiarito Ismayil. “Questo è il motivo per cui vogliono che ce se ne vada il più presto possibile.”
Secondo le statistiche più recenti, ci sono circa 110.000 palestinesi e beduini che vivono nei cosiddetti “villaggi non-riconosciuti” all’interno dello stato di Israele, l’80 % dei quali vivono nella regione del Negev. Questi villaggi non sono reperibili in alcuna mappa e tutti debbono confrontarsi con la prassi della continua demolizione delle abitazioni e con la mancanza totale di servizi di base.
Ismayil ha raccontato che sulle loro carte d’identità israeliane il governo si è rifiutato di indicare Dhammash come loro luogo di residenza. “Loro ci suddividono entrambi fra Lydd o Ramle,” ha detto. “Secondo loro noi non facciamo parte di nessun luogo. Agli occhi dello stato, noi, qui, non esistiamo.”
Mercoled’ 14 aprile, gli abitanti di Dhammash e i responsabili della comunità si sono recati in due diversi tribunali – per la questione della strada bloccata, alla corte suprema di Gerusalemme e, per il problema degli ordini di demolizione, al tribunale regionale di Petah Tikwa. “Loro hanno ascoltato i nostri casi ed hanno detto che sarebbero stati messi a ruolo per la prossima settimana,” ha spiegato più tardi quella sera. “Ma non ci hanno detto quando sarà quella data. E’ tutto molto oscuro. Noi non siamo certi su ciò che accadrà.”
Ismayil ha asserito che le politiche di demolizione delle case imposte ai palestinesi all’interno di Israele sono esattamente le stesse che vengono applicate nei Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est, e nella Striscia di Gaza.
“Non c’è alcuna differenza,” ha affermato. “Quando vogliono demolire una casa, impongono il coprifuoco, chiudono l’area, portano centinaia di poliziotti e di soldati con cani. Elicotteri si librano sulla testa. Portano con loro comitive di coloni estremisti ebrei per svuotare le case dei mobili ed arrestare le persone che si rifiutano di essere sfrattate.”
“Noi stiamo sperimentando qui, nelle terre del ’48 [Israele], le stesse pratiche di apartheid che sono operative nei Territori Occupati,” ha aggiunto Ismayil. “La gente di fuori pensa che noi stiamo godendo del dono della democrazia di Israele. Mentre noi siamo esattamente nella stessa situazione. Qui, non c’è alcuna pace, né alcuna democrazia.”
Nora Barrows-Friedman è conduttrice associata e produttrice di grado elevato di Flashpoint, una trasmissione di inchieste di attualità su Pacifica Radio. E’ pure corrispondente per Inter Press Service. Ella invia regolarmente articoli dalla Palestina, dove tiene corsi di giornalismo per giovani nel campo profughi di Dheisheh, nella West Bank Occupata.
(tradotto da mariano mingarelli)
DIRITTI UMANI
“Agli occhi dello stato, noi, qui, non esistiamo.”
di Nora Barrows-Friedman
Mercoledì 14 aprile, le Forze Israeliane hanno portato a termine le operazioni di demolizione di alcune case di maggiori dimensioni all’interno di tre aree distinte nella West Bank occupata. Le demolizioni hanno lasciato senza casa dozzine di persone ad Hares (vicino alla città settentrionale di Tulkarem); e nelle cittadine di Beit Sahour e al-Khader vicine a Bethlehem. Ah Hares, pure alcuni negozi di proprietà di palestinesi sono stati ridotti in un cumulo di macerie, mentre ufficiali israeliani hanno minacciato gli abitanti di future demolizioni nell’area.
Jonathan Pollack degli Anarchici Contro il Muro e del Comitato di Coordinamento di Lotta Popolare in un comunicato stampa ha scritto: “Un enorme bulldozer israeliano ha demolito la casa di Ali Mousa [in al-Khader], che fungeva da abitazione per nove persone, compreso un bambino di un anno di età, mentre i soldati impedivano a chiunque di avvicinarsi alla casa – incluso l’avvocato della famiglia, che aveva mostrato ai soldati una ingiunzione [contro] la demolizione, emessa dal tribunale nel 2006.”
Questi attacchi di mercoledì evidenziano la crisi in corso dell’espansione della confisca israeliana delle terre palestinesi – ma queste pratiche non si limitano alle sole zone di confine della West Bank occupata e della Striscia di Gaza. Martedì, nel deserto del Negev, la polizia israeliana ha invaso il villaggio beduino di al-Araqib, distruggendo tre case. Nello stesso momento, a Twail Abu Jarwal le Forze Israeliane hanno raso al suolo, una volta ancora, tutte le tende, le baracche e i contenitori per la raccolta dell’acqua, con una operazione che il portavoce del Consiglio Regionale dei Villaggi Non-riconosciuti nel Negev ha dichiarato essere questa la “quarantesima volta in quest’ultimi pochi anni” in cui erano state demolite case e strutture.
E lunedì 12 aprile, nel villaggio di Dhammash, un villaggio non-riconosciuto lontano dal Negev e dall’attenzione dei mezzi di informazione, la polizia israeliana aveva distribuito 13 ordini di demolizioni di case ad altrettanti proprietari di abitazioni palestinesi.
Dhammash si trova tra due delle città più grandi tra quelle che, in Israele, vengono dette “città miste”, Lyyd e Ramla. A dieci minuti di distanza dall’aeroporto internazionale Ben Gurion, quest’area è uno dei siti nel Medio Oriente più antichi e abitati con continuità. Durante gli ultimi 62 anni i palestinesi hanno dovuto combattere per poter restare a Dhammash, sulla loro terra, dato che il governo israeliano continua a mettere in pratica provvedimenti draconiani per eliminarli.
Insieme ai 13 ordini di demolizione di case di questa settimana, la polizia israeliana sta tentando di chiudere da sud la strada per il villaggio di Dhammash, tra l’adiacente ferrovia e la città di Ramle. “Questo è un passo ulteriore per costringerci ad andarcene,” ha chiarito il portavoce della comunità di Dhammash, Arafat Ahmed Ismayil . “Gli abitanti [israeliani] di Dhammash risultano cittadini israeliani. Pagano le tasse. Votano durante le elezioni nazionali. Parlano sia l’arabo che l’ebraico. Ma come per tutti i cittadini palestinesi di Israele, nei loro confronti vengono fatte sistematicamente discriminazioni per costringerli a partire,” ha sostenuto Ismayil, “ proprio come se fossero cittadini di decima classe”
Ha precisato, “Noi non siamo provvisti di un sistema fognario o di una fornitura sufficiente di elettricità o di un servizio idrico. Siamo stati costretti a rivolgerci al tribunale diverse volte per ottenere che il governo procuri ai nostri figli degli autobus scolastici. Il sistema scolastico stesso per i giovani palestinesi è di per sé completamente discriminatorio – la qualità dell’istruzione è ben al di sotto del livello di quella dei ragazzi ebrei.”
Mentre stavano camminando attraverso il villaggio di Dhammash, responsabili della comunità hanno raccontato ad Electronic Intifada che le autorità israeliane hanno distrutto strategicamente un terreno agricolo pubblico, rendendolo sterile, per impiantare nel bel mezzo del villaggio un centro altamente inquinante per la lavorazione all’aperto di rottami metallici. “Ora, quello è l’unico posto dove la gente può trovare un lavoro a Dhammash,” ha aggiunto uno dei responsabili.
Ismayil ha detto che a Dhammash ci sono circa 600 palestinesi che vivono in 70 case. Molte delle case esistevano fin da prima della Naqba del 1948, quando circa tre-quarti dei palestinesi vennero cacciati o fuggirono dalla Palestina storica. Tutte le case – ha affermato – sono, e lo sono state per molti anni, sul ceppo per la decapitazione. Sei case vennero demolite fin dal 2005, ed ogni pochi mesi gli abitanti devono fare petizioni ai tribunali israeliani e firmare una istanza dopo l’altra per far ritirare i bulldozer che sono entrati nel villaggio.
“Loro vogliono costruire in quest’area un complesso condominiale per soli ebrei,” ha chiarito Ismayil. “Questo è il motivo per cui vogliono che ce se ne vada il più presto possibile.”
Secondo le statistiche più recenti, ci sono circa 110.000 palestinesi e beduini che vivono nei cosiddetti “villaggi non-riconosciuti” all’interno dello stato di Israele, l’80 % dei quali vivono nella regione del Negev. Questi villaggi non sono reperibili in alcuna mappa e tutti debbono confrontarsi con la prassi della continua demolizione delle abitazioni e con la mancanza totale di servizi di base.
Ismayil ha raccontato che sulle loro carte d’identità israeliane il governo si è rifiutato di indicare Dhammash come loro luogo di residenza. “Loro ci suddividono entrambi fra Lydd o Ramle,” ha detto. “Secondo loro noi non facciamo parte di nessun luogo. Agli occhi dello stato, noi, qui, non esistiamo.”
Mercoled’ 14 aprile, gli abitanti di Dhammash e i responsabili della comunità si sono recati in due diversi tribunali – per la questione della strada bloccata, alla corte suprema di Gerusalemme e, per il problema degli ordini di demolizione, al tribunale regionale di Petah Tikwa. “Loro hanno ascoltato i nostri casi ed hanno detto che sarebbero stati messi a ruolo per la prossima settimana,” ha spiegato più tardi quella sera. “Ma non ci hanno detto quando sarà quella data. E’ tutto molto oscuro. Noi non siamo certi su ciò che accadrà.”
Ismayil ha asserito che le politiche di demolizione delle case imposte ai palestinesi all’interno di Israele sono esattamente le stesse che vengono applicate nei Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est, e nella Striscia di Gaza.
“Non c’è alcuna differenza,” ha affermato. “Quando vogliono demolire una casa, impongono il coprifuoco, chiudono l’area, portano centinaia di poliziotti e di soldati con cani. Elicotteri si librano sulla testa. Portano con loro comitive di coloni estremisti ebrei per svuotare le case dei mobili ed arrestare le persone che si rifiutano di essere sfrattate.”
“Noi stiamo sperimentando qui, nelle terre del ’48 [Israele], le stesse pratiche di apartheid che sono operative nei Territori Occupati,” ha aggiunto Ismayil. “La gente di fuori pensa che noi stiamo godendo del dono della democrazia di Israele. Mentre noi siamo esattamente nella stessa situazione. Qui, non c’è alcuna pace, né alcuna democrazia.”
Nora Barrows-Friedman è conduttrice associata e produttrice di grado elevato di Flashpoint, una trasmissione di inchieste di attualità su Pacifica Radio. E’ pure corrispondente per Inter Press Service. Ella invia regolarmente articoli dalla Palestina, dove tiene corsi di giornalismo per giovani nel campo profughi di Dheisheh, nella West Bank Occupata.
(tradotto da mariano mingarelli)
DEMOLIZIONI
http://www.theonlydemocracy.org/2010/04/israel-demolishes-and-silences-its-bedouin-villages
“Israele demolisce ed impone il silenzio sui suoi Villaggi Beduini.”
di Jesse Bacon e Yeela Raanan
(nota dell’editore: questo articolo mette in evidenza come le demolizioni di case non siano limitate ai palestinesi che vivono nei Territori Occupati o a coloro che sono sospettati di aver commesso dei crimini)
La settimana scorsa, il governo d’Israele mi ha processato (lunedì 19 aprile 2010, a Beer Sheva, alle ore 11:00 del mattino): per aver manifestato il mio disgusto per le brutali demolizioni di case avvenute nei “Villaggi Beduini Non-riconosciuti”. Il governo e le sue strutture operative non ammettono alcuna resistenza nei confronti della realizzazione delle loro pratiche razziste, e desiderano perciò spaventare ed intimidire coloro che parlano chiaro.
Da 60 anni il governo d’Israele sta negando alla popolazione indigena il diritto al nostro deserto: l’accesso alle risorse, la loro sopravvivenza, le fonti della loro dignità – e a un tetto sulle loro teste.
A 80.000 dei suoi stessi cittadini stanno negando da tempo l’accesso alle autorizzazioni per l’edilizia. Senza l’adito ai permessi per costruire, ogni abitazione edificata viene considerata “illegale”, tanto che ogni anno ne vengono demolite a centinaia. Talvolta interi villaggi sono stati rasi al suolo. Tutti gli ordini di demolizione scritti stanno servendosi della giustificazione del diritto, leggi che sono state scritte e messe in atto per fornire privilegi alla maggioranza ebraica – costituita quasi del tutto da coloro, compreso me stesso, che sono sopravissuti o sono vittime di leggi dello stesso tipo in altri paesi molto lontani.
Io sono cresciuto ad Arad, una cittadina costruita in mezzo ai beduini per garantire che gli ebrei divengano i dominatori di questo spazio. Impiegai molti anni per capire che i beduini, che vedevo ogniqualvolta lasciavo la mia città natale, non erano parte della natura, come le rocce ed i ruscelli. Non è stata la mia istruzione ad aprirmi gli occhi, di buona formazione sionista, che mi insegna come essere parte di un sogno di riscatto della terra. Ciò è successo a dispetto di questa educazione.
Ma una volta che vengono tolti i paraocchi, allora ha inizio il dolore. Ho visto la sofferenza nell’ingiustizia, nella continua percezione dei miei vicini, ora divenuti amici, di essere trattati come men che meritevoli, come una fonte di preoccupazione per lo sviluppo naturale della nostra regione – il Negev. Ogni bambino nato – una “minaccia demografica”, ogniqualvolta viene costruita una casa, raggiunta una stabilità – viene considerato una minaccia per il solo paese che loro possono chiamare patria.
Ho completato un dottorato di ricerca, allo scopo di aver l’aria più sgargiante. E’ stato un privilegio fin da allora lavorare con il Consiglio Regionale per i Villaggi Beduini Non-riconosciuti (RCUV), una organizzazione della dirigenza dei Villaggi Non-riconosciuti, creata contro tutte le diseguaglianze, per lottare a sostegno dei diritti degli abitanti dei villaggi, utilizzando tutti i mezzi democratici disponibili. Fin dalla sua costituzione, nel 1997, il governo di Israele lo ha considerato come la minaccia maggiore, come se avesse il potere di rivelare al mondo il segreto delle pratiche orripilanti messe in atto nei confronti dei beduini, costringendo forse Israele ad applicare alcuni provvedimenti di giustizia rivolti a queste minoranze a lungo sofferenti. Ha il potere di svelare le bugie che Israele prova piacere nel diffondere: “Loro non hanno alcun gruppo dirigente, non sanno ciò che vogliono…” Ha anche il potere di organizzare la resistenza di una minoranza battuta ed oppressa.
Le demolizioni di case sono le pratiche di gran lunga le più brutali messe in atto nei confronti degli abitanti dei villaggi beduini. E’ difficile descrivere la sofferenza, se non ne sei stato testimone da vicino. Ma provate ad immaginare: centinaia di poliziotti ben armati, vestiti con nere uniformi, che svuotano con la forza la vostra casa della vostra famiglia, dei vostri figli, di vostro marito divenuto incapace di difendere la propria famiglia nella sua stessa casa, con gli altri abitanti che guardano con sospetto, pieni di paura e di orrore, con tutti quelli che osano mostrare una qualche resistenza che vengono arrestati all’istante, per essere accusati più tardi di essere “arabi che attaccano la polizia”.
Una donna durante la demolizione della sua casa nel villaggio di Im el-Hiran. In sostituzione del suo villaggio il governo ha intenzione di mettere una comunità ebraica col nome di “Hiran”.
Allora i bulldozer. La maggior parte delle case è fatta di lamiere, occorrono circa 3 minuti e l’unico luogo nel quale una donna e la sua famiglia potrebbero sentirsi al sicuro, non c’è più; è stata rasa al suolo brutalmente di fronte a uomini, donne e bambini.
Una casa viene distrutta in pochi minuti.
Nessuna famiglia ha un qualche altro luogo nel quale traslocare, così le case vengono ricostruite. Il governo non può realizzare i suoi obiettivi dichiarati – rimuovere gli abitanti, ma d’altro canto gli abitanti del villaggio vivono con sempre più risentimento ed alienazione nei confronti del governo.
E tutta la retorica sponsorizzata dal governo sulle “costruzioni illegali” e sugli “intrusi sul terreno del governo” non può cancellare la verità: è solo un mezzo per costringere i beduini ad abbandonare l’ultima delle loro terre. Israele li ha già privati del 97 % del Negev, le demolizioni di case vengono fatte per assicurarsi l’ultimo 3 %.
Due anni fa, mentre stavo bevendo il mio caffè a casa, a meno di due miglia dal confine con Gaza, udii degli spari insoliti sul confine. Un’ora più tardi venni a sapere che un soldato beduino era stato ucciso in uno scontro con palestinesi che avevano tentato di entrare in Israele. Era stato ucciso mentre proteggeva la mia famiglia. Arrivando al lavoro sentii che il governo, nonostante questa perdita subita dalla comunità beduina, aveva l’intenzione di demolire le loro case.
In quanto facente parte del RCUV, giunsi sulla scena della demolizione di case nel villaggio non-riconosciuto di A-Shahabi pochi minuti prima dei bulldozer. Conoscendo pienamente che non avrei potuto bloccare la demolizione – Mi sedetti nella casa per fare sentire una voce contro l’ingiustizia di queste demolizioni, contro le pratiche discriminatorie, brutali e nocive. Starsene seduti da soli in una casa con il bulldozer alla parete, era una protesta pacifica, non-violenta. Come immaginavo, venni trascinato fuori dalla polizia che poi mi arrestò.
bedouin-arrest-then-demolishab
Essere trascinato fuori da una casa, che sarebbe stata successivamente demolita.
A proposito – il soldato che era stato ucciso, aveva un ordine di demolizione sulla sua casa.
Il comandante della stazione di polizia era arrabbiato e mi gridò, “L’ultima cosa della quale abbiamo bisogno è quella di ebrei che si associano alla lotta dei beduini…” Ed è per incuterci paura e tenerci lontano dal lavorare per la giustizia nel nostro paese, che la settimana scorsa sono stato cacciato in prigione.
Jesse Bacon – ha un master per l’insegnamento ottenuto al Roosevelt University College di Chicago. E’ un ebreo osservante progressista che si è alleato con i palestinesi, come con tutti i popoli diseredati, secondo la migliore tradizione dell’ebraismo. E’ stato in Israele e in Palestina nel 1996, nel 2001 e nel 2002. Per tre anni ha lavorato nel comitato direttivo della “Voce ebraica per la Pace” di Chicago e poi un anno nel consiglio del “Ricerca la Pace” di Seattle.
Yeela Raanan – è rappresentante del Consiglio Regionale per i Villaggi Beduini Non-riconosciuti (RCUV)
(tradotto da mariano mingarelli)
“Israele demolisce ed impone il silenzio sui suoi Villaggi Beduini.”
di Jesse Bacon e Yeela Raanan
(nota dell’editore: questo articolo mette in evidenza come le demolizioni di case non siano limitate ai palestinesi che vivono nei Territori Occupati o a coloro che sono sospettati di aver commesso dei crimini)
La settimana scorsa, il governo d’Israele mi ha processato (lunedì 19 aprile 2010, a Beer Sheva, alle ore 11:00 del mattino): per aver manifestato il mio disgusto per le brutali demolizioni di case avvenute nei “Villaggi Beduini Non-riconosciuti”. Il governo e le sue strutture operative non ammettono alcuna resistenza nei confronti della realizzazione delle loro pratiche razziste, e desiderano perciò spaventare ed intimidire coloro che parlano chiaro.
Da 60 anni il governo d’Israele sta negando alla popolazione indigena il diritto al nostro deserto: l’accesso alle risorse, la loro sopravvivenza, le fonti della loro dignità – e a un tetto sulle loro teste.
A 80.000 dei suoi stessi cittadini stanno negando da tempo l’accesso alle autorizzazioni per l’edilizia. Senza l’adito ai permessi per costruire, ogni abitazione edificata viene considerata “illegale”, tanto che ogni anno ne vengono demolite a centinaia. Talvolta interi villaggi sono stati rasi al suolo. Tutti gli ordini di demolizione scritti stanno servendosi della giustificazione del diritto, leggi che sono state scritte e messe in atto per fornire privilegi alla maggioranza ebraica – costituita quasi del tutto da coloro, compreso me stesso, che sono sopravissuti o sono vittime di leggi dello stesso tipo in altri paesi molto lontani.
Io sono cresciuto ad Arad, una cittadina costruita in mezzo ai beduini per garantire che gli ebrei divengano i dominatori di questo spazio. Impiegai molti anni per capire che i beduini, che vedevo ogniqualvolta lasciavo la mia città natale, non erano parte della natura, come le rocce ed i ruscelli. Non è stata la mia istruzione ad aprirmi gli occhi, di buona formazione sionista, che mi insegna come essere parte di un sogno di riscatto della terra. Ciò è successo a dispetto di questa educazione.
Ma una volta che vengono tolti i paraocchi, allora ha inizio il dolore. Ho visto la sofferenza nell’ingiustizia, nella continua percezione dei miei vicini, ora divenuti amici, di essere trattati come men che meritevoli, come una fonte di preoccupazione per lo sviluppo naturale della nostra regione – il Negev. Ogni bambino nato – una “minaccia demografica”, ogniqualvolta viene costruita una casa, raggiunta una stabilità – viene considerato una minaccia per il solo paese che loro possono chiamare patria.
Ho completato un dottorato di ricerca, allo scopo di aver l’aria più sgargiante. E’ stato un privilegio fin da allora lavorare con il Consiglio Regionale per i Villaggi Beduini Non-riconosciuti (RCUV), una organizzazione della dirigenza dei Villaggi Non-riconosciuti, creata contro tutte le diseguaglianze, per lottare a sostegno dei diritti degli abitanti dei villaggi, utilizzando tutti i mezzi democratici disponibili. Fin dalla sua costituzione, nel 1997, il governo di Israele lo ha considerato come la minaccia maggiore, come se avesse il potere di rivelare al mondo il segreto delle pratiche orripilanti messe in atto nei confronti dei beduini, costringendo forse Israele ad applicare alcuni provvedimenti di giustizia rivolti a queste minoranze a lungo sofferenti. Ha il potere di svelare le bugie che Israele prova piacere nel diffondere: “Loro non hanno alcun gruppo dirigente, non sanno ciò che vogliono…” Ha anche il potere di organizzare la resistenza di una minoranza battuta ed oppressa.
Le demolizioni di case sono le pratiche di gran lunga le più brutali messe in atto nei confronti degli abitanti dei villaggi beduini. E’ difficile descrivere la sofferenza, se non ne sei stato testimone da vicino. Ma provate ad immaginare: centinaia di poliziotti ben armati, vestiti con nere uniformi, che svuotano con la forza la vostra casa della vostra famiglia, dei vostri figli, di vostro marito divenuto incapace di difendere la propria famiglia nella sua stessa casa, con gli altri abitanti che guardano con sospetto, pieni di paura e di orrore, con tutti quelli che osano mostrare una qualche resistenza che vengono arrestati all’istante, per essere accusati più tardi di essere “arabi che attaccano la polizia”.
Una donna durante la demolizione della sua casa nel villaggio di Im el-Hiran. In sostituzione del suo villaggio il governo ha intenzione di mettere una comunità ebraica col nome di “Hiran”.
Allora i bulldozer. La maggior parte delle case è fatta di lamiere, occorrono circa 3 minuti e l’unico luogo nel quale una donna e la sua famiglia potrebbero sentirsi al sicuro, non c’è più; è stata rasa al suolo brutalmente di fronte a uomini, donne e bambini.
Una casa viene distrutta in pochi minuti.
Nessuna famiglia ha un qualche altro luogo nel quale traslocare, così le case vengono ricostruite. Il governo non può realizzare i suoi obiettivi dichiarati – rimuovere gli abitanti, ma d’altro canto gli abitanti del villaggio vivono con sempre più risentimento ed alienazione nei confronti del governo.
E tutta la retorica sponsorizzata dal governo sulle “costruzioni illegali” e sugli “intrusi sul terreno del governo” non può cancellare la verità: è solo un mezzo per costringere i beduini ad abbandonare l’ultima delle loro terre. Israele li ha già privati del 97 % del Negev, le demolizioni di case vengono fatte per assicurarsi l’ultimo 3 %.
Due anni fa, mentre stavo bevendo il mio caffè a casa, a meno di due miglia dal confine con Gaza, udii degli spari insoliti sul confine. Un’ora più tardi venni a sapere che un soldato beduino era stato ucciso in uno scontro con palestinesi che avevano tentato di entrare in Israele. Era stato ucciso mentre proteggeva la mia famiglia. Arrivando al lavoro sentii che il governo, nonostante questa perdita subita dalla comunità beduina, aveva l’intenzione di demolire le loro case.
In quanto facente parte del RCUV, giunsi sulla scena della demolizione di case nel villaggio non-riconosciuto di A-Shahabi pochi minuti prima dei bulldozer. Conoscendo pienamente che non avrei potuto bloccare la demolizione – Mi sedetti nella casa per fare sentire una voce contro l’ingiustizia di queste demolizioni, contro le pratiche discriminatorie, brutali e nocive. Starsene seduti da soli in una casa con il bulldozer alla parete, era una protesta pacifica, non-violenta. Come immaginavo, venni trascinato fuori dalla polizia che poi mi arrestò.
bedouin-arrest-then-demolishab
Essere trascinato fuori da una casa, che sarebbe stata successivamente demolita.
A proposito – il soldato che era stato ucciso, aveva un ordine di demolizione sulla sua casa.
Il comandante della stazione di polizia era arrabbiato e mi gridò, “L’ultima cosa della quale abbiamo bisogno è quella di ebrei che si associano alla lotta dei beduini…” Ed è per incuterci paura e tenerci lontano dal lavorare per la giustizia nel nostro paese, che la settimana scorsa sono stato cacciato in prigione.
Jesse Bacon – ha un master per l’insegnamento ottenuto al Roosevelt University College di Chicago. E’ un ebreo osservante progressista che si è alleato con i palestinesi, come con tutti i popoli diseredati, secondo la migliore tradizione dell’ebraismo. E’ stato in Israele e in Palestina nel 1996, nel 2001 e nel 2002. Per tre anni ha lavorato nel comitato direttivo della “Voce ebraica per la Pace” di Chicago e poi un anno nel consiglio del “Ricerca la Pace” di Seattle.
Yeela Raanan – è rappresentante del Consiglio Regionale per i Villaggi Beduini Non-riconosciuti (RCUV)
(tradotto da mariano mingarelli)
RACCONTO BEDUINO
di Rebecca Vilkomerson
Alcune sere fa ero a cena a casa di un caro amico, Ra’ed, il direttore dell’organizzazione ambientalista beduino-ebraica Bustan. Durante il pasto ho sentito una storia che è illuminante allo stesso modo dei fattori storico-politici che si sovrappongono e che contribuiscono a caratterizzare l’ingiustizia che permea la storia dei beduini in Israel. Si tratta di una faccenda come questa:
Due settimane fa, un venerdì pomeriggio, alcuni giovani beduini della cittadina di Qasr al-Sir stavano passeggiando sulla collina appena fuori dal villaggio. Senza preavviso, dall’altra parte delle colline furono sparati dei colpi e uno dei giovani venne ucciso, mentre l’altro rimase ferito. I colpi erano stati sparati da soldati che stavano esercitandosi all’interno di un poligono di tiro militare.
E’ stata una semplice, sfortunata tragedia? Non proprio.
Qasr al-Sir è un villaggio beduino nel Negev che è stato “riconosciuto” dal governo israeliano nel 2003. I residenti di Qasr al-Sir sono in effetti provenienti dall’area nella quale sorge attualmente la città israeliana di Dimona, ma nel periodo successivo alla guerra del 1948, vennero obbligati con la forza a trasferirsi su altre terre. Dimona divenne una ”città per lo sviluppo urbano” israeliano per nuovi immigrati, in particolar modo per quelli provenienti dal nord Africa e negli anni successivi dall’Unione Sovietica. Naturalmente, Dimona è famosa prevalentemente per l’impianto nucleare “segreto” che si trova proprio all’esterno della città.
Nella sua nuova ubicazione, Qasr al-Sir era un villaggio “non-riconosciuto” – a significare che esso non compariva su nessuna mappa, non usufruiva di alcun servizio di base, come acqua, elettricità, strade asfaltate, trattamento dei liquami, o raccolta dei rifiuti e le sue case potevano venir distrutte in ogni momento. Il gruppo dei villaggi che sono stati “riconosciuti” nel 2003 è oggetto di discussione, perché in cambio del riconoscimento, essi hanno dovuto cedere il diritto di proprietà sulla parte rimanente della propria area territoriale.
Per Qasr al-Sir, ciò sta a significare che, mentre ora il villaggio stesso usufruisce di alcune “amenità” – quali la scuola, alcune strade asfaltate, una protezione dalla demolizione delle case – esso sta ancora avendo a che fare con condizioni che sarebbero impensabili in comunità ebraiche in Israele. Uno di questi problemi è che, se si considerano i suoi confini reali, non contrassegnati , il villaggio risulta essere una zona militare per esercitazioni, dove i soldati possono sparare liberamente. Lo stesso villaggio è letteralmente recintato dall’esercito.
Per ciò che riguarda il sistema, questa non è una coincidenza, in quanto l’85% del Negev (o Naqab , in arabo) è stato recensito come zona militare chiusa o come riserva naturale. Questo è uno dei modi che sono stati utilizzati perché i beduini nel Negev fossero costretti a rinunciare alle loro terre e, di volta in volta sempre di più, obbligati a vivere in cittadine isolate e in aree rurali con servizi minimi, quando anche ci fossero.
Il giovane che è stato ucciso era un membro del nuovo programma di addestramento per costruzioni ecologiche di Bustan. Aveva 19 anni. Non c’è stata quasi nessuna informazione mediatica sulla sua morte – un paragrafo su YNET ( il sito web di Yediot Ahronot, il maggiore giornale scritto su carta) che ha definito erroneamente il villaggio come “non-riconosciuto” e che ha insinuato che gli uomini stessero sconfinando – e nulla di più. Parallelamente – non c’è stata alcuna indagine. Quando gente di Bustan ha chiamato il capo della polizia locale per capire come mai non c’era stata, egli ha reagito irritato e sprezzante alle loro lamentele.
Nessuno pensa che il ragazzo sia stato ucciso di proposito. Era venerdì pomeriggio, quasi Shabbat, un intervallo di tempo durante il quale tutto dovrebbe essere tranquillo e si dovrebbe poter camminare in collina senza pericolo. In tal senso, è stato un “errore”. Ma è stato un errore che dice tutto di un mondo.
Il villaggio era in tumulto? Ho chiesto a Ra’ed. No, ha infatti risposto. Due anni fa, altre due persone sono state uccise nello stesso modo.
Terrabin, il villaggio beduino “non-riconosciuto” che è vicino ad Omer, una delle comunità più ricche di Israele, alla fine è stato costretto a soccombere dopo anni di pressioni. Le case erano state ripetutamente distrutte e, lo scorso anno, erano stati allestiti dei checkpoint dove venivano angariati gli abitanti che entravano o uscivano dal villaggio. Gli abitanti acconsentirono a trasferirsi in altri luoghi come forma di risarcimento. Ora, Omer avrà la possibilità di espandersi.
Rebecca Vilkomerson è direttrice esecutiva della Voce Ebraica per la Pace.
(tradotto da mariano mingarelli)
Alcune sere fa ero a cena a casa di un caro amico, Ra’ed, il direttore dell’organizzazione ambientalista beduino-ebraica Bustan. Durante il pasto ho sentito una storia che è illuminante allo stesso modo dei fattori storico-politici che si sovrappongono e che contribuiscono a caratterizzare l’ingiustizia che permea la storia dei beduini in Israel. Si tratta di una faccenda come questa:
Due settimane fa, un venerdì pomeriggio, alcuni giovani beduini della cittadina di Qasr al-Sir stavano passeggiando sulla collina appena fuori dal villaggio. Senza preavviso, dall’altra parte delle colline furono sparati dei colpi e uno dei giovani venne ucciso, mentre l’altro rimase ferito. I colpi erano stati sparati da soldati che stavano esercitandosi all’interno di un poligono di tiro militare.
E’ stata una semplice, sfortunata tragedia? Non proprio.
Qasr al-Sir è un villaggio beduino nel Negev che è stato “riconosciuto” dal governo israeliano nel 2003. I residenti di Qasr al-Sir sono in effetti provenienti dall’area nella quale sorge attualmente la città israeliana di Dimona, ma nel periodo successivo alla guerra del 1948, vennero obbligati con la forza a trasferirsi su altre terre. Dimona divenne una ”città per lo sviluppo urbano” israeliano per nuovi immigrati, in particolar modo per quelli provenienti dal nord Africa e negli anni successivi dall’Unione Sovietica. Naturalmente, Dimona è famosa prevalentemente per l’impianto nucleare “segreto” che si trova proprio all’esterno della città.
Nella sua nuova ubicazione, Qasr al-Sir era un villaggio “non-riconosciuto” – a significare che esso non compariva su nessuna mappa, non usufruiva di alcun servizio di base, come acqua, elettricità, strade asfaltate, trattamento dei liquami, o raccolta dei rifiuti e le sue case potevano venir distrutte in ogni momento. Il gruppo dei villaggi che sono stati “riconosciuti” nel 2003 è oggetto di discussione, perché in cambio del riconoscimento, essi hanno dovuto cedere il diritto di proprietà sulla parte rimanente della propria area territoriale.
Per Qasr al-Sir, ciò sta a significare che, mentre ora il villaggio stesso usufruisce di alcune “amenità” – quali la scuola, alcune strade asfaltate, una protezione dalla demolizione delle case – esso sta ancora avendo a che fare con condizioni che sarebbero impensabili in comunità ebraiche in Israele. Uno di questi problemi è che, se si considerano i suoi confini reali, non contrassegnati , il villaggio risulta essere una zona militare per esercitazioni, dove i soldati possono sparare liberamente. Lo stesso villaggio è letteralmente recintato dall’esercito.
Per ciò che riguarda il sistema, questa non è una coincidenza, in quanto l’85% del Negev (o Naqab , in arabo) è stato recensito come zona militare chiusa o come riserva naturale. Questo è uno dei modi che sono stati utilizzati perché i beduini nel Negev fossero costretti a rinunciare alle loro terre e, di volta in volta sempre di più, obbligati a vivere in cittadine isolate e in aree rurali con servizi minimi, quando anche ci fossero.
Il giovane che è stato ucciso era un membro del nuovo programma di addestramento per costruzioni ecologiche di Bustan. Aveva 19 anni. Non c’è stata quasi nessuna informazione mediatica sulla sua morte – un paragrafo su YNET ( il sito web di Yediot Ahronot, il maggiore giornale scritto su carta) che ha definito erroneamente il villaggio come “non-riconosciuto” e che ha insinuato che gli uomini stessero sconfinando – e nulla di più. Parallelamente – non c’è stata alcuna indagine. Quando gente di Bustan ha chiamato il capo della polizia locale per capire come mai non c’era stata, egli ha reagito irritato e sprezzante alle loro lamentele.
Nessuno pensa che il ragazzo sia stato ucciso di proposito. Era venerdì pomeriggio, quasi Shabbat, un intervallo di tempo durante il quale tutto dovrebbe essere tranquillo e si dovrebbe poter camminare in collina senza pericolo. In tal senso, è stato un “errore”. Ma è stato un errore che dice tutto di un mondo.
Il villaggio era in tumulto? Ho chiesto a Ra’ed. No, ha infatti risposto. Due anni fa, altre due persone sono state uccise nello stesso modo.
Terrabin, il villaggio beduino “non-riconosciuto” che è vicino ad Omer, una delle comunità più ricche di Israele, alla fine è stato costretto a soccombere dopo anni di pressioni. Le case erano state ripetutamente distrutte e, lo scorso anno, erano stati allestiti dei checkpoint dove venivano angariati gli abitanti che entravano o uscivano dal villaggio. Gli abitanti acconsentirono a trasferirsi in altri luoghi come forma di risarcimento. Ora, Omer avrà la possibilità di espandersi.
Rebecca Vilkomerson è direttrice esecutiva della Voce Ebraica per la Pace.
(tradotto da mariano mingarelli)
mercoledì 21 aprile 2010
SONO FURIOSA
Dopo l'arresto del cavallo e dell'asino legati e portati via nel cellulare e dopo la condanna all'ergastolo del gatto a chi toccherà la prossima volta? A un cammello? A una capra?
Nemmeno gli animali stanno tranquilli in Palestina. Sono furiosa con Israele come animalista, e se simili comportamenti non mi turbassero profondamente mi butterei in terra dal ridere percuotendo con i pugni il pavimento come nei fumetti. Ma sono invece furiosa perchè la psicopatia israeliana non risparmia proprio nessuno...animali, alberi, attrezzi agricoli. paesaggio...tutto ostaggio di pazzi furiosi.
E anche come scrittrice sono estremamente seccata...come si fa a buttare le cose nel fantastico, nell'ironia quando una realtà malata supera ogni possibilità della fantasia letteraria? Che può inventarsi più un povero scrittore?
Nemmeno gli animali stanno tranquilli in Palestina. Sono furiosa con Israele come animalista, e se simili comportamenti non mi turbassero profondamente mi butterei in terra dal ridere percuotendo con i pugni il pavimento come nei fumetti. Ma sono invece furiosa perchè la psicopatia israeliana non risparmia proprio nessuno...animali, alberi, attrezzi agricoli. paesaggio...tutto ostaggio di pazzi furiosi.
E anche come scrittrice sono estremamente seccata...come si fa a buttare le cose nel fantastico, nell'ironia quando una realtà malata supera ogni possibilità della fantasia letteraria? Che può inventarsi più un povero scrittore?
martedì 20 aprile 2010
ARRESTATO UN ALTRO RICERCATO IMPORTANTE:UN GATTO CHE COLLABORAVA CON I PALESTINESI E' STATO CONDANNATO ALL'ERGASTOLO
Un gatto è stato condannato all’ergastolo da trascorrere in prigione nel Carcere Negev.
L’arresto dell’asino di Gesù e del cavallo e la loro detenzione nelle carceri israeliane non è il primo crimine di questo tipo. Secondo una dichiarazione rilasciata dal Ministero dei Detenuti dell’Autorità Palestinese, un gatto è stato condannato all’ergastolo a vita da trascorrere nella prigione Negev. Il fatto venne svelato e pubblicato sui quotidiani palestinesi e su Al-Jazeera lo scorso 19 novembre 2009. Il Ministero dei Detenuti ha affermato che le violazioni israeliane nei confronti dei prigionieri sono aumentate tanto da includere gatti domestici che vivono nella prigione Negev.
L’amministrazione carceraria ha confermato che la prigione Negev ha detenuto in una cella un gatto come punizione per essere stato d’aiuto a prigionieri palestinesi che stavano scontando condanne elevate nella stessa prigione. L’amministrazione del carcere Negev aveva ritennuto il gatto colpevole di scambi tra i prigionieri trasportando cose da una cella all’altra. All’apparenza, il gatto era un gatto randagio che se ne andava in giro all’interno del carcere e i prigionieri lo avevano addestrato per trasportare oggetti e notizie tra le celle. Il gatto è stato condannato dagli israeliani di vivere nella prigione Negev insieme ai prigionieri palestinesi che l’avevano addestrato.
Ricordo di essere stata una volta ad Hebron insieme al corrispondente dell’AFP (France Press Agency) quando questi riprese l’IDF che aveva fermato una persona ed aveva preteso che questa tirasse fuori la carta d’identità anche del suo asino.
Mi stupisco come e perché ci siano persone che prendono del tutto sul serio gli israeliani. Anno dopo anno , la loro condizione mentale collettiva peggiora visibilmente, come stanno a dimostrare i recenti arresti di un asino e di un cavallo, oltre alla condanna a vita di un gatto.
In aggiunta ai crimini precedentemente citati, i funzionari della cosiddetta Amministrazione Civile Israeliana, che opera sotto il comando centrale dell’IDF nel cosiddetto DCL (District Civilian Liaisons), continuano a fare il giro dei campi palestinesi e ad “arrestare” gli strumenti agricoli dei contadini, quali trattori, aratri, attrezzi per la trivellazione, come pure i loro raccolti, animali e sementi, per riporli nella prigione israeliana di Beit Il in detenzione per mesi e perfino per alcuni anni. Quando questa proprietà viene “prosciolta” da queste “condanne”, essi impongono ai proprietari di questi beni multe elevate, qualora ne richiedono la restituzione, e se il proprietario non paga, il bene viene distrutto o viene acquisito dagli israeliani per il loro uso personale. Il denaro che viene estorto in questo modo agli agricoltori è illegale persino secondo il diritto israeliano e gli ordini militari; esso non viene citato dalle leggi militari israeliane. Nessuno sa dove va a finire il denaro e si sospetta che esso venga utilizzato per finanziare le colonie abusive o per allineare le tasche di certa gente con l’IDF o con la “Amministrazione civile”.
La detenzione e l’imprigionamento di attrezzature civili appartenenti ad agricoltori è una violazione delle disposizioni delle stesse leggi militari israeliane, che vietano la confisca e la “detenzione” per motivi militari di attrezzi di uso civile. La “detenzione” di proprietà e l’estorsione di denaro ai proprietari stessi a titolo di “multe” è un caso lampante del crimine di guerra di appropriazione indebita perpetrata sotto la bandiera della legge.
Rami Ekraii e Shlomo Moskowitsch sono due dei funzionari israeliani che sono stati coinvolti in molti di questi casi di incarcerazione di attrezzature di agricoltori palestinesi. Entrambi lavorano al cosiddetto Dipartimento di Ispezione e Controllo dell’Esercito, diretto dall’occupante abusivo David Kishik, figlio della ex prostituta ed agente del Mossad Shula Cohen e fratello dell’attuale ambasciatore in Egitto Itzhaq Levanon.
(tradotto da mariano mingarelli)
L’arresto dell’asino di Gesù e del cavallo e la loro detenzione nelle carceri israeliane non è il primo crimine di questo tipo. Secondo una dichiarazione rilasciata dal Ministero dei Detenuti dell’Autorità Palestinese, un gatto è stato condannato all’ergastolo a vita da trascorrere nella prigione Negev. Il fatto venne svelato e pubblicato sui quotidiani palestinesi e su Al-Jazeera lo scorso 19 novembre 2009. Il Ministero dei Detenuti ha affermato che le violazioni israeliane nei confronti dei prigionieri sono aumentate tanto da includere gatti domestici che vivono nella prigione Negev.
L’amministrazione carceraria ha confermato che la prigione Negev ha detenuto in una cella un gatto come punizione per essere stato d’aiuto a prigionieri palestinesi che stavano scontando condanne elevate nella stessa prigione. L’amministrazione del carcere Negev aveva ritennuto il gatto colpevole di scambi tra i prigionieri trasportando cose da una cella all’altra. All’apparenza, il gatto era un gatto randagio che se ne andava in giro all’interno del carcere e i prigionieri lo avevano addestrato per trasportare oggetti e notizie tra le celle. Il gatto è stato condannato dagli israeliani di vivere nella prigione Negev insieme ai prigionieri palestinesi che l’avevano addestrato.
Ricordo di essere stata una volta ad Hebron insieme al corrispondente dell’AFP (France Press Agency) quando questi riprese l’IDF che aveva fermato una persona ed aveva preteso che questa tirasse fuori la carta d’identità anche del suo asino.
Mi stupisco come e perché ci siano persone che prendono del tutto sul serio gli israeliani. Anno dopo anno , la loro condizione mentale collettiva peggiora visibilmente, come stanno a dimostrare i recenti arresti di un asino e di un cavallo, oltre alla condanna a vita di un gatto.
In aggiunta ai crimini precedentemente citati, i funzionari della cosiddetta Amministrazione Civile Israeliana, che opera sotto il comando centrale dell’IDF nel cosiddetto DCL (District Civilian Liaisons), continuano a fare il giro dei campi palestinesi e ad “arrestare” gli strumenti agricoli dei contadini, quali trattori, aratri, attrezzi per la trivellazione, come pure i loro raccolti, animali e sementi, per riporli nella prigione israeliana di Beit Il in detenzione per mesi e perfino per alcuni anni. Quando questa proprietà viene “prosciolta” da queste “condanne”, essi impongono ai proprietari di questi beni multe elevate, qualora ne richiedono la restituzione, e se il proprietario non paga, il bene viene distrutto o viene acquisito dagli israeliani per il loro uso personale. Il denaro che viene estorto in questo modo agli agricoltori è illegale persino secondo il diritto israeliano e gli ordini militari; esso non viene citato dalle leggi militari israeliane. Nessuno sa dove va a finire il denaro e si sospetta che esso venga utilizzato per finanziare le colonie abusive o per allineare le tasche di certa gente con l’IDF o con la “Amministrazione civile”.
La detenzione e l’imprigionamento di attrezzature civili appartenenti ad agricoltori è una violazione delle disposizioni delle stesse leggi militari israeliane, che vietano la confisca e la “detenzione” per motivi militari di attrezzi di uso civile. La “detenzione” di proprietà e l’estorsione di denaro ai proprietari stessi a titolo di “multe” è un caso lampante del crimine di guerra di appropriazione indebita perpetrata sotto la bandiera della legge.
Rami Ekraii e Shlomo Moskowitsch sono due dei funzionari israeliani che sono stati coinvolti in molti di questi casi di incarcerazione di attrezzature di agricoltori palestinesi. Entrambi lavorano al cosiddetto Dipartimento di Ispezione e Controllo dell’Esercito, diretto dall’occupante abusivo David Kishik, figlio della ex prostituta ed agente del Mossad Shula Cohen e fratello dell’attuale ambasciatore in Egitto Itzhaq Levanon.
(tradotto da mariano mingarelli)
INCREDIBILE! aDESSO iSRAELE ARRESTA GLI ANIMALI
“Asino, cavallo e gatto in prigione, in Israele”
di Kawther Salam
Storie di pratiche aberranti come queste non succedono in alcuna parte del mondo, ma solo in Israele, dove sionisti dalla mente malata gestiscono il governo in modo sovrano. Quest’ultima storia non è il prodotto dell’immaginazione dello scrittore, o raccontata da una persona comune o da qualcuno che risulta accusato di mentire o di diffamare, ma è stata vista e confermata da quindici attivisti per la pace e da cristiani credenti, fra i quali 10 uomini, 5 donne, 3 israeliani , una donna francese ed un’altra della Gran Bretagna. La persona che ha riportato questa storia è Abbas Zaki, un membro del Comitato Centrale di Fatah, che ha oltre sessant’anni di età.
La data del crimine è quella dello scorso 28 marzo 2010, al ritorno dalle celebrazioni cristiane della Domenica delle Palme. Il racconto riguarda l’arresto di un asino e di un cavallo effettuati dai soldati israeliani nella Bethlehem occupata, nella West Bank occupata. L’asino e il cavallo fanno parte della tradizione narrativa cristiana e questo è il motivo per cui sono stati arrestati.
Secondo la Bibbia cristiana, il Profeta Gesù, sia Pace e Misericordia su di lui, cavalcò sul dorso di un asino quando di recò dalla Chiesa della Natività di Betlemme alla Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Questo avvenne una domenica, tre giorni prima della sua crocifissione.
Domenica 28 marzo 2010, durante la Domenica delle Palme, un palestinese cristiano era sul dorso di un asino e un’altro su quello di un cavallo. Centinaia di cristiani che festeggiavano la ricorrenza erano partiti dalla Chiesa della Natività ed avevano percorso a piedi la città fino ad arrivare alla Moschea di Bilal bin Rabah, della quale si era impadronita l’occupazione israeliana. Gli israeliani avevano confiscato alla città santa di Betlemme anche la sua area circostante e l’avevano aggiunta alla proprietà dell’esercito e della città occupata di Gerusalemme. Vi avevano costruito attorno delle alte mura e delle torri di osservazione dell’esercito, il tutto per impedire il libero passaggio in entrata ed in uscita da Betlemme e dal campo profughi di Aida. Essi hanno separato e paralizzato la vita sociale dei cristiani che vivono in Betlemme da quella dei cristiani che stanno al di fuori e successivamente anche quella della moschea che avevano requisito.
Abbas Zaki, che quella domenica aveva preso parte alla festività cristiana della Domenica delle Palme, ha raccontato: “Quando siamo arrivati alla Moschea di Bilal al-Rabah, la porta di metallo israeliana in mezzo alla strada dalla parte di Betlemme era aperta e noi tutti l’abbiamo attraversata. Abbiamo camminato per altri 700 metri circa fino a raggiungere il checkpoint israeliano 300. C’erano truppe militari pronte a sparare ed a scontrarsi con i cristiani che stavano celebrando la festività. Abbiamo deciso allora di ritornare, l’asino e il cavallo erano tra di noi. Una volta arrivati alla porta della Moschea di Bilal al-Rabah, l’abbiamo oltrepassata insieme, mentre soldati israeliani di occupazione non ci perdevano di vista con le video camere. Questi hanno chiuso la porta e cercato di impedire a me e ad alcuni altri di entrare nella città di Betlemme. Ci siamo trovati tra le alte pareti del muro e le porte chiuse e proprio qui i soldati israeliani hanno arrestato l’asino e il cavallo, oltre a me ed altri 10 cristiani e stranieri”.
“Con la forza hanno fatto accovacciare l’asino e il cavallo, poi hanno ammanettate le loro gambe e li hanno infilati in un veicolo militare. La scena era rivoltante, specialmente quando hanno legate le quattro gambe di questi animali e li hanno trasportati in prigione con l’imputazione di essere entrati in una zona militare”.
Cinque giorni più tardi, Zaki ed i suoi amici sono stati rilasciati dalla prigione israeliana, nella prigione di Ofer un giudice militare israeliano li ha ritenuti non colpevoli. Ma l’asino e il cavallo rimangono ancora in carcere. Nessuno sa se l’asino e il cavallo saranno condannati da un giudice militare, o se le forze armate li porterà di fronte al giudice, in tribunale, perché ascoltino il loro processo.
di Kawther Salam
Storie di pratiche aberranti come queste non succedono in alcuna parte del mondo, ma solo in Israele, dove sionisti dalla mente malata gestiscono il governo in modo sovrano. Quest’ultima storia non è il prodotto dell’immaginazione dello scrittore, o raccontata da una persona comune o da qualcuno che risulta accusato di mentire o di diffamare, ma è stata vista e confermata da quindici attivisti per la pace e da cristiani credenti, fra i quali 10 uomini, 5 donne, 3 israeliani , una donna francese ed un’altra della Gran Bretagna. La persona che ha riportato questa storia è Abbas Zaki, un membro del Comitato Centrale di Fatah, che ha oltre sessant’anni di età.
La data del crimine è quella dello scorso 28 marzo 2010, al ritorno dalle celebrazioni cristiane della Domenica delle Palme. Il racconto riguarda l’arresto di un asino e di un cavallo effettuati dai soldati israeliani nella Bethlehem occupata, nella West Bank occupata. L’asino e il cavallo fanno parte della tradizione narrativa cristiana e questo è il motivo per cui sono stati arrestati.
Secondo la Bibbia cristiana, il Profeta Gesù, sia Pace e Misericordia su di lui, cavalcò sul dorso di un asino quando di recò dalla Chiesa della Natività di Betlemme alla Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Questo avvenne una domenica, tre giorni prima della sua crocifissione.
Domenica 28 marzo 2010, durante la Domenica delle Palme, un palestinese cristiano era sul dorso di un asino e un’altro su quello di un cavallo. Centinaia di cristiani che festeggiavano la ricorrenza erano partiti dalla Chiesa della Natività ed avevano percorso a piedi la città fino ad arrivare alla Moschea di Bilal bin Rabah, della quale si era impadronita l’occupazione israeliana. Gli israeliani avevano confiscato alla città santa di Betlemme anche la sua area circostante e l’avevano aggiunta alla proprietà dell’esercito e della città occupata di Gerusalemme. Vi avevano costruito attorno delle alte mura e delle torri di osservazione dell’esercito, il tutto per impedire il libero passaggio in entrata ed in uscita da Betlemme e dal campo profughi di Aida. Essi hanno separato e paralizzato la vita sociale dei cristiani che vivono in Betlemme da quella dei cristiani che stanno al di fuori e successivamente anche quella della moschea che avevano requisito.
Abbas Zaki, che quella domenica aveva preso parte alla festività cristiana della Domenica delle Palme, ha raccontato: “Quando siamo arrivati alla Moschea di Bilal al-Rabah, la porta di metallo israeliana in mezzo alla strada dalla parte di Betlemme era aperta e noi tutti l’abbiamo attraversata. Abbiamo camminato per altri 700 metri circa fino a raggiungere il checkpoint israeliano 300. C’erano truppe militari pronte a sparare ed a scontrarsi con i cristiani che stavano celebrando la festività. Abbiamo deciso allora di ritornare, l’asino e il cavallo erano tra di noi. Una volta arrivati alla porta della Moschea di Bilal al-Rabah, l’abbiamo oltrepassata insieme, mentre soldati israeliani di occupazione non ci perdevano di vista con le video camere. Questi hanno chiuso la porta e cercato di impedire a me e ad alcuni altri di entrare nella città di Betlemme. Ci siamo trovati tra le alte pareti del muro e le porte chiuse e proprio qui i soldati israeliani hanno arrestato l’asino e il cavallo, oltre a me ed altri 10 cristiani e stranieri”.
“Con la forza hanno fatto accovacciare l’asino e il cavallo, poi hanno ammanettate le loro gambe e li hanno infilati in un veicolo militare. La scena era rivoltante, specialmente quando hanno legate le quattro gambe di questi animali e li hanno trasportati in prigione con l’imputazione di essere entrati in una zona militare”.
Cinque giorni più tardi, Zaki ed i suoi amici sono stati rilasciati dalla prigione israeliana, nella prigione di Ofer un giudice militare israeliano li ha ritenuti non colpevoli. Ma l’asino e il cavallo rimangono ancora in carcere. Nessuno sa se l’asino e il cavallo saranno condannati da un giudice militare, o se le forze armate li porterà di fronte al giudice, in tribunale, perché ascoltino il loro processo.
Un altro colpo di pulizia etnica
* Israele: un altro colpo di pulizia etnica
Svuotarla dei palestinesi
Reema ha paura, parla con un filo di voce. «Sono palestinese, nata a Ramallah - racconta dopo averci chiesto di non rivelare la sua completa identità - ma ho vissuto con i miei genitori per molti anni negli Stati uniti e gli israeliani hanno annullato la mia residenza in Cisgiordania. Dopo il matrimonio, sette anni fa, sono tornata in Palestina e tutti i tentativi che ho fatto per recuperare la residenza non sono serviti». Per tre anni Reema, forte del suo passaporto americano, lasciava ogni tre mesi la Cisgiordania per rinnovare il visto turistico. «Poi - prosegue la donna - quando è nato il mio primo figlio ho rinunciato a queste partenze periodiche e da quattro anni sono illegale per la legge militare israeliana». Reema è palestinese, vive nella sua terra, nella città dove è nata. Eppure per gli occupanti è una «inflitrata» in Cisgiordania e da quando, due giorni fa, è entrata in vigore la versione aggiornata di un provvedimento militare del 1969 per la lotta ai «clandestini», Reema corre il rischio concreto di finire in manette, separata dal marito e dai figli, e deportata nel giro di 72 ore o di essere incarcerata. Come Reema tremano decine di migliaia di palestinesi che vivono in Cisgiordania senza aver mai ottenuto il riconoscimento israeliano. Uomini e donne di Gaza e di Gerusalemme Est, in non pochi casi sono nati e cresciuti all'estero e rientrati nella loro terra da adulti, il più delle volte dopo il matrimonio.
Il provvedimento militare ha provocato forti reazioni tra i palestinesi e nei paesi arabi. Dura la protesta dei centri per i diritti umani, anche israeliani. «Questi nuovi ordini di fatto sono un via libera all'arresto ed espulsione di migliaia di palestinesi», spiega Sara Bashi, del Centro di assistenza legale «Gisha», «sono parte di una serie di passi volti a svuotare la Cisgiordania dei palestinesi. Decine di migliaia di persone innocenti rischiano il carcere e lo stravolgimento totale della loro vita nonostante siano nella loro terra».
Sono passati 43 anni dall'inizio dell'occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est ma Israele continua a gestire il registro della popolazione civile palestinese, riservandosi il diritto di stabilire i criteri per la residenza nei Territori occupati. Il premier dell'Anp Salam Fayyad si affanna in queste ore a protestare ma quest'ultima mossa israeliana mette a nudo ancora una volta il fallimento del «governo autonomo palestinese» nato 16 anni fa, dopo gli accordi di Oslo. Ancora oggi il ministero dell'interno palestinese per emettere una carta d'identità deve ottenere l'autorizzazione delle autorità israeliane.
Nael è nato e cresciuto a Khan Yunis (Gaza). «A Ramallah sono arrivato nel 1996 - racconta - a quel tempo lavoravo per il ministero del lavoro ma da qualche anno ho una attività commerciale privata. Non ho la residenza e temo di essere riportato con la forza a Gaza e di non rivedere più moglie e figli». In pericolo sono anche i cittadini stranieri, sposati con palestinesi e privi di carta d'identità. Gli studenti originari di Gaza potrebbero seguire la sorte toccata nei mesi scorsi alla loro collega Berlanty Azzam, fermata ad un posto di blocco tra Ramallah e Betlemme e riportata nel giro di poche ore nella Striscia. I giudici israeliani non le hanno neppure riconosciuto il diritto di completare il corso di studi all'Università Cattolica di Betlemme.
Tel Aviv difende la sua politica. Mark Regev, portavoce del governo Netanyahu, nega che il provvedimento sia volto ad espellere palestinesi. «Al contrario - afferma - i giudici garantiranno i diritti legali di coloro che verranno trovati con i documenti non in regola. E in ogni caso le deportazioni non verranno eseguite prima di 72 ore, in modo da garantire la presentazione del ricorso». Le sue parole ieri sono state smentite categoricamente da HaMoked, il Centro per i diritti dell'individuo. «Gli ultimi ordini militari sono ambigui e, in realtà, prevedono la deportazione di una persona senza alcuna revisione da parte dei giudici - ha scritto HaMoked in un comunicato -, se da un lato un comandante militare deve riferire entro otto giorni ai giudici il provvedimento di deportazione, dall'altro le nuove disposizioni gli danno la possibilità di eseguire l'espulsione entro 72 ore, anche perché la persona arrestata non ha la possibilità di presentare ricorso su sua iniziativa». I nuovi provvedimenti, naturalmente, non si applicano nei confronti dei 450mila coloni israeliani che, risoluzioni internazionali alla mano, risiedono illegamente in Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Michele Giorgio
Svuotarla dei palestinesi
Reema ha paura, parla con un filo di voce. «Sono palestinese, nata a Ramallah - racconta dopo averci chiesto di non rivelare la sua completa identità - ma ho vissuto con i miei genitori per molti anni negli Stati uniti e gli israeliani hanno annullato la mia residenza in Cisgiordania. Dopo il matrimonio, sette anni fa, sono tornata in Palestina e tutti i tentativi che ho fatto per recuperare la residenza non sono serviti». Per tre anni Reema, forte del suo passaporto americano, lasciava ogni tre mesi la Cisgiordania per rinnovare il visto turistico. «Poi - prosegue la donna - quando è nato il mio primo figlio ho rinunciato a queste partenze periodiche e da quattro anni sono illegale per la legge militare israeliana». Reema è palestinese, vive nella sua terra, nella città dove è nata. Eppure per gli occupanti è una «inflitrata» in Cisgiordania e da quando, due giorni fa, è entrata in vigore la versione aggiornata di un provvedimento militare del 1969 per la lotta ai «clandestini», Reema corre il rischio concreto di finire in manette, separata dal marito e dai figli, e deportata nel giro di 72 ore o di essere incarcerata. Come Reema tremano decine di migliaia di palestinesi che vivono in Cisgiordania senza aver mai ottenuto il riconoscimento israeliano. Uomini e donne di Gaza e di Gerusalemme Est, in non pochi casi sono nati e cresciuti all'estero e rientrati nella loro terra da adulti, il più delle volte dopo il matrimonio.
Il provvedimento militare ha provocato forti reazioni tra i palestinesi e nei paesi arabi. Dura la protesta dei centri per i diritti umani, anche israeliani. «Questi nuovi ordini di fatto sono un via libera all'arresto ed espulsione di migliaia di palestinesi», spiega Sara Bashi, del Centro di assistenza legale «Gisha», «sono parte di una serie di passi volti a svuotare la Cisgiordania dei palestinesi. Decine di migliaia di persone innocenti rischiano il carcere e lo stravolgimento totale della loro vita nonostante siano nella loro terra».
Sono passati 43 anni dall'inizio dell'occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est ma Israele continua a gestire il registro della popolazione civile palestinese, riservandosi il diritto di stabilire i criteri per la residenza nei Territori occupati. Il premier dell'Anp Salam Fayyad si affanna in queste ore a protestare ma quest'ultima mossa israeliana mette a nudo ancora una volta il fallimento del «governo autonomo palestinese» nato 16 anni fa, dopo gli accordi di Oslo. Ancora oggi il ministero dell'interno palestinese per emettere una carta d'identità deve ottenere l'autorizzazione delle autorità israeliane.
Nael è nato e cresciuto a Khan Yunis (Gaza). «A Ramallah sono arrivato nel 1996 - racconta - a quel tempo lavoravo per il ministero del lavoro ma da qualche anno ho una attività commerciale privata. Non ho la residenza e temo di essere riportato con la forza a Gaza e di non rivedere più moglie e figli». In pericolo sono anche i cittadini stranieri, sposati con palestinesi e privi di carta d'identità. Gli studenti originari di Gaza potrebbero seguire la sorte toccata nei mesi scorsi alla loro collega Berlanty Azzam, fermata ad un posto di blocco tra Ramallah e Betlemme e riportata nel giro di poche ore nella Striscia. I giudici israeliani non le hanno neppure riconosciuto il diritto di completare il corso di studi all'Università Cattolica di Betlemme.
Tel Aviv difende la sua politica. Mark Regev, portavoce del governo Netanyahu, nega che il provvedimento sia volto ad espellere palestinesi. «Al contrario - afferma - i giudici garantiranno i diritti legali di coloro che verranno trovati con i documenti non in regola. E in ogni caso le deportazioni non verranno eseguite prima di 72 ore, in modo da garantire la presentazione del ricorso». Le sue parole ieri sono state smentite categoricamente da HaMoked, il Centro per i diritti dell'individuo. «Gli ultimi ordini militari sono ambigui e, in realtà, prevedono la deportazione di una persona senza alcuna revisione da parte dei giudici - ha scritto HaMoked in un comunicato -, se da un lato un comandante militare deve riferire entro otto giorni ai giudici il provvedimento di deportazione, dall'altro le nuove disposizioni gli danno la possibilità di eseguire l'espulsione entro 72 ore, anche perché la persona arrestata non ha la possibilità di presentare ricorso su sua iniziativa». I nuovi provvedimenti, naturalmente, non si applicano nei confronti dei 450mila coloni israeliani che, risoluzioni internazionali alla mano, risiedono illegamente in Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Michele Giorgio
Un altro colpo di pulizia etnica
* Israele: un altro colpo di pulizia etnica
Svuotarla dei palestinesi
Reema ha paura, parla con un filo di voce. «Sono palestinese, nata a Ramallah - racconta dopo averci chiesto di non rivelare la sua completa identità - ma ho vissuto con i miei genitori per molti anni negli Stati uniti e gli israeliani hanno annullato la mia residenza in Cisgiordania. Dopo il matrimonio, sette anni fa, sono tornata in Palestina e tutti i tentativi che ho fatto per recuperare la residenza non sono serviti». Per tre anni Reema, forte del suo passaporto americano, lasciava ogni tre mesi la Cisgiordania per rinnovare il visto turistico. «Poi - prosegue la donna - quando è nato il mio primo figlio ho rinunciato a queste partenze periodiche e da quattro anni sono illegale per la legge militare israeliana». Reema è palestinese, vive nella sua terra, nella città dove è nata. Eppure per gli occupanti è una «inflitrata» in Cisgiordania e da quando, due giorni fa, è entrata in vigore la versione aggiornata di un provvedimento militare del 1969 per la lotta ai «clandestini», Reema corre il rischio concreto di finire in manette, separata dal marito e dai figli, e deportata nel giro di 72 ore o di essere incarcerata. Come Reema tremano decine di migliaia di palestinesi che vivono in Cisgiordania senza aver mai ottenuto il riconoscimento israeliano. Uomini e donne di Gaza e di Gerusalemme Est, in non pochi casi sono nati e cresciuti all'estero e rientrati nella loro terra da adulti, il più delle volte dopo il matrimonio.
Il provvedimento militare ha provocato forti reazioni tra i palestinesi e nei paesi arabi. Dura la protesta dei centri per i diritti umani, anche israeliani. «Questi nuovi ordini di fatto sono un via libera all'arresto ed espulsione di migliaia di palestinesi», spiega Sara Bashi, del Centro di assistenza legale «Gisha», «sono parte di una serie di passi volti a svuotare la Cisgiordania dei palestinesi. Decine di migliaia di persone innocenti rischiano il carcere e lo stravolgimento totale della loro vita nonostante siano nella loro terra».
Sono passati 43 anni dall'inizio dell'occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est ma Israele continua a gestire il registro della popolazione civile palestinese, riservandosi il diritto di stabilire i criteri per la residenza nei Territori occupati. Il premier dell'Anp Salam Fayyad si affanna in queste ore a protestare ma quest'ultima mossa israeliana mette a nudo ancora una volta il fallimento del «governo autonomo palestinese» nato 16 anni fa, dopo gli accordi di Oslo. Ancora oggi il ministero dell'interno palestinese per emettere una carta d'identità deve ottenere l'autorizzazione delle autorità israeliane.
Nael è nato e cresciuto a Khan Yunis (Gaza). «A Ramallah sono arrivato nel 1996 - racconta - a quel tempo lavoravo per il ministero del lavoro ma da qualche anno ho una attività commerciale privata. Non ho la residenza e temo di essere riportato con la forza a Gaza e di non rivedere più moglie e figli». In pericolo sono anche i cittadini stranieri, sposati con palestinesi e privi di carta d'identità. Gli studenti originari di Gaza potrebbero seguire la sorte toccata nei mesi scorsi alla loro collega Berlanty Azzam, fermata ad un posto di blocco tra Ramallah e Betlemme e riportata nel giro di poche ore nella Striscia. I giudici israeliani non le hanno neppure riconosciuto il diritto di completare il corso di studi all'Università Cattolica di Betlemme.
Tel Aviv difende la sua politica. Mark Regev, portavoce del governo Netanyahu, nega che il provvedimento sia volto ad espellere palestinesi. «Al contrario - afferma - i giudici garantiranno i diritti legali di coloro che verranno trovati con i documenti non in regola. E in ogni caso le deportazioni non verranno eseguite prima di 72 ore, in modo da garantire la presentazione del ricorso». Le sue parole ieri sono state smentite categoricamente da HaMoked, il Centro per i diritti dell'individuo. «Gli ultimi ordini militari sono ambigui e, in realtà, prevedono la deportazione di una persona senza alcuna revisione da parte dei giudici - ha scritto HaMoked in un comunicato -, se da un lato un comandante militare deve riferire entro otto giorni ai giudici il provvedimento di deportazione, dall'altro le nuove disposizioni gli danno la possibilità di eseguire l'espulsione entro 72 ore, anche perché la persona arrestata non ha la possibilità di presentare ricorso su sua iniziativa». I nuovi provvedimenti, naturalmente, non si applicano nei confronti dei 450mila coloni israeliani che, risoluzioni internazionali alla mano, risiedono illegamente in Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Svuotarla dei palestinesi
Reema ha paura, parla con un filo di voce. «Sono palestinese, nata a Ramallah - racconta dopo averci chiesto di non rivelare la sua completa identità - ma ho vissuto con i miei genitori per molti anni negli Stati uniti e gli israeliani hanno annullato la mia residenza in Cisgiordania. Dopo il matrimonio, sette anni fa, sono tornata in Palestina e tutti i tentativi che ho fatto per recuperare la residenza non sono serviti». Per tre anni Reema, forte del suo passaporto americano, lasciava ogni tre mesi la Cisgiordania per rinnovare il visto turistico. «Poi - prosegue la donna - quando è nato il mio primo figlio ho rinunciato a queste partenze periodiche e da quattro anni sono illegale per la legge militare israeliana». Reema è palestinese, vive nella sua terra, nella città dove è nata. Eppure per gli occupanti è una «inflitrata» in Cisgiordania e da quando, due giorni fa, è entrata in vigore la versione aggiornata di un provvedimento militare del 1969 per la lotta ai «clandestini», Reema corre il rischio concreto di finire in manette, separata dal marito e dai figli, e deportata nel giro di 72 ore o di essere incarcerata. Come Reema tremano decine di migliaia di palestinesi che vivono in Cisgiordania senza aver mai ottenuto il riconoscimento israeliano. Uomini e donne di Gaza e di Gerusalemme Est, in non pochi casi sono nati e cresciuti all'estero e rientrati nella loro terra da adulti, il più delle volte dopo il matrimonio.
Il provvedimento militare ha provocato forti reazioni tra i palestinesi e nei paesi arabi. Dura la protesta dei centri per i diritti umani, anche israeliani. «Questi nuovi ordini di fatto sono un via libera all'arresto ed espulsione di migliaia di palestinesi», spiega Sara Bashi, del Centro di assistenza legale «Gisha», «sono parte di una serie di passi volti a svuotare la Cisgiordania dei palestinesi. Decine di migliaia di persone innocenti rischiano il carcere e lo stravolgimento totale della loro vita nonostante siano nella loro terra».
Sono passati 43 anni dall'inizio dell'occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est ma Israele continua a gestire il registro della popolazione civile palestinese, riservandosi il diritto di stabilire i criteri per la residenza nei Territori occupati. Il premier dell'Anp Salam Fayyad si affanna in queste ore a protestare ma quest'ultima mossa israeliana mette a nudo ancora una volta il fallimento del «governo autonomo palestinese» nato 16 anni fa, dopo gli accordi di Oslo. Ancora oggi il ministero dell'interno palestinese per emettere una carta d'identità deve ottenere l'autorizzazione delle autorità israeliane.
Nael è nato e cresciuto a Khan Yunis (Gaza). «A Ramallah sono arrivato nel 1996 - racconta - a quel tempo lavoravo per il ministero del lavoro ma da qualche anno ho una attività commerciale privata. Non ho la residenza e temo di essere riportato con la forza a Gaza e di non rivedere più moglie e figli». In pericolo sono anche i cittadini stranieri, sposati con palestinesi e privi di carta d'identità. Gli studenti originari di Gaza potrebbero seguire la sorte toccata nei mesi scorsi alla loro collega Berlanty Azzam, fermata ad un posto di blocco tra Ramallah e Betlemme e riportata nel giro di poche ore nella Striscia. I giudici israeliani non le hanno neppure riconosciuto il diritto di completare il corso di studi all'Università Cattolica di Betlemme.
Tel Aviv difende la sua politica. Mark Regev, portavoce del governo Netanyahu, nega che il provvedimento sia volto ad espellere palestinesi. «Al contrario - afferma - i giudici garantiranno i diritti legali di coloro che verranno trovati con i documenti non in regola. E in ogni caso le deportazioni non verranno eseguite prima di 72 ore, in modo da garantire la presentazione del ricorso». Le sue parole ieri sono state smentite categoricamente da HaMoked, il Centro per i diritti dell'individuo. «Gli ultimi ordini militari sono ambigui e, in realtà, prevedono la deportazione di una persona senza alcuna revisione da parte dei giudici - ha scritto HaMoked in un comunicato -, se da un lato un comandante militare deve riferire entro otto giorni ai giudici il provvedimento di deportazione, dall'altro le nuove disposizioni gli danno la possibilità di eseguire l'espulsione entro 72 ore, anche perché la persona arrestata non ha la possibilità di presentare ricorso su sua iniziativa». I nuovi provvedimenti, naturalmente, non si applicano nei confronti dei 450mila coloni israeliani che, risoluzioni internazionali alla mano, risiedono illegamente in Cisgiordania e Gerusalemme Est.
giovedì 15 aprile 2010
COMUNICATO STAMPA HA MOKED
HaMoked: Il Centro per la Difesa della Persona ed altre nove organizzazioni per i Diritti Umani hanno fatto urgentemente ricorso questa mattina al ministro della difesa: perché differisca l’entrata in vigore dei due ordini militari che trasformeranno tutti i residenti della West Bank in criminali che potrebbero essere incarcerati fino a sette anni o deportati dall’area.
UN NUOVO ORDINE MILITARE DEFINISCE TUTTI GLI ABITANTI DELLA WEST BANK
COME “INFILTRATI” CHE POSSONO ESSERE INCARCERATI E DEPORTATI
Il nuovo ordine: una richiesta israeliana che tutti i residenti della West Bank, compresi coloro che vi sono nati e vivono sotto l’Autorità Palestinese, ottengano un permesso rilasciato da Israele.
Martedì, 13 aprile 2010, l’Ordine riguardante la Prevenzione dell’Infiltrazione (Emendamento No.2) e l’Ordine riguardante le Disposizioni di Sicurezza (Emendamento No.112) devono entrare in vigore. Gli ordini firmati dal precedente Comando Centrale del GOC (Ground Operations Coordinator), Gadi Shamni, ma non resi noti, sono elaborati in termini così generali da rendere possibile, in teoria, ai militari di svuotare la West Bank di quasi tutti i suoi abitanti. Malgrado le gravi conseguenze degli ordini, le autorità non ne avevano annunciato l’esistenza alla popolazione palestinese come sarebbe stato richiesto, la qual cosa solleva serie preoccupazioni che essi avessero intenzione di farla approvare segretamente senz’alcun dibattito pubblico o revisione giuridica.
Gli ordini sostanzialmente cambiano la definizione di “infiltrato” e la applicano in effetti a tutti coloro che sono presenti nella West Bank senza un permesso israeliano. Gli ordini non stabiliscono che cosa Israele ritiene essere un valido permesso. Alla stragrande maggioranza delle persone che vivono attualmente nella West Bank non è mai stato richiesto di essere in possesso di alcun tipo di permesso per esservi presente.
Le forze armate saranno in grado di perseguire e di deportare qualsiasi palestinese definito come infiltrato, in totale contraddizione con la Convenzione di Ginevra. C’è una possibilità che ad alcuni degli espulsi non verrà data l’opportunità di un’udienza prima di essere rimossi dalla West Bank in quanto, secondo gli ordini, la deportazione potrebbe essere messa in atto entro le 72 ore, dal momento che sarebbe possibile differire la citazione di una persona davanti alla commissione d’appello per una durata fino a otto giorni dall’emissione dell’ordine di deportazione.
Nelle loro lettere al ministro della difesa, le organizzazioni hanno dichiarato di aspettarsi che, sulla base dell’attuale politica di Israele, gli ordini saranno applicati inizialmente nei confronti di quei residenti palestinesi della West Bank che Israele brama trasferire nella Striscia di Gaza, nonostante il fatto che molti di loro erano nati nella West Bank o erano traslocati legittimamente in essa. Inoltre, si prevede che Israele utilizzi gli ordini per deportare all’estero coniugi con passaporto straniero di abitanti della West Bank. Questa categoria comprende decine di migliaia di persone. Tuttavia, la definizione di “infiltrato” che espone una persona al rischio della prigione per una durata dai 3 ai 7 anni, potrebbe essere applicata, in linea di principio, nei confronti di qualsiasi persona sia vista male dal comandante militare, compresi i cittadini israeliani e gli internazionali che sono presenti nella West Bank.
Le organizzazioni hanno richiesto al ministro della difesa che l’entrata in vigore degli ordini venga differita in attesa di un dibattito serio ed esauriente al riguardo e hanno annunciato che essi si batteranno con ogni mezzo contro quella legislazione draconiana.
Per maggiori informazioni: Att.Elad Cahana, HaMoked: 0545-800819
Le organizzazioni firmatarie: HaMoked (Centro per la Difesa della Persona), l’Associazione per i Diritti Civili in Israele, Bimkom, B’Tselem, Gisha, il Comitato Pubblico Contro la Tortura in Israele, Yesh Din, Adalah, Rabbini per i Diritti Umani, Medici per i Diritti Umani.
(tradotto da mariano mingarelli)
UN NUOVO ORDINE MILITARE DEFINISCE TUTTI GLI ABITANTI DELLA WEST BANK
COME “INFILTRATI” CHE POSSONO ESSERE INCARCERATI E DEPORTATI
Il nuovo ordine: una richiesta israeliana che tutti i residenti della West Bank, compresi coloro che vi sono nati e vivono sotto l’Autorità Palestinese, ottengano un permesso rilasciato da Israele.
Martedì, 13 aprile 2010, l’Ordine riguardante la Prevenzione dell’Infiltrazione (Emendamento No.2) e l’Ordine riguardante le Disposizioni di Sicurezza (Emendamento No.112) devono entrare in vigore. Gli ordini firmati dal precedente Comando Centrale del GOC (Ground Operations Coordinator), Gadi Shamni, ma non resi noti, sono elaborati in termini così generali da rendere possibile, in teoria, ai militari di svuotare la West Bank di quasi tutti i suoi abitanti. Malgrado le gravi conseguenze degli ordini, le autorità non ne avevano annunciato l’esistenza alla popolazione palestinese come sarebbe stato richiesto, la qual cosa solleva serie preoccupazioni che essi avessero intenzione di farla approvare segretamente senz’alcun dibattito pubblico o revisione giuridica.
Gli ordini sostanzialmente cambiano la definizione di “infiltrato” e la applicano in effetti a tutti coloro che sono presenti nella West Bank senza un permesso israeliano. Gli ordini non stabiliscono che cosa Israele ritiene essere un valido permesso. Alla stragrande maggioranza delle persone che vivono attualmente nella West Bank non è mai stato richiesto di essere in possesso di alcun tipo di permesso per esservi presente.
Le forze armate saranno in grado di perseguire e di deportare qualsiasi palestinese definito come infiltrato, in totale contraddizione con la Convenzione di Ginevra. C’è una possibilità che ad alcuni degli espulsi non verrà data l’opportunità di un’udienza prima di essere rimossi dalla West Bank in quanto, secondo gli ordini, la deportazione potrebbe essere messa in atto entro le 72 ore, dal momento che sarebbe possibile differire la citazione di una persona davanti alla commissione d’appello per una durata fino a otto giorni dall’emissione dell’ordine di deportazione.
Nelle loro lettere al ministro della difesa, le organizzazioni hanno dichiarato di aspettarsi che, sulla base dell’attuale politica di Israele, gli ordini saranno applicati inizialmente nei confronti di quei residenti palestinesi della West Bank che Israele brama trasferire nella Striscia di Gaza, nonostante il fatto che molti di loro erano nati nella West Bank o erano traslocati legittimamente in essa. Inoltre, si prevede che Israele utilizzi gli ordini per deportare all’estero coniugi con passaporto straniero di abitanti della West Bank. Questa categoria comprende decine di migliaia di persone. Tuttavia, la definizione di “infiltrato” che espone una persona al rischio della prigione per una durata dai 3 ai 7 anni, potrebbe essere applicata, in linea di principio, nei confronti di qualsiasi persona sia vista male dal comandante militare, compresi i cittadini israeliani e gli internazionali che sono presenti nella West Bank.
Le organizzazioni hanno richiesto al ministro della difesa che l’entrata in vigore degli ordini venga differita in attesa di un dibattito serio ed esauriente al riguardo e hanno annunciato che essi si batteranno con ogni mezzo contro quella legislazione draconiana.
Per maggiori informazioni: Att.Elad Cahana, HaMoked: 0545-800819
Le organizzazioni firmatarie: HaMoked (Centro per la Difesa della Persona), l’Associazione per i Diritti Civili in Israele, Bimkom, B’Tselem, Gisha, il Comitato Pubblico Contro la Tortura in Israele, Yesh Din, Adalah, Rabbini per i Diritti Umani, Medici per i Diritti Umani.
(tradotto da mariano mingarelli)
INFILTRATI DAPPERTUTTO
* di Michele Giorgio - INVIATO AD AMMAN (GIORDANIA)
reportage
Profughi SEMPRE
Tempi duri per i palestinesi anche in Giordania. Il regno hascemita ha iniziato a revocare la cittadinanza a migliaia di famiglie che dopo una vita di esilio si erano illuse di essere scampate alla catastrofe
«Profughi per sempre, lontani dalla nostra terra e privi di diritti negli altri paesi». Seduto in un caffè di Amman, Ali Abu Gharbie scuote la testa commentando le notizie che arrivano dai Territori occupati. «È terribile, ogni giorno se ne sente una nuova e anche qui in Giordania le cose si mettono davvero male», dice Ali abbassando solo per un momento lo sguardo. Poi torna a sorridere.
Giovane, disinvolto, padre orgoglioso di una bella bimba, amministratore della sede giordana dell'Ong «Medecins du monde», Ali è nato a Sidone ma vive ad Amman da quando aveva pochi mesi. La mamma, palestinese, cresciuta nel campo profughi di Mieh Mieh, lo portò via dal Libano con le sorelle nel 1982 mentre i carri armati israeliani avanzavano verso Beirut. «Mio padre, originario di Khalil (Hebron), era un combattente dell'Olp, a mia madre disse di partire subito per la Giordania mentre lui sarebbe rimasto con i suoi compagni a proteggere i campi», racconta Ali la storia della sua famiglia simile a quelle fatte di distruzione, fughe, esilio e morte di altre decine di migliaia di famiglie palestinesi. «Mio padre poi finì in Yemen - aggiunge - mentre noi ci stabilimmo qui ad Amman grazie a mia madre che aveva la cittadinanza giordana. E in questo paese abbiamo costruito tutta la nostra vita». Due mesi fa Ali ha scoperto che aver vissuto per 28 anni in Giordania non conta nulla per le autorità del regno hashemita che intendono revocargli la cittadinanza concessa tanti anni fa senza problema. «Prima i funzionari di un dipartimento speciale del ministero dell'interno e poi l'intelligence hanno convocato mio padre e gli hanno detto che non ha più diritto ad essere cittadino di questo paese perché è in possesso di un documento di identità dell'Autorità nazionale palestinese. E se a lui ritireranno il passaporto giordano automaticamente lo perderò anche io».
Senza più il «codice nazionale» che identifica tutti i cittadini giordani, la vita di Ali entrerà in un tunnel. «Non avrò più diritto alla sanità pubblica, non potrò avere un conto bancario e una attività economica a mio nome e allo stesso tempo non potrò aspirare ad essere un dipendente statale. Quello che più mi preoccupa è il destino di mia figlia che perderà la possibilità di accedere a servizi essenziali», spiega il giovane palestinese. Il fatto che la moglie sia giordana non ha valore perché nel regno hashemita della bella Regina Rania - una palestinese nata in Kuwait - che tanto incanta l'Occidente ed è intervenuta anche al Festival di Sanremo, le donne hanno ben pochi diritti e non possono trasmettere la cittadinanza al marito e ai figli.
I dati ufficiali di questa nuova catastrofe palestinese non sono disponibili. Tuttavia Human Rights Watch riferisce che sino ad oggi circa 3mila giordani di origine palestinese (e i loro familiari) si sono visti revocare la cittadinanza. Fonti ufficiose però aggiungono che le autorità hanno aperto i file di 250mila palestinesi, in linea con la decisione di «disimpegno» dalla Cisgiordania presa nel lontano 1988, all'inizio della prima Intifada palestinese, dallo scomparso re Hussein. «I funzionari del governo giordano negano a intere famiglie di poter vivere una vita normale e sicura, come quella goduta dalla maggioranza dei cittadini e considerata una cosa scontata. Oggi sei un giordano e domani sei espropriato da tutti i tuoi diritti», ha denunciato Sarah Leah Whitson, responsabile di Hrw in Medio Oriente. Le autorità hashemite negano tutto, smentiscono l'esistenza di un simile piano, ma alla base del loro atteggiamento ci sarebbero la questione demografica - i palestinesi sono più della metà dei 6,3 milioni di abitanti e questo dato da tempo turba i giordani doc - e le preoccupazioni generate da certe «soluzioni» proposte da esponenti dell'establishment politico israeliano. L'«opzione giordana», ossia la Giordania e non i Territori occupati come futuro Stato per i palestinesi, fu avanzata più volte durante gli anni '80, specie dall'ex premier israeliano Ariel Sharon. Ma ora, dopo il fallimento totale degli accordi di Oslo e la seconda Intifada, viene riproposta non solo da deputati di estrema destra, come Aryeh Eldad, ma anche da un importante ex generale come Giora Eiland, molto vicino al governo in carica. Non sorprendono perciò le «spiegazioni» chieste da Amman domenica scorsa non appena è cominciata a girare la notizia che l'esercito israeliano procederà all'espulsione dalla Cisgiordania di migliaia di «infiltrati» palestinesi.
Questo clima di incertezza inevitabilmente accellera la politica di revoca della cittadinanza ai palestinesi. Non solo, ma rischia di inasprire ulteriormente anche le procedure per il riconoscimento del semplice status di residente ai palestinesi coniugati a cittadini giordani, che pure è garantito dalla legge. E come spesso accade le più colpite sono le donne, specie quelle di Gaza. La vicenda del blogger giordano Khaled Doud ha fatto notizia. L'uomo finora ha dovuto rinunciare al matrimonio perché la sua fidanzata è originaria di Gaza. «Da quando abbiamo presentato i documenti per sposarci la nostra vita è diventata un inferno - dice Doud - sono stato convocato ripetutamente dai servizi di sicurezza e dopo aver risposto ad un elenco infinito di domande, mi hanno detto che dovrò ottenere l'autorizzazione dell'intelligence che, peraltro, non mi è stata garantita in alcun modo». La 45enne Zahra, che preferisce non rivelare il cognome, invece si è vista comunicare in aeroporto, al ritorno da un viaggio con i figli negli Usa, che suo padre e quindi anche lei e i suoi fratelli, non sono più cittadini giordani. «È accaduto anche ad altri palestinesi che conosco», riferisce la donna.
I palestinesi giordani vorrebbero protestare, reclamare ad alta voce la fratellanza e l'aiuto del mondo arabo di fronte all'occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Quasi tutti invece preferiscono non fare rumore e sperano che la linea del governo cambi o almeno venga congelata. Nel frattempo cercano il funzionario corrotto di turno che, in cambio di forti somme di denaro, si dice disposto «ad aggiustare le cose». A casa dei genitori di Ali c'è un signore sulla cinquantina, che, vantando parentele con «pezzi grossi» del ministero dell'interno e dopo aver fumato una dozzina di sigarette, assicura che gli Abu Gharbieh conserveranno la cittadinanza. «Quest'uomo ci prende in giro, ingigantisce i suoi poteri reali solo per spillarci soldi - dice Ali - ma non fa nulla, sono stanco, non mi importa cosa decideranno i giordani, possono anche sbattermi fuori. Mi basta essere un palestinese, rimarrò per sempre un palestinese».
reportage
Profughi SEMPRE
Tempi duri per i palestinesi anche in Giordania. Il regno hascemita ha iniziato a revocare la cittadinanza a migliaia di famiglie che dopo una vita di esilio si erano illuse di essere scampate alla catastrofe
«Profughi per sempre, lontani dalla nostra terra e privi di diritti negli altri paesi». Seduto in un caffè di Amman, Ali Abu Gharbie scuote la testa commentando le notizie che arrivano dai Territori occupati. «È terribile, ogni giorno se ne sente una nuova e anche qui in Giordania le cose si mettono davvero male», dice Ali abbassando solo per un momento lo sguardo. Poi torna a sorridere.
Giovane, disinvolto, padre orgoglioso di una bella bimba, amministratore della sede giordana dell'Ong «Medecins du monde», Ali è nato a Sidone ma vive ad Amman da quando aveva pochi mesi. La mamma, palestinese, cresciuta nel campo profughi di Mieh Mieh, lo portò via dal Libano con le sorelle nel 1982 mentre i carri armati israeliani avanzavano verso Beirut. «Mio padre, originario di Khalil (Hebron), era un combattente dell'Olp, a mia madre disse di partire subito per la Giordania mentre lui sarebbe rimasto con i suoi compagni a proteggere i campi», racconta Ali la storia della sua famiglia simile a quelle fatte di distruzione, fughe, esilio e morte di altre decine di migliaia di famiglie palestinesi. «Mio padre poi finì in Yemen - aggiunge - mentre noi ci stabilimmo qui ad Amman grazie a mia madre che aveva la cittadinanza giordana. E in questo paese abbiamo costruito tutta la nostra vita». Due mesi fa Ali ha scoperto che aver vissuto per 28 anni in Giordania non conta nulla per le autorità del regno hashemita che intendono revocargli la cittadinanza concessa tanti anni fa senza problema. «Prima i funzionari di un dipartimento speciale del ministero dell'interno e poi l'intelligence hanno convocato mio padre e gli hanno detto che non ha più diritto ad essere cittadino di questo paese perché è in possesso di un documento di identità dell'Autorità nazionale palestinese. E se a lui ritireranno il passaporto giordano automaticamente lo perderò anche io».
Senza più il «codice nazionale» che identifica tutti i cittadini giordani, la vita di Ali entrerà in un tunnel. «Non avrò più diritto alla sanità pubblica, non potrò avere un conto bancario e una attività economica a mio nome e allo stesso tempo non potrò aspirare ad essere un dipendente statale. Quello che più mi preoccupa è il destino di mia figlia che perderà la possibilità di accedere a servizi essenziali», spiega il giovane palestinese. Il fatto che la moglie sia giordana non ha valore perché nel regno hashemita della bella Regina Rania - una palestinese nata in Kuwait - che tanto incanta l'Occidente ed è intervenuta anche al Festival di Sanremo, le donne hanno ben pochi diritti e non possono trasmettere la cittadinanza al marito e ai figli.
I dati ufficiali di questa nuova catastrofe palestinese non sono disponibili. Tuttavia Human Rights Watch riferisce che sino ad oggi circa 3mila giordani di origine palestinese (e i loro familiari) si sono visti revocare la cittadinanza. Fonti ufficiose però aggiungono che le autorità hanno aperto i file di 250mila palestinesi, in linea con la decisione di «disimpegno» dalla Cisgiordania presa nel lontano 1988, all'inizio della prima Intifada palestinese, dallo scomparso re Hussein. «I funzionari del governo giordano negano a intere famiglie di poter vivere una vita normale e sicura, come quella goduta dalla maggioranza dei cittadini e considerata una cosa scontata. Oggi sei un giordano e domani sei espropriato da tutti i tuoi diritti», ha denunciato Sarah Leah Whitson, responsabile di Hrw in Medio Oriente. Le autorità hashemite negano tutto, smentiscono l'esistenza di un simile piano, ma alla base del loro atteggiamento ci sarebbero la questione demografica - i palestinesi sono più della metà dei 6,3 milioni di abitanti e questo dato da tempo turba i giordani doc - e le preoccupazioni generate da certe «soluzioni» proposte da esponenti dell'establishment politico israeliano. L'«opzione giordana», ossia la Giordania e non i Territori occupati come futuro Stato per i palestinesi, fu avanzata più volte durante gli anni '80, specie dall'ex premier israeliano Ariel Sharon. Ma ora, dopo il fallimento totale degli accordi di Oslo e la seconda Intifada, viene riproposta non solo da deputati di estrema destra, come Aryeh Eldad, ma anche da un importante ex generale come Giora Eiland, molto vicino al governo in carica. Non sorprendono perciò le «spiegazioni» chieste da Amman domenica scorsa non appena è cominciata a girare la notizia che l'esercito israeliano procederà all'espulsione dalla Cisgiordania di migliaia di «infiltrati» palestinesi.
Questo clima di incertezza inevitabilmente accellera la politica di revoca della cittadinanza ai palestinesi. Non solo, ma rischia di inasprire ulteriormente anche le procedure per il riconoscimento del semplice status di residente ai palestinesi coniugati a cittadini giordani, che pure è garantito dalla legge. E come spesso accade le più colpite sono le donne, specie quelle di Gaza. La vicenda del blogger giordano Khaled Doud ha fatto notizia. L'uomo finora ha dovuto rinunciare al matrimonio perché la sua fidanzata è originaria di Gaza. «Da quando abbiamo presentato i documenti per sposarci la nostra vita è diventata un inferno - dice Doud - sono stato convocato ripetutamente dai servizi di sicurezza e dopo aver risposto ad un elenco infinito di domande, mi hanno detto che dovrò ottenere l'autorizzazione dell'intelligence che, peraltro, non mi è stata garantita in alcun modo». La 45enne Zahra, che preferisce non rivelare il cognome, invece si è vista comunicare in aeroporto, al ritorno da un viaggio con i figli negli Usa, che suo padre e quindi anche lei e i suoi fratelli, non sono più cittadini giordani. «È accaduto anche ad altri palestinesi che conosco», riferisce la donna.
I palestinesi giordani vorrebbero protestare, reclamare ad alta voce la fratellanza e l'aiuto del mondo arabo di fronte all'occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Quasi tutti invece preferiscono non fare rumore e sperano che la linea del governo cambi o almeno venga congelata. Nel frattempo cercano il funzionario corrotto di turno che, in cambio di forti somme di denaro, si dice disposto «ad aggiustare le cose». A casa dei genitori di Ali c'è un signore sulla cinquantina, che, vantando parentele con «pezzi grossi» del ministero dell'interno e dopo aver fumato una dozzina di sigarette, assicura che gli Abu Gharbieh conserveranno la cittadinanza. «Quest'uomo ci prende in giro, ingigantisce i suoi poteri reali solo per spillarci soldi - dice Ali - ma non fa nulla, sono stanco, non mi importa cosa decideranno i giordani, possono anche sbattermi fuori. Mi basta essere un palestinese, rimarrò per sempre un palestinese».
mercoledì 14 aprile 2010
COMMENTI
11.04.2010
http://www.promisedlandblog.com/?p=2412
COMMENTI a
“What to make of the new IDF order, which will allow
mass deportation of Palestinians”
di Noam Shezief
Ci sono alcune cose da prendere in considerazione:
1. La totale mancanza di rispetto da parte di Israele degli Accordi di Oslo e dell’Autorità Palestinese. Spesso Israele afferma che la situazione nella West Bank non rassomiglia all’Apartheid in quanto la maggior parte dei palestinesi vivono attualmente nei territori autonomi piuttosto che sotto il governo di Israele. Ma come abbiamo visto, l’Autorità Palestinese non può decidere neppure chi entra e chi resta nei suoi territori, e l’IDF non esita a portare a termine arresti in tali zone – perfino quando essi non hanno nulla a che fare con la sicurezza nazionale. Nella West Bank l’autorità affettiva, la cui attività non può essere messa in discussione. è quella dell’IDF.
2. Il tentativo da parte di Israele di modificare la situazione della West Bank.
Israele continua ad espandere le sue colonie su quello che si dovrebbe supporre essere il territorio del futuro stato palestinese. Ora ha introdotto misure che lo renderanno capace di controllare pure la popolazione palestinese.
3. Non credo che vedremo nel prossimo futuro autobus che portano via migliaia di palestinesi.sraele sa che per il mondo intero non apparirebbe una bella cosa. Ciò che fornisce questo provvedimento è un altro strumento per l’IDF da usare contro le persone e per mandare in frantumi la resistenza. Per esempio, se una persona dimostra contro il muro vicino al suo villaggio e non c’è nulla del quale accusarla, l’IDF può provare a deportarla in base al nuovo ordine. Questo è possibile per il tono ambiguo e reticente dell’ordine che lascia ampi spazi di interpretazione agli ufficiali sul campo.
4. Tutto ciò sta avvenendo proprio quando la West Bank è tranquilla.
In realtà, i palestinesi stanno facendo ciò che Israele ha chiesto da anni. La resistenza all’occupazione è limitata a manifestazioni e ad occasionali lanci di sassi. Allo stesso tempo, Israele sta introducendo nuove norme contro i palestinesi. Questo nuova mossa potrebbe essere parte di una più ampia reazione che Israele sta preparando per il caso in cui l’Autorità Palestinese dichiari unilateralmente la sua indipendenza.
5. Come il portavoce dell’IDF ha informato Ha’aretz, l’ordine non verrà applicato agli ebrei.
(tradotto da mariano mingarelli)
http://www.promisedlandblog.com/?p=2412
COMMENTI a
“What to make of the new IDF order, which will allow
mass deportation of Palestinians”
di Noam Shezief
Ci sono alcune cose da prendere in considerazione:
1. La totale mancanza di rispetto da parte di Israele degli Accordi di Oslo e dell’Autorità Palestinese. Spesso Israele afferma che la situazione nella West Bank non rassomiglia all’Apartheid in quanto la maggior parte dei palestinesi vivono attualmente nei territori autonomi piuttosto che sotto il governo di Israele. Ma come abbiamo visto, l’Autorità Palestinese non può decidere neppure chi entra e chi resta nei suoi territori, e l’IDF non esita a portare a termine arresti in tali zone – perfino quando essi non hanno nulla a che fare con la sicurezza nazionale. Nella West Bank l’autorità affettiva, la cui attività non può essere messa in discussione. è quella dell’IDF.
2. Il tentativo da parte di Israele di modificare la situazione della West Bank.
Israele continua ad espandere le sue colonie su quello che si dovrebbe supporre essere il territorio del futuro stato palestinese. Ora ha introdotto misure che lo renderanno capace di controllare pure la popolazione palestinese.
3. Non credo che vedremo nel prossimo futuro autobus che portano via migliaia di palestinesi.sraele sa che per il mondo intero non apparirebbe una bella cosa. Ciò che fornisce questo provvedimento è un altro strumento per l’IDF da usare contro le persone e per mandare in frantumi la resistenza. Per esempio, se una persona dimostra contro il muro vicino al suo villaggio e non c’è nulla del quale accusarla, l’IDF può provare a deportarla in base al nuovo ordine. Questo è possibile per il tono ambiguo e reticente dell’ordine che lascia ampi spazi di interpretazione agli ufficiali sul campo.
4. Tutto ciò sta avvenendo proprio quando la West Bank è tranquilla.
In realtà, i palestinesi stanno facendo ciò che Israele ha chiesto da anni. La resistenza all’occupazione è limitata a manifestazioni e ad occasionali lanci di sassi. Allo stesso tempo, Israele sta introducendo nuove norme contro i palestinesi. Questo nuova mossa potrebbe essere parte di una più ampia reazione che Israele sta preparando per il caso in cui l’Autorità Palestinese dichiari unilateralmente la sua indipendenza.
5. Come il portavoce dell’IDF ha informato Ha’aretz, l’ordine non verrà applicato agli ebrei.
(tradotto da mariano mingarelli)
DA TAJUSH
http://josephdana.com/2010/04/new-laws-show-that-israel-prefers-occupation-to-democracy/
„Nuove leggi mostrano che Israele preferisce l’occupazione alla democrazia“
di Joseph Dana
Israele è in procinto di mettere in atto un insieme di leggi sulla deportazione per palestinesi e cittadini di nazionalità straniere nella West Bank. Questa decisione ha un’implicazione maggiore per i movimenti popolari di protesta e per il lavoro di un gruppo quale quello dei Ta’ayush. Per maggior particolari sulla decisione potete lettere l’articolo di oggi di Amira Hass su Ha’aretz così come i commenti di Noam Shezief su Terra Promessa.
Per quanto riguarda il lavoro fatto da gruppi quali quello dei Ta’ayush, il nuovo ordine militare in Israele evidenzia il fatto che l’ordine di "area militare chiusa” non è funzionale ai fini dell’IDF (Israeli Defence Forces). Ieri, io ed altri quattro attivisti Ta’ayush siamo stati arrestati vicino alla colonia di Maon per aver violato un ordine di “zona militare chiusa”. L’uso di questo ordine era vietato in quest’area specifica come era stato decretato dalla Corte Suprema di Giustizia Israeliana nel 2006.
Fondamentalmente, la Corte Suprema ha stabilito che l’IDF stava utilizzando l’ordine per impedire ai contadini palestinesi di coltivare le loro terre e la qual cosa avrebbe portato all’abbandono da parte dei palestinesi delle loro proprietà agricole, dando così la possibilità ai coloni di espandere i loro insediamenti.
L’IDF ci ha trattenuto in carcere per diverse ore, ma alla fine ci ha liberato senza alcuna accusa in quanto, tanto per cominciare, era loro proibito di utilizzare l’ordine, come specificato dalla Corte Suprema Israeliana. Questo episodio è uno di quelli che capitano settimanalmente ai Ta’ayush e negli anni trascorsi siamo stati in grado di ottenere successi significativi nel combattere questi ordini di “zona militare chiusa” per mostrare che le intenzioni dell’IDF sono in contrasto con la volontà della Corte Suprema.
Con le nuove leggi che sono pronte per entrare in vigore, trasformando di fatto tutta la West Bank in una zona militare chiusa, le corti civili israeliane non avranno più la possibilità di elaborare sentenze che riguardino l’uso illegale della “zona militare chiusa” da parte dell’IDF per tartassare i palestinesi. Questa nuova disposizione riflette il relativo successo di gruppi quali quelli dei Ta’ayus e degli Anarchists Against the Wall nel dimostrare che l’ordine di “zona militare chiusa” è illegale e che viene utilizzato in molti casi dall’IDF in modo scorretto.
L’ordine stabilirà che l’IDF ha il diritto di deportare e di eliminare chiunque venga classificato come un “infiltrato”. Si definisce come una “infiltrata” “una persona che è entrata illegalmente nell’Area dopo la data di decorrenza, o una persona che è presente nell’Area ma non è detentrice di un legittimo permesso.”
Ciò può essere applicato facilmente ad ogni attivista di sinistra impegnato in attività con i palestinesi sia in occasione delle proteste che di sostegno durante i lavori agricoli. Ora noi abbiamo a che fare con un intero insieme di nuove leggi che sono soggette alla sola giurisdizione dei tribunali militari. Possiamo essere arrestati (deportati i cittadini stranieri) senz’alcuna possibilità di rivolgerci ad un tribunale civile o di fare appello alla sentenze della Corte Suprema Israeliana.
Ora, in Israele, viene messo in discussione il futuro di un movimento esplicitamente di sinistra. La decisione di mettere in atto queste leggi dimostra che lo stato di Israele è interessato a rinunciare al governo del diritto pur di conservare la sua occupazione della West Bank.
Sotto è riportato un video sull’arresto degli attivisti di Ta’ayush avvenuto ieri vicino a Maon. Il video è in ebraico e gli attivisti stanno spiegando che l’ordine di “zona militare chiusa” è illegale. Con le nuove leggi questa conversazione non sarà più possibile e questi attivisti verranno semplicemente arrestati sul posto. In una parola: è spaventoso.
Ta’aysh action in Maon 10 Avril 2010
hyyp://www.youtube.com/watch?v=_7hNLagLA1c&feature=player_embedded#
(tradotto da mariano mingarelli)
[Ta’ayush - Vivere insieme- è un’organizzazione nella quale operano insieme attivisti israeliani e attivisti palestinesi in un clima di collaborazione sincera contro l’umiliazione, l’odio, la sottomissione ed il razzismo, per un futuro basato sull’uguaglianza, la giustizia e la pace. Tutte le iniziative vengono svolte in comune sia nei Territori Palestinesi Occupati che in Israele.
L’organizzazione dei Ta’ayush venne fondata nell’ottobre del 2000 a seguito dei fatti sanguinosi durante i quali poliziotti israeliani uccisero 12 manifestanti palestinesi, cittadini di Israele. N.d.t.]
„Nuove leggi mostrano che Israele preferisce l’occupazione alla democrazia“
di Joseph Dana
Israele è in procinto di mettere in atto un insieme di leggi sulla deportazione per palestinesi e cittadini di nazionalità straniere nella West Bank. Questa decisione ha un’implicazione maggiore per i movimenti popolari di protesta e per il lavoro di un gruppo quale quello dei Ta’ayush. Per maggior particolari sulla decisione potete lettere l’articolo di oggi di Amira Hass su Ha’aretz così come i commenti di Noam Shezief su Terra Promessa.
Per quanto riguarda il lavoro fatto da gruppi quali quello dei Ta’ayush, il nuovo ordine militare in Israele evidenzia il fatto che l’ordine di "area militare chiusa” non è funzionale ai fini dell’IDF (Israeli Defence Forces). Ieri, io ed altri quattro attivisti Ta’ayush siamo stati arrestati vicino alla colonia di Maon per aver violato un ordine di “zona militare chiusa”. L’uso di questo ordine era vietato in quest’area specifica come era stato decretato dalla Corte Suprema di Giustizia Israeliana nel 2006.
Fondamentalmente, la Corte Suprema ha stabilito che l’IDF stava utilizzando l’ordine per impedire ai contadini palestinesi di coltivare le loro terre e la qual cosa avrebbe portato all’abbandono da parte dei palestinesi delle loro proprietà agricole, dando così la possibilità ai coloni di espandere i loro insediamenti.
L’IDF ci ha trattenuto in carcere per diverse ore, ma alla fine ci ha liberato senza alcuna accusa in quanto, tanto per cominciare, era loro proibito di utilizzare l’ordine, come specificato dalla Corte Suprema Israeliana. Questo episodio è uno di quelli che capitano settimanalmente ai Ta’ayush e negli anni trascorsi siamo stati in grado di ottenere successi significativi nel combattere questi ordini di “zona militare chiusa” per mostrare che le intenzioni dell’IDF sono in contrasto con la volontà della Corte Suprema.
Con le nuove leggi che sono pronte per entrare in vigore, trasformando di fatto tutta la West Bank in una zona militare chiusa, le corti civili israeliane non avranno più la possibilità di elaborare sentenze che riguardino l’uso illegale della “zona militare chiusa” da parte dell’IDF per tartassare i palestinesi. Questa nuova disposizione riflette il relativo successo di gruppi quali quelli dei Ta’ayus e degli Anarchists Against the Wall nel dimostrare che l’ordine di “zona militare chiusa” è illegale e che viene utilizzato in molti casi dall’IDF in modo scorretto.
L’ordine stabilirà che l’IDF ha il diritto di deportare e di eliminare chiunque venga classificato come un “infiltrato”. Si definisce come una “infiltrata” “una persona che è entrata illegalmente nell’Area dopo la data di decorrenza, o una persona che è presente nell’Area ma non è detentrice di un legittimo permesso.”
Ciò può essere applicato facilmente ad ogni attivista di sinistra impegnato in attività con i palestinesi sia in occasione delle proteste che di sostegno durante i lavori agricoli. Ora noi abbiamo a che fare con un intero insieme di nuove leggi che sono soggette alla sola giurisdizione dei tribunali militari. Possiamo essere arrestati (deportati i cittadini stranieri) senz’alcuna possibilità di rivolgerci ad un tribunale civile o di fare appello alla sentenze della Corte Suprema Israeliana.
Ora, in Israele, viene messo in discussione il futuro di un movimento esplicitamente di sinistra. La decisione di mettere in atto queste leggi dimostra che lo stato di Israele è interessato a rinunciare al governo del diritto pur di conservare la sua occupazione della West Bank.
Sotto è riportato un video sull’arresto degli attivisti di Ta’ayush avvenuto ieri vicino a Maon. Il video è in ebraico e gli attivisti stanno spiegando che l’ordine di “zona militare chiusa” è illegale. Con le nuove leggi questa conversazione non sarà più possibile e questi attivisti verranno semplicemente arrestati sul posto. In una parola: è spaventoso.
Ta’aysh action in Maon 10 Avril 2010
hyyp://www.youtube.com/watch?v=_7hNLagLA1c&feature=player_embedded#
(tradotto da mariano mingarelli)
[Ta’ayush - Vivere insieme- è un’organizzazione nella quale operano insieme attivisti israeliani e attivisti palestinesi in un clima di collaborazione sincera contro l’umiliazione, l’odio, la sottomissione ed il razzismo, per un futuro basato sull’uguaglianza, la giustizia e la pace. Tutte le iniziative vengono svolte in comune sia nei Territori Palestinesi Occupati che in Israele.
L’organizzazione dei Ta’ayush venne fondata nell’ottobre del 2000 a seguito dei fatti sanguinosi durante i quali poliziotti israeliani uccisero 12 manifestanti palestinesi, cittadini di Israele. N.d.t.]
lunedì 12 aprile 2010
ISRAELE TENTA IL COLPO GROSSO
COMUNICATO DEGLI "EBREI CONTRO L'OCCUPAZIONE"
Deportazione in massa dei Palestinesi dalla Cisgiordania?
Il comando militare israeliano ha preparato ordini draconiani (vedere http://www.hamoked.org.il/news_main_en.asp?id=904) secondo i quali tutti i residenti nella Cisgiordania (West Bank) possono essere considerati “terroristi infiltrati”, quindi espulsi o imprigionati. Martedì 13 Aprile 2010 l’“Ordine riguardante la Prevenzione dell’Infiltrazione (Emendamento N° 2) e l’“Ordine riguardante Provvedimenti per la sicurezza (Emendamento N° 112) debbono entrare in vigore. Gli ordini, firmati dal generale Gadi Shammi, ma non resi pubblici, sono enunciati in modo così generico da render teoricamente possibile ai militari svuotare la Cisgiordania di quasi tutti i suoi abitanti Palestinesi. Questi ordini sostanzialmente cambiano la definizione di “infiltrato”, che si applica d’ora in poi a chiunque sia presente in Cisgiordania senza un valido permesso israeliano, senza peraltro definire cosa Israele intenda per validità di un permesso.
Va precisato che sinora nessun permesso era richiesto agli abitanti Palestinesi della Cisgiordania.
Tale provvedimento, preso come provvedimento militare quindi sottratto ad ogni discussione non solo con i Palestinesi, ma neppure nel parlamento israeliano, comporta niente di meno che la deportazione in massa dei Palestinesi dai Territori Occupati di Cisgiordania, cioè dalle loro case, dalle loro terre e dalle loro fonti di sostentamento. Deportarli dove? Evidentemente, non è questa una preoccupazione per il governo di Israele, che probabilmente pensa di deportarli a Gaza o eventualmente in Giordania, o dove diavolo vogliano andare. Sarebbe questo l’atto finale del programma sionista: tutta la terra tra il Giordano ed il Mediterraneo diventerebbe così lo Stato ebraico, essendo svuotata dei suoi abitanti, la “Terra senza popolo” destinata al popolo senza terra, gli Ebrei.
Gli Ebrei Contro l’Occupazione italiani, insieme alle persone civili di tutto il mondo, si oppongono a questo progetto degno dei peggiori criminali, e chiamano tutti ad agire in tutti i modi in difesa dei diritti umani e civili dei Palestinesi. Solo un’azione forte di sanzione economica e politica contro questo progetto del governo israeliano può servire allo scopo. Se ci fosse in Italia un governo degno del nome, dovrebbe imporsi, insieme all’Europa, a favore del diritto dei Palestinesi a vita, giustizia e libertà.
Deportazione in massa dei Palestinesi dalla Cisgiordania?
Il comando militare israeliano ha preparato ordini draconiani (vedere http://www.hamoked.org.il/news_main_en.asp?id=904) secondo i quali tutti i residenti nella Cisgiordania (West Bank) possono essere considerati “terroristi infiltrati”, quindi espulsi o imprigionati. Martedì 13 Aprile 2010 l’“Ordine riguardante la Prevenzione dell’Infiltrazione (Emendamento N° 2) e l’“Ordine riguardante Provvedimenti per la sicurezza (Emendamento N° 112) debbono entrare in vigore. Gli ordini, firmati dal generale Gadi Shammi, ma non resi pubblici, sono enunciati in modo così generico da render teoricamente possibile ai militari svuotare la Cisgiordania di quasi tutti i suoi abitanti Palestinesi. Questi ordini sostanzialmente cambiano la definizione di “infiltrato”, che si applica d’ora in poi a chiunque sia presente in Cisgiordania senza un valido permesso israeliano, senza peraltro definire cosa Israele intenda per validità di un permesso.
Va precisato che sinora nessun permesso era richiesto agli abitanti Palestinesi della Cisgiordania.
Tale provvedimento, preso come provvedimento militare quindi sottratto ad ogni discussione non solo con i Palestinesi, ma neppure nel parlamento israeliano, comporta niente di meno che la deportazione in massa dei Palestinesi dai Territori Occupati di Cisgiordania, cioè dalle loro case, dalle loro terre e dalle loro fonti di sostentamento. Deportarli dove? Evidentemente, non è questa una preoccupazione per il governo di Israele, che probabilmente pensa di deportarli a Gaza o eventualmente in Giordania, o dove diavolo vogliano andare. Sarebbe questo l’atto finale del programma sionista: tutta la terra tra il Giordano ed il Mediterraneo diventerebbe così lo Stato ebraico, essendo svuotata dei suoi abitanti, la “Terra senza popolo” destinata al popolo senza terra, gli Ebrei.
Gli Ebrei Contro l’Occupazione italiani, insieme alle persone civili di tutto il mondo, si oppongono a questo progetto degno dei peggiori criminali, e chiamano tutti ad agire in tutti i modi in difesa dei diritti umani e civili dei Palestinesi. Solo un’azione forte di sanzione economica e politica contro questo progetto del governo israeliano può servire allo scopo. Se ci fosse in Italia un governo degno del nome, dovrebbe imporsi, insieme all’Europa, a favore del diritto dei Palestinesi a vita, giustizia e libertà.
ALCUNE PERLE
Se fosse capitato in una moschea iraniana, sarebbe stato sulla prima pagina dei nostri giornali. Sviene un uomo in una sinagoga ultraortodossa. Arriva la volontaria del soccorso ma non la lasciano entrare: è donna
http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3873560,00.html
In base al nuovo ordine israeliano, tutti coloro che stanno in Cisgiordania devono chiedere a Israele il permesso per restare lì. Se non lo ottengono, possono essere imprigionati per sette anni, o espulsi
http://www.hamoked.org.il/news_main_en.asp?id=904 (dei link interni, in particolare il III, con il decreto dell'esercito)
Le prime a essere colpite saranno le famiglie di cui uno o più dei componenti risiede ufficialmente a Gaza: http://www.youtube.com/watch?v=RXwVKGBMg8I&feature=player_embedded#
Subito dopo (o insieme) gli internazionali (israeliani compresi) che vanno a manifestare con i palestinesi contro il Muro: http://josephdana.com/2010/04/new-laws-show-that-israel-prefers-occupation-to-democracy/
La destra fa pressione su una catena di librerie perché interrompa la distribuzione di un libro a basso costo (20 centesimi di euro la copia) contro i coloni. La libreria cede, e si piega ai coloni. Parla Shulamit Aloni: http://www.ynet.co.il/english/articles/0,7340,L-3874378,00.html
http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3873560,00.html
In base al nuovo ordine israeliano, tutti coloro che stanno in Cisgiordania devono chiedere a Israele il permesso per restare lì. Se non lo ottengono, possono essere imprigionati per sette anni, o espulsi
http://www.hamoked.org.il/news_main_en.asp?id=904 (dei link interni, in particolare il III, con il decreto dell'esercito)
Le prime a essere colpite saranno le famiglie di cui uno o più dei componenti risiede ufficialmente a Gaza: http://www.youtube.com/watch?v=RXwVKGBMg8I&feature=player_embedded#
Subito dopo (o insieme) gli internazionali (israeliani compresi) che vanno a manifestare con i palestinesi contro il Muro: http://josephdana.com/2010/04/new-laws-show-that-israel-prefers-occupation-to-democracy/
La destra fa pressione su una catena di librerie perché interrompa la distribuzione di un libro a basso costo (20 centesimi di euro la copia) contro i coloni. La libreria cede, e si piega ai coloni. Parla Shulamit Aloni: http://www.ynet.co.il/english/articles/0,7340,L-3874378,00.html
Palestinesi: Fame o terrore
Chi non muore di fame muore di terrore
L'esercito israeliano uccide due ragazzi palestinesi nel villaggio di Awarta. Li hanno spacciati per terroristi, raccoglievano metallo per vivere
scritto per noi da
Caterina Donattini
Awarta è un piccolo villaggio di contadini sulle pendici di antiche colline, incorniciato da ulivi che non hanno la voce per raccontare le storie di queste valli in Cisgiordania, a otto chilometri da Nablus. Awarta è il villaggio natale di due ragazzi, Mohammad e Salah Qawariq, entrambi 19enni.
Mohammed e Salah erano cugini, cresciuti insieme tra questi campi, uccisi insieme a sangue freddo sulla terra rossa, su cui il loro sangue si è sparso, la mattina del 21 marzo 2010. E la macchia rimane. La prima versione fornita dalla stampa israeliana parlava di ragazzi travestiti da contadini che brandivano forconi e bottiglie rotte contro i soldati in modo minaccioso, come riportato dal sito Ynet News lo stesso 21 marzo scorso. Il giorno dopo, però, lo stesso giornale doveva ammettere : "E' stata aperta un'indagine militare sull'incidente dei forconi vicino a Nablus. Ricerche circa gli eventi di sabato rivelano discrepanze nei rapporti militari. Solamente a 24 ore dall'incidente di Awarta è già chiaro che la dinamica dei fatti non pare lineare come descritto dai soldati".
Sono stata ad Awarta sabato scorso. Siamo in piena West Bank: il villaggio sorge sulle pendici di una dolce collina e rimane chiuso tra da due insediamenti -Itamar e Gideon-, un grosso check point che chiude la strada principale, e una base militare. Osservando dal promontorio dove sorge il cimitero si vedono i due grandi insediamenti israeliani sovrastare quelle terre che appartenevano fino agli anni Sessanta interamente ai contadini palestinesi e sono oggi confiscate al 60 percento: in parte perché occupate dalle due colonie israeliane, in parte perché i coloni e l'esercito ne impediscono l'accesso agli abitanti.
Il capo del consiglio comunale di Awarta mi spiega che oggi i contadini devono richiedere un permesso speciale alle autorità israeliane in modo da poter coltivare i propri campi o raccoglierne i frutti. Quel permesso Mohammed e Salah lo avevano ottenuto e per questo quella mattina si erano recati di buon mattino a raccogliere le olive dei propri alberi, muniti di due piccole bottiglie di plastica che contenevano l'acqua per la giornata. Avevano inoltre approfittato per raccogliere alcuni pezzi d'acciaio e di ferro nelle terre adiacenti, un tempo usate come discarica dal paese. Molti ragazzini si occupano della raccolta dei metalli abbandonati e da essi ricavano pochi spiccioli con cui sostenere le spese di famiglie ridotte alla fame per via di un tasso di disoccupazione che è al 70 percento. In particolare dagli anni Ottanta in poi, quando l'insediamento di Itamar fu costruito, gli spostamenti dei contadini divennero molto difficili e ostacolati da diversi attacchi dei coloni e dalla presenza costante dei militari israeliani. Da allora molte famiglie persero la propria principale fonte di sostentamento e vivono strangolati in un villaggio che non da vie d'uscita. Sulle pendici delle colline alcuni ragazzini vagano tra la spazzatura, cercando pezzi di metallo: un'immagine assurda, se si pensa che queste sono terre fertili di coltivazioni il cui accesso viene negato ai proprietari.
Il padre di Mohammed ci ha accolti distrutto dal dolore nella propria casa spoglia di ogni ricchezza. Quasi cieco, il volto deformato, i piedi portano i segni della mina che l'ha colpito quando aveva 13 anni. Attorno a lui la sua famiglia, che racconta degli attacchi dei coloni, che almeno una volta al mese invadono il villaggio per visitare un luogo nel centro del villaggio che loro ritengono sacro. In quell'occasione arriva l'esercito e dichiara il coprifuoco. Dopo due ore arrivano i coloni, invadono la cittadina e distruggono le tombe del cimitero, adiacenti al luogo sacro, sparano contro la scuola vicina al sito, che oggi è stata spostata per motivi di sicurezza. Un altro parente, Mohammad Abed Ar-Rahman Qawariq, è stato ucciso. Il 22 ottobre 2009, mentre tornava dai propri campi, la sua gip venne spinta in un dirupo da un gruppo di militari israeliani. Sulla sua morte sono ancora in corso indagini. Raccontano di Mohammed e Salah, della loro povertà, entrambi figli di disoccupati. Ci raccontano della macchia di sangue sulla terra, che loro hanno visto, e delle due bottiglie di plastica ritrovate appoggiate al tronco di un ulivo, insieme ad un mucchio di pezzi di ferro. I loro corpi sono stati colpiti diverse volte: i militari hanno continuato a sparare anche dopo averli uccisi. Sono state trovate almeno venti pallottole sul luogo dell'omicidio. Secondo la famiglia i medici dell'ospedale di Nablus hanno certificato che gli hanno sparato dall'alto in basso, a neanche un metro di distanza. Raccontano degli sforzi di Mohammed e Salah per studiare all'università di Nablus e allo stesso tempo lavorare nei campi, raccogliere metalli nelle discariche. La madre di Mohammed ci accoglie in un'altra stanza. Dimentico le mie domande, lei scoppia in lacrime e mi mostra i pantaloni nuovi che gli aveva comprato il giorno prima della morte, un paio di jeans neri: disperata vi affonda il volto. Il figlio più piccolo la ferma e lei si lancia contro l'armadio e scaraventa fuori due libri di letteratura araba, ancora nuovi, intonsi, li apre e piange: "Vedi, non è nemmeno riuscito a studiarli!".
L'esercito israeliano uccide due ragazzi palestinesi nel villaggio di Awarta. Li hanno spacciati per terroristi, raccoglievano metallo per vivere
scritto per noi da
Caterina Donattini
Awarta è un piccolo villaggio di contadini sulle pendici di antiche colline, incorniciato da ulivi che non hanno la voce per raccontare le storie di queste valli in Cisgiordania, a otto chilometri da Nablus. Awarta è il villaggio natale di due ragazzi, Mohammad e Salah Qawariq, entrambi 19enni.
Mohammed e Salah erano cugini, cresciuti insieme tra questi campi, uccisi insieme a sangue freddo sulla terra rossa, su cui il loro sangue si è sparso, la mattina del 21 marzo 2010. E la macchia rimane. La prima versione fornita dalla stampa israeliana parlava di ragazzi travestiti da contadini che brandivano forconi e bottiglie rotte contro i soldati in modo minaccioso, come riportato dal sito Ynet News lo stesso 21 marzo scorso. Il giorno dopo, però, lo stesso giornale doveva ammettere : "E' stata aperta un'indagine militare sull'incidente dei forconi vicino a Nablus. Ricerche circa gli eventi di sabato rivelano discrepanze nei rapporti militari. Solamente a 24 ore dall'incidente di Awarta è già chiaro che la dinamica dei fatti non pare lineare come descritto dai soldati".
Sono stata ad Awarta sabato scorso. Siamo in piena West Bank: il villaggio sorge sulle pendici di una dolce collina e rimane chiuso tra da due insediamenti -Itamar e Gideon-, un grosso check point che chiude la strada principale, e una base militare. Osservando dal promontorio dove sorge il cimitero si vedono i due grandi insediamenti israeliani sovrastare quelle terre che appartenevano fino agli anni Sessanta interamente ai contadini palestinesi e sono oggi confiscate al 60 percento: in parte perché occupate dalle due colonie israeliane, in parte perché i coloni e l'esercito ne impediscono l'accesso agli abitanti.
Il capo del consiglio comunale di Awarta mi spiega che oggi i contadini devono richiedere un permesso speciale alle autorità israeliane in modo da poter coltivare i propri campi o raccoglierne i frutti. Quel permesso Mohammed e Salah lo avevano ottenuto e per questo quella mattina si erano recati di buon mattino a raccogliere le olive dei propri alberi, muniti di due piccole bottiglie di plastica che contenevano l'acqua per la giornata. Avevano inoltre approfittato per raccogliere alcuni pezzi d'acciaio e di ferro nelle terre adiacenti, un tempo usate come discarica dal paese. Molti ragazzini si occupano della raccolta dei metalli abbandonati e da essi ricavano pochi spiccioli con cui sostenere le spese di famiglie ridotte alla fame per via di un tasso di disoccupazione che è al 70 percento. In particolare dagli anni Ottanta in poi, quando l'insediamento di Itamar fu costruito, gli spostamenti dei contadini divennero molto difficili e ostacolati da diversi attacchi dei coloni e dalla presenza costante dei militari israeliani. Da allora molte famiglie persero la propria principale fonte di sostentamento e vivono strangolati in un villaggio che non da vie d'uscita. Sulle pendici delle colline alcuni ragazzini vagano tra la spazzatura, cercando pezzi di metallo: un'immagine assurda, se si pensa che queste sono terre fertili di coltivazioni il cui accesso viene negato ai proprietari.
Il padre di Mohammed ci ha accolti distrutto dal dolore nella propria casa spoglia di ogni ricchezza. Quasi cieco, il volto deformato, i piedi portano i segni della mina che l'ha colpito quando aveva 13 anni. Attorno a lui la sua famiglia, che racconta degli attacchi dei coloni, che almeno una volta al mese invadono il villaggio per visitare un luogo nel centro del villaggio che loro ritengono sacro. In quell'occasione arriva l'esercito e dichiara il coprifuoco. Dopo due ore arrivano i coloni, invadono la cittadina e distruggono le tombe del cimitero, adiacenti al luogo sacro, sparano contro la scuola vicina al sito, che oggi è stata spostata per motivi di sicurezza. Un altro parente, Mohammad Abed Ar-Rahman Qawariq, è stato ucciso. Il 22 ottobre 2009, mentre tornava dai propri campi, la sua gip venne spinta in un dirupo da un gruppo di militari israeliani. Sulla sua morte sono ancora in corso indagini. Raccontano di Mohammed e Salah, della loro povertà, entrambi figli di disoccupati. Ci raccontano della macchia di sangue sulla terra, che loro hanno visto, e delle due bottiglie di plastica ritrovate appoggiate al tronco di un ulivo, insieme ad un mucchio di pezzi di ferro. I loro corpi sono stati colpiti diverse volte: i militari hanno continuato a sparare anche dopo averli uccisi. Sono state trovate almeno venti pallottole sul luogo dell'omicidio. Secondo la famiglia i medici dell'ospedale di Nablus hanno certificato che gli hanno sparato dall'alto in basso, a neanche un metro di distanza. Raccontano degli sforzi di Mohammed e Salah per studiare all'università di Nablus e allo stesso tempo lavorare nei campi, raccogliere metalli nelle discariche. La madre di Mohammed ci accoglie in un'altra stanza. Dimentico le mie domande, lei scoppia in lacrime e mi mostra i pantaloni nuovi che gli aveva comprato il giorno prima della morte, un paio di jeans neri: disperata vi affonda il volto. Il figlio più piccolo la ferma e lei si lancia contro l'armadio e scaraventa fuori due libri di letteratura araba, ancora nuovi, intonsi, li apre e piange: "Vedi, non è nemmeno riuscito a studiarli!".
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