Da Adie Mormech in Gaza, http://outofgaza.wordpress.com/
COMUNICATO STAMPA
GAZA, PALESTINA
31 Maggio 2010
RICHIESTA DA GAZA UNA RISPOSTA GLOBALE ALLE UCCISIONI SULLA FREEDOM FLOTILLA
Noi, Organizzazioni della Società Civile Palestinese che vive a Gaza e Attivisti Internazionali, chiediamo alla comunità internazionale e alla società civile di far pressione sui propri governi e su Israele affinchè cessino i sequestri e le uccisioni verificatisi a seguito dell’attacco Israeliano contro la Gaza Freedom Flotilla in navigazione verso Gaza, e si dia il via ad una risposta globale che chieda ad Israele di rendere conto dell’assassinio di civili stranieri in mare e di pirateria illegale verso imbarcazioni che trasportavano aiuti umanitari a Gaza..
Salutiamo il coraggio di tutti coloro che hanno organizzato questo iniziativa di aiuti e chiediamo un passaggio sicuro verso Gaza per le 750 persone di coscienza di 40 nazionalità diverse, tra cui 35 politici, intenzionati a interrompere l’assedio Israelo-Egiziano. Porgiamo le nostre più sincere condoglianze alle famiglie e agli amici che hanno perso i loro cari in questo attacco.
Navigando direttamente verso Gaza, fuori dalle acque Israeliane, con merce illegalmente vietata da Israele, merce quale: 10.000 tonnellate di calcestruzzo, giocattoli, libri , cioccolata, pasta e materiale medico basilare, drammaticamente necessari, la flotilla sta esercitando il proprio diritto garantito dall’art.33 della Convenzione di Ginevra, che dichiara chiaramente che la punizione collettiva è un crimine contro l’umanità.
La sofferenza causata dalla chiusura israeliana di Gaza è stata ampiamente documentata da
tutte le organizzazioni per i diritti umani. La più recente è Amnesty International, che nella
relazione annuale sui diritti dell'uomo ha concluso che l'assedio ha "acuito la già
profonda crisi umanitaria. Disoccupazione di massa, povertà estrema, insicurezza
alimentare, aumento dei prezzi dei beni alimentari causato da carenze di reperibilità hanno
costretto quattro abitanti di Gaza su cinque a dover dipendere dagli aiuti umanitari. La
portata del blocco e le dichiarazioni dei funzionari israeliani sulle ragioni, sono la
dimostrazione che questo era stato imposto come forma di punizione collettiva nei confronti
degli abitanti di Gaza, in palese violazione del diritto internazionale". L'ONU dichiara in
continuazione che solo una piccola parte degli aiuti necessari sta entrando nella Striscia a
causa di quello che definisce un "assedio medioevale". In particolare, il direttore dell'UNRWA
a Gaza, John Ging, ha parlato della necessità che la flottiglia entrasse a Gaza. Il nuovo
Ministro degli esteri dell'Unione europea, Catherine Ashton, ha appena ribadito il suo
appello per "un'immediata, costante e incondizionata apertura dei valichi per il flusso di aiuti
umanitari, beni commerciali e persone da e per Gaza".
La popolazione di Gaza non sarebbe bisognosa, ma auto-sufficiente, e stiamo facendo il possibile per conservare una certa dignità nella vita a seguito di questa colossale devastazione per mano umana, che priva così tanti delle basi della vita o delle aspirazioni minime per il futuro.
Noi, da Gaza, vi invitiamo a dimostrare e sostenere gli uomini e le donne, coraggiosi della Flottiglia , oramai assassinati in molti, durante una missione umanitaria. Insistiamo sulla
rottura delle relazioni diplomatiche con Israele, i processi per crimini di guerra e la tutela
internazionale dei civili di Gaza. Vi chiediamo di aderire al crescente movimento
internazionale per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro un paese che ancora
una volta dimostra di essere così violento e anche incontrastato. Vi chiediamo di unirvi alla crescente campagna internazionale di boicottaggio, disinvestimento e sanzionamento di una nazione che prova ancora una volta di essere così violento e ancora così impunito. Unitevi alla crescente
massa critica nel mondo che si impegna a far sì che il Popolo Palestinese torni ad avere gli stessi diritti di qualsiasi altro popolo, quando l'assedio sarà terminato, l'occupazione finita e
ai 6 milioni di rifugiati palestinesi sarà finalmente garantita giustizia.
Press Contacts:
Dr Haidar Eid: One Democratic Sate Group and University Teachers’ Association
Dr Mona El Farra: Middle East Children’s Alliance, Gaza 00.972(0)598.868.222
Adie Mormech: International Solidarity Movement 00.972(0)597.717.696
Max Ajl: Gaza Freedom March 00.972(0)597.750.798
Signatory Organisations:
The One Democratic State Group
University Teachers Association
Arab Cultural Forum
Palestinian Students’ Campaign for the Academic Boycott of Israel
Association of Al-Quds Bank for Culture and Info
Popular Committee against the Wall and Settlements
International Solidarity Movement
Palestinian Network of Non-Governmental Organisations
Palestinian Women Committees
Progressive Students Union
Medical Relief Society
The General Society for Rehabilitation
Gaza Community Mental Health Program
General Union of Palestinian Women
Afaq Jadeeda Cultural Centre for Women and Children
Deir Al-Balah Cultural Centre for Women and Children
Maghazi Cultural Centre for Children
Al-Sahel Centre for Women and Youth
Ghassan Kanfani Kindergartens
Rachel Corrie Centre, Rafah
Rafah Olympia City Sisters
Al Awda Centre, Rafah
Al Awda Hospital, Jabaliya Camp
Ajyal Association, Gaza
General Union of Palestinian Syndicates
Al Karmel Centre, Nuseirat
Local Inititiative, Beit Hanoun
Union of Health Work Committees
Red Crescent Society Gaza Strip
Beit Lahiya Cultural Centre
Al Awda Centre, Rafah
--
http://www.targetbrimar.org.uk
lunedì 31 maggio 2010
Comunicato AMLRP
ULTIMA STRAGE
Israele, fino a quando i tuoi crimini resteranno impuniti?
Non ci sono più parole per giustificare le azioni dei governi israeliani, e chi lo fa, come il sottosegretario Mantica di cui ci vergogniamo, svolge il doppio ruolo di complice del crimine e garante del criminale.
Invertire le ragioni e l’andamento dei fatti, e raccontare oscene favole per giustificare l’azione di pirateria e i conseguenti omicidi agli occhi del mondo, rientra nella pratica di mistificazioni, crimini e menzogne in cui Israele è maestra. Accodarsi per fornire sostegno a queste ignobili farse è prova di sudditanza e di cialtroneria umana e politica.
BASTA!
ESIGIAMO CHE LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE APPLICHI FINALMENTE LE SANZIONI RELATIVE AI CRIMINI COMMESSI E NON SI RENDA ANCORA UNA VOLTA COMPLICE DI QUESTO STATO.
Israele massacra nello stesso tempo esseri umani e diritti universali, semina odio e terrore che produce altro odio e altro terrore. Dove sono le Nazioni Unite? Dove sono i tutori della legalità internazionale?
Mentre porgiamo il nostro omaggio alle vittime coraggiose e innocenti della barbarie israeliana, chiediamo alla società civile di agire in modo non violento
per indurre Israele al rispetto della legalità.
L’unica arma non violenta che abbiamo in mano è la campagna di boicottaggio economico e culturale contro lo stato dell’apartheid, del “piombo fuso”, dell’assedio inumano e illegale di Gaza, del muro illecito e scippatore di acqua e terra, dell’occupazione militare, degli insediamenti illegali e, ora, anche della pirateria.
Ricordiamo che solo condannando la strage presente e le stragi passate potremo evitare stragi future.
CHIEDIAMO GIUSTIZIA, DIFENDIAMO I DIRITTI UMANI, FERMIAMO ISRAELE
Associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese
pres@palestinamezzalunarossa.org
www.palestinamezzalunarossa.org
Israele, fino a quando i tuoi crimini resteranno impuniti?
Non ci sono più parole per giustificare le azioni dei governi israeliani, e chi lo fa, come il sottosegretario Mantica di cui ci vergogniamo, svolge il doppio ruolo di complice del crimine e garante del criminale.
Invertire le ragioni e l’andamento dei fatti, e raccontare oscene favole per giustificare l’azione di pirateria e i conseguenti omicidi agli occhi del mondo, rientra nella pratica di mistificazioni, crimini e menzogne in cui Israele è maestra. Accodarsi per fornire sostegno a queste ignobili farse è prova di sudditanza e di cialtroneria umana e politica.
BASTA!
ESIGIAMO CHE LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE APPLICHI FINALMENTE LE SANZIONI RELATIVE AI CRIMINI COMMESSI E NON SI RENDA ANCORA UNA VOLTA COMPLICE DI QUESTO STATO.
Israele massacra nello stesso tempo esseri umani e diritti universali, semina odio e terrore che produce altro odio e altro terrore. Dove sono le Nazioni Unite? Dove sono i tutori della legalità internazionale?
Mentre porgiamo il nostro omaggio alle vittime coraggiose e innocenti della barbarie israeliana, chiediamo alla società civile di agire in modo non violento
per indurre Israele al rispetto della legalità.
L’unica arma non violenta che abbiamo in mano è la campagna di boicottaggio economico e culturale contro lo stato dell’apartheid, del “piombo fuso”, dell’assedio inumano e illegale di Gaza, del muro illecito e scippatore di acqua e terra, dell’occupazione militare, degli insediamenti illegali e, ora, anche della pirateria.
Ricordiamo che solo condannando la strage presente e le stragi passate potremo evitare stragi future.
CHIEDIAMO GIUSTIZIA, DIFENDIAMO I DIRITTI UMANI, FERMIAMO ISRAELE
Associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese
pres@palestinamezzalunarossa.org
www.palestinamezzalunarossa.org
venerdì 28 maggio 2010
CHI BOICOTTA CHI?
di Alessandra Mecozzi
Ufficio internazionale Fiom
In questi giorni si svolgono due iniziative importanti promosse dal movimento di solidarietà internazionale con la Palestina: la campagna Stop Agrexco in Italia (attiva anche in Inghilterra e in Francia) e la partenza di 8 navi “La flotta della libertà” per raggiungere Gaza con aiuti umanitari e circa 800, tra attivisti e parlamentari, a bordo.
Nel primo caso si tratta di una campagna volta al boicottaggio dei prodotti ortofrutticoli provenienti da Israele e commercializzati dalla società Carmel-Agrexco. I gruppi e le associazioni aderenti a questa campagna hanno scritto e si sono incontrati con i responsabili della Coop Italia spiegando le ragioni dell'iniziativa.
In risposta, la Coop ha deciso di sospendere la commercializzazione di tali prodotti etichettati “made in Israel”, ma in parte provenienti dagli illegali insediamenti israeliani nei territori occupati, al “fine – dice un suo comunicato – di valutare se esistono possibilità di specificare maggiormente l'origine, così da salvaguardare un diritto di informazione al consumatore”.
Questa decisione, corretta e rispettosa sia dei consumatori che della legalità, ha conquistato l'onore delle cronache, in particolare per reazioni scomposte e accuse alla Coop di razzismo e discriminazione verso Israele. Alcuni parlamentari - purtroppo anche del centrosinistra – sono insorti contro questa decisione.
Ma se le parole “razzismo e discriminazione” hanno un senso, esse andrebbero forse rivolte contro chi strangola l'economia palestinese (pressoché interamente dipendente da quella israeliana), o la distrugge, abbattendo centinaia di olivi e alberi da frutta nei territori occupati! Qualcuno dovrebbe ascoltare qualche associazione israeliana come il Wac (Centro per i lavoratori) da anni impegnate a combattere le discriminazioni subite dai palestinesi che lavorano in Israele, supersfruttati, con salari inferiori a quelli dei loro colleghi israeliani! Fa rabbrividire, per la sua voluta cecità e strumentalità, l'evocazione del periodo nazista e del boicottaggio ai commercianti ebrei!
Perfino un'associazione israeliana “Gush Shalom” ha scritto alla società Carmel-Agrexco facendo presente che “Già da molti anni la vostra azienda ha l'abitudine di commercializzare a livello internazionale i prodotti provenienti dagli insediamenti nei territori occupati. Come siete senza dubbio a conoscenza - anche se non vi siete scomodati nel farlo sapere al pubblico israeliano - questa pratica sta suscitando una forte opposizione in tutto il mondo, particolarmente in Europa, nella forma di manifestazioni, petizioni di protesta e così via...”, concludendo che questo comportamento rischia di essere letale per tutta l'agricoltura israeliana!
La decisione della Coop è quindi corretta e attenta alla legalità, e per questo va ringraziata. Le reazioni scomposte contro di essa sono il sintomo di un nervo scoperto: quello della persistente illegalità della politica israeliana che in barba a tutte le Risoluzioni Onu come alle richieste dell'Amministrazione degli Stati Uniti, continua arrogantemente nella politica di colonizzazione e di annessione di pezzi di terra palestinese (con gli insediamenti e con la costruzione del muro all'interno dei territori palestinesi stessi).
L'iniziativa di “stopagrexco”, parte della campagna internazionale per il “boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni” verso la politica israeliana, ha il merito di denunciare pubblicamente e con azioni concrete l'impunità della politica israeliana, con le sue violazioni del diritto internazionale e dei diritti della popolazione palestinese.
La società civile, i movimenti di solidarietà, hanno il diritto e il dovere di agire in questa direzione. Del resto anche il Congresso della Fiom si è espresso in questa direzione nell'ordine del giorno votato a larghissima maggioranza.
La questione piuttosto riguarda una comunità internazionale istituzionale dormiente, che da anni consente il prevalere della legge del più forte, perfino nel caso di un attacco militare distruttivo quale quello portato nel 2008 contro Gaza, tenuta da tre anni sotto embargo con danni umani sociali ed economici enormi.
E in questo senso va l'iniziativa della “Flotta della libertà” – che non troverete sulle pagine dei giornali, forse perché denuncia un “boicottaggio” operato dal governo israeliano: 8 navi in partenza, qualcuna già partita, verso Gaza, per rompere l'assedio a questa striscia di terra e a questa popolazione.
A bordo delle navi – già minacciate da Israele – ci sono 800 attivisti internazionali e grandi carichi di merci e macchinari fondamentali per la costruzione, l'elettricità, la sanità, la scuola...insomma i bisogni primari della popolazione.
È un'impresa generosa e originale, contro cui si appuntano già le minacce del governo israeliano.
Niente di più chiaro di quanto scritto da Gideon Levy nel suo articolo “Boicottare i boicottatori” uscito il 16 maggio su uno dei maggiori quotidiani israeliani Haaretz: “...Il più brutale, esplicito boicottaggio è ovviamente l'assedio di Gaza e il rifiuto di contatti con Hamas.
Su richiesta di Israele, quasi tutti i paesi occidentali hanno aderito a questo boicottaggio con inspiegabile impegno. Questo non è solo un assedio che ha lasciato Gaza in uno stato di carenza per tre anni. Né si tratta solo di un completo (e sciocco) boicottaggio di contatti con Hamas, salvo che per i negoziati sul soldato rapito Gilad Shalit. Si tratta di un insieme di boicottaggi culturali, accademici, umanitari ed economici. Quasi ogni diplomatico che cerca di entrare a Gaza per vedere con i propri occhi l'insopportabile scena viene minacciato da Israele. Inoltre, Israele vieta l'ingresso a chiunque voglia portare aiuti umanitari.
Dobbiamo notare che il boicottaggio non è solo contro Hamas ma contro tutta la Striscia di Gaza, contro tutti coloro che ci vivono.
La flotta di navi che presto salperà dall'Europa per cercare di rompere l'assedio porterà migliaia di tonnellate di materiali da costruzione, case prefabbricate e medicinali. Israele ha già annunciato che fermerà le navi. Un boicottaggio è un boicottaggio”.
Probabilmente domani o dopodomani le navi si troveranno nelle acque di Gaza, sotto le minacce israeliane. Ognuno può inviare il suo sostegno firmando la petizione:
http://www.fiom.cgil.it/internazionale/mondo/palestina_israele/10_05_25-flotta.htm
Ufficio internazionale Fiom
In questi giorni si svolgono due iniziative importanti promosse dal movimento di solidarietà internazionale con la Palestina: la campagna Stop Agrexco in Italia (attiva anche in Inghilterra e in Francia) e la partenza di 8 navi “La flotta della libertà” per raggiungere Gaza con aiuti umanitari e circa 800, tra attivisti e parlamentari, a bordo.
Nel primo caso si tratta di una campagna volta al boicottaggio dei prodotti ortofrutticoli provenienti da Israele e commercializzati dalla società Carmel-Agrexco. I gruppi e le associazioni aderenti a questa campagna hanno scritto e si sono incontrati con i responsabili della Coop Italia spiegando le ragioni dell'iniziativa.
In risposta, la Coop ha deciso di sospendere la commercializzazione di tali prodotti etichettati “made in Israel”, ma in parte provenienti dagli illegali insediamenti israeliani nei territori occupati, al “fine – dice un suo comunicato – di valutare se esistono possibilità di specificare maggiormente l'origine, così da salvaguardare un diritto di informazione al consumatore”.
Questa decisione, corretta e rispettosa sia dei consumatori che della legalità, ha conquistato l'onore delle cronache, in particolare per reazioni scomposte e accuse alla Coop di razzismo e discriminazione verso Israele. Alcuni parlamentari - purtroppo anche del centrosinistra – sono insorti contro questa decisione.
Ma se le parole “razzismo e discriminazione” hanno un senso, esse andrebbero forse rivolte contro chi strangola l'economia palestinese (pressoché interamente dipendente da quella israeliana), o la distrugge, abbattendo centinaia di olivi e alberi da frutta nei territori occupati! Qualcuno dovrebbe ascoltare qualche associazione israeliana come il Wac (Centro per i lavoratori) da anni impegnate a combattere le discriminazioni subite dai palestinesi che lavorano in Israele, supersfruttati, con salari inferiori a quelli dei loro colleghi israeliani! Fa rabbrividire, per la sua voluta cecità e strumentalità, l'evocazione del periodo nazista e del boicottaggio ai commercianti ebrei!
Perfino un'associazione israeliana “Gush Shalom” ha scritto alla società Carmel-Agrexco facendo presente che “Già da molti anni la vostra azienda ha l'abitudine di commercializzare a livello internazionale i prodotti provenienti dagli insediamenti nei territori occupati. Come siete senza dubbio a conoscenza - anche se non vi siete scomodati nel farlo sapere al pubblico israeliano - questa pratica sta suscitando una forte opposizione in tutto il mondo, particolarmente in Europa, nella forma di manifestazioni, petizioni di protesta e così via...”, concludendo che questo comportamento rischia di essere letale per tutta l'agricoltura israeliana!
La decisione della Coop è quindi corretta e attenta alla legalità, e per questo va ringraziata. Le reazioni scomposte contro di essa sono il sintomo di un nervo scoperto: quello della persistente illegalità della politica israeliana che in barba a tutte le Risoluzioni Onu come alle richieste dell'Amministrazione degli Stati Uniti, continua arrogantemente nella politica di colonizzazione e di annessione di pezzi di terra palestinese (con gli insediamenti e con la costruzione del muro all'interno dei territori palestinesi stessi).
L'iniziativa di “stopagrexco”, parte della campagna internazionale per il “boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni” verso la politica israeliana, ha il merito di denunciare pubblicamente e con azioni concrete l'impunità della politica israeliana, con le sue violazioni del diritto internazionale e dei diritti della popolazione palestinese.
La società civile, i movimenti di solidarietà, hanno il diritto e il dovere di agire in questa direzione. Del resto anche il Congresso della Fiom si è espresso in questa direzione nell'ordine del giorno votato a larghissima maggioranza.
La questione piuttosto riguarda una comunità internazionale istituzionale dormiente, che da anni consente il prevalere della legge del più forte, perfino nel caso di un attacco militare distruttivo quale quello portato nel 2008 contro Gaza, tenuta da tre anni sotto embargo con danni umani sociali ed economici enormi.
E in questo senso va l'iniziativa della “Flotta della libertà” – che non troverete sulle pagine dei giornali, forse perché denuncia un “boicottaggio” operato dal governo israeliano: 8 navi in partenza, qualcuna già partita, verso Gaza, per rompere l'assedio a questa striscia di terra e a questa popolazione.
A bordo delle navi – già minacciate da Israele – ci sono 800 attivisti internazionali e grandi carichi di merci e macchinari fondamentali per la costruzione, l'elettricità, la sanità, la scuola...insomma i bisogni primari della popolazione.
È un'impresa generosa e originale, contro cui si appuntano già le minacce del governo israeliano.
Niente di più chiaro di quanto scritto da Gideon Levy nel suo articolo “Boicottare i boicottatori” uscito il 16 maggio su uno dei maggiori quotidiani israeliani Haaretz: “...Il più brutale, esplicito boicottaggio è ovviamente l'assedio di Gaza e il rifiuto di contatti con Hamas.
Su richiesta di Israele, quasi tutti i paesi occidentali hanno aderito a questo boicottaggio con inspiegabile impegno. Questo non è solo un assedio che ha lasciato Gaza in uno stato di carenza per tre anni. Né si tratta solo di un completo (e sciocco) boicottaggio di contatti con Hamas, salvo che per i negoziati sul soldato rapito Gilad Shalit. Si tratta di un insieme di boicottaggi culturali, accademici, umanitari ed economici. Quasi ogni diplomatico che cerca di entrare a Gaza per vedere con i propri occhi l'insopportabile scena viene minacciato da Israele. Inoltre, Israele vieta l'ingresso a chiunque voglia portare aiuti umanitari.
Dobbiamo notare che il boicottaggio non è solo contro Hamas ma contro tutta la Striscia di Gaza, contro tutti coloro che ci vivono.
La flotta di navi che presto salperà dall'Europa per cercare di rompere l'assedio porterà migliaia di tonnellate di materiali da costruzione, case prefabbricate e medicinali. Israele ha già annunciato che fermerà le navi. Un boicottaggio è un boicottaggio”.
Probabilmente domani o dopodomani le navi si troveranno nelle acque di Gaza, sotto le minacce israeliane. Ognuno può inviare il suo sostegno firmando la petizione:
http://www.fiom.cgil.it/internazionale/mondo/palestina_israele/10_05_25-flotta.htm
LICENZA DI UCCIDERE
ISRAELE, POLIZIA AL DI SOPRA DELLA LEGGE
Il caso del bambino Ahmed Moussa. Il poliziotto che gli sparo' e’ stato accusato solo di omicidio colposo
Ramallah, 27 maggio 2010, Nena News - Dal 2001 ad oggi il gruppo per i diritti umani BT’selem ha seguito 35 casi di palestinesi feriti o uccisi da proiettili sparati dalla polizia israeliana. Solo per due di questi la giustizia israeliana si e’ attivata per trovare e incriminare i responsabili. Uno di questi e’ il caso di Ahmed Moussa. Martedi il poliziotto israeliano che gli ha sparato alla testa a Ni’lin nel luglio del 2008, uccidendolo, e’ stato accusato solo di omicidio colposo e non di omicidio volontario.
Durante la seconda Intifada, il 90% dei crimini commessi contro civili palestinesi per mano dell’esercito o della polizia israeliana e sottoposti al MPCDI (Dipartimento di polizia militare per indiagini criminali) sono finiti con un file archiviato. Senza che venisse formulato alcun capo d’accusa. Visto che esercito e polizia sono quasi sempre al di sopra della legge, in alcuni casi sono le stesse associazioni israeliane per i diritti umani, a farsi carico della raccolta di prove, dell’apertura dei file, del monitoraggio dell’iter legale e della richiesta di ulteriori indagini.
Ahmed Moussa aveva 10 anni. Nel luglio del 2008, e’ stato sparato alla testa, nel corso di una protesta contro il muro di separazione israeliano a Ni’lin, uno dei numerosi villaggi in cui va avanti la resistenza non-violenta contro la costruzione della barriera e l’espansione delle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata.
Finora il responsabile non era stato perseguito e martedi’ un ufficiale della polizia di confine israeliana e’ stato incriminato solo per omicidio colposo.
Il 29 luglio 2008 Ahmed era con alcuni suoi compagni alla protesta del venerdi a Ni’lin. Secondo quanto riportato dagli altri manifestanti, Ahmed cercando di scappare dai gas lacrimogeni tirati dall’esercito israeliano per disperdere i manifestanti, ha perso una scarpa e mentre si chinava a raccoglierla, un ufficiale gli ha sparato un proiettile. Ahmad e’ arrivato morto all’ospedale di Ramallah, mentre a suo padre l’esercito ha negato di accompagnare il figlio in ospedale, imponendo un coprifuoco su tutto il villaggio, che e’ durato per oltre tre giorni.
Due organizzazioni israeliane, Bt’selem e Yesh Din hanno condotto ricerche dopo l’uccisione di Ahmed: le testimonianze raccolte cosi’ come le dichiarazioni dei medici di Ramallah che hanno esaminato la ferita, hanno confermato che Ahmed e’ stato colpito con un proiettile da arma da fuoco.
Solo dopo che le due organizzazioni hanno fatto quindi appello alle autorita’, la polizia ha finalmente aperto un’indagine ufficiale. E un incontro congiunto tra esercito e Polizia di frontiera ha concluso che la morte del ragazzino era stata provocata da “fuoco israeliano”. Durante l’interrogatorio, l’ufficiale ha ammesso di aver sparato proiettili come mezzo di ammonimento ai dimostranti. A febbraio, l’accusa aveva sostenuto -per l’ufficiale sospetto – l’omicidio colposo come capo d’imputazione. Nel corso dell’udienza, le richieste della difesa sono state rifiutate e martedi l’ufficiale israeliano e’ stato incriminato per omicidio colposo.
Una notizia subito diffusa dalle associazioni israeliane, visto che dal 2000 si contano su un palmo della mano i casi in cui ufficiali della polizia o dell’esercito israeliano sono stati perseguiti dalla legge per i crimini commessi contro i palestinesi.
Dal 2001, sempre Bt’selem ha seguito 35 casi di palestinesi uccisi e feriti. Solo per 16 casi e’ stata aperta un’indagine. Solo in due casi e’ stata formulato un capo d’accusa. Uno di questi e’ il caso di Ahmed. (red) Nena News
Il caso del bambino Ahmed Moussa. Il poliziotto che gli sparo' e’ stato accusato solo di omicidio colposo
Ramallah, 27 maggio 2010, Nena News - Dal 2001 ad oggi il gruppo per i diritti umani BT’selem ha seguito 35 casi di palestinesi feriti o uccisi da proiettili sparati dalla polizia israeliana. Solo per due di questi la giustizia israeliana si e’ attivata per trovare e incriminare i responsabili. Uno di questi e’ il caso di Ahmed Moussa. Martedi il poliziotto israeliano che gli ha sparato alla testa a Ni’lin nel luglio del 2008, uccidendolo, e’ stato accusato solo di omicidio colposo e non di omicidio volontario.
Durante la seconda Intifada, il 90% dei crimini commessi contro civili palestinesi per mano dell’esercito o della polizia israeliana e sottoposti al MPCDI (Dipartimento di polizia militare per indiagini criminali) sono finiti con un file archiviato. Senza che venisse formulato alcun capo d’accusa. Visto che esercito e polizia sono quasi sempre al di sopra della legge, in alcuni casi sono le stesse associazioni israeliane per i diritti umani, a farsi carico della raccolta di prove, dell’apertura dei file, del monitoraggio dell’iter legale e della richiesta di ulteriori indagini.
Ahmed Moussa aveva 10 anni. Nel luglio del 2008, e’ stato sparato alla testa, nel corso di una protesta contro il muro di separazione israeliano a Ni’lin, uno dei numerosi villaggi in cui va avanti la resistenza non-violenta contro la costruzione della barriera e l’espansione delle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata.
Finora il responsabile non era stato perseguito e martedi’ un ufficiale della polizia di confine israeliana e’ stato incriminato solo per omicidio colposo.
Il 29 luglio 2008 Ahmed era con alcuni suoi compagni alla protesta del venerdi a Ni’lin. Secondo quanto riportato dagli altri manifestanti, Ahmed cercando di scappare dai gas lacrimogeni tirati dall’esercito israeliano per disperdere i manifestanti, ha perso una scarpa e mentre si chinava a raccoglierla, un ufficiale gli ha sparato un proiettile. Ahmad e’ arrivato morto all’ospedale di Ramallah, mentre a suo padre l’esercito ha negato di accompagnare il figlio in ospedale, imponendo un coprifuoco su tutto il villaggio, che e’ durato per oltre tre giorni.
Due organizzazioni israeliane, Bt’selem e Yesh Din hanno condotto ricerche dopo l’uccisione di Ahmed: le testimonianze raccolte cosi’ come le dichiarazioni dei medici di Ramallah che hanno esaminato la ferita, hanno confermato che Ahmed e’ stato colpito con un proiettile da arma da fuoco.
Solo dopo che le due organizzazioni hanno fatto quindi appello alle autorita’, la polizia ha finalmente aperto un’indagine ufficiale. E un incontro congiunto tra esercito e Polizia di frontiera ha concluso che la morte del ragazzino era stata provocata da “fuoco israeliano”. Durante l’interrogatorio, l’ufficiale ha ammesso di aver sparato proiettili come mezzo di ammonimento ai dimostranti. A febbraio, l’accusa aveva sostenuto -per l’ufficiale sospetto – l’omicidio colposo come capo d’imputazione. Nel corso dell’udienza, le richieste della difesa sono state rifiutate e martedi l’ufficiale israeliano e’ stato incriminato per omicidio colposo.
Una notizia subito diffusa dalle associazioni israeliane, visto che dal 2000 si contano su un palmo della mano i casi in cui ufficiali della polizia o dell’esercito israeliano sono stati perseguiti dalla legge per i crimini commessi contro i palestinesi.
Dal 2001, sempre Bt’selem ha seguito 35 casi di palestinesi uccisi e feriti. Solo per 16 casi e’ stata aperta un’indagine. Solo in due casi e’ stata formulato un capo d’accusa. Uno di questi e’ il caso di Ahmed. (red) Nena News
LA VITA DEI PALESTINESI E' AGLI ARRESTI DOMICILIARI
IL SOGNO DI HANNINE: ANDARE AL MARE
Il racconto di una ragazza del campo profughi di Deheishe che, a causa dell'occupazione, non aveva mai visto il mare
Deheishe (Betlemme) 27 maggio 2010, Nena News - Mi chiamo Hannine e sono una ragazza palestinese. Una rifugiata fin dalla nascita e da sempre in un campo profughi. Ho vissuto abbastanza per raccontarvi molte storie sulla vita qui. Oggi pero’ c’e' una cosa di cui vorrei parlare: il mio sogno.
Il mio sogno come quelli che fanno altre giovani donne nel mondo, è vivere una vita normale. Una vita lontana dalla guerra e dall’occupazione israeliana, una vita in uno stato indipendente. Una vita in cui regni la pace. Una vita in cui mi sia concesso di andare al mare: il mio sogno è andare al mare.
Posso andare al mare in paesi che non sono i miei, in posti lontani ed esotici, però il mio sogno è andare al mare nel mio paese, ad un’ora da casa mia. Noi palestinesi non abbiamo quel diritto che a molti pare scontato: andare al mare…
Da molti anni cercavo qualcuno che potesse portarmi al mare illegalmente, perché per me andare al mare è illegale. Qualche giorno fa parlavo con un’amica italiana e le dicevo che non ero mai stata al mare, mi ha guardato sconvolta e mi ha detto: “Davvero? Non sei mai stata al mare qui?”. Ho detto di no e mi ha promesso che mi avrebbe portata durante il week end. Ed è così che sono rimasta in attesa di quel giorno e la notte precedente non potevo dormire, il cuore mi batteva nel ventre, non potevo chiudere gli occhi. E’ infine sorto il sole e la mia amica è venuta a prendermi in macchina.
Per raggiungere il mare ho fatto cose di cui non ho orgoglio, ma senza le quali non avrei mai potuto attraversare il chek point insospettata. Mi sono vestita con abiti che non sono i miei, abbiamo lasciato suonare una musica sconosicuta nello stereo della macchina. Al posto di blocco si avvicinava e non smettevo di pregare, non riuscivo a contenere la paura per quanto sarebbe accaduto se ci avessero fermate. Eppure è stato un attimo, la macchina è scivolata, il mio cuore in discesa a perdifiato, in un battito, eravamo dal’altra parte: i soldati non ci avevano fermate. Ed ho pianto, volevo parlare, gridare, ma non sapevo a chi indirizzare le mie parole. Finalmente potevo guardare dall’altra parte del finestrino, annusare la libertà nell’aria e la bellezza del mio paese. Ho afferrato la macchina fotografica e senza sosta ho scattato mille fotografie, perché non sapevo quando e se sarei potuta ritornare.
Guardavo i boschi, le strade, gli alberi e la mia amica mi indicava i villaggi palestinesi evacuati nel 1948: “Quella era la moschea, questo è Beit Jibrin”. Così ho provato un dolore indescrivibile, sentirmi straniera nel mio proprio paese: era lei, italiana, che mi indicava i luoghi che io avrei dovuto descriverle. Eppure ho preferito ascoltarla, perché non avevo mai visto quei posti, e li conoscevo solamente nei racconti dei miei parenti più anziani.
Ed è così che ho realizzato il mio sogno più grande: andare al mare. Il mio mare, non quello di altri.
Vorrei che il mio sogno fosse legale, come lo è il sogno di libertà di ogni essere umano.
Hannine, campo profughi Dehishe (Betlemme)
articolo scritto in collaborazione con Caterina Donattini
Il racconto di una ragazza del campo profughi di Deheishe che, a causa dell'occupazione, non aveva mai visto il mare
Deheishe (Betlemme) 27 maggio 2010, Nena News - Mi chiamo Hannine e sono una ragazza palestinese. Una rifugiata fin dalla nascita e da sempre in un campo profughi. Ho vissuto abbastanza per raccontarvi molte storie sulla vita qui. Oggi pero’ c’e' una cosa di cui vorrei parlare: il mio sogno.
Il mio sogno come quelli che fanno altre giovani donne nel mondo, è vivere una vita normale. Una vita lontana dalla guerra e dall’occupazione israeliana, una vita in uno stato indipendente. Una vita in cui regni la pace. Una vita in cui mi sia concesso di andare al mare: il mio sogno è andare al mare.
Posso andare al mare in paesi che non sono i miei, in posti lontani ed esotici, però il mio sogno è andare al mare nel mio paese, ad un’ora da casa mia. Noi palestinesi non abbiamo quel diritto che a molti pare scontato: andare al mare…
Da molti anni cercavo qualcuno che potesse portarmi al mare illegalmente, perché per me andare al mare è illegale. Qualche giorno fa parlavo con un’amica italiana e le dicevo che non ero mai stata al mare, mi ha guardato sconvolta e mi ha detto: “Davvero? Non sei mai stata al mare qui?”. Ho detto di no e mi ha promesso che mi avrebbe portata durante il week end. Ed è così che sono rimasta in attesa di quel giorno e la notte precedente non potevo dormire, il cuore mi batteva nel ventre, non potevo chiudere gli occhi. E’ infine sorto il sole e la mia amica è venuta a prendermi in macchina.
Per raggiungere il mare ho fatto cose di cui non ho orgoglio, ma senza le quali non avrei mai potuto attraversare il chek point insospettata. Mi sono vestita con abiti che non sono i miei, abbiamo lasciato suonare una musica sconosicuta nello stereo della macchina. Al posto di blocco si avvicinava e non smettevo di pregare, non riuscivo a contenere la paura per quanto sarebbe accaduto se ci avessero fermate. Eppure è stato un attimo, la macchina è scivolata, il mio cuore in discesa a perdifiato, in un battito, eravamo dal’altra parte: i soldati non ci avevano fermate. Ed ho pianto, volevo parlare, gridare, ma non sapevo a chi indirizzare le mie parole. Finalmente potevo guardare dall’altra parte del finestrino, annusare la libertà nell’aria e la bellezza del mio paese. Ho afferrato la macchina fotografica e senza sosta ho scattato mille fotografie, perché non sapevo quando e se sarei potuta ritornare.
Guardavo i boschi, le strade, gli alberi e la mia amica mi indicava i villaggi palestinesi evacuati nel 1948: “Quella era la moschea, questo è Beit Jibrin”. Così ho provato un dolore indescrivibile, sentirmi straniera nel mio proprio paese: era lei, italiana, che mi indicava i luoghi che io avrei dovuto descriverle. Eppure ho preferito ascoltarla, perché non avevo mai visto quei posti, e li conoscevo solamente nei racconti dei miei parenti più anziani.
Ed è così che ho realizzato il mio sogno più grande: andare al mare. Il mio mare, non quello di altri.
Vorrei che il mio sogno fosse legale, come lo è il sogno di libertà di ogni essere umano.
Hannine, campo profughi Dehishe (Betlemme)
articolo scritto in collaborazione con Caterina Donattini
Israele: LA SOLITA ARROGANZA
FLOTILLA:60 ESPONENTI POLITICI BLOCCATI A CIPRO
Monia Benini: "La situazione è peggiore del previsto"
Cipro 28 maggio 2010, Nena News - Stanno navigando in acque cipriote le imbarcazioni della Freedom Flotilla che sono in attesa di riunirsi per poi dirigersi verso le coste di Gaza. La delegazione di circa 60 tra parlamentari e rappresentanti politici provenienti da diversi paesi europei, ma anche da Russia e Stati Uniti, che con un’altra imbarcazione avrebbe dovuto raggiungere il resto della flotta alle 12,00 ora locale, è ferma a Cipro. “Purtroppo la situazione è peggiore del previsto”, afferma dalle coste cipriote, ai microfoni dell’emittente romana Radio Città Aperta, l’italiana Monia Benini, della Lista Civica per il Bene Comune, che aggiunge “questa mattina abbiamo avuto problemi a Larnaca quando, una volta saliti sulla nostra imbarcazione, la polizia ci ha impedito di partire, dicendo di aver avuto ordine dal governo che questa delegazione non avrebbe dovuto in alcun modo lasciare il porto. Quindi ci siamo spostati a Limassol per raggiungere il resto della carovana con un’altra imbarcazione, ma nel giro di dieci minuti, appena arrivati, siamo stati circondati dalla polizia e le autorità portuali hanno completamente blindato il porto non consentendoci la partenza. Le pressioni di Israele – prosegue Monia Benini – hanno imposto un niet alle autorità cipriote rispetto alla possibilità di ricongiungerci con il resto della flotta. Naturalmente tenteremo di nuovo di raggiungere le altre navi”. Secondo alcune indiscrezioni di questa mattina le autorità israeliane avrebbero avvertito il governo turco circa l’intenzione di attaccare militarmente la flotta intorno alle ore 13,00. “Non posso confermare l’orario dell’attacco, ma siamo al corrente delle minacce di Israele che vuole abbordare la flotta in acque internazionali. Ma le altre navi ci stanno aspettando al largo di Cipro, quindi probabilmente i piani israeliani dovranno essere rivisti. Le pressioni israeliane sono vergognose”, conclude Benini, “come sempre Israele gioca a fare il padrone”. (red) Nena News
Monia Benini: "La situazione è peggiore del previsto"
Cipro 28 maggio 2010, Nena News - Stanno navigando in acque cipriote le imbarcazioni della Freedom Flotilla che sono in attesa di riunirsi per poi dirigersi verso le coste di Gaza. La delegazione di circa 60 tra parlamentari e rappresentanti politici provenienti da diversi paesi europei, ma anche da Russia e Stati Uniti, che con un’altra imbarcazione avrebbe dovuto raggiungere il resto della flotta alle 12,00 ora locale, è ferma a Cipro. “Purtroppo la situazione è peggiore del previsto”, afferma dalle coste cipriote, ai microfoni dell’emittente romana Radio Città Aperta, l’italiana Monia Benini, della Lista Civica per il Bene Comune, che aggiunge “questa mattina abbiamo avuto problemi a Larnaca quando, una volta saliti sulla nostra imbarcazione, la polizia ci ha impedito di partire, dicendo di aver avuto ordine dal governo che questa delegazione non avrebbe dovuto in alcun modo lasciare il porto. Quindi ci siamo spostati a Limassol per raggiungere il resto della carovana con un’altra imbarcazione, ma nel giro di dieci minuti, appena arrivati, siamo stati circondati dalla polizia e le autorità portuali hanno completamente blindato il porto non consentendoci la partenza. Le pressioni di Israele – prosegue Monia Benini – hanno imposto un niet alle autorità cipriote rispetto alla possibilità di ricongiungerci con il resto della flotta. Naturalmente tenteremo di nuovo di raggiungere le altre navi”. Secondo alcune indiscrezioni di questa mattina le autorità israeliane avrebbero avvertito il governo turco circa l’intenzione di attaccare militarmente la flotta intorno alle ore 13,00. “Non posso confermare l’orario dell’attacco, ma siamo al corrente delle minacce di Israele che vuole abbordare la flotta in acque internazionali. Ma le altre navi ci stanno aspettando al largo di Cipro, quindi probabilmente i piani israeliani dovranno essere rivisti. Le pressioni israeliane sono vergognose”, conclude Benini, “come sempre Israele gioca a fare il padrone”. (red) Nena News
COMUNICATO DELLA COALIZIONE STOP AGREXCO
Venerdì 28 maggio 2010
Boicottaggio mira al rispetto per il Diritto Internazionale;
Non è contro i cittadini israeliani
Il 18 Maggio 2010, a seguito di una campagna della società civile promossa dalla coalizione STOP AGREXCO
a cui aderiscono più di 50 associazioni nazionali e locali, sindacati e partiti politici, due importanti catene italiane
di supermercati, COOP e Conad, hanno dichiarato la sospensione della vendita dei prodotti provenienti dalle
colonie israeliane nei territori palestinesi occupati. Questi prodotti sono prevalentemente commercializzati dalla
società israeliana Agrexco che ha riconosciuto durante un procedimento penale in Inghilterra nel novembre 2006,
che il 70% di tutti i prodotti agricoli provenienti dalle colonie sono da essa distribuiti in Europa con il marchio
Carmel. La decisione di COOP e Conad è stata presa nel rispetto della legalità internazionale e del diritto dei
consumatori a non comprare merci prodotte illegalmente. Infatti,
· Le colonie israeliane sono state ripetutamente definite illegali nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza
dell’ONU n°446, 452, 465, 471 e 476;
· Lo sfruttamento delle risorse naturali di un popolo sotto occupazione1, come praticato da Agrexco e da
altre compagnie israeliane che traggono profitto da questa situazione, è un crimine di guerra riconosciuto
dalla IV convenzione di Ginevra, parte III, art. 49: 12-8-1949;
· La Corte di Giustizia Europea in data 25.02.2010 ha incontestabilmente dichiarato che tali prodotti non
possono beneficiare dell’ accordo sugli scambi e la cooperazione tra Europa ed Israele firmato nel 1995,
che consente ad Israele di esportare i propri prodotti in Europa ad un regime fiscale agevolato;
· L’articolo 2 dell’accordo CEE-Israele prevede che le agevolazioni doganali decadano laddove sia
riscontrata una palese violazione dei Diritti Umani, come quella posta in essere dal Governo Israeliano nei
confronti della popolazione Palestinese attraverso la confisca illegittima delle loro terre per la costruzione
degli insediamenti israeliani e la costruzione del Muro di segregazione, condannata dalla Corte
Internazionale di Giustizia dell’Aia nel 2004.
La scelta di COOP e Conad ha scatenato in Italia una vasta campagna mediatica e politica che ha usato accuse
ignobili di razzismo ed anti-semitismo volta a discreditare le incontestabili ragioni che stavano alla base delle
misure adottate da tali aziende.
È triste ed offensivo che si tacci di razzismo ed antisemitismo una iniziativa promossa nel quadro della
Campagna per il Boicottaggio, le Sanzioni e il Disinvestimento verso Israele lanciata dalla società civile
palestinese come legittima strategia di resistenza pacifica ad un’occupazione illegittima, alla quale aderiscono
associazioni di tutto il mondo che lavorano per i diritti umani e la legalità internazionale.
A queste accuse hanno risposto anche organizzazioni della società civile israeliana come Gush Shalom e
ICAHD (Comitato israeliano contro le demolizioni delle case) che appoggiano, assieme a decine di migliaia di
cittadini israeliani, il boicottaggio dei prodotti delle colonie come risposta alle politiche dello Stato Israeliano.
ICAHD in un suo comunicato ha affermato:
“Respingiamo totalmente l'accusa che la Campagna BDS sia ‘anti israeliana’. Il BDS non è una campagna
punitiva: non cerca di demonizzare il suo target. La campagna chiede unicamente che ci si adegui in modo
trasparente agli standard adottati dalla comunità internazionale.”
Purtroppo non è stato dato alcuno spazio a queste posizioni e nessuna opportunità è stata data dai media ai
rappresentanti di STOP AGREXCO per spiegare all’opinione pubblica italiana le ragioni incontestabili che
l’hanno portata ad operare verso tale risultato.
Ci auguriamo che COOP e Conad non cedano alle pressioni mediatiche e politiche, e che mantengano le scelte
di legalità e trasparenza che hanno assunto per rispondere alle istanze di consumatori, soci e consapevoli
guidati dal desiderio di prevenire attraverso i propri consumi la violenza e l’ingiustizia nel mondo, al di là delle
pressioni di potenti lobby volte a discreditarne l’operato.
D’altra parte è nostra intenzione richiedere a COOP e Conad informazioni dettagliate su come intendono
concretamente procedere su un percorso di legalità e trasparenza nella tracciabilità dei prodotti alla luce della
difficoltà di verificare la provenienza reale delle merci, anche a causa di politiche poco trasparenti delle aziende
coinvolte (false etichettature, triangolazioni, ecc.) e quali le misure intendono adottare per arrivare ad una
distinzione inequivocabile tra i prodotti “Made in Israel” e quelli prodotti nei territori occupati.
Sarà nostro compito controllare l’effettiva applicazione degli impegni presi e segnalare eventuali mancanze.
Ribadiamo infine inequivocabilmente il nostro impegno per il boicottaggio di tutti i prodotti Agrexco, trattandosi di
un’impresa che trae profitto dall'occupazione illegale di terre sottratte con la forza ai proprietari legittimi, come
documentato dalle fotografie accessibili presso questo sito web: www.corporateoccupation.wordpress.com
Per contatti:
Stop Agrexco Italia - stopagrexcoitalia@gmail.com, Cell: 333 11 03 510
Maggiori informazioni sul sito web, incluse le lettere di Gush Shalom e ICAHD: www.stopagrexcoitalia.org
1 Nel luglio 2004 la Corte Internazionale di Giustizia ha definito occupati da Israele i territori palestinesi
conquistati (compresa Gerusalemme est) a seguito della guerra dei sei giorni del 1967.
Boicottaggio mira al rispetto per il Diritto Internazionale;
Non è contro i cittadini israeliani
Il 18 Maggio 2010, a seguito di una campagna della società civile promossa dalla coalizione STOP AGREXCO
a cui aderiscono più di 50 associazioni nazionali e locali, sindacati e partiti politici, due importanti catene italiane
di supermercati, COOP e Conad, hanno dichiarato la sospensione della vendita dei prodotti provenienti dalle
colonie israeliane nei territori palestinesi occupati. Questi prodotti sono prevalentemente commercializzati dalla
società israeliana Agrexco che ha riconosciuto durante un procedimento penale in Inghilterra nel novembre 2006,
che il 70% di tutti i prodotti agricoli provenienti dalle colonie sono da essa distribuiti in Europa con il marchio
Carmel. La decisione di COOP e Conad è stata presa nel rispetto della legalità internazionale e del diritto dei
consumatori a non comprare merci prodotte illegalmente. Infatti,
· Le colonie israeliane sono state ripetutamente definite illegali nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza
dell’ONU n°446, 452, 465, 471 e 476;
· Lo sfruttamento delle risorse naturali di un popolo sotto occupazione1, come praticato da Agrexco e da
altre compagnie israeliane che traggono profitto da questa situazione, è un crimine di guerra riconosciuto
dalla IV convenzione di Ginevra, parte III, art. 49: 12-8-1949;
· La Corte di Giustizia Europea in data 25.02.2010 ha incontestabilmente dichiarato che tali prodotti non
possono beneficiare dell’ accordo sugli scambi e la cooperazione tra Europa ed Israele firmato nel 1995,
che consente ad Israele di esportare i propri prodotti in Europa ad un regime fiscale agevolato;
· L’articolo 2 dell’accordo CEE-Israele prevede che le agevolazioni doganali decadano laddove sia
riscontrata una palese violazione dei Diritti Umani, come quella posta in essere dal Governo Israeliano nei
confronti della popolazione Palestinese attraverso la confisca illegittima delle loro terre per la costruzione
degli insediamenti israeliani e la costruzione del Muro di segregazione, condannata dalla Corte
Internazionale di Giustizia dell’Aia nel 2004.
La scelta di COOP e Conad ha scatenato in Italia una vasta campagna mediatica e politica che ha usato accuse
ignobili di razzismo ed anti-semitismo volta a discreditare le incontestabili ragioni che stavano alla base delle
misure adottate da tali aziende.
È triste ed offensivo che si tacci di razzismo ed antisemitismo una iniziativa promossa nel quadro della
Campagna per il Boicottaggio, le Sanzioni e il Disinvestimento verso Israele lanciata dalla società civile
palestinese come legittima strategia di resistenza pacifica ad un’occupazione illegittima, alla quale aderiscono
associazioni di tutto il mondo che lavorano per i diritti umani e la legalità internazionale.
A queste accuse hanno risposto anche organizzazioni della società civile israeliana come Gush Shalom e
ICAHD (Comitato israeliano contro le demolizioni delle case) che appoggiano, assieme a decine di migliaia di
cittadini israeliani, il boicottaggio dei prodotti delle colonie come risposta alle politiche dello Stato Israeliano.
ICAHD in un suo comunicato ha affermato:
“Respingiamo totalmente l'accusa che la Campagna BDS sia ‘anti israeliana’. Il BDS non è una campagna
punitiva: non cerca di demonizzare il suo target. La campagna chiede unicamente che ci si adegui in modo
trasparente agli standard adottati dalla comunità internazionale.”
Purtroppo non è stato dato alcuno spazio a queste posizioni e nessuna opportunità è stata data dai media ai
rappresentanti di STOP AGREXCO per spiegare all’opinione pubblica italiana le ragioni incontestabili che
l’hanno portata ad operare verso tale risultato.
Ci auguriamo che COOP e Conad non cedano alle pressioni mediatiche e politiche, e che mantengano le scelte
di legalità e trasparenza che hanno assunto per rispondere alle istanze di consumatori, soci e consapevoli
guidati dal desiderio di prevenire attraverso i propri consumi la violenza e l’ingiustizia nel mondo, al di là delle
pressioni di potenti lobby volte a discreditarne l’operato.
D’altra parte è nostra intenzione richiedere a COOP e Conad informazioni dettagliate su come intendono
concretamente procedere su un percorso di legalità e trasparenza nella tracciabilità dei prodotti alla luce della
difficoltà di verificare la provenienza reale delle merci, anche a causa di politiche poco trasparenti delle aziende
coinvolte (false etichettature, triangolazioni, ecc.) e quali le misure intendono adottare per arrivare ad una
distinzione inequivocabile tra i prodotti “Made in Israel” e quelli prodotti nei territori occupati.
Sarà nostro compito controllare l’effettiva applicazione degli impegni presi e segnalare eventuali mancanze.
Ribadiamo infine inequivocabilmente il nostro impegno per il boicottaggio di tutti i prodotti Agrexco, trattandosi di
un’impresa che trae profitto dall'occupazione illegale di terre sottratte con la forza ai proprietari legittimi, come
documentato dalle fotografie accessibili presso questo sito web: www.corporateoccupation.wordpress.com
Per contatti:
Stop Agrexco Italia - stopagrexcoitalia@gmail.com, Cell: 333 11 03 510
Maggiori informazioni sul sito web, incluse le lettere di Gush Shalom e ICAHD: www.stopagrexcoitalia.org
1 Nel luglio 2004 la Corte Internazionale di Giustizia ha definito occupati da Israele i territori palestinesi
conquistati (compresa Gerusalemme est) a seguito della guerra dei sei giorni del 1967.
lunedì 24 maggio 2010
Un'accurata analisi
“Come Israele ha portato Gaza sull’orlo della catastrofe umanitaria”
Il professore di relazioni internazionali ad Oxford, Avi Shlaim, ha prestato servizio nell’esercito israeliano e non ha mai contestato la legittimità dello stato. Ma la sua spietata aggressione a Gaza lo ha portato a conclusioni sconvolgenti.
di Avi Shlaim
L’unico modo per dare un senso alla guerra israeliana entro Gaza, che è priva di senso alcuno, è quello che passa attraverso la comprensione del contesto storico. La fondazione dello stato di Israele nel maggio del 1948 ha comportato una monumentale ingiustizia nei confronti dei palestinesi. Ufficiali britannici si sono risentiti amaramente per la parzialità americana a favore del neonato stato. Il 2 giugno 1948, Sir John Troutbeck scrisse al Segretario degli Esteri, Ernest Bevin, che gli americani erano responsabili della creazione di uno stato criminale guidato da “una serie di leader totalmente privi di scrupoli”. Ero portato a pensare che questo giudizio fosse stato troppo duro, ma la brutale aggressione di Israele alla popolazione di Gaza, e la complicità dell’amministrazione Bush, hanno riaperto la questione.
Scrivo in quanto persona che ha prestato servizio lealmente nell’esercito israeliano a metà degli anni ’60 e che non ha messo mai in discussione la legittimità dello stato di Israele all’interno dei confini che precedono il 1967. Ciò che respingo del tutto è il progetto coloniale sionista oltre la Linea Verde. L’occupazione israeliana della West Bank e della Striscia di Gaza nel periodo successivo alla guerra del giugno del 1967 ha avuto a che fare ben poco con la sicurezza, mentre ha avuto a che fare con l’espansione territoriale. Lo scopo era quello di dar vita ad una Grande Israele grazie al controllo permanente di tipo politico, economico e militare sui Territori Palestinesi. Ed il risultato è stato quello di una delle più prolungate e brutali occupazioni militari dei tempi moderni.
Quattro decenni di controllo israeliano hanno danneggiato in modo incalcolabile l’economia della Striscia di Gaza. Con una popolazione numerosa, costituita da profughi del 1948, stipata entro una sottile striscia di terra, senz’alcuna infrastruttura o risorsa naturale, le prospettive di Gaza non erano mai state brillanti. Tuttavia, Gaza non rappresenta semplicemente un caso di sottosviluppo economico, bensì soltanto un caso crudele di recessione deliberata. Per usare una frase della Bibbia, Israele ha convertito la popolazione di Gaza in taglialegna e portatori di acqua, in una fonte di lavoro a buon mercato e in un mercato assoggettato per i prodotti israeliani. Lo sviluppo dell’industria locale è stato interdetto con vigore tanto da far sì che sia impossibile che per i palestinesi abbia fine la loro dipendenza da Israele e che si possa avere un rafforzamento economico che è essenziale per una politica di reale indipendenza.
Gaza è un caso classico di sfruttamento coloniale in una era post-coloniale. Le colonie ebraiche nei territori occupati sono immorali, illegali e rappresentano un ostacolo insormontabile per la pace. Esse sono nel contempo strumento di sfruttamento e simbolo dell’odiata occupazione. A Gaza, nel 2005, il numero dei coloni ebrei assommava a sole 8.000 persone, rapportate a 1,4 milioni di residenti del posto. Ancora, i coloni controllavano il 25% del territorio, il 40% del terreno coltivabile e facevano la parte del leone sulle scarse risorse idriche. Molto vicino a questi intrusi stranieri, la popolazione del luogo viveva in una povertà degradante e in un’inimmaginabile miseria. L’80% di tale popolazione sopravvive ancora con meno di 2$ al giorno. Le condizioni di vita nella Striscia restano un affronto ai valori della civiltà, favoriscono un poderoso precipitare verso la resistenza e costituiscono un terreno fertile per estremismi politici.
Nell’agosto 2005, un governo del Likud con a capo Ariel Sharon, organizzò un disimpegno israeliano unilaterale da Gaza, con il ritiro di tutti gli 8.000 coloni e la distruzione delle case e delle fattorie che avevano lasciato dietro di sé. Il movimento di resistenza islamica, Hamas, aveva condotto una campagna reale per cacciare gli israeliani da Gaza. Il ritiro rappresentò un’umiliazione per le Forze di Difesa Israeliane. Nei confronti del mondo, Arien Sharon presentò il ritiro da Gaza come un contributo per la pace sulla base della soluzione a due-stati. Ma nell’anno successivo, altri 12.000 coloni si insediarono nella West Bank, riducendo ulteriormente l’opportunità per la costituzione di uno stato palestinese indipendente. L’accaparramento di terre e la realizzazione della pace sono semplicemente incompatibili. Israele ha avuto un’occasione ed esso ha scelto la terra al posto della pace.
Il proposito effettivo che sta dietro a questa mossa è stato quello di ridisegnare unilateralmente i confini della Grande Israele incorporando i principali blocchi di colonie della West Bank nello stato di Israele. Il ritiro da Gaza non è stato perciò un preliminare ad un trattato di pace con l’Autorità Palestinese, ma il preludio ad una ulteriore espansione sionista nella West Bank. E’ stata una mossa unilaterale israeliana portata avanti, da ciò che si poteva vedere, in modo errato secondo la mia opinione, come se fosse nell’interesse nazionale israeliano. Facendo perno su un fondamentale rifiuto dell’identità nazionale palestinese, il ritiro da Gaza è stato parte del tentativo a lungo termine di impedire al popolo palestinese di ottenere una qualsiasi esistenza politicamente indipendente sulla propria terra.
I coloni di Israele erano stati ritirati, ma i soldati israeliani hanno continuato a controllare tutti gli accessi alla Striscia di Gaza per via di terra, di mare e di cielo. Gaza è stata convertita in breve tempo in una prigione a cielo aperto. Da questo momento in poi, l’aviazione israeliana ha goduto della libertà incondizionata di sganciare bombe, di produrre boati volando a bassa quota e rompendo il muro del suono e di terrorizzare gli sventurati abitanti di questa prigione.
A Israele piace fare un ritratto di sé come di un’isola di democrazia in un mare di autoritarismo. Fino ad ora, in tutta la sua storia, Israele non ha mai fatto nulla per promuovere la democrazia dalla parte araba, mentre ha fatto moltissimo per metterla a repentaglio. Israele ha una lunga storia di collaborazioni segrete con regimi arabi reazionari per sopprimere il nazionalismo palestinese. Nonostante tutte le difficoltà, il popolo palestinese è riuscito a costruire la sola genuina democrazia nel mondo arabo, con la possibile eccezione del Libano. Nel gennaio 2006, elezioni libere e corrette per il Consiglio Legislativo dell’Autorità Palestinese hanno portato al potere un governo guidato da Hamas. Tuttavia, Israele si è rifiutato di riconoscere il governo democraticamente eletto, affermando che Hamas è un’organizzazione puramente e semplicemente terroristica.
America ed Unione Europea si sono unite spudoratamente ad Israele nell’ostracizzare e nel demonizzare il governo di Hamas e nel cercare di farlo cadere con il trattenere le entrate derivate dalle tasse e l’aiuto estero. Si è sviluppata così una situazione surreale con una gran parte della comunità internazionale che impone sanzioni economiche non contro l’occupante, bensì contro l’occupato, non contro l’oppressore, ma contro l’oppresso.
Come è successo tanto spesso nella tragica storia della Palestina, le vittime sono state incolpate delle loro stesse disgrazie. La macchina della propaganda di Israele si è rifornita tenacemente della nozione secondo la quale i palestinesi sono dei terroristi, del fatto che essi respingono la coesistenza con lo stato ebraico, che il loro nazionalismo è qualcosa di più dell’antisemitismo, che Hamas è veramente un gruppo di fanatici religiosi e che l’Islam è incompatibile con la democrazia. Ma la semplice verità sta nell’essere il popolo palestinese un popolo normale con aspirazioni normali. Essi non sono meglio, ma neppure peggio di qualsiasi altro gruppo nazionale. Ciò cui loro aspirano, sopra ogni altra cosa, è un pezzo di terra da poter dire propria e sulla quale vivere in libertà e con dignità.
Come altri movimenti radicali, Hamas ha cominciato con il moderare il suo programma politico subito dopo la sua ascesa al potere. Dalla posizione di rifiuto ideologico della sua carta fondativa, ha cominciato a spostarsi in direzione della risoluzione pragmatica di una soluzione a due-stati. Nel marzo 2007, Hamas e Fatah hanno formato un governo di unità nazionale che era disponibile a negoziare un cessate il fuoco di lunga durata con Israele. Ciò nonostante, Israele si è rifiutato di trattare con un governo che comprendeva Hamas.
Ha continuato a portare avanti il vecchio gioco del “divide et impera” tra le fazioni palestinesi rivali. Negli ultimi anni ’80, Israele aveva sostenuto il nascente movimento di Hamas al fine di indebolire Fatah, il movimento nazionalista laico guidato da Yasser Arafat. Ora Israele ha cominciato ad incoraggiare i corrotti e duttili dirigenti di Fatah a scalzare i loro rivali politici religiosi e a riprendere il potere. Gli aggressivi neo-consevatori americani sono stati partecipi del sinistro complotto per scatenare una guerra civile tra palestinesi. La loro ingerenza è stato il principale fattore del collasso del governo di unità nazionale e della presa di potere a Gaza da parte di Hamas nel giugno del 2007 per prevenire un colpo di stato di Fatah.
La guerra scatenata da Israele a Gaza il 27 dicembre è stata il culmine di una serie di scontri e di litigi con il governo di Hamas. In senso più ampio, tuttavia, è una guerra tra Israele e il popolo palestinese, in quanto era stato il popolo ad eleggere il partito perché assumesse il potere. Lo scopo dichiarato della guerra è quello di indebolire Hamas e di aumentare la pressione fino a fare accettare dai suoi dirigenti un nuovo cessate il fuoco secondo i termini fissati da Israele. Lo scopo non dichiarato è quello di assicurarsi che a Gaza i palestinesi siano visti dal mondo semplicemente come un problema umanitario e quindi far deragliare il senso della loro lotta per l’indipendenza e per il diritto ad uno stato.
Il momento scelto per la guerra è stato determinato dall’opportunità politica. Le elezioni generali sono in programma per il 10 febbraio e, nel periodo pre-elettorale tutti i principali contendenti stanno cercando un’opportunità per dimostrare la loro fermezza. I pezzi grossi dell’esercito stavano mordendo il freno per dare un colpo tremendo ad Hamas e rimuovere così l’onta lasciata sulla loro reputazione dal fallimento della guerra contro gli Hezbollah in Libano, nel luglio del 2006. I cinici dirigenti di Israele potevano inoltre far conto sull’apatia e sull’impotenza dei regimi arabi filo-occidentali e sul cieco sostegno da parte del Presidente Bush al crepuscolo dei termini del suo mandato alla Casa Bianca. Bush si è impegnato subito attribuendo tutta la colpa per la crisi ad Hamas, opponendo il veto alle proposte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per un immediato cessate il fuoco e dando il via libera ad Israele per l’attuazione di un’invasione terrestre di Gaza.
Come sempre, Israele afferma in modo possente di essere la vittima dell’aggressione palestinese, ma l’assoluta asimmetria della forza tra le due parti lascia poco spazio al dubbio, come pure su chi è la reale vittima. Di fatto, questo è un conflitto tra Davide e Goliath, ma le immagini bibliche sono invertite – un piccolo e indifeso Davide palestinese affronta un Goliath israeliano, fornito di armi pesanti, spietato e prepotente. Il ricorso alla forza bruta dell’esercito viene accompagnato, come sempre, dalla stridula retorica della condizione di vittima e di un groviglio di autocommiserazione ricoperta di ipocrisia. In ebraico tutto ciò è noto con il nome di sindrome di “bokhim ve-yorim”, del piangere e sparare.
Per certo, in questo conflitto Hamas non è una parte del tutto innocente. Impedito di trarre frutto dalla sua stessa vittoria elettorale e messo a confronto con un avversario senza scrupoli, esso ha fatto ricorso all’arma del terrore del debole. Militanti di Hamas e della Jihad Islami hanno continuato a lanciare attacchi con razzi Qassam contro gli insediamenti israeliani prossimi al confine con Gaza fino a che, lo scorso giugno,. l’Egitto ha mediato un cessate il fuoco di sei mesi. Il danno prodotto da questi razzi rudimentali è minimo, ma l’impatto psicologico è immenso, tanto da spingere la gente a chiedere protezione al proprio governo. Per queste circostanze, Israele ha avuto il diritto di agire in propria difesa, ma la sua risposta alle punture di spillo degli attacchi dei razzi è stata del tutto sproporzionata. I numeri parlano da soli. Nei tre anni successivi al ritiro da Gaza, sono morti 11 israeliani, uccisi dal fuoco dei razzi. Dall’altra parte , solo negli anni tra il 2005 e il 2007, l’IDF ha ucciso a Gaza ben 1.290 palestinesi, dei quali 222 sono bambini.
Qualsiasi sia il numero, l’uccisione dei civili è un’ingiustizia. Questa regola vale per Israele tanto quanto per Hamas, ma il primato completo di Israele è quello di una sfrenata brutalità senza limiti nei confronti degli abitanti di Gaza. Inoltre, Israele ha conservato il blocco di Gaza anche dopo che è entrato in funzione il cessate il fuoco, in previsione del fatto che i dirigenti di Hamas sarebbero arrivati ad una violazione dell’accordo. Durante il cessate il fuoco, Israele ha impedito qualsiasi esportazione il partenza dalla Striscia in netta violazione di un accordo del 2005, con la conseguente caduta a picco delle opportunità di lavoro.
Ufficialmente, il 49,1% della popolazione è disoccupato. Allo stesso tempo, Israele ha ridotto drasticamente il numero degli autocarri che trasportano a Gaza cibo, carburante, bombole di gas per cucinare, parti di ricambio per impianti idrici e sanitari e scorte mediche. E’ difficile capire come il fare morire di fame e di freddo la popolazione civile di Gaza potrebbe proteggere la gente sul lato israeliano del confine. Ma anche se fosse così, ciò sarebbe ugualmente immorale, una forma di punizione collettiva che è tassativamente proibita dal diritto internazionale umanitario.
La brutalità dei soldati di Israele ben si accorda con la falsità dei suoi portavoce. Otto mesi prima del lancio dell’attuale guerra a Gaza, Israele ha costituito un Comitato Direttivo Nazionale dell’Informazione. Il nucleo essenziale dei messaggi che questo comitato ha fatto pervenire ai mezzi di informazione è che Hamas ha rotto gli accordi di cessate il fuoco; che l’obiettivo di Israele consiste nella difesa della sua popolazione; e che le forze di Israele stanno ponendo la massima attenzione a non colpire civili innocenti. Le persone incaricate di mettere in buona luce Israele hanno ottenuto un notevole successo nello spargere a giro un messaggio di questo tipo. Ma, in sostanza, tutta questa propaganda non è altro che una massa di bugie.
C’è un ampio divario che separa la realtà delle azioni compiute da Israele dalla retorica dei suoi portavoce. Non è stato Hamas, bensì Israele a rompere il cessate il fuoco. Lo fece il 4 novembre con una spedizione all’interno di Gaza con la quale uccise sei uomini di Hamas. L’obiettivo di Israele non è affatto la difesa della sua popolazione, ma l’eventuale rovesciamento del governo di Hamas a Gaza, facendo rivoltare il popolo contro i propri governanti. E molto lontano dal preoccuparsi di risparmiare i civili, Israele è responsabile di bombardamenti indiscriminati e del blocco della durata di tre anni che ha portato gli abitanti di Gaza, attualmente 1,5 milioni di persone, sull’orlo di una catastrofe umanitaria.
L’ingiunzione biblica di occhio per occhio è abbastanza barbara. Ma l’insensata offensiva di Israele nei confronti di Gaza sembra seguire piuttosto la logica di un occhio per una ciglia. Dopo otto giorni di bombardamenti, che hanno portato ad un pedaggio di morte di più di 400 palestinesi e di 4 israeliani, il consiglio dei ministri guerrafondaio ha ordinato l’invasione terrestre di Gaza le cui conseguenze sono incalcolabili.
Nessun ammontare dell’incremento dell’attività militare può offrire ad Israele l’immunità dagli attacchi dei razzi lanciati dall’ala militare di Hamas. Nonostante tutte le morti e le distruzioni che Israele ha inflitto loro, essi proseguono nella loro resistenza e continuano a sparare i loro razzi. Questo è un movimento che glorifica lo stato di vittima e il martirio. Per ciò che riguarda il conflitto, tra le due comunità non c’è semplicemente alcuna soluzione possibile di tipo militare. Il guaio per ciò che è implicito nel concetto di sicurezza di Israele sta nel fatto che esso nega la più elementare sicurezza alle altre comunità. Il solo modo perché Israele consegua sicurezza non lo può ottenere sparando, bensì avviando colloqui con Hamas, che ha dichiarato ripetutamente la sua disponibilità a negoziare un cessate il fuoco di lungo termine con uno stato ebraico all’interno dei confini precedenti al 1967 di 20, 30, o perfino di 50 anni. Israele ha respinto questa offerta per la stessa ragione per cui disdegnò il piano di pace della Lega Araba del 2002, che è tuttora sul tavolo: esso implica concessioni e compromessi.
Questa breve rassegna dei primati di Israele nelle quattro decadi passate rende difficile resistere alla conclusione che esso è divenuto uno stato canaglia con “un gruppo di dirigenti totalmente privi di scrupoli”. Uno stato canaglia viola abitualmente il diritto internazionale, possiede armi di distruzione di massa e pratica il terrorismo – l’uso della violenza contro civili per scopi politici. Ebbene, Israele soddisfa tutti e tre questi canoni; il cappello va bene e lo si deve indossare. La reale aspirazione di Israele non è la coesistenza pacifica coi i suoi vicini palestinesi, ma il dominio militare. Esso continua ad aggravare gli errori del passato con altri nuovi ed ancor più sciagurati. I politici, come tutti gli altri, sono naturalmente liberi di ripetere le menzogne e gli errori del passato. Ma non è obbligatorio che lo facciano.
Avi Shlaim è professore di relazioni internazionali all’Università di Oxford ed autore de Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo e del Lion of Jordan: King Hussein’s Life in War and Peace.
(tradotto da mariano mingarelli)
Succ. >
Il professore di relazioni internazionali ad Oxford, Avi Shlaim, ha prestato servizio nell’esercito israeliano e non ha mai contestato la legittimità dello stato. Ma la sua spietata aggressione a Gaza lo ha portato a conclusioni sconvolgenti.
di Avi Shlaim
L’unico modo per dare un senso alla guerra israeliana entro Gaza, che è priva di senso alcuno, è quello che passa attraverso la comprensione del contesto storico. La fondazione dello stato di Israele nel maggio del 1948 ha comportato una monumentale ingiustizia nei confronti dei palestinesi. Ufficiali britannici si sono risentiti amaramente per la parzialità americana a favore del neonato stato. Il 2 giugno 1948, Sir John Troutbeck scrisse al Segretario degli Esteri, Ernest Bevin, che gli americani erano responsabili della creazione di uno stato criminale guidato da “una serie di leader totalmente privi di scrupoli”. Ero portato a pensare che questo giudizio fosse stato troppo duro, ma la brutale aggressione di Israele alla popolazione di Gaza, e la complicità dell’amministrazione Bush, hanno riaperto la questione.
Scrivo in quanto persona che ha prestato servizio lealmente nell’esercito israeliano a metà degli anni ’60 e che non ha messo mai in discussione la legittimità dello stato di Israele all’interno dei confini che precedono il 1967. Ciò che respingo del tutto è il progetto coloniale sionista oltre la Linea Verde. L’occupazione israeliana della West Bank e della Striscia di Gaza nel periodo successivo alla guerra del giugno del 1967 ha avuto a che fare ben poco con la sicurezza, mentre ha avuto a che fare con l’espansione territoriale. Lo scopo era quello di dar vita ad una Grande Israele grazie al controllo permanente di tipo politico, economico e militare sui Territori Palestinesi. Ed il risultato è stato quello di una delle più prolungate e brutali occupazioni militari dei tempi moderni.
Quattro decenni di controllo israeliano hanno danneggiato in modo incalcolabile l’economia della Striscia di Gaza. Con una popolazione numerosa, costituita da profughi del 1948, stipata entro una sottile striscia di terra, senz’alcuna infrastruttura o risorsa naturale, le prospettive di Gaza non erano mai state brillanti. Tuttavia, Gaza non rappresenta semplicemente un caso di sottosviluppo economico, bensì soltanto un caso crudele di recessione deliberata. Per usare una frase della Bibbia, Israele ha convertito la popolazione di Gaza in taglialegna e portatori di acqua, in una fonte di lavoro a buon mercato e in un mercato assoggettato per i prodotti israeliani. Lo sviluppo dell’industria locale è stato interdetto con vigore tanto da far sì che sia impossibile che per i palestinesi abbia fine la loro dipendenza da Israele e che si possa avere un rafforzamento economico che è essenziale per una politica di reale indipendenza.
Gaza è un caso classico di sfruttamento coloniale in una era post-coloniale. Le colonie ebraiche nei territori occupati sono immorali, illegali e rappresentano un ostacolo insormontabile per la pace. Esse sono nel contempo strumento di sfruttamento e simbolo dell’odiata occupazione. A Gaza, nel 2005, il numero dei coloni ebrei assommava a sole 8.000 persone, rapportate a 1,4 milioni di residenti del posto. Ancora, i coloni controllavano il 25% del territorio, il 40% del terreno coltivabile e facevano la parte del leone sulle scarse risorse idriche. Molto vicino a questi intrusi stranieri, la popolazione del luogo viveva in una povertà degradante e in un’inimmaginabile miseria. L’80% di tale popolazione sopravvive ancora con meno di 2$ al giorno. Le condizioni di vita nella Striscia restano un affronto ai valori della civiltà, favoriscono un poderoso precipitare verso la resistenza e costituiscono un terreno fertile per estremismi politici.
Nell’agosto 2005, un governo del Likud con a capo Ariel Sharon, organizzò un disimpegno israeliano unilaterale da Gaza, con il ritiro di tutti gli 8.000 coloni e la distruzione delle case e delle fattorie che avevano lasciato dietro di sé. Il movimento di resistenza islamica, Hamas, aveva condotto una campagna reale per cacciare gli israeliani da Gaza. Il ritiro rappresentò un’umiliazione per le Forze di Difesa Israeliane. Nei confronti del mondo, Arien Sharon presentò il ritiro da Gaza come un contributo per la pace sulla base della soluzione a due-stati. Ma nell’anno successivo, altri 12.000 coloni si insediarono nella West Bank, riducendo ulteriormente l’opportunità per la costituzione di uno stato palestinese indipendente. L’accaparramento di terre e la realizzazione della pace sono semplicemente incompatibili. Israele ha avuto un’occasione ed esso ha scelto la terra al posto della pace.
Il proposito effettivo che sta dietro a questa mossa è stato quello di ridisegnare unilateralmente i confini della Grande Israele incorporando i principali blocchi di colonie della West Bank nello stato di Israele. Il ritiro da Gaza non è stato perciò un preliminare ad un trattato di pace con l’Autorità Palestinese, ma il preludio ad una ulteriore espansione sionista nella West Bank. E’ stata una mossa unilaterale israeliana portata avanti, da ciò che si poteva vedere, in modo errato secondo la mia opinione, come se fosse nell’interesse nazionale israeliano. Facendo perno su un fondamentale rifiuto dell’identità nazionale palestinese, il ritiro da Gaza è stato parte del tentativo a lungo termine di impedire al popolo palestinese di ottenere una qualsiasi esistenza politicamente indipendente sulla propria terra.
I coloni di Israele erano stati ritirati, ma i soldati israeliani hanno continuato a controllare tutti gli accessi alla Striscia di Gaza per via di terra, di mare e di cielo. Gaza è stata convertita in breve tempo in una prigione a cielo aperto. Da questo momento in poi, l’aviazione israeliana ha goduto della libertà incondizionata di sganciare bombe, di produrre boati volando a bassa quota e rompendo il muro del suono e di terrorizzare gli sventurati abitanti di questa prigione.
A Israele piace fare un ritratto di sé come di un’isola di democrazia in un mare di autoritarismo. Fino ad ora, in tutta la sua storia, Israele non ha mai fatto nulla per promuovere la democrazia dalla parte araba, mentre ha fatto moltissimo per metterla a repentaglio. Israele ha una lunga storia di collaborazioni segrete con regimi arabi reazionari per sopprimere il nazionalismo palestinese. Nonostante tutte le difficoltà, il popolo palestinese è riuscito a costruire la sola genuina democrazia nel mondo arabo, con la possibile eccezione del Libano. Nel gennaio 2006, elezioni libere e corrette per il Consiglio Legislativo dell’Autorità Palestinese hanno portato al potere un governo guidato da Hamas. Tuttavia, Israele si è rifiutato di riconoscere il governo democraticamente eletto, affermando che Hamas è un’organizzazione puramente e semplicemente terroristica.
America ed Unione Europea si sono unite spudoratamente ad Israele nell’ostracizzare e nel demonizzare il governo di Hamas e nel cercare di farlo cadere con il trattenere le entrate derivate dalle tasse e l’aiuto estero. Si è sviluppata così una situazione surreale con una gran parte della comunità internazionale che impone sanzioni economiche non contro l’occupante, bensì contro l’occupato, non contro l’oppressore, ma contro l’oppresso.
Come è successo tanto spesso nella tragica storia della Palestina, le vittime sono state incolpate delle loro stesse disgrazie. La macchina della propaganda di Israele si è rifornita tenacemente della nozione secondo la quale i palestinesi sono dei terroristi, del fatto che essi respingono la coesistenza con lo stato ebraico, che il loro nazionalismo è qualcosa di più dell’antisemitismo, che Hamas è veramente un gruppo di fanatici religiosi e che l’Islam è incompatibile con la democrazia. Ma la semplice verità sta nell’essere il popolo palestinese un popolo normale con aspirazioni normali. Essi non sono meglio, ma neppure peggio di qualsiasi altro gruppo nazionale. Ciò cui loro aspirano, sopra ogni altra cosa, è un pezzo di terra da poter dire propria e sulla quale vivere in libertà e con dignità.
Come altri movimenti radicali, Hamas ha cominciato con il moderare il suo programma politico subito dopo la sua ascesa al potere. Dalla posizione di rifiuto ideologico della sua carta fondativa, ha cominciato a spostarsi in direzione della risoluzione pragmatica di una soluzione a due-stati. Nel marzo 2007, Hamas e Fatah hanno formato un governo di unità nazionale che era disponibile a negoziare un cessate il fuoco di lunga durata con Israele. Ciò nonostante, Israele si è rifiutato di trattare con un governo che comprendeva Hamas.
Ha continuato a portare avanti il vecchio gioco del “divide et impera” tra le fazioni palestinesi rivali. Negli ultimi anni ’80, Israele aveva sostenuto il nascente movimento di Hamas al fine di indebolire Fatah, il movimento nazionalista laico guidato da Yasser Arafat. Ora Israele ha cominciato ad incoraggiare i corrotti e duttili dirigenti di Fatah a scalzare i loro rivali politici religiosi e a riprendere il potere. Gli aggressivi neo-consevatori americani sono stati partecipi del sinistro complotto per scatenare una guerra civile tra palestinesi. La loro ingerenza è stato il principale fattore del collasso del governo di unità nazionale e della presa di potere a Gaza da parte di Hamas nel giugno del 2007 per prevenire un colpo di stato di Fatah.
La guerra scatenata da Israele a Gaza il 27 dicembre è stata il culmine di una serie di scontri e di litigi con il governo di Hamas. In senso più ampio, tuttavia, è una guerra tra Israele e il popolo palestinese, in quanto era stato il popolo ad eleggere il partito perché assumesse il potere. Lo scopo dichiarato della guerra è quello di indebolire Hamas e di aumentare la pressione fino a fare accettare dai suoi dirigenti un nuovo cessate il fuoco secondo i termini fissati da Israele. Lo scopo non dichiarato è quello di assicurarsi che a Gaza i palestinesi siano visti dal mondo semplicemente come un problema umanitario e quindi far deragliare il senso della loro lotta per l’indipendenza e per il diritto ad uno stato.
Il momento scelto per la guerra è stato determinato dall’opportunità politica. Le elezioni generali sono in programma per il 10 febbraio e, nel periodo pre-elettorale tutti i principali contendenti stanno cercando un’opportunità per dimostrare la loro fermezza. I pezzi grossi dell’esercito stavano mordendo il freno per dare un colpo tremendo ad Hamas e rimuovere così l’onta lasciata sulla loro reputazione dal fallimento della guerra contro gli Hezbollah in Libano, nel luglio del 2006. I cinici dirigenti di Israele potevano inoltre far conto sull’apatia e sull’impotenza dei regimi arabi filo-occidentali e sul cieco sostegno da parte del Presidente Bush al crepuscolo dei termini del suo mandato alla Casa Bianca. Bush si è impegnato subito attribuendo tutta la colpa per la crisi ad Hamas, opponendo il veto alle proposte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per un immediato cessate il fuoco e dando il via libera ad Israele per l’attuazione di un’invasione terrestre di Gaza.
Come sempre, Israele afferma in modo possente di essere la vittima dell’aggressione palestinese, ma l’assoluta asimmetria della forza tra le due parti lascia poco spazio al dubbio, come pure su chi è la reale vittima. Di fatto, questo è un conflitto tra Davide e Goliath, ma le immagini bibliche sono invertite – un piccolo e indifeso Davide palestinese affronta un Goliath israeliano, fornito di armi pesanti, spietato e prepotente. Il ricorso alla forza bruta dell’esercito viene accompagnato, come sempre, dalla stridula retorica della condizione di vittima e di un groviglio di autocommiserazione ricoperta di ipocrisia. In ebraico tutto ciò è noto con il nome di sindrome di “bokhim ve-yorim”, del piangere e sparare.
Per certo, in questo conflitto Hamas non è una parte del tutto innocente. Impedito di trarre frutto dalla sua stessa vittoria elettorale e messo a confronto con un avversario senza scrupoli, esso ha fatto ricorso all’arma del terrore del debole. Militanti di Hamas e della Jihad Islami hanno continuato a lanciare attacchi con razzi Qassam contro gli insediamenti israeliani prossimi al confine con Gaza fino a che, lo scorso giugno,. l’Egitto ha mediato un cessate il fuoco di sei mesi. Il danno prodotto da questi razzi rudimentali è minimo, ma l’impatto psicologico è immenso, tanto da spingere la gente a chiedere protezione al proprio governo. Per queste circostanze, Israele ha avuto il diritto di agire in propria difesa, ma la sua risposta alle punture di spillo degli attacchi dei razzi è stata del tutto sproporzionata. I numeri parlano da soli. Nei tre anni successivi al ritiro da Gaza, sono morti 11 israeliani, uccisi dal fuoco dei razzi. Dall’altra parte , solo negli anni tra il 2005 e il 2007, l’IDF ha ucciso a Gaza ben 1.290 palestinesi, dei quali 222 sono bambini.
Qualsiasi sia il numero, l’uccisione dei civili è un’ingiustizia. Questa regola vale per Israele tanto quanto per Hamas, ma il primato completo di Israele è quello di una sfrenata brutalità senza limiti nei confronti degli abitanti di Gaza. Inoltre, Israele ha conservato il blocco di Gaza anche dopo che è entrato in funzione il cessate il fuoco, in previsione del fatto che i dirigenti di Hamas sarebbero arrivati ad una violazione dell’accordo. Durante il cessate il fuoco, Israele ha impedito qualsiasi esportazione il partenza dalla Striscia in netta violazione di un accordo del 2005, con la conseguente caduta a picco delle opportunità di lavoro.
Ufficialmente, il 49,1% della popolazione è disoccupato. Allo stesso tempo, Israele ha ridotto drasticamente il numero degli autocarri che trasportano a Gaza cibo, carburante, bombole di gas per cucinare, parti di ricambio per impianti idrici e sanitari e scorte mediche. E’ difficile capire come il fare morire di fame e di freddo la popolazione civile di Gaza potrebbe proteggere la gente sul lato israeliano del confine. Ma anche se fosse così, ciò sarebbe ugualmente immorale, una forma di punizione collettiva che è tassativamente proibita dal diritto internazionale umanitario.
La brutalità dei soldati di Israele ben si accorda con la falsità dei suoi portavoce. Otto mesi prima del lancio dell’attuale guerra a Gaza, Israele ha costituito un Comitato Direttivo Nazionale dell’Informazione. Il nucleo essenziale dei messaggi che questo comitato ha fatto pervenire ai mezzi di informazione è che Hamas ha rotto gli accordi di cessate il fuoco; che l’obiettivo di Israele consiste nella difesa della sua popolazione; e che le forze di Israele stanno ponendo la massima attenzione a non colpire civili innocenti. Le persone incaricate di mettere in buona luce Israele hanno ottenuto un notevole successo nello spargere a giro un messaggio di questo tipo. Ma, in sostanza, tutta questa propaganda non è altro che una massa di bugie.
C’è un ampio divario che separa la realtà delle azioni compiute da Israele dalla retorica dei suoi portavoce. Non è stato Hamas, bensì Israele a rompere il cessate il fuoco. Lo fece il 4 novembre con una spedizione all’interno di Gaza con la quale uccise sei uomini di Hamas. L’obiettivo di Israele non è affatto la difesa della sua popolazione, ma l’eventuale rovesciamento del governo di Hamas a Gaza, facendo rivoltare il popolo contro i propri governanti. E molto lontano dal preoccuparsi di risparmiare i civili, Israele è responsabile di bombardamenti indiscriminati e del blocco della durata di tre anni che ha portato gli abitanti di Gaza, attualmente 1,5 milioni di persone, sull’orlo di una catastrofe umanitaria.
L’ingiunzione biblica di occhio per occhio è abbastanza barbara. Ma l’insensata offensiva di Israele nei confronti di Gaza sembra seguire piuttosto la logica di un occhio per una ciglia. Dopo otto giorni di bombardamenti, che hanno portato ad un pedaggio di morte di più di 400 palestinesi e di 4 israeliani, il consiglio dei ministri guerrafondaio ha ordinato l’invasione terrestre di Gaza le cui conseguenze sono incalcolabili.
Nessun ammontare dell’incremento dell’attività militare può offrire ad Israele l’immunità dagli attacchi dei razzi lanciati dall’ala militare di Hamas. Nonostante tutte le morti e le distruzioni che Israele ha inflitto loro, essi proseguono nella loro resistenza e continuano a sparare i loro razzi. Questo è un movimento che glorifica lo stato di vittima e il martirio. Per ciò che riguarda il conflitto, tra le due comunità non c’è semplicemente alcuna soluzione possibile di tipo militare. Il guaio per ciò che è implicito nel concetto di sicurezza di Israele sta nel fatto che esso nega la più elementare sicurezza alle altre comunità. Il solo modo perché Israele consegua sicurezza non lo può ottenere sparando, bensì avviando colloqui con Hamas, che ha dichiarato ripetutamente la sua disponibilità a negoziare un cessate il fuoco di lungo termine con uno stato ebraico all’interno dei confini precedenti al 1967 di 20, 30, o perfino di 50 anni. Israele ha respinto questa offerta per la stessa ragione per cui disdegnò il piano di pace della Lega Araba del 2002, che è tuttora sul tavolo: esso implica concessioni e compromessi.
Questa breve rassegna dei primati di Israele nelle quattro decadi passate rende difficile resistere alla conclusione che esso è divenuto uno stato canaglia con “un gruppo di dirigenti totalmente privi di scrupoli”. Uno stato canaglia viola abitualmente il diritto internazionale, possiede armi di distruzione di massa e pratica il terrorismo – l’uso della violenza contro civili per scopi politici. Ebbene, Israele soddisfa tutti e tre questi canoni; il cappello va bene e lo si deve indossare. La reale aspirazione di Israele non è la coesistenza pacifica coi i suoi vicini palestinesi, ma il dominio militare. Esso continua ad aggravare gli errori del passato con altri nuovi ed ancor più sciagurati. I politici, come tutti gli altri, sono naturalmente liberi di ripetere le menzogne e gli errori del passato. Ma non è obbligatorio che lo facciano.
Avi Shlaim è professore di relazioni internazionali all’Università di Oxford ed autore de Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo e del Lion of Jordan: King Hussein’s Life in War and Peace.
(tradotto da mariano mingarelli)
Succ. >
Ci mancavano loro....
GAZA, INCENDIATO CAMPO ESTIVO ONU PER BAMBINI
L’attacco compiuto probabilmente da gruppo salafita
Gaza, 23 maggio 2010 (foto dal sito www.humanemergencemiddleeast.org) Nena News - Era solo un grande accampamento dell’Unrwa (Onu), ancora in allestimento e destinato ad ospitare in più turni decine di migliaia di bambini palestinesi che presto cominceranno la stagione balneare, unica vacanza possibile per la popolazione di Gaza che da tre anni affronta un soffocante embargo israeliano ed egiziano. Qualcuno ha pensato di distruggerlo per impedire «la corruzione dei bambini».
La scorsa notte una trentina di uomini con il volto coperto sono entrati a Sheikh Ajalin, alla periferia meridionale di Gaza city, hanno cosparso di benzina le tende e le giostre e hanno dato alle fiamme l’intero accampamento. I custodi sono stati minacciati con le armi e legati.
Le fiamme hanno risparmiato ben poco e l’indignazione è forte a Gaza perchè i campi estivi – quelli dell’Unrwa ma anche quelli «politici» organizzati dai movimenti islamici Hamas e Jihad – non solo offrono una delle rare occasioni di svago per i più giovani ma permettono alle famiglie povere – la maggioranza a Gaza – di garantire ai figli pasti caldi gratuiti per diverse settimane.
Il direttore delle operazioni dell’Unrwa a Gaza, John Ging, ha duramente condannato l’accaduto e assicurato che le Nazioni Unite faranno il possibile per costruire al più presto un nuovo campo disponibile per i bambini di Gaza.
Fonti giornalistiche locali ritengono responsabile dell’attacco uno dei gruppi salafiti filo-al Qaeda sorti negli ultimi anni e che contestano anche l’autorità di Hamas, «colpevole» di non aver proclamato un «emirato islamico» nella Striscia di Gaza dopo averne preso il pieno controllo nel 2007. Gruppi qaedisti hanno rivendicato negli ultimi anni attacchi, anche con esplosivi, contro internet point e negozi di parrucchiere perché «luoghi di perdizione». Il governo di Hamas cerca di combattere i qaedisti ma non è ancora riuscito a fermare le loro azioni violente. Lo scorso agosto una organizzazione salafita proclamò un emirato nella città di Rafah per poi arrendersi alle forze di sicurezza di Hamas dopo combattimenti sanguinosi costati la vita a decine di persone.(red) Nena News
L’attacco compiuto probabilmente da gruppo salafita
Gaza, 23 maggio 2010 (foto dal sito www.humanemergencemiddleeast.org) Nena News - Era solo un grande accampamento dell’Unrwa (Onu), ancora in allestimento e destinato ad ospitare in più turni decine di migliaia di bambini palestinesi che presto cominceranno la stagione balneare, unica vacanza possibile per la popolazione di Gaza che da tre anni affronta un soffocante embargo israeliano ed egiziano. Qualcuno ha pensato di distruggerlo per impedire «la corruzione dei bambini».
La scorsa notte una trentina di uomini con il volto coperto sono entrati a Sheikh Ajalin, alla periferia meridionale di Gaza city, hanno cosparso di benzina le tende e le giostre e hanno dato alle fiamme l’intero accampamento. I custodi sono stati minacciati con le armi e legati.
Le fiamme hanno risparmiato ben poco e l’indignazione è forte a Gaza perchè i campi estivi – quelli dell’Unrwa ma anche quelli «politici» organizzati dai movimenti islamici Hamas e Jihad – non solo offrono una delle rare occasioni di svago per i più giovani ma permettono alle famiglie povere – la maggioranza a Gaza – di garantire ai figli pasti caldi gratuiti per diverse settimane.
Il direttore delle operazioni dell’Unrwa a Gaza, John Ging, ha duramente condannato l’accaduto e assicurato che le Nazioni Unite faranno il possibile per costruire al più presto un nuovo campo disponibile per i bambini di Gaza.
Fonti giornalistiche locali ritengono responsabile dell’attacco uno dei gruppi salafiti filo-al Qaeda sorti negli ultimi anni e che contestano anche l’autorità di Hamas, «colpevole» di non aver proclamato un «emirato islamico» nella Striscia di Gaza dopo averne preso il pieno controllo nel 2007. Gruppi qaedisti hanno rivendicato negli ultimi anni attacchi, anche con esplosivi, contro internet point e negozi di parrucchiere perché «luoghi di perdizione». Il governo di Hamas cerca di combattere i qaedisti ma non è ancora riuscito a fermare le loro azioni violente. Lo scorso agosto una organizzazione salafita proclamò un emirato nella città di Rafah per poi arrendersi alle forze di sicurezza di Hamas dopo combattimenti sanguinosi costati la vita a decine di persone.(red) Nena News
sabato 22 maggio 2010
NAKBA
GERUSALEMME:SOCIETA’ CIVILE RICORDA NAKBA
L'iniziativa e' stata anche una protesta contro i coloni israeliani
Gerusalemme, 16 maggio 2010 (foto dal sito Palestine Monitor) Nena News – La marcia che si é svolta il 15 maggio nel centro di Gerusalemme Est é stato uno degli eventi organizzati dalla Rete della Società Civile (una coalizione di associazioni che hanno sede e svolgono le loro attività nella parte araba della città occupata nel 1967) per commemorare la Nakba.
Circa 350 persone hanno partecipato alla visita a tre villaggi, distrutti nel 1948 dalle milizie israeliane, in ricordo dei tanti palestinesi uccisi o costretti a lasciare i loro villaggi e la loro terra.
Il corteo composto da un centinaio di persone é partito dal cuore della zona araba della città per terminare, con un sit-in nel quartiere palestinese di Sheikh Jarrah, obiettivo degli appetiti dei coloni israeliani.
“Dopo 62 anni (dalla Nakba, ndr) é importante continuare a lottare per il diritto al ritorno dei profughi palestinesi”, ha dichiarato Rima Awad, attivista della società civile, “la Nakba per noi non é mai terminata perché nonostante Israele ci abbia preso il 68% del territorio e noi siamo disposti a costituire lo Stato palestinese sul rimanente 22%, le politiche di colonizzazione, esproprio, e annessione della parte araba di Gerusalemme e della Cisgiordania non si sono mai fermate”
La manifestazione colorata e pacifica non ha ceduto alle provocazioni di un gruppo di coloni che hanno sventolato bandiere israeliane e scandito slogan sionisti a pochi metri dai partecipanti.
Lunedi 17 maggio é prevista una conferenza stampa e la deposizione di fiori davanti alla statua del milite ignoto per ricordare le migliaia di vittime che il popolo palestinese ha subito dal 1948 ad oggi. (red) Nena News
L'iniziativa e' stata anche una protesta contro i coloni israeliani
Gerusalemme, 16 maggio 2010 (foto dal sito Palestine Monitor) Nena News – La marcia che si é svolta il 15 maggio nel centro di Gerusalemme Est é stato uno degli eventi organizzati dalla Rete della Società Civile (una coalizione di associazioni che hanno sede e svolgono le loro attività nella parte araba della città occupata nel 1967) per commemorare la Nakba.
Circa 350 persone hanno partecipato alla visita a tre villaggi, distrutti nel 1948 dalle milizie israeliane, in ricordo dei tanti palestinesi uccisi o costretti a lasciare i loro villaggi e la loro terra.
Il corteo composto da un centinaio di persone é partito dal cuore della zona araba della città per terminare, con un sit-in nel quartiere palestinese di Sheikh Jarrah, obiettivo degli appetiti dei coloni israeliani.
“Dopo 62 anni (dalla Nakba, ndr) é importante continuare a lottare per il diritto al ritorno dei profughi palestinesi”, ha dichiarato Rima Awad, attivista della società civile, “la Nakba per noi non é mai terminata perché nonostante Israele ci abbia preso il 68% del territorio e noi siamo disposti a costituire lo Stato palestinese sul rimanente 22%, le politiche di colonizzazione, esproprio, e annessione della parte araba di Gerusalemme e della Cisgiordania non si sono mai fermate”
La manifestazione colorata e pacifica non ha ceduto alle provocazioni di un gruppo di coloni che hanno sventolato bandiere israeliane e scandito slogan sionisti a pochi metri dai partecipanti.
Lunedi 17 maggio é prevista una conferenza stampa e la deposizione di fiori davanti alla statua del milite ignoto per ricordare le migliaia di vittime che il popolo palestinese ha subito dal 1948 ad oggi. (red) Nena News
NAKBA
NAKBA: MARCIA A GAZA, RADUNI IN CISGIORDANIA
Tante manifestazioni nei Territori occupati per il 62esimo anniversario della "Catastrofe"
di Barbara Antonelli
Ramallah/Gaza, 15 maggio 2010 (foto dal Palestine Monitor) Nena News – Tante le manifestazioni in Cisgiordania per ricordare i 62 anni di esilio del popolo palestinese. A Gaza è stata indetta una marcia unitaria, alla presenza di tutti i partiti politici.
Mentre Rim Banna canta sulle note di Onadikum, celebre canzone della tradizione popolare palestinese, sullo sfondo, dietro al palco, l’esercito israeliano pattuglia l’entrata del villaggio di Al-Masara, 13 chilometri da Betlemme, uno dei nove villaggi dell’area, tutti accerchiati dalla colonia illegale israeliana di Efrat. Ad Al-Masara la famosa cantante palestinese ha aperto venerdì le celebrazioni della Nakba, con il supporto del coordinamento dei comitati popolari della resistenza non-violenta e alla presenza del Ministro della Cultura palestinese Siahm Barghouthi. Il 15 maggio 2010 segna la Grande catastrofe, 62 anni di esilio dalle proprie case e dalle proprie terre per oltre 700.000 palestinesi: la diretta conseguenza delle politiche sioniste che hanno condotto alla creazione dello Stato di Israele. Le tre tende allestite ad Al Masara ricordano i 62 anni di vita nei campi profughi per oltre 1 milione e trecentomila palestinesi.
Cosi, in una fusione tra arte e protesta, per riaffermare la propria identità, il proprio patrimonio culturale, si è celebrata la Nabka ad Al Masara, ma anche a Nebi Saleh, Ni’lin e a Bi’lin, vicino Ramallah, dove attivisti palestinesi, internazionali e israeliani hanno sfilato insieme ad alcuni rappresentanti di diversi partiti politici palestinesi fino al reticolato di metallo e al cancello che divide il villaggio dalle proprie terre agricole (requisite da Israele), portando una gigantesca chiave, simbolo del diritto al ritorno.
Anche se la cerimonia di apertura ufficiale delle commemorazioni della Nakba si è avuta giovedì, davanti alla tomba di Arafat, a Ramallah con l’inaugurazione della più grande kefiah mai realizzata, alla presenza del primo Ministro palestinese Salam Fayyad, molteplici eventi avranno luogo in tutti i territori occupati tra venerdì e sabato. Veglie nella notte del weekend in tutti i campi profughi, mostre fotografiche con le immagini degli oltre 450 villaggi distrutti dall’esercito sionista. Manifestazioni più grandi sono organizzate sabato a Gerusalemme, con partenza dal campo profughi di Shu’fat, a Nablus, Jenin, Hebron, Jericho e ovviamente Ramallah.
Mentre a Gaza, sempre sabato, i palestinesi scendono a manifestare nella ‘piazza del soldato ignoto’, vicino al quartier generale delle Nazioni Unite, in un’unica marcia unitaria, come concordato in settimana in un meeting indetto dal partito islamico e che ha visto partecipi tutte le fazioni politiche, comprese Hamas e Fatah, secondo quanto dichiarato da Walid al-Awad (People’s party) a diverse agenzie stampa.
In Israele, il numero delle bandiere allestite per riaffermare l’orgoglio nazionale è invece triplicato. Ironicamente, una bandiera nuova di zecca sventolava anche sul muso dei mezzi militari che bloccavano l’entrata di Al – Masara. E mentre si festeggia l’Independence Day, proprio in questi giorni le organizzazioni in difesa dei diritti umani in Israele ricordano l’ennesimo atto volto a privare i palestinesi, del diritto a ricordare la loro storia. Il Nakba bill, l’ennesima legge discriminatoria proposta da Ysrail Beiteinu (il partito nazionalista di Liebermann) è passata per ora al primo reading alla Knesset. Revocherà fondi o applicherà sanzioni economiche a quei gruppi che intendano organizzare cerimonie di lutto in occasione dell’Independence Day. Lo slogan “La loro indipendenza. La nostra Nakba” diventerà illegale. Ancora una volta con l’intento di punire chi vuole commemorare una tragedia che è umana, ma soprattutto politica.
Tante manifestazioni nei Territori occupati per il 62esimo anniversario della "Catastrofe"
di Barbara Antonelli
Ramallah/Gaza, 15 maggio 2010 (foto dal Palestine Monitor) Nena News – Tante le manifestazioni in Cisgiordania per ricordare i 62 anni di esilio del popolo palestinese. A Gaza è stata indetta una marcia unitaria, alla presenza di tutti i partiti politici.
Mentre Rim Banna canta sulle note di Onadikum, celebre canzone della tradizione popolare palestinese, sullo sfondo, dietro al palco, l’esercito israeliano pattuglia l’entrata del villaggio di Al-Masara, 13 chilometri da Betlemme, uno dei nove villaggi dell’area, tutti accerchiati dalla colonia illegale israeliana di Efrat. Ad Al-Masara la famosa cantante palestinese ha aperto venerdì le celebrazioni della Nakba, con il supporto del coordinamento dei comitati popolari della resistenza non-violenta e alla presenza del Ministro della Cultura palestinese Siahm Barghouthi. Il 15 maggio 2010 segna la Grande catastrofe, 62 anni di esilio dalle proprie case e dalle proprie terre per oltre 700.000 palestinesi: la diretta conseguenza delle politiche sioniste che hanno condotto alla creazione dello Stato di Israele. Le tre tende allestite ad Al Masara ricordano i 62 anni di vita nei campi profughi per oltre 1 milione e trecentomila palestinesi.
Cosi, in una fusione tra arte e protesta, per riaffermare la propria identità, il proprio patrimonio culturale, si è celebrata la Nabka ad Al Masara, ma anche a Nebi Saleh, Ni’lin e a Bi’lin, vicino Ramallah, dove attivisti palestinesi, internazionali e israeliani hanno sfilato insieme ad alcuni rappresentanti di diversi partiti politici palestinesi fino al reticolato di metallo e al cancello che divide il villaggio dalle proprie terre agricole (requisite da Israele), portando una gigantesca chiave, simbolo del diritto al ritorno.
Anche se la cerimonia di apertura ufficiale delle commemorazioni della Nakba si è avuta giovedì, davanti alla tomba di Arafat, a Ramallah con l’inaugurazione della più grande kefiah mai realizzata, alla presenza del primo Ministro palestinese Salam Fayyad, molteplici eventi avranno luogo in tutti i territori occupati tra venerdì e sabato. Veglie nella notte del weekend in tutti i campi profughi, mostre fotografiche con le immagini degli oltre 450 villaggi distrutti dall’esercito sionista. Manifestazioni più grandi sono organizzate sabato a Gerusalemme, con partenza dal campo profughi di Shu’fat, a Nablus, Jenin, Hebron, Jericho e ovviamente Ramallah.
Mentre a Gaza, sempre sabato, i palestinesi scendono a manifestare nella ‘piazza del soldato ignoto’, vicino al quartier generale delle Nazioni Unite, in un’unica marcia unitaria, come concordato in settimana in un meeting indetto dal partito islamico e che ha visto partecipi tutte le fazioni politiche, comprese Hamas e Fatah, secondo quanto dichiarato da Walid al-Awad (People’s party) a diverse agenzie stampa.
In Israele, il numero delle bandiere allestite per riaffermare l’orgoglio nazionale è invece triplicato. Ironicamente, una bandiera nuova di zecca sventolava anche sul muso dei mezzi militari che bloccavano l’entrata di Al – Masara. E mentre si festeggia l’Independence Day, proprio in questi giorni le organizzazioni in difesa dei diritti umani in Israele ricordano l’ennesimo atto volto a privare i palestinesi, del diritto a ricordare la loro storia. Il Nakba bill, l’ennesima legge discriminatoria proposta da Ysrail Beiteinu (il partito nazionalista di Liebermann) è passata per ora al primo reading alla Knesset. Revocherà fondi o applicherà sanzioni economiche a quei gruppi che intendano organizzare cerimonie di lutto in occasione dell’Independence Day. Lo slogan “La loro indipendenza. La nostra Nakba” diventerà illegale. Ancora una volta con l’intento di punire chi vuole commemorare una tragedia che è umana, ma soprattutto politica.
martedì 18 maggio 2010
IL BDS COLPISCE LE ISTITUZIONICHE SOSTENGONO L'APARTHEID, ISRAELE COLPISCE I SINGOLI
Il caso dell'ingresso negato a Chomsky merita qualche considerazione. Non è un caso isolato, solo che essendo un personaggio di altissimo profilo i media ne parlano. Centinaia e centinaia di giovani e non giovani attivisti che vogliono portare la loro solidarietà ai palestinesi vengono respinti all'ingresso in israele e per 5 anni non potranno più andarci. Ma il caso Chomsky ha una sua specificità: si tratta di un accademico della più alta istituzione americana, lo MIT che su invito della Università di Birzeit doveva fare due lezioni e poi anche incontrarsi con il primo ministro dell'autorità palestinese fayad. Gli israeliani e i loro sostenitori, ma anche larghissima parte dei loro critici dinanzi alla proposta del boicottaggio accademico si inalberano inorriditi in nome della libertà di ricerca. Ebbene c'è molta ignoranza su questa proposta in quanto il boicottaggio accademico deve colpire quelle istituzioni che sostengono la politica di occupazione e di apartheid mantenendo relazioni con i singoli i quali non devono essere oggetto di boicottaggio. Nel caso di Chomsky si è applicato invece un boicottaggio individuale in quanto persona non gradita che si recava nella Palestina occupata e non in Israele. Boicottare un cittadino ebreo poi non è un atto di antisemitismo? Un esempio che la dice lunga su quanti sostengono essere Israele "l'unica democrazia in medio oriente" cosa vera solo per i cittadini ebrei ma non per gli altri cittadini israeliani e da israele cominciano anche ad arrivare denunce su svolte autoritarie nei confronti degli oppositori israeliani all'occupazione. saluti carlo tagliacozzo
da Carlo Tagliacozzo.
Il caso dell'ingresso negato a Chomsky merita qualche considerazione. Non è un caso isolato, solo che essendo un personaggio di altissimo profilo i media ne parlano. Centinaia e centinaia di giovani e non giovani attivisti che vogliono portare la loro solidarietà ai palestinesi vengono respinti all'ingresso in israele e per 5 anni non potranno più andarci. Ma il caso Chomsky ha una sua specificità: si tratta di un accademico della più alta istituzione americana, lo MIT che su invito della Università di Birzeit doveva fare due lezioni e poi anche incontrarsi con il primo ministro dell'autorità palestinese fayad. Gli israeliani e i loro sostenitori, ma anche larghissima parte dei loro critici dinanzi alla proposta del boicottaggio accademico si inalberano inorriditi in nome della libertà di ricerca. Ebbene c'è molta ignoranza su questa proposta in quanto il boicottaggio accademico deve colpire quelle istituzioni che sostengono la politica di occupazione e di apartheid mantenendo relazioni con i singoli i quali non devono essere oggetto di boicottaggio. Nel caso di Chomsky si è applicato invece un boicottaggio individuale in quanto persona non gradita che si recava nella Palestina occupata e non in Israele. Boicottare un cittadino ebreo poi non è un atto di antisemitismo? Un esempio che la dice lunga su quanti sostengono essere Israele "l'unica democrazia in medio oriente" cosa vera solo per i cittadini ebrei ma non per gli altri cittadini israeliani e da israele cominciano anche ad arrivare denunce su svolte autoritarie nei confronti degli oppositori israeliani all'occupazione. saluti carlo
GIORNATA DELLA NAKBA
GERUSALEMME:SOCIETA’ CIVILE RICORDA NAKBA
L'iniziativa e' stata anche una protesta contro i coloni israeliani
Gerusalemme, 16 maggio 2010 (foto dal sito Palestine Monitor) Nena News – La marcia che si é svolta il 15 maggio nel centro di Gerusalemme Est é stato uno degli eventi organizzati dalla Rete della Società Civile (una coalizione di associazioni che hanno sede e svolgono le loro attività nella parte araba della città occupata nel 1967) per commemorare la Nakba.
Circa 350 persone hanno partecipato alla visita a tre villaggi, distrutti nel 1948 dalle milizie israeliane, in ricordo dei tanti palestinesi uccisi o costretti a lasciare i loro villaggi e la loro terra.
Il corteo composto da un centinaio di persone é partito dal cuore della zona araba della città per terminare, con un sit-in nel quartiere palestinese di Sheikh Jarrah, obiettivo degli appetiti dei coloni israeliani.
“Dopo 62 anni (dalla Nakba, ndr) é importante continuare a lottare per il diritto al ritorno dei profughi palestinesi”, ha dichiarato Rima Awad, attivista della società civile, “la Nakba per noi non é mai terminata perché nonostante Israele ci abbia preso il 68% del territorio e noi siamo disposti a costituire lo Stato palestinese sul rimanente 22%, le politiche di colonizzazione, esproprio, e annessione della parte araba di Gerusalemme e della Cisgiordania non si sono mai fermate”
La manifestazione colorata e pacifica non ha ceduto alle provocazioni di un gruppo di coloni che hanno sventolato bandiere israeliane e scandito slogan sionisti a pochi metri dai partecipanti.
Lunedi 17 maggio é prevista una conferenza stampa e la deposizione di fiori davanti alla statua del milite ignoto per ricordare le migliaia di vittime che il popolo palestinese ha subito dal 1948 ad oggi. (red) Nena News
L'iniziativa e' stata anche una protesta contro i coloni israeliani
Gerusalemme, 16 maggio 2010 (foto dal sito Palestine Monitor) Nena News – La marcia che si é svolta il 15 maggio nel centro di Gerusalemme Est é stato uno degli eventi organizzati dalla Rete della Società Civile (una coalizione di associazioni che hanno sede e svolgono le loro attività nella parte araba della città occupata nel 1967) per commemorare la Nakba.
Circa 350 persone hanno partecipato alla visita a tre villaggi, distrutti nel 1948 dalle milizie israeliane, in ricordo dei tanti palestinesi uccisi o costretti a lasciare i loro villaggi e la loro terra.
Il corteo composto da un centinaio di persone é partito dal cuore della zona araba della città per terminare, con un sit-in nel quartiere palestinese di Sheikh Jarrah, obiettivo degli appetiti dei coloni israeliani.
“Dopo 62 anni (dalla Nakba, ndr) é importante continuare a lottare per il diritto al ritorno dei profughi palestinesi”, ha dichiarato Rima Awad, attivista della società civile, “la Nakba per noi non é mai terminata perché nonostante Israele ci abbia preso il 68% del territorio e noi siamo disposti a costituire lo Stato palestinese sul rimanente 22%, le politiche di colonizzazione, esproprio, e annessione della parte araba di Gerusalemme e della Cisgiordania non si sono mai fermate”
La manifestazione colorata e pacifica non ha ceduto alle provocazioni di un gruppo di coloni che hanno sventolato bandiere israeliane e scandito slogan sionisti a pochi metri dai partecipanti.
Lunedi 17 maggio é prevista una conferenza stampa e la deposizione di fiori davanti alla statua del milite ignoto per ricordare le migliaia di vittime che il popolo palestinese ha subito dal 1948 ad oggi. (red) Nena News
CONTINUA IL BOICOTTAGGIO ARROGANTE ISRAELIANO DELLA LIBERTA' E CULTURA DEI PALESTINESI
SDEGNO PER “NO” DI ISRAELE A CHOMSKY
Respinto perche' avrebbe incontrato solo palestinesi
Gerusalemme 17 maggio 2010 (foto dal sito wearecitizenradio.wordpress.com) Nena News - A Noam Chomsky non e’ stato permesso di superare la frontiera di Allenby, tra Cisgiordania e Giordania, perche’ l’intellettuale ebreo americano aveva in programma incontri soltanto con palestinesi e non anche in Israele. Lo hanno ammesso a mezza bocca le autorita’ israeliane che ieri hanno ordinato alle guardie di frontiera di stampare “ingresso vietato” sul passaporto di Chomsky (rimasto in attesa per oltre tre ore al valico) quando si e’ presentato al ponte di Allenby proveniente da Amman. Una portavoce del ministero dell’interno israeliano, Sabine Haddad, ieri si era limitata a dire che Chomsky non era stato fatto entrare «per vari motivi». E’ pero’ apparso chiaro che non avendo Chosmky in programma conferenze ed incontri in Israele, i vertici politico-militari dello Stato ebraico, hanno deciso di non lasciarlo passare. La portavoce Sabine Haddad ha precisato che il Cogat, il Coordinamento israeliano per gli affari civili nei Territori occupati palestinesi, potrebbe dare il via libera a Chomsky ma solo per recarsi in Cisgiordania. In Israele comunque non avra’ modo di entrare.
Immediate le proteste di palestinesi e pacifisti israeliani verso una decisione che lo stesso Chomsky ha definito “stalinista” e che a molti e’ apparsa una ritorsione. Mustafa Barghuti, esponente politico palestinese di primo piano che avrebbe dovuto ricevere Chomsky, ha tenuto questo pomeriggio una conferenza stampa a Ramallah, assieme a Mamduh Aker (Commissione indipendente per i diritti civili), per denunciare con forza l’abuso commesso dalle autorita’ israeliane. Barghuti ha spiegato che avrebbe dovuto accompagnare Chomsky in un tour in Cisgiordania e descrivergli la realta’ dell’occupazione militare israeliana, della colonizzazione ebraica e della ”creazione di un sistema di Apartheid”.
L’intellettuale americano, noto per le sue forti critiche alla politica israeliana, intendeva recarsi all’università di Bir Zeit dove avrebbe dovuto tenere un serie di lezioni agli studenti palestinesi. Dopo l’offensiva israeliana «Piombo fuso» contro Gaza (1.400 palestinesi uccisi) all’inizio del 2009, Chomsky dichiarò che «coloro che sostengono Israele, in realtà appoggiano la sua degenerazione morale».
Intervistato ieri sera ad Amman dalla rete televisiva israeliana “Canale 10”, Chomsky ha ricordato di aver tenuto in passato conferenze anche nelle università ebraiche e che alla luce di cio’ l’atteggiamento delle autorita’ israeliane e’ inaccettabile.
Nato nel 1928, Chomsky è un linguista e teorico della comunicazione. Professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology è riconosciuto per aver dato il più rilevante contributo alla linguistica teorica del XX secolo. Attivista tra i più noti del movimento americano contro la guerra nel Vietnam, qualche anno fa ha affermato che «La globalizzazione non è un fenomeno naturale, ma un fenomeno politico concepito per raggiungere obiettivi ben precisi». (red) Nena News
Respinto perche' avrebbe incontrato solo palestinesi
Gerusalemme 17 maggio 2010 (foto dal sito wearecitizenradio.wordpress.com) Nena News - A Noam Chomsky non e’ stato permesso di superare la frontiera di Allenby, tra Cisgiordania e Giordania, perche’ l’intellettuale ebreo americano aveva in programma incontri soltanto con palestinesi e non anche in Israele. Lo hanno ammesso a mezza bocca le autorita’ israeliane che ieri hanno ordinato alle guardie di frontiera di stampare “ingresso vietato” sul passaporto di Chomsky (rimasto in attesa per oltre tre ore al valico) quando si e’ presentato al ponte di Allenby proveniente da Amman. Una portavoce del ministero dell’interno israeliano, Sabine Haddad, ieri si era limitata a dire che Chomsky non era stato fatto entrare «per vari motivi». E’ pero’ apparso chiaro che non avendo Chosmky in programma conferenze ed incontri in Israele, i vertici politico-militari dello Stato ebraico, hanno deciso di non lasciarlo passare. La portavoce Sabine Haddad ha precisato che il Cogat, il Coordinamento israeliano per gli affari civili nei Territori occupati palestinesi, potrebbe dare il via libera a Chomsky ma solo per recarsi in Cisgiordania. In Israele comunque non avra’ modo di entrare.
Immediate le proteste di palestinesi e pacifisti israeliani verso una decisione che lo stesso Chomsky ha definito “stalinista” e che a molti e’ apparsa una ritorsione. Mustafa Barghuti, esponente politico palestinese di primo piano che avrebbe dovuto ricevere Chomsky, ha tenuto questo pomeriggio una conferenza stampa a Ramallah, assieme a Mamduh Aker (Commissione indipendente per i diritti civili), per denunciare con forza l’abuso commesso dalle autorita’ israeliane. Barghuti ha spiegato che avrebbe dovuto accompagnare Chomsky in un tour in Cisgiordania e descrivergli la realta’ dell’occupazione militare israeliana, della colonizzazione ebraica e della ”creazione di un sistema di Apartheid”.
L’intellettuale americano, noto per le sue forti critiche alla politica israeliana, intendeva recarsi all’università di Bir Zeit dove avrebbe dovuto tenere un serie di lezioni agli studenti palestinesi. Dopo l’offensiva israeliana «Piombo fuso» contro Gaza (1.400 palestinesi uccisi) all’inizio del 2009, Chomsky dichiarò che «coloro che sostengono Israele, in realtà appoggiano la sua degenerazione morale».
Intervistato ieri sera ad Amman dalla rete televisiva israeliana “Canale 10”, Chomsky ha ricordato di aver tenuto in passato conferenze anche nelle università ebraiche e che alla luce di cio’ l’atteggiamento delle autorita’ israeliane e’ inaccettabile.
Nato nel 1928, Chomsky è un linguista e teorico della comunicazione. Professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology è riconosciuto per aver dato il più rilevante contributo alla linguistica teorica del XX secolo. Attivista tra i più noti del movimento americano contro la guerra nel Vietnam, qualche anno fa ha affermato che «La globalizzazione non è un fenomeno naturale, ma un fenomeno politico concepito per raggiungere obiettivi ben precisi». (red) Nena News
"COME UN AEREO PRIVO DI PILOTA"
“Come un aereo privo di pilota”
di Amira Hass
Anche se nessun’altra casa venisse costruita nei territori occupati (compresa Gerusalemme Est), per una logica interna l’enorme apparato di controllo vi continuerebbe a funzionare per la durata di molti anni.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu prende fuoco senza alcuna giustificazione per politiche che procedono senza il suo coinvolgimento. Gli intellettuali ebrei che vedono improvvisamente il buio e ne sono spaventati, dovrebbero sapere: Perfino se nessun’altra costruzione ebraica venisse edificata nei territori occupati (compresa Gerusalemme Est), l’enorme apparato di controllo continuerebbe a funzionare in quei luoghi , in base ad una logica interna per la durata di molti anni. Va avanti da sé, come un enorme velivolo privo di pilota.
I Primi Ministri vanno e vengono, i negoziati si fermano e ricominciano, si formano nuove coalizioni e questo apparato possiede una vita sua propria. Esso preserva e sviluppa i privilegi degli ebrei nella Grande Israele. Definisce i confini delle riserve indiane. Quando vuole, le collega; quando non lo vuole, le tiene separate. La sua volontà è fatta: disoccupazione del 52 per cento o del 19 per cento, la densità della popolazione delle città e dei villaggi, il diametro delle condutture dell’acqua, il numero dei giorni che si deve attendere prima di ricevere il trattamento medico salvavita. Se i nativi lo vogliono, possono continuare a vivere nelle riserve; se non lo vogliono - possono andarsene.
Si prenda, come esempio, l’ordine di demolizione che il 26 aprile era stato posto su una struttura nella comunità di Umm al-Kheir nelle colline a sud di Hebron. Il documento standardizzato era firmato dal sub-comitato di controllo del Consiglio della pianificazione superiore dell’Amministrazione Civile. L’ordine ci informa che era stato affisso da un tal “Carlo” alla presenza del “funzionario per gli interventi del D.C.O. di Hebron”. Ci si può immaginare che siano stati accompagnati da soldati. Sappiamo che questi ispettori dalla vista acuta hanno individuato la struttura oltraggiosa.
Il capo dell’Amministrazione civile, Generale di Brigata Yoav Mordechai, probabilmente non è a conoscenza del fatto che per la catena di montaggio lui è responsabile di aver fatto di fare quest’ordine di demolizione “di una struttura in cemento relativa ad una toilette di circa tre metri quadrati”. Sicuramente Netanyahu non ne ha affatto un’idea. Ma l’ordine ingloba un’antica filosofia israeliana che vieta ai palestinesi di costruire bagni, di scavare serbatoi per raccoglier l’acqua piovana o di connettersi alla centrale elettrica in più della metà dei territori occupati.
I soldati hanno interiorizzato questa filosofia e se la portano a casa, in Israele. Nel contempo, nella West Bank, il divieto di connettersi alla rete elettrica danneggia la capacità di apprendere dei ragazzi palestinesi. Né la cessazione della costruzione delle colonie, né i colloqui a distanza, che hanno inizio oggi, impedirà questo atto di sabotaggio contro l’educazione dei bambini che l’apparato israeliano nette in atto d’ufficio. Effettivamente, non si tratta di un apparato, ma di una fabbrica gigantesca. Non una catena di montaggio, bensì molte.
Dietro ad una di queste catene di montaggio stanno i pianificatori. Essi sono geni nell’architettare, diplomati nelle migliori scuole di Israele, che hanno inventato i labirinti delle due reti stradali separate, per palestinesi e per israeliani (in particolar modo per ebrei), o la barriera/muro di separazione che primeggia nel dividere i quartieri popolosi dalle loro terre , il loro passato dal loro futuro.
La barriera è brutta e raccapricciante, ancor più del progetto Terrasanta. I labirinti di separazione generano resistenza nei loro confronti. A questo punto l’apparato mette al lavoro un’altra catena di montaggio. il sistema dei tribunali militari.
Laureati delle scuole di diritto di Israele, riservisti o in carriera nell’esercito, vengono chiamati a prestare il servizio militare con l’obiettivo di chiarire ai nativi che la resistenza è dolorosa; li spediscono in prigione e impongono loro multe salate. Poi, esportano la filosofia dell’oppressione nei tribunali civili e nelle aule dei college a Tel Aviv.
Dietro alle catene di montaggio ci sono i rappresentanti dell’intero popolo di Sion, centinaia di migliaia di civili e di soldati. Ciascuno di loro ha un interesse personale nella continuità dell’apparato, persino se quell’interesse è avvolto nel cellophane della sicurezza nazionale. Netanyahu non è il solo responsabile. Egli può solo bloccare l’enorme aereo senza pilota. In Israele c’è un grande popolo che dovrebbe essere costretto a cancellare i programmi di dominio e di distruzione dell’apparato, prima che volga al suo creatore, i suoi operatori e coloro che traggono un guadagno da tutto ciò.
(tradotto da mariano mingarelli)
di Amira Hass
Anche se nessun’altra casa venisse costruita nei territori occupati (compresa Gerusalemme Est), per una logica interna l’enorme apparato di controllo vi continuerebbe a funzionare per la durata di molti anni.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu prende fuoco senza alcuna giustificazione per politiche che procedono senza il suo coinvolgimento. Gli intellettuali ebrei che vedono improvvisamente il buio e ne sono spaventati, dovrebbero sapere: Perfino se nessun’altra costruzione ebraica venisse edificata nei territori occupati (compresa Gerusalemme Est), l’enorme apparato di controllo continuerebbe a funzionare in quei luoghi , in base ad una logica interna per la durata di molti anni. Va avanti da sé, come un enorme velivolo privo di pilota.
I Primi Ministri vanno e vengono, i negoziati si fermano e ricominciano, si formano nuove coalizioni e questo apparato possiede una vita sua propria. Esso preserva e sviluppa i privilegi degli ebrei nella Grande Israele. Definisce i confini delle riserve indiane. Quando vuole, le collega; quando non lo vuole, le tiene separate. La sua volontà è fatta: disoccupazione del 52 per cento o del 19 per cento, la densità della popolazione delle città e dei villaggi, il diametro delle condutture dell’acqua, il numero dei giorni che si deve attendere prima di ricevere il trattamento medico salvavita. Se i nativi lo vogliono, possono continuare a vivere nelle riserve; se non lo vogliono - possono andarsene.
Si prenda, come esempio, l’ordine di demolizione che il 26 aprile era stato posto su una struttura nella comunità di Umm al-Kheir nelle colline a sud di Hebron. Il documento standardizzato era firmato dal sub-comitato di controllo del Consiglio della pianificazione superiore dell’Amministrazione Civile. L’ordine ci informa che era stato affisso da un tal “Carlo” alla presenza del “funzionario per gli interventi del D.C.O. di Hebron”. Ci si può immaginare che siano stati accompagnati da soldati. Sappiamo che questi ispettori dalla vista acuta hanno individuato la struttura oltraggiosa.
Il capo dell’Amministrazione civile, Generale di Brigata Yoav Mordechai, probabilmente non è a conoscenza del fatto che per la catena di montaggio lui è responsabile di aver fatto di fare quest’ordine di demolizione “di una struttura in cemento relativa ad una toilette di circa tre metri quadrati”. Sicuramente Netanyahu non ne ha affatto un’idea. Ma l’ordine ingloba un’antica filosofia israeliana che vieta ai palestinesi di costruire bagni, di scavare serbatoi per raccoglier l’acqua piovana o di connettersi alla centrale elettrica in più della metà dei territori occupati.
I soldati hanno interiorizzato questa filosofia e se la portano a casa, in Israele. Nel contempo, nella West Bank, il divieto di connettersi alla rete elettrica danneggia la capacità di apprendere dei ragazzi palestinesi. Né la cessazione della costruzione delle colonie, né i colloqui a distanza, che hanno inizio oggi, impedirà questo atto di sabotaggio contro l’educazione dei bambini che l’apparato israeliano nette in atto d’ufficio. Effettivamente, non si tratta di un apparato, ma di una fabbrica gigantesca. Non una catena di montaggio, bensì molte.
Dietro ad una di queste catene di montaggio stanno i pianificatori. Essi sono geni nell’architettare, diplomati nelle migliori scuole di Israele, che hanno inventato i labirinti delle due reti stradali separate, per palestinesi e per israeliani (in particolar modo per ebrei), o la barriera/muro di separazione che primeggia nel dividere i quartieri popolosi dalle loro terre , il loro passato dal loro futuro.
La barriera è brutta e raccapricciante, ancor più del progetto Terrasanta. I labirinti di separazione generano resistenza nei loro confronti. A questo punto l’apparato mette al lavoro un’altra catena di montaggio. il sistema dei tribunali militari.
Laureati delle scuole di diritto di Israele, riservisti o in carriera nell’esercito, vengono chiamati a prestare il servizio militare con l’obiettivo di chiarire ai nativi che la resistenza è dolorosa; li spediscono in prigione e impongono loro multe salate. Poi, esportano la filosofia dell’oppressione nei tribunali civili e nelle aule dei college a Tel Aviv.
Dietro alle catene di montaggio ci sono i rappresentanti dell’intero popolo di Sion, centinaia di migliaia di civili e di soldati. Ciascuno di loro ha un interesse personale nella continuità dell’apparato, persino se quell’interesse è avvolto nel cellophane della sicurezza nazionale. Netanyahu non è il solo responsabile. Egli può solo bloccare l’enorme aereo senza pilota. In Israele c’è un grande popolo che dovrebbe essere costretto a cancellare i programmi di dominio e di distruzione dell’apparato, prima che volga al suo creatore, i suoi operatori e coloro che traggono un guadagno da tutto ciò.
(tradotto da mariano mingarelli)
ESERCITAZIONI ISRAELIANE PER BLOCCARE LA FREEDOM FLOTTILLA
“Rapporto: esercitazioni israeliane per bloccare la Flotta della Libertà”
Bethlehem – Ma’an – Mercoledì i mezzi di informazione in lingua araba hanno riportato che le forze navali israeliane si dice stiano esercitandosi per essere pronte a catturare le otto imbarcazioni provenienti dall’Europa che, il 24 maggio, hanno in programma di attraccare nella Striscia di Gaza.
Un ufficiale israeliano ha raccontato alla stazione satellitare in lingua araba Al-Hurra che “Circa la metà delle forze navali israeliane parteciperanno ad un’operazione che è stata approvata dal consiglio dei ministri. Il Ministro della Difesa [israeliano] Ehud Barak sovrintenderà all’operazione.”
Una fonte della sicurezza israeliana ha detto a Ma’an che le autorità impediranno l’arrivo dei battelli “ad ogni costo”.
La Flotta della Libertà ha in programma di salpare dal Regno Unito, dalla Grecia e dalla Turchia. La Campagna Europea Free Gaza ha affermato che le autorità israeliane li ha informati che alla flottiglia sarà impedita la possibilità di entrare in porto a Gaza.
I battelli saranno carichi di case prefabbricate, cemento e medicine e saranno accompagnate da 600 persone che tenteranno di rompere l’assedio di Gaza.
Domenica, Jamal Al-Khudari, capo del Comitati Popolare di Gaza Contro l’Assedio, ha detto che le minacce israeliane di aprire il fuoco sui battelli rivelano la debolezza di Israele.
Una dichiarazione diffusa da Al-Khudari sostiene che: “Questo tipo di minacce riflettono il fallimento dell’occupazione ed incarnano il terrorismo di stato rivolto contro pacifisti che vengono per sostenere un popolo sotto assedio e sotto aggressione.”
In base al diritto internazionale, gli attivisti che cercano di attraccare nel porto di Gaza hanno il diritto di partecipare alla rottura dell’assedio, ha aggiunto Al-Khudari, sostenendo che le minacce non impediranno ai partecipanti di arrivare a Gaza.
L’organizzatore del Comitato Popolare ha detto che il gruppo stava arrivando ben equipaggiato, e la marina israeliana dovrebbe prepararsi ad accerchiarli per un lungo periodo di tempo.
La Flottiglia della Libertà ha fatto conoscere i piani nel tardo aprile, annunciando che un gruppo di imbarcazioni sarebbe partito da diversi angoli del Mediterraneo e che si sarebbero riunite in acque internazionali allo scopo di consegnare alla popolazione sotto assedio circa 5.000 tonnellate di provviste sanitarie e per l’edilizia.
Secondo gli organizzatori della flottiglia, 600 attivisti saranno imbarcati su tre navi da carico e su cinque imbarcazioni per passeggeri dirette a Gaza, in quella che una dichiarazione ha affermato essere “il tentativo internazione più grande coordinato per incidere direttamente sull’occupazione israeliana in atto, sull’aggressione e sulla violenza contro il popolo palestinese.”
(tradotto da mariano mingarelli)
Bethlehem – Ma’an – Mercoledì i mezzi di informazione in lingua araba hanno riportato che le forze navali israeliane si dice stiano esercitandosi per essere pronte a catturare le otto imbarcazioni provenienti dall’Europa che, il 24 maggio, hanno in programma di attraccare nella Striscia di Gaza.
Un ufficiale israeliano ha raccontato alla stazione satellitare in lingua araba Al-Hurra che “Circa la metà delle forze navali israeliane parteciperanno ad un’operazione che è stata approvata dal consiglio dei ministri. Il Ministro della Difesa [israeliano] Ehud Barak sovrintenderà all’operazione.”
Una fonte della sicurezza israeliana ha detto a Ma’an che le autorità impediranno l’arrivo dei battelli “ad ogni costo”.
La Flotta della Libertà ha in programma di salpare dal Regno Unito, dalla Grecia e dalla Turchia. La Campagna Europea Free Gaza ha affermato che le autorità israeliane li ha informati che alla flottiglia sarà impedita la possibilità di entrare in porto a Gaza.
I battelli saranno carichi di case prefabbricate, cemento e medicine e saranno accompagnate da 600 persone che tenteranno di rompere l’assedio di Gaza.
Domenica, Jamal Al-Khudari, capo del Comitati Popolare di Gaza Contro l’Assedio, ha detto che le minacce israeliane di aprire il fuoco sui battelli rivelano la debolezza di Israele.
Una dichiarazione diffusa da Al-Khudari sostiene che: “Questo tipo di minacce riflettono il fallimento dell’occupazione ed incarnano il terrorismo di stato rivolto contro pacifisti che vengono per sostenere un popolo sotto assedio e sotto aggressione.”
In base al diritto internazionale, gli attivisti che cercano di attraccare nel porto di Gaza hanno il diritto di partecipare alla rottura dell’assedio, ha aggiunto Al-Khudari, sostenendo che le minacce non impediranno ai partecipanti di arrivare a Gaza.
L’organizzatore del Comitato Popolare ha detto che il gruppo stava arrivando ben equipaggiato, e la marina israeliana dovrebbe prepararsi ad accerchiarli per un lungo periodo di tempo.
La Flottiglia della Libertà ha fatto conoscere i piani nel tardo aprile, annunciando che un gruppo di imbarcazioni sarebbe partito da diversi angoli del Mediterraneo e che si sarebbero riunite in acque internazionali allo scopo di consegnare alla popolazione sotto assedio circa 5.000 tonnellate di provviste sanitarie e per l’edilizia.
Secondo gli organizzatori della flottiglia, 600 attivisti saranno imbarcati su tre navi da carico e su cinque imbarcazioni per passeggeri dirette a Gaza, in quella che una dichiarazione ha affermato essere “il tentativo internazione più grande coordinato per incidere direttamente sull’occupazione israeliana in atto, sull’aggressione e sulla violenza contro il popolo palestinese.”
(tradotto da mariano mingarelli)
venerdì 14 maggio 2010
SOSTENIAMO LA FREEDOM FLOTILLA
Solidarietà con la popolazione di Gaza: sosteniamo la Freedom Flotilla
In questi giorni sta salpando dai porti di Irlanda, Turchia e Grecia, alla vota di quello di Gaza City una flotta di otto navi che trasportano materiali da costruzione, impianti di desalinizzazione dell’acqua, impianti fotovoltaici, generatori, materiale per la scuola e farmaci da consegnare alla società civile palestinese. Si tratta di un'azione di alcune organizzazioni e reti di solidarietà internazionale, necessaria per la sopravvivenza della popolazione di Gaza, che da più di tre anni vive sotto un assedio asfissiante, priva di generi di prima necessità e dei materiali indispensabili per ricostruire un territorio martoriato dall’operazione “piombo fuso” dell’esercito israeliano, che ha causato oltre 1400 morti, tra cui 400 bambini, e più di 5000 feriti dovuti anche all’uso di armi proibite dal Diritto Internazionale, quali l’uranio impoverito e quelle al fosforo bianco.
Il governo israeliano ha dichiarato che impedirà in tutti i modi possibili (anche con la forza se necessario) l’arrivo delle navi e la consegna dei materiali. Se ciò avvenisse sarebbero in pericolo anche i 600 passeggeri di oltre 40 nazionalità che sono imbarcate sulle navi.
Per evitare che ciò avvenga, e permettere che le navi possano consegnare il materiale, chiediamo:
a) una chiara e pubblica presa di posizione delle forze politiche, dei parlamentari, degli uomini di cultura e dell’associazionismo che prevenga una ulteriore azione del governo israeliano condotta in spregio delle leggi che regolano il diritto internazionale e la convivenza civile dei popoli
b) che l’Italia eserciti una forte pressione politica e diplomatica sul governo israeliano affinché non ostacoli l’arrivo della flotta al porto di Gaza City, ripetendo, in acque internazionali, le azioni di pirateria già effettuate in analoghe circostanze negli scorsi anni.
Il silenzio che nel nostro Paese circonda le sofferenze inflitte alla popolazione di Gaza e l’assenza di attenzione verso le iniziative umanitarie di associazioni e comitati di solidarietà è inaccettabile e colpevole: quindi confidiamo in una sua iniziativa.
Roma 15 maggio 2010 – giornata della Nakba
La Rete Romana di solidarietà con il Popolo palestinese
Forum Palestina, Per non dimenticare Gaza, Donne in Nero, Assopace, Un Ponte per…, Action For Peace,
In questi giorni sta salpando dai porti di Irlanda, Turchia e Grecia, alla vota di quello di Gaza City una flotta di otto navi che trasportano materiali da costruzione, impianti di desalinizzazione dell’acqua, impianti fotovoltaici, generatori, materiale per la scuola e farmaci da consegnare alla società civile palestinese. Si tratta di un'azione di alcune organizzazioni e reti di solidarietà internazionale, necessaria per la sopravvivenza della popolazione di Gaza, che da più di tre anni vive sotto un assedio asfissiante, priva di generi di prima necessità e dei materiali indispensabili per ricostruire un territorio martoriato dall’operazione “piombo fuso” dell’esercito israeliano, che ha causato oltre 1400 morti, tra cui 400 bambini, e più di 5000 feriti dovuti anche all’uso di armi proibite dal Diritto Internazionale, quali l’uranio impoverito e quelle al fosforo bianco.
Il governo israeliano ha dichiarato che impedirà in tutti i modi possibili (anche con la forza se necessario) l’arrivo delle navi e la consegna dei materiali. Se ciò avvenisse sarebbero in pericolo anche i 600 passeggeri di oltre 40 nazionalità che sono imbarcate sulle navi.
Per evitare che ciò avvenga, e permettere che le navi possano consegnare il materiale, chiediamo:
a) una chiara e pubblica presa di posizione delle forze politiche, dei parlamentari, degli uomini di cultura e dell’associazionismo che prevenga una ulteriore azione del governo israeliano condotta in spregio delle leggi che regolano il diritto internazionale e la convivenza civile dei popoli
b) che l’Italia eserciti una forte pressione politica e diplomatica sul governo israeliano affinché non ostacoli l’arrivo della flotta al porto di Gaza City, ripetendo, in acque internazionali, le azioni di pirateria già effettuate in analoghe circostanze negli scorsi anni.
Il silenzio che nel nostro Paese circonda le sofferenze inflitte alla popolazione di Gaza e l’assenza di attenzione verso le iniziative umanitarie di associazioni e comitati di solidarietà è inaccettabile e colpevole: quindi confidiamo in una sua iniziativa.
Roma 15 maggio 2010 – giornata della Nakba
La Rete Romana di solidarietà con il Popolo palestinese
Forum Palestina, Per non dimenticare Gaza, Donne in Nero, Assopace, Un Ponte per…, Action For Peace,
giovedì 13 maggio 2010
POPOLAZIONE DI GAZA A RISCHIO DI MUTAZIONI GENETICHE
Nuove armi sperimentate a Gaza: popolazione a rischio mutazioni genetiche
Biopsie delle vittime condotte in tre università: Roma, Chalmer (Svezia) e Beirut (Libano)
COMUNICATO STAMPA
10 maggio 2010
Metalli tossici ma anche sostanze carcinogene, in grado cioè di provocare mutazioni genetiche. E' quanto è stato individuato nei tessuti di alcune persone ferite a Gaza durante le operazioni militari israeliane del 2006 e del 2009.
L'indagine ha riguardato ferite provocate da armi che non hanno lasciato schegge o frammenti nel corpo delle persone colpite, una partcolarità segnalata più volte dai medici di Gaza, che indica l'impiego di armi sperimentali sconosciute, i cui effetti sono ancora da accertare completamente. La ricerca, che ha messo a confronto il contenuto di 32 elementi rilevati dalle biopsie, attraverso analisi di spettrometria di massa effettuate in tre diverse università, La Sapienza di Roma, l'università di Chalmer (Svezia) e l'università di Beirut (Libano), è stata coordinata da New Weapons Research Group (Nwrg), una commissione indipendente di scienziati ed esperti basata in Italia che studia l'impiego delle armi non convenzionali per investigare loro effetti di medio periodo sui residenti delle aree in cui vengono utilizzate. La rilevante presenza di metalli tossici e carcinogeni indica rischi diretti per i sopravvissuti ma anche di contaminazione ambientale.
I tessuti sono stati prelevati da medici dell'ospedale Shifa di Gaza, che hanno collaborato a questa ricerca, e che hanno classificato il tipo di ferita delle vittime. L'analisi è stata realizzata su 16 campioni di tessuto appartenenti a 13 vittime. I campioni che fanno riferimento alle prime quattro persone risalgono al giugno 2006, periodo dell'operazione “piogge estive”. Quelli che appartengono alle altre 9 sono state invece raccolti nella prima settimana del gennaio 2009, nel corso dell'operazione “piombo fuso”. Tutti i tessuti sono stati esaminati in ciascuna delle tre università.
Sono stati individuati quattro tipi di ferite: carbonizzazione (nello studio indicato con C), bruciature superficiali (nello studio indicato con B), bruciature da fosforo bianco (nello studio indicato con M) e amputazioni (indicato con A). Gli elementi di cui è stata rilevata la presenza più significativa, in quantità molto superiore a quella rilevata nei tessuti normali, sono:
alluminio, titanio, rame, stronzio, bario, cobalto, mercurio, vanadio, cesio e stagno nei campioni prelevati dalle persone che hanno subito una amputazione o sono rimaste carbonizzate;
alluminio, titanio, rame, stronzio, bario, cobalto e mercurio nelle ferite da fosforo bianco;
cobalto, mercurio, cesio e stagno nei campioni di tessuto appartenenti a chi ha subito bruciature superficiali;
piombo e uranio in tutti i tipi di ferite;
bario, arsenico, manganese, rubidio, cadmio, cromo e zinco in tutti i tipi di ferite salvo che in quelle da fosforo bianco;
nichel solo nelle amputazioni.
Alcuni di questi elementi sono carcinogeni (mercurio, arsenico, cadmio, cromo nichel e uranio), altri potenzialmente carcinogeni (cobalto, vanadio), altri ancora fetotossici (alluminio, mercurio, rame, bario, piombo, manganese). I primi sono in grado di produrre mutazioni genetiche; i secondi provocano questo effetto negli animali ma non è dimostrato che facciano altrettanto nell’uomo; i terzi hanno effetti tossici per le persone e provocano danni anche per il nascituro nel caso di donne incinte: sono in grado, in particolare l'alluminio, di oltrepassare la placenta e danneggiare l’embrione o il feto. Tutti i metalli trovati in quantità superiori ai controlli, inoltre, sono capaci anche di causare patologie croniche dell’apparato respiratorio, renale e riproduttivo e della pelle.
La differente combinazione della presenza e della quantità di questi metalli rappresenta una “firma metallica”, illustrata nella figura di seguito:
La firma metallica dei diversi tipi di ferita: rosso quantità molto elevate in tutte le biopsie; arancio quantità molto elevate solo in alcune delle biopsie; azzurro valori comparabili a quelli di derma normale. A-con arti inferiori amputati dall’arma; B bruciature; C-severamente carbonizzati; M-ferite multiple da fosforo bianco.
“Nessuno – spiega Paola Manduca, che insegna genetica all'università di Genova, portavoce del New Weapons Research Group – aveva mai condotto questo tipo di analisi bioptica su campioni di tessuto appartenenti a feriti. Noi abbiamo focalizzato lo studio su ferite prodotte da armi che non lasciano schegge e frammenti perché ferite di questo tipo sono state riportate ripetutamente dai medici a Gaza e perché esistono armi sviluppate negli ultimi anni con il criterio di non lasciare frammenti nel corpo. Abbiamo deciso di usare questo tipo di analisi per verificare la presenza, nelle armi che producono ferite amputanti e carbonizzanti, di metalli che si depositano sulla pelle e dentro il derma nella sede della ferita”.
“La presenza – prosegue – di metalli in queste armi che non lasciano frammenti era stata ipotizzata, ma mai provata prima. Con nostra sorpresa, oltre a identificare i metalli presenti nelle armi amputanti, anche le bruciature da fosforo bianco contengono metalli in quantità elevate. La presenza di metalli in tutte queste armi implica anche la loro diffusione nell'ambiente in quantità ed in un'area di dimensioni a noi ignote, variabili secondo il tipo di arma. Questi metalli sono dunque anche inalati dalla persona ferita e da chi si trovava nelle adiacenze anche dopo l'attacco militare. La presenza di questi metalli comporta così un rischio sia per le persone coinvolte direttamente, che per quelle che invece non sono state colpite”.
L'indagine fa seguito a due ricerche analoghe del Nwrg. La prima, pubblicata il 17 dicembre 2009, aveva individuato la presenza di metalli tossici nelle aree di crateri prodotti dai bombardamenti israeliani a Gaza, indicando una contaminazione del suolo che, associata alle precarie condizioni di vita, in particolare nei campi profughi, espone la popolazione al rischio di venire in contatto con sostanze velenose. La seconda ricerca, pubblicata il 17 marzo scorso, aveva evidenziato tracce di metalli tossici in campioni di capelli di bambini palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, in precarie condizioni abitative, esposte a livello del suolo a venti e polvere, nelle aree colpite dai bombardamenti israeliani, aggravate dalla impossibilità a ricostruire imposta dal blocco israeliano all’ingresso di materiali e strumenti edili.
CONTATTI UFFICIO STAMPA
Fabio De Ponte
Tel. 347.9422957
Email: info@newweapons.org
Sito: www.newweapons.org
Biopsie delle vittime condotte in tre università: Roma, Chalmer (Svezia) e Beirut (Libano)
COMUNICATO STAMPA
10 maggio 2010
Metalli tossici ma anche sostanze carcinogene, in grado cioè di provocare mutazioni genetiche. E' quanto è stato individuato nei tessuti di alcune persone ferite a Gaza durante le operazioni militari israeliane del 2006 e del 2009.
L'indagine ha riguardato ferite provocate da armi che non hanno lasciato schegge o frammenti nel corpo delle persone colpite, una partcolarità segnalata più volte dai medici di Gaza, che indica l'impiego di armi sperimentali sconosciute, i cui effetti sono ancora da accertare completamente. La ricerca, che ha messo a confronto il contenuto di 32 elementi rilevati dalle biopsie, attraverso analisi di spettrometria di massa effettuate in tre diverse università, La Sapienza di Roma, l'università di Chalmer (Svezia) e l'università di Beirut (Libano), è stata coordinata da New Weapons Research Group (Nwrg), una commissione indipendente di scienziati ed esperti basata in Italia che studia l'impiego delle armi non convenzionali per investigare loro effetti di medio periodo sui residenti delle aree in cui vengono utilizzate. La rilevante presenza di metalli tossici e carcinogeni indica rischi diretti per i sopravvissuti ma anche di contaminazione ambientale.
I tessuti sono stati prelevati da medici dell'ospedale Shifa di Gaza, che hanno collaborato a questa ricerca, e che hanno classificato il tipo di ferita delle vittime. L'analisi è stata realizzata su 16 campioni di tessuto appartenenti a 13 vittime. I campioni che fanno riferimento alle prime quattro persone risalgono al giugno 2006, periodo dell'operazione “piogge estive”. Quelli che appartengono alle altre 9 sono state invece raccolti nella prima settimana del gennaio 2009, nel corso dell'operazione “piombo fuso”. Tutti i tessuti sono stati esaminati in ciascuna delle tre università.
Sono stati individuati quattro tipi di ferite: carbonizzazione (nello studio indicato con C), bruciature superficiali (nello studio indicato con B), bruciature da fosforo bianco (nello studio indicato con M) e amputazioni (indicato con A). Gli elementi di cui è stata rilevata la presenza più significativa, in quantità molto superiore a quella rilevata nei tessuti normali, sono:
alluminio, titanio, rame, stronzio, bario, cobalto, mercurio, vanadio, cesio e stagno nei campioni prelevati dalle persone che hanno subito una amputazione o sono rimaste carbonizzate;
alluminio, titanio, rame, stronzio, bario, cobalto e mercurio nelle ferite da fosforo bianco;
cobalto, mercurio, cesio e stagno nei campioni di tessuto appartenenti a chi ha subito bruciature superficiali;
piombo e uranio in tutti i tipi di ferite;
bario, arsenico, manganese, rubidio, cadmio, cromo e zinco in tutti i tipi di ferite salvo che in quelle da fosforo bianco;
nichel solo nelle amputazioni.
Alcuni di questi elementi sono carcinogeni (mercurio, arsenico, cadmio, cromo nichel e uranio), altri potenzialmente carcinogeni (cobalto, vanadio), altri ancora fetotossici (alluminio, mercurio, rame, bario, piombo, manganese). I primi sono in grado di produrre mutazioni genetiche; i secondi provocano questo effetto negli animali ma non è dimostrato che facciano altrettanto nell’uomo; i terzi hanno effetti tossici per le persone e provocano danni anche per il nascituro nel caso di donne incinte: sono in grado, in particolare l'alluminio, di oltrepassare la placenta e danneggiare l’embrione o il feto. Tutti i metalli trovati in quantità superiori ai controlli, inoltre, sono capaci anche di causare patologie croniche dell’apparato respiratorio, renale e riproduttivo e della pelle.
La differente combinazione della presenza e della quantità di questi metalli rappresenta una “firma metallica”, illustrata nella figura di seguito:
La firma metallica dei diversi tipi di ferita: rosso quantità molto elevate in tutte le biopsie; arancio quantità molto elevate solo in alcune delle biopsie; azzurro valori comparabili a quelli di derma normale. A-con arti inferiori amputati dall’arma; B bruciature; C-severamente carbonizzati; M-ferite multiple da fosforo bianco.
“Nessuno – spiega Paola Manduca, che insegna genetica all'università di Genova, portavoce del New Weapons Research Group – aveva mai condotto questo tipo di analisi bioptica su campioni di tessuto appartenenti a feriti. Noi abbiamo focalizzato lo studio su ferite prodotte da armi che non lasciano schegge e frammenti perché ferite di questo tipo sono state riportate ripetutamente dai medici a Gaza e perché esistono armi sviluppate negli ultimi anni con il criterio di non lasciare frammenti nel corpo. Abbiamo deciso di usare questo tipo di analisi per verificare la presenza, nelle armi che producono ferite amputanti e carbonizzanti, di metalli che si depositano sulla pelle e dentro il derma nella sede della ferita”.
“La presenza – prosegue – di metalli in queste armi che non lasciano frammenti era stata ipotizzata, ma mai provata prima. Con nostra sorpresa, oltre a identificare i metalli presenti nelle armi amputanti, anche le bruciature da fosforo bianco contengono metalli in quantità elevate. La presenza di metalli in tutte queste armi implica anche la loro diffusione nell'ambiente in quantità ed in un'area di dimensioni a noi ignote, variabili secondo il tipo di arma. Questi metalli sono dunque anche inalati dalla persona ferita e da chi si trovava nelle adiacenze anche dopo l'attacco militare. La presenza di questi metalli comporta così un rischio sia per le persone coinvolte direttamente, che per quelle che invece non sono state colpite”.
L'indagine fa seguito a due ricerche analoghe del Nwrg. La prima, pubblicata il 17 dicembre 2009, aveva individuato la presenza di metalli tossici nelle aree di crateri prodotti dai bombardamenti israeliani a Gaza, indicando una contaminazione del suolo che, associata alle precarie condizioni di vita, in particolare nei campi profughi, espone la popolazione al rischio di venire in contatto con sostanze velenose. La seconda ricerca, pubblicata il 17 marzo scorso, aveva evidenziato tracce di metalli tossici in campioni di capelli di bambini palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, in precarie condizioni abitative, esposte a livello del suolo a venti e polvere, nelle aree colpite dai bombardamenti israeliani, aggravate dalla impossibilità a ricostruire imposta dal blocco israeliano all’ingresso di materiali e strumenti edili.
CONTATTI UFFICIO STAMPA
Fabio De Ponte
Tel. 347.9422957
Email: info@newweapons.org
Sito: www.newweapons.org
RESISTENZA POPOLARE
PALESTINA: OVUNQUE E’ RESISTENZA POPOLARE
Da Hebron a Walajah, da Beit Ummar a Bilin e Naalin
Servizio speciale di Elena Hogan
Hebron, 12 maggio 2010 Nena News – Hebron ha aggiunto il suo nome all’elenco sempre più lungo di località attraverso i Territori occupati palestinesi che ospitano manifestazioni settimanali non-violente contro l’occupazione israeliana. La «resistenza popolare» perlopiù spontanea, che vede una partecipazione mista di palestinesi, israeliani e attivisti internazionali, sabato scorso per la terza settimana di seguito ha realizzato una manifestazione non-violenta anche ad Hebron su iniziativa dell’organizzazione hebronita YAS (Youth Against Settlements).
I manifestanti si sono radunati di fronte al checkpoint militare israeliano che segna l’inizio di via Shuhada e della città vecchia di Hebron, la zona «H2», occupata da coloni ebrei tra i più violenti della Cisgiordania. Da un lato della strada posizionati sui tetti alcuni giovani coloni sorvegliavano il corteo di circa 100 persone, fiancheggiati da soldati con M-16 puntati. Dall’altro lato della strada poliziotti israeliani fotografavano i manifestanti dal balcone di una casa palestinese occupata.
Evitando uova e alcuni secchi di acqua calda lanciati dalle finestre dei coloni, il corteo è riuscito ad attraversare la città vecchia, ormai largamente spopolata dopo anni di violenze perpetrate dai coloni e gli estenuanti coprifuochi durante la seconda Intifada. Scandendo in arabo, ebraico ed inglese i loro slogan, i manifestanti hanno chiesto la fine dell’occupazione e della colonizzazione israeliana dei Territori palestinesi, insieme alla riapertura di via Shuhada e la libertà di movimento per gli abitanti di Hebron.
«Consideriamo la nostra lotta speculare a quella di Bil’in, Ni’ilin e di tutti gli altri villaggi», ha affermato un organizzatore dello YAS, «siamo ispirati dalla lotta che stanno portando avanti, e ci auguriamo di dare l’avvio a un movimento diffuso di resistenza non-violenta nella zona di Hebron».
La resistenza non-violenta israelo-palestinese-internazionale all’occupazione si sta lentamente amplificando.
Villaggi come Beit Ummar e Beit Jala, le cui terre agricole che in questi giorni vengono spianate dai bulldozer per permettere la costruzione del muro di separazione israeliano, ospitano manifestazioni settimanali simili a quelle che vanno avanti ormai da anni in villaggi come Bil’in, Ni’ilin, Al Ma’asara e Budrus. Anche il villaggio di Al Walajah ha inaugurato la sua prima manifestazione settimanale venerdì scorso, il giorno dopo che le ruspe militari avevano iniziato a devastare i suoi uliveti.
Allo stesso tempo a Gerusalemme Est occupata, il movimento del quartiere Sheikh Jarrah dallo scorso agosto incarna un altro epicentro simbolico di resistenza, dopo lo sfratto di quattro famiglie palestinesi (più di 50 persone) dalle loro case per sostituirle con coloni fondamentalisti nella politica governativa e comunale israeliana di «ebraizzazione» completa della Città Santa. Altre 24 famiglie del quartiere hanno ricevuto simili ordini di sfratto. Da mesi si svolgono manifestazioni settimanali nel piccolo parco del quartiere organizzate dagli sfrattati insieme ad attivisti israeliani e stranieri con le caratteristiche magliette bianche e nere «Liberate Sheikh Jarrah». Non manca una piccola band musicale israeliana, formatasi apposta, perennemente al seguito dei cortei anche nei villaggi. Il quartiere di Silwan ha cominciato anch’esso ad organizzare eventi simili per opporsi al numero crescente di sfratti emessi per fare posto a presunti scavi archeologici israeliani che, in realtà, sono finalizzati ad espellere centinaia di palestinesi e a demolire decine di abitazioni arabe.
Potrebbe apparire marginale ma questa forma di resistenza popolare riesce a rompere la routine delle confische e delle demolizioni di case da parte dell’occupazione israeliana.
Prima che i bulldozer potessero cominciare i lavori ad Al Walajah, giovedì scorso, i soldati hanno dovuto trascinare via e in parte arrestare un gruppo di circa 50 persone sedutesi davanti ai pesanti automezzi. Prima che si potessero sradicare gli ulivi a Beit Jala il mese scorso, è stato necessario portare via con la forza i manifestanti che si erano incatenati a quegli alberi. Ogni settimana nel sud di Hebron, israeliani e internazionali fanno da scudo per i pastori palestinesi, con cui si coordinano, nei confronti dei coloni di Ma’on e Susiya sostenuti dai soldati, nel tentativo di mettere fine agli arresti arbitrari, alla confisca di pecore e al trasferimento dei pastori.
Lo Stato di Israele continua a reprimere queste iniziative arrestando un numero crescente di manifestanti, dichiarando «zone militari chiuse» le località delle manifestazioni e tramite l’uso abbondante di candelotti lacrimogeni spesso sparati ad altezza d’uomo, di granate assordanti, di proiettili di gomma e persino di «acqua puzzolente». Metodi seguiti dagli arresti degli organizzatori palestinesi ai posti di blocco militari e con raid notturni nei villaggi.
Non sono peraltro immuni da conseguenze gravi gli organizzatori israeliani. Alla fine di marzo, Michael Solsberry, uno degli organizzatori delle manifestazioni di Sheikh Jarrah, è stato arrestato mentre cenava a casa sua, per essere poi rilasciato un paio di ore dopo per mancanza di accuse specifiche. Ma se i manifestanti israeliani vengono rilasciati solitamente dopo diverse ore e gli internazionali arrestati vengono espulsi da Israele, sono gli organizzatori ed i manifestanti palestinesi a pagare il prezzo più alto perché soggetti alla violenza di poliziotti e militari e, spesso, lasciati per giorni, se non settimane o di più, in carcere.
In ogni caso la resistenza popolare israelo-palestinese-internazionale rappresenta un importante ed originale iniziativa in cui minoranze delle società civili israeliani e palestinesi si danno lo scopo di costruire insieme una pace giusta. Sebbene gli obiettivi specifici di questo gruppo misto sicuramente varino, la loro presenza si radica in un terreno comune, come ha spiegato un organizzatore dello YAS che ha chiesto di rimanere anonimo: «Mettere fine all’occupazione non è soltanto un interesse palestinese ma è un interesse anche di molti israeliani – ha detto – perché l’occupazione vuol dire spreco di fondi, la de-umanizzazione dei soldati, l’appoggio all’odio e a tutti i valori più negativi». Le persone coinvolte in queste iniziative – ha concluso – «credono profondamente che vivere in pace siano un interesse comune a tutti».
Da Hebron a Walajah, da Beit Ummar a Bilin e Naalin
Servizio speciale di Elena Hogan
Hebron, 12 maggio 2010 Nena News – Hebron ha aggiunto il suo nome all’elenco sempre più lungo di località attraverso i Territori occupati palestinesi che ospitano manifestazioni settimanali non-violente contro l’occupazione israeliana. La «resistenza popolare» perlopiù spontanea, che vede una partecipazione mista di palestinesi, israeliani e attivisti internazionali, sabato scorso per la terza settimana di seguito ha realizzato una manifestazione non-violenta anche ad Hebron su iniziativa dell’organizzazione hebronita YAS (Youth Against Settlements).
I manifestanti si sono radunati di fronte al checkpoint militare israeliano che segna l’inizio di via Shuhada e della città vecchia di Hebron, la zona «H2», occupata da coloni ebrei tra i più violenti della Cisgiordania. Da un lato della strada posizionati sui tetti alcuni giovani coloni sorvegliavano il corteo di circa 100 persone, fiancheggiati da soldati con M-16 puntati. Dall’altro lato della strada poliziotti israeliani fotografavano i manifestanti dal balcone di una casa palestinese occupata.
Evitando uova e alcuni secchi di acqua calda lanciati dalle finestre dei coloni, il corteo è riuscito ad attraversare la città vecchia, ormai largamente spopolata dopo anni di violenze perpetrate dai coloni e gli estenuanti coprifuochi durante la seconda Intifada. Scandendo in arabo, ebraico ed inglese i loro slogan, i manifestanti hanno chiesto la fine dell’occupazione e della colonizzazione israeliana dei Territori palestinesi, insieme alla riapertura di via Shuhada e la libertà di movimento per gli abitanti di Hebron.
«Consideriamo la nostra lotta speculare a quella di Bil’in, Ni’ilin e di tutti gli altri villaggi», ha affermato un organizzatore dello YAS, «siamo ispirati dalla lotta che stanno portando avanti, e ci auguriamo di dare l’avvio a un movimento diffuso di resistenza non-violenta nella zona di Hebron».
La resistenza non-violenta israelo-palestinese-internazionale all’occupazione si sta lentamente amplificando.
Villaggi come Beit Ummar e Beit Jala, le cui terre agricole che in questi giorni vengono spianate dai bulldozer per permettere la costruzione del muro di separazione israeliano, ospitano manifestazioni settimanali simili a quelle che vanno avanti ormai da anni in villaggi come Bil’in, Ni’ilin, Al Ma’asara e Budrus. Anche il villaggio di Al Walajah ha inaugurato la sua prima manifestazione settimanale venerdì scorso, il giorno dopo che le ruspe militari avevano iniziato a devastare i suoi uliveti.
Allo stesso tempo a Gerusalemme Est occupata, il movimento del quartiere Sheikh Jarrah dallo scorso agosto incarna un altro epicentro simbolico di resistenza, dopo lo sfratto di quattro famiglie palestinesi (più di 50 persone) dalle loro case per sostituirle con coloni fondamentalisti nella politica governativa e comunale israeliana di «ebraizzazione» completa della Città Santa. Altre 24 famiglie del quartiere hanno ricevuto simili ordini di sfratto. Da mesi si svolgono manifestazioni settimanali nel piccolo parco del quartiere organizzate dagli sfrattati insieme ad attivisti israeliani e stranieri con le caratteristiche magliette bianche e nere «Liberate Sheikh Jarrah». Non manca una piccola band musicale israeliana, formatasi apposta, perennemente al seguito dei cortei anche nei villaggi. Il quartiere di Silwan ha cominciato anch’esso ad organizzare eventi simili per opporsi al numero crescente di sfratti emessi per fare posto a presunti scavi archeologici israeliani che, in realtà, sono finalizzati ad espellere centinaia di palestinesi e a demolire decine di abitazioni arabe.
Potrebbe apparire marginale ma questa forma di resistenza popolare riesce a rompere la routine delle confische e delle demolizioni di case da parte dell’occupazione israeliana.
Prima che i bulldozer potessero cominciare i lavori ad Al Walajah, giovedì scorso, i soldati hanno dovuto trascinare via e in parte arrestare un gruppo di circa 50 persone sedutesi davanti ai pesanti automezzi. Prima che si potessero sradicare gli ulivi a Beit Jala il mese scorso, è stato necessario portare via con la forza i manifestanti che si erano incatenati a quegli alberi. Ogni settimana nel sud di Hebron, israeliani e internazionali fanno da scudo per i pastori palestinesi, con cui si coordinano, nei confronti dei coloni di Ma’on e Susiya sostenuti dai soldati, nel tentativo di mettere fine agli arresti arbitrari, alla confisca di pecore e al trasferimento dei pastori.
Lo Stato di Israele continua a reprimere queste iniziative arrestando un numero crescente di manifestanti, dichiarando «zone militari chiuse» le località delle manifestazioni e tramite l’uso abbondante di candelotti lacrimogeni spesso sparati ad altezza d’uomo, di granate assordanti, di proiettili di gomma e persino di «acqua puzzolente». Metodi seguiti dagli arresti degli organizzatori palestinesi ai posti di blocco militari e con raid notturni nei villaggi.
Non sono peraltro immuni da conseguenze gravi gli organizzatori israeliani. Alla fine di marzo, Michael Solsberry, uno degli organizzatori delle manifestazioni di Sheikh Jarrah, è stato arrestato mentre cenava a casa sua, per essere poi rilasciato un paio di ore dopo per mancanza di accuse specifiche. Ma se i manifestanti israeliani vengono rilasciati solitamente dopo diverse ore e gli internazionali arrestati vengono espulsi da Israele, sono gli organizzatori ed i manifestanti palestinesi a pagare il prezzo più alto perché soggetti alla violenza di poliziotti e militari e, spesso, lasciati per giorni, se non settimane o di più, in carcere.
In ogni caso la resistenza popolare israelo-palestinese-internazionale rappresenta un importante ed originale iniziativa in cui minoranze delle società civili israeliani e palestinesi si danno lo scopo di costruire insieme una pace giusta. Sebbene gli obiettivi specifici di questo gruppo misto sicuramente varino, la loro presenza si radica in un terreno comune, come ha spiegato un organizzatore dello YAS che ha chiesto di rimanere anonimo: «Mettere fine all’occupazione non è soltanto un interesse palestinese ma è un interesse anche di molti israeliani – ha detto – perché l’occupazione vuol dire spreco di fondi, la de-umanizzazione dei soldati, l’appoggio all’odio e a tutti i valori più negativi». Le persone coinvolte in queste iniziative – ha concluso – «credono profondamente che vivere in pace siano un interesse comune a tutti».
mercoledì 12 maggio 2010
SEQUESTRO DI PERSONA
Riporto il comunicato stampa del Comitato popolare di Bil'in,
> Traduzione dall'inglese
> Caterina Donattini
>
>
> Cari amici
> I comitati popolari in Palestina condannano l'ingiusta persecuzione
> dei leader della resistenza popolare palestinese. In particolare
> condanniamo la decisone presa dai servizi segreti israeliani dello
> SHIN BET che ha negato al Signor Iyad Burnat la possibilità di
> uscire dalla Palestina. Eyad è il capo del Comitato popolare che
> resiste contro gli insediamenti ed il muro illegali presso Bilin.
> Egli era stato invitato ad una serie di conferenze in Italia ed in
> Svizzera, avrebbe parlato del tema della resistenza non violenta.
> Tra le persone che lo avrebbero accolto ed invitato annoveriamo il
> sindaco di Ginevra, Remy Pigan, e gli organizzatori della marcia
> per la pace in Italia. Sia l’uno che gli altri si sono detti
> sconvolti per il fatto che il Signor Burnat non abbia potuto
> attraversare il ponte tra la West Bank e la Giordania il 1 Maggio
> 2010.
>
> Le autorità israeliane hanno tenuto il Signor Burnat in attesa per
> 3 ore per poi comunicargli il divieto di lasciare il paese.
> Il tentativo israeliano di impedire alle persone coinvolte nella
> resistenza non violenta e nelle varie forme di resistenza civile di
> raccontare le proprie storie all'estero fa parte della politica di
> intimidazione volta a porre fine a questo tipo di resistenza. Le
> azioni di Israele in questo senso mirano ad impedire che notizie
> discordanti con la propaganda israeliana raggiungano l'Occidente,
> limitando il più possibile i contatti tra i palestinesi ed il resto
> del mondo.
> In questi ultimi anni di lotta non ci siamo mai arresi nonostante
> l'uccisione di manifestanti pacifici quali il nostro compagno
> Bassem Abu Rahma nell'aprile 2009 e nonostante il rapimento e
> l'arresto di centinaia di dimostranti pacifici. Durante le
> manifestazioni, che hanno scadenza settimanale, le autorità
> israeliane hanno utilizzato ogni tipo di arma: lacrimogeni,
> sostanze chimiche, idranti, pallottole ed altre armi sperimentali.
> Iyad Burnat ha 37 anni, è sposato ed è padre di 4 figli. Fu
> arrestato durante la prima intifada nel 1987 e nel 1992 venne
> arrestato e dovette rimanere in prigione per due anni. Fu ferito
> diverse volte durante le manifestazioni settimanali presso Bilin.
>
> Ci opponiamo con forza ale misure prese contro il nostro compagno
> Eyad Burnat:
> -La negazione del suo diritto di viaggiare per ragioni addotte alla
> sicurezza;
> -La negazione del suo diritto di abbandonare la zona A (una
> richiesta piuttosto strana: l'area A costituisce meno del 10%
> dell'intera West Bank ed è costituita di tanti ghetti separati tra
> loro, il che richiede a chi voglia passare da un'area A all'altra
> di attraversare alcuni spazi di area B e C);
> -Il divieto di partecipare a manifestazione pacifiche;
> -Il fatto che sia passibile di arresto in caso abbandonasse l'area A;
>
> Potete offrirci il vostro sotegno:
> 1) Scrivendo lettere alle ambasciate israeliane in tutto il mondo e
> ai ministri israeliani
> 2) Pubblicizzando queste politiche ingiuste
> 3)Intensificando la solidarietà internazionale con la giusta causa
> del popolo palestinese ed unendoti a noi nelle manifestazioni e
> nella campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le
> sanzioni contro Israele.
>
> RIFIUTIAMO DI MORIRE IN SILENZIO
>
>
> Traduzione dall'inglese
> Caterina Donattini
>
>
> Cari amici
> I comitati popolari in Palestina condannano l'ingiusta persecuzione
> dei leader della resistenza popolare palestinese. In particolare
> condanniamo la decisone presa dai servizi segreti israeliani dello
> SHIN BET che ha negato al Signor Iyad Burnat la possibilità di
> uscire dalla Palestina. Eyad è il capo del Comitato popolare che
> resiste contro gli insediamenti ed il muro illegali presso Bilin.
> Egli era stato invitato ad una serie di conferenze in Italia ed in
> Svizzera, avrebbe parlato del tema della resistenza non violenta.
> Tra le persone che lo avrebbero accolto ed invitato annoveriamo il
> sindaco di Ginevra, Remy Pigan, e gli organizzatori della marcia
> per la pace in Italia. Sia l’uno che gli altri si sono detti
> sconvolti per il fatto che il Signor Burnat non abbia potuto
> attraversare il ponte tra la West Bank e la Giordania il 1 Maggio
> 2010.
>
> Le autorità israeliane hanno tenuto il Signor Burnat in attesa per
> 3 ore per poi comunicargli il divieto di lasciare il paese.
> Il tentativo israeliano di impedire alle persone coinvolte nella
> resistenza non violenta e nelle varie forme di resistenza civile di
> raccontare le proprie storie all'estero fa parte della politica di
> intimidazione volta a porre fine a questo tipo di resistenza. Le
> azioni di Israele in questo senso mirano ad impedire che notizie
> discordanti con la propaganda israeliana raggiungano l'Occidente,
> limitando il più possibile i contatti tra i palestinesi ed il resto
> del mondo.
> In questi ultimi anni di lotta non ci siamo mai arresi nonostante
> l'uccisione di manifestanti pacifici quali il nostro compagno
> Bassem Abu Rahma nell'aprile 2009 e nonostante il rapimento e
> l'arresto di centinaia di dimostranti pacifici. Durante le
> manifestazioni, che hanno scadenza settimanale, le autorità
> israeliane hanno utilizzato ogni tipo di arma: lacrimogeni,
> sostanze chimiche, idranti, pallottole ed altre armi sperimentali.
> Iyad Burnat ha 37 anni, è sposato ed è padre di 4 figli. Fu
> arrestato durante la prima intifada nel 1987 e nel 1992 venne
> arrestato e dovette rimanere in prigione per due anni. Fu ferito
> diverse volte durante le manifestazioni settimanali presso Bilin.
>
> Ci opponiamo con forza ale misure prese contro il nostro compagno
> Eyad Burnat:
> -La negazione del suo diritto di viaggiare per ragioni addotte alla
> sicurezza;
> -La negazione del suo diritto di abbandonare la zona A (una
> richiesta piuttosto strana: l'area A costituisce meno del 10%
> dell'intera West Bank ed è costituita di tanti ghetti separati tra
> loro, il che richiede a chi voglia passare da un'area A all'altra
> di attraversare alcuni spazi di area B e C);
> -Il divieto di partecipare a manifestazione pacifiche;
> -Il fatto che sia passibile di arresto in caso abbandonasse l'area A;
>
> Potete offrirci il vostro sotegno:
> 1) Scrivendo lettere alle ambasciate israeliane in tutto il mondo e
> ai ministri israeliani
> 2) Pubblicizzando queste politiche ingiuste
> 3)Intensificando la solidarietà internazionale con la giusta causa
> del popolo palestinese ed unendoti a noi nelle manifestazioni e
> nella campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le
> sanzioni contro Israele.
>
> RIFIUTIAMO DI MORIRE IN SILENZIO
>
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martedì 11 maggio 2010
UNA NUBE SOPRA GERUSALEMME
Venerdì 07 Maggio 2010 07:23 Uri Avnery
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Associazione di Amicizia Italo-Palestinese, 5 maggio 2010
Gush Shalom.org
01.05.2010
Chiunque ha il diritto di cambiare la propria opinione. Perfino Danny Tirzeh.
Il Colonnello Tirzeh è stato il responsabile della pianificazione urbanistica del muro che “avviluppa” Gerusalemme – quello che taglia la città separandola dalla West Bank, per farla diventare la Capitale Unificata di Israele Per Tutta l’Eternità.
Ed ora, improvvisamente, Tirzeh spunta fuori come il principale oppositore di quel muro che lui stesso ha pianificato. Lo vuole rimuovere in modo tale da far sì che le terre del villaggio di al-Walaja rimangano sul lato “israeliano”.
Il Colonnello ha smesso di darsi da fare per conto dell’esercito israeliano ed ora si presenta come imprenditore privato che desidera costruire 14.000 unità abitative per 45.000 anime di ebrei. Naturalmente, tutto ciò a maggior vantaggio del sionismo, del popolo ebraico, dell’Eterna Capitale di Israele e per molte decine di milioni di shekel.
Il COLONNELLO TIRZEH non è precisamente una persona qualunque. E’ un simbolo.
Per anni ho continuato ad incontrarlo nel salone di ingresso della Corte Suprema. Era divenuto quasi un elemento fisso: il teste protagonista, l’esperto e l’animatore in dozzine di udienze che avevano a che fare con il Muro di Separazione e di Annessione.
Conosceva tutto. Ogni chilometro del Muro e della Barriera. Ogni collina, ogni pietra. Portava sempre con sé un gran fascio di mappe che egli metteva davanti ai giudici, spiegando con calore perché mai il Muro dovesse passare per di qua e non di là, in quanto la sicurezza dello stato richiedeva che i villaggi palestinesi venissero separati dalle loro terre, perché il lasciare gli oliveti in mano ai loro proprietari avrebbe esposto i soldati israeliani a un mortale pericolo.
Di solito, i giudici risultavano convinti. Dopo tutto era lui l’esperto. Lui era l’uomo che sapeva. Come avrebbero potuto assumersi la responsabilità di cambiare il tracciato del Muro, se ciò avrebbe potuto determinare la morte di un ebreo?
C’erano delle eccezioni. Nel villaggio di Bil’in, la corte era convinta che si sarebbe dovuto spostare la barriera di poche centinaia di metri senza determinare il crollo della sicurezza dello stato e mucchi di corpi di ebrei a lordare il paesaggio.
In tal caso, la Corte Suprema aveva accettato la richiesta degli abitanti del villaggio e aveva deciso di spostare la barriera e – nulla. La barriera era rimasta dov’era. Il governo e l’esercito avevano ignorato del tutto l’ordine della Corte.
Inutilmente il presidente della Corte Suprema li aveva ammoniti che le sue decisioni “non erano delle raccomandazioni”. Come nel caso di altre dozzine di decisioni della Corte riguardanti i coloni, pure questa si sta coprendo di polvere.
Il caso di Bil’in è particolarmente evidente, e non solo perché laggiù dei dimostranti – palestinesi, israeliani ed altri – sono stati uccisi e feriti. E’ evidente perché colpisce che il movente sia quello di cercare di nascondersi dietro al Muro.
Non a causa del sionismo. Né per la sicurezza o la difesa dal terrorismo. Né per i sogni di generazioni. Né per la visione di Theodor Herzl, del quale ora si sta celebrando il 150° anniversario.
Solo per il denaro. Una gran quantità di denaro.
L’area che si trova tra l’attuale barriera ed il tracciato alternativo è stata riservata alla colonia ortodossa di Modi’in-Illit. Società di gigantesche dimensioni vi devono costruire molte centinaia di “unità abitative”, un affare del valore di molti milioni.
Ovunque, le zone rubate ai palestinesi vengono trasformate immediatamente in proprietà immobiliari. Attraverso misteriosi canali esse affluiscono nelle mascelle degli squali dei terreni. Poi gli squali creano enormi progetti abitativi e vendono le “unità abitative” per una fortuna.
In che modo tutto questo viene fatto? Il pubblico sta ricevendo una lezione con l’affare Terrasanta, una lezione a puntate – ogni giorni emergono nuovi particolari e compaiono nuovi imputati.
Al posto di un vecchio e modesto hotel con questo nome, è spuntato un progetto abitativo – una serie di altissimi edifici d’appartamenti e un grattacielo. Questo brutto mostro domina il paesaggio – ma la parte del progetto che si può vedere da lontano è solo una frazione dell’intero complesso. Le altre parti hanno già ottenuto la benedizione di tutte le più importanti autorità municipali e governative.
In che modo? L’indagine è tutt’ora in corso. Quasi ogni giorno vengono arrestati nuovi imputati. quasi tutti coloro che hanno avuto a che fare con l’autorizzazione del progetto, su su fino al livello più elevato, sono ritenuti sospetti – ministri, funzionari governativi ad alto livello, l’ex sindaco, membri del consiglio municipale e funzionari municipali. Al momento gli investigatori stanno cercando di seguire le tracce delle tangenti in tutto il mondo.
Il Terrasanta è situato a Gerusalemme Ovest (in quello che prima del 1948 era il quartiere arabo di Katamon).
La domanda che sorge spontaneamente: se le cose hanno preso questa via nella parte occidentale della città, che cosa sta succedendo in quella orientale? Se quei politici e funzionari hanno avuto il coraggio di rubare e di prendere tangenti a Gerusalemme Ovest – che cosa si sono permessi di fare a Gerusalemme Est i cui abitanti non sono rappresentati né nella municipalità, né nel governo?
Solo pochi minuti di auto separano Terrasanta dal villaggio di al-Walaja.
Si potrebbero scrivere volumi su questo piccolo villaggio, che per più di 60 anni è servito da bersaglio d’abusi.
Brevemente: il villaggio primitivo è stato occupato ed annesso ad Israele nella guerra del 1948. Gli abitanti sono stati espulsi ed hanno fondato un nuovo villaggio su quella parte di terreni che erano rimasti loro dall’altra parte della Linea Verde. Il nuovo villaggio è stato occupato nella guerra del 1967 ed è stato annesso a Gerusalemme, la quale, a sua volta, era stata annessa ad Israele. Secondo il diritto israeliano, le abitazioni sono illegali. Gli abitanti risiedono nelle loro stesse case, sulla propria terra, ma vengono considerati ufficialmente dei residenti illegali che possono essere espulsi in ogni momento.
Ora gli squali dei terreni stanno divorandosi con gli occhi questo succulento pezzo di terra, che vale una gran quantità di denaro se utilizzato per progetti abitativi. Essi perseguono la collaudata prassi sionista. Prima di tutto, il nome arabo del luogo viene sostituito con uno ebraico, preferibilmente tratto dalla bibbia. Proprio come per il vicino Jebel-Abu-Gneim che è divenuto Har Homa prima ancora che vi venisse edificato quel mostruoso progetto abitativo da pugno in un occhio, perciò ora al-Walaja è divenuta Giv’at Yael. Evidentemente un luogo chiamato Collina di Yael deve appartenere al popolo ebraico, ed è un compito divino quello di costruirvi un'altra colonia.
Allora, che c’è da dire se tutto ciò rende necessario lo spostamento del muro? Si può sempre trovare un ufficiale dell’esercito di seconda mano che lo giustificherà per ragioni di sicurezza.
E’ da anni che sto proponendo che si dovrebbe esaminare più da vicino questo aspetto dell’iniziativa della colonia.
Il dibattito pubblico si è sempre basato si ideali elevati. La promessa divina in contrapposizione alla visione umana. La Grande Israele in contrapposizione alla soluzione dei Due-Stati. I valori del sionismo in contrapposizione al valore della pace. Fascismo in contrapposizione all’umanesimo.
E qualcuno lungo la strada verso la banca stava facendosi una risata.
Le colonie stanno sviluppandosi tuttora con rapidità. In tutta la West Bank ed a Gerusalemme Est le colonie spuntano come funghi velenosi, intossicando le prospettive di pace. In questa faccenda non c’è mai stata alcuna differenza tra Golda Meir e Menachem Begin, tra Ehud Barak e Ariel Sharon, tra Shimon Peres e Benjamin Netanyahu.
Tra i coloni c’è un nocciolo duro di zeloti ideologici. Ma molti dei costruttori sono proprio degli intelligenti uomini di affari, il cui unico dio è Mammone. Con facilità fanno amicizia con i dirigenti del Likud e con i capi del Labor Party, per non citare la folla del Kadima.
Le enormi colonie a Gerusalemme Est – quelle già esistenti e quelle ancora solo in fase di progetto – stanno procedendo lungo le stesse linee di sviluppo del mostro sulla collina Terrasanta, in quanto hanno bisogno degli stessi permessi dalle stesse autorità municipali e governative. Dopo tutto, Gerusalemme è stata unificata. Perciò su di loro sta accumulandosi la stessa nube cupa.
Ciò di cui c’è necessità è un consiglio giudiziario d’inchiesta che indaghi su tutti i permessi concessi a Gerusalemme negli ultimi anni, certamente dall’inizio del periodo in cui Ehud Olmert ha assunto la carica di sindaco. Olmert lottò come una tigre per la costituzione di Har Homa e delle altre grandi colonie di Gerusalemme Est. Tutto per il bene del sionismo e del diritto ebraico sulla Città Santa. Ora lui è il sospettato n°1.
Si deve indagare su tutto fin dall’inizio. E ogni nuovo progetto deve essere bloccato fino a che la proprietà dello stesso non è stata accertata oltre ogni dubbio.
Queste cose sono abbastanza serie di per sé stesse e risultano perfino ancor più gravi quando vengono a collocarsi al centro del conflitto israelo-palestinese e della crisi tra Israele e gli Stati Uniti.
Per il bene dei progetti residenziali israeliani a Gerusalemme Est, il governo di Netanyahu sta mettendo a rischio la nostra linea di comunicazione con gli Stati Uniti. Il sindaco di estrema destra afferma che non glie ne frega niente degli ordini del governo e continuerà a portare a termine le costruzioni fino all’ultima, se può o non può Netanyahu non lo dice. Ovviamente i palestinesi si rifiutano di negoziare con il governo israeliano mentre proseguono le attività di costruzione a Gerusalemme Est.
Mettiamo a rischio il futuro di Israele per generazioni solo perché degli squali dei terreni possano fare una maggiore quantità di milioni?
Tra i patrioti che stanno dividendo Gerusalemme Est sono compresi anche quei funzionari eletti e designati che stanno facendo affidamento su grosse tangenti da parte dei costruttori?
C’è una connessione tra la dilagante corruzione, della quale l’affare Terrasanta è solo la punta di un iceberg, e le decisioni storiche nazionali?
In breve, permetteremo che il futuro della terra santa venga sacrificato sull’empio altare del profitto e della corruzione?
Testo inglese in http://zope.gush-shalom.org/home/en/channels/avnery/1272747796/ - tradotto da Mariano Mingarelli
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Associazione di Amicizia Italo-Palestinese, 5 maggio 2010
Gush Shalom.org
01.05.2010
Chiunque ha il diritto di cambiare la propria opinione. Perfino Danny Tirzeh.
Il Colonnello Tirzeh è stato il responsabile della pianificazione urbanistica del muro che “avviluppa” Gerusalemme – quello che taglia la città separandola dalla West Bank, per farla diventare la Capitale Unificata di Israele Per Tutta l’Eternità.
Ed ora, improvvisamente, Tirzeh spunta fuori come il principale oppositore di quel muro che lui stesso ha pianificato. Lo vuole rimuovere in modo tale da far sì che le terre del villaggio di al-Walaja rimangano sul lato “israeliano”.
Il Colonnello ha smesso di darsi da fare per conto dell’esercito israeliano ed ora si presenta come imprenditore privato che desidera costruire 14.000 unità abitative per 45.000 anime di ebrei. Naturalmente, tutto ciò a maggior vantaggio del sionismo, del popolo ebraico, dell’Eterna Capitale di Israele e per molte decine di milioni di shekel.
Il COLONNELLO TIRZEH non è precisamente una persona qualunque. E’ un simbolo.
Per anni ho continuato ad incontrarlo nel salone di ingresso della Corte Suprema. Era divenuto quasi un elemento fisso: il teste protagonista, l’esperto e l’animatore in dozzine di udienze che avevano a che fare con il Muro di Separazione e di Annessione.
Conosceva tutto. Ogni chilometro del Muro e della Barriera. Ogni collina, ogni pietra. Portava sempre con sé un gran fascio di mappe che egli metteva davanti ai giudici, spiegando con calore perché mai il Muro dovesse passare per di qua e non di là, in quanto la sicurezza dello stato richiedeva che i villaggi palestinesi venissero separati dalle loro terre, perché il lasciare gli oliveti in mano ai loro proprietari avrebbe esposto i soldati israeliani a un mortale pericolo.
Di solito, i giudici risultavano convinti. Dopo tutto era lui l’esperto. Lui era l’uomo che sapeva. Come avrebbero potuto assumersi la responsabilità di cambiare il tracciato del Muro, se ciò avrebbe potuto determinare la morte di un ebreo?
C’erano delle eccezioni. Nel villaggio di Bil’in, la corte era convinta che si sarebbe dovuto spostare la barriera di poche centinaia di metri senza determinare il crollo della sicurezza dello stato e mucchi di corpi di ebrei a lordare il paesaggio.
In tal caso, la Corte Suprema aveva accettato la richiesta degli abitanti del villaggio e aveva deciso di spostare la barriera e – nulla. La barriera era rimasta dov’era. Il governo e l’esercito avevano ignorato del tutto l’ordine della Corte.
Inutilmente il presidente della Corte Suprema li aveva ammoniti che le sue decisioni “non erano delle raccomandazioni”. Come nel caso di altre dozzine di decisioni della Corte riguardanti i coloni, pure questa si sta coprendo di polvere.
Il caso di Bil’in è particolarmente evidente, e non solo perché laggiù dei dimostranti – palestinesi, israeliani ed altri – sono stati uccisi e feriti. E’ evidente perché colpisce che il movente sia quello di cercare di nascondersi dietro al Muro.
Non a causa del sionismo. Né per la sicurezza o la difesa dal terrorismo. Né per i sogni di generazioni. Né per la visione di Theodor Herzl, del quale ora si sta celebrando il 150° anniversario.
Solo per il denaro. Una gran quantità di denaro.
L’area che si trova tra l’attuale barriera ed il tracciato alternativo è stata riservata alla colonia ortodossa di Modi’in-Illit. Società di gigantesche dimensioni vi devono costruire molte centinaia di “unità abitative”, un affare del valore di molti milioni.
Ovunque, le zone rubate ai palestinesi vengono trasformate immediatamente in proprietà immobiliari. Attraverso misteriosi canali esse affluiscono nelle mascelle degli squali dei terreni. Poi gli squali creano enormi progetti abitativi e vendono le “unità abitative” per una fortuna.
In che modo tutto questo viene fatto? Il pubblico sta ricevendo una lezione con l’affare Terrasanta, una lezione a puntate – ogni giorni emergono nuovi particolari e compaiono nuovi imputati.
Al posto di un vecchio e modesto hotel con questo nome, è spuntato un progetto abitativo – una serie di altissimi edifici d’appartamenti e un grattacielo. Questo brutto mostro domina il paesaggio – ma la parte del progetto che si può vedere da lontano è solo una frazione dell’intero complesso. Le altre parti hanno già ottenuto la benedizione di tutte le più importanti autorità municipali e governative.
In che modo? L’indagine è tutt’ora in corso. Quasi ogni giorno vengono arrestati nuovi imputati. quasi tutti coloro che hanno avuto a che fare con l’autorizzazione del progetto, su su fino al livello più elevato, sono ritenuti sospetti – ministri, funzionari governativi ad alto livello, l’ex sindaco, membri del consiglio municipale e funzionari municipali. Al momento gli investigatori stanno cercando di seguire le tracce delle tangenti in tutto il mondo.
Il Terrasanta è situato a Gerusalemme Ovest (in quello che prima del 1948 era il quartiere arabo di Katamon).
La domanda che sorge spontaneamente: se le cose hanno preso questa via nella parte occidentale della città, che cosa sta succedendo in quella orientale? Se quei politici e funzionari hanno avuto il coraggio di rubare e di prendere tangenti a Gerusalemme Ovest – che cosa si sono permessi di fare a Gerusalemme Est i cui abitanti non sono rappresentati né nella municipalità, né nel governo?
Solo pochi minuti di auto separano Terrasanta dal villaggio di al-Walaja.
Si potrebbero scrivere volumi su questo piccolo villaggio, che per più di 60 anni è servito da bersaglio d’abusi.
Brevemente: il villaggio primitivo è stato occupato ed annesso ad Israele nella guerra del 1948. Gli abitanti sono stati espulsi ed hanno fondato un nuovo villaggio su quella parte di terreni che erano rimasti loro dall’altra parte della Linea Verde. Il nuovo villaggio è stato occupato nella guerra del 1967 ed è stato annesso a Gerusalemme, la quale, a sua volta, era stata annessa ad Israele. Secondo il diritto israeliano, le abitazioni sono illegali. Gli abitanti risiedono nelle loro stesse case, sulla propria terra, ma vengono considerati ufficialmente dei residenti illegali che possono essere espulsi in ogni momento.
Ora gli squali dei terreni stanno divorandosi con gli occhi questo succulento pezzo di terra, che vale una gran quantità di denaro se utilizzato per progetti abitativi. Essi perseguono la collaudata prassi sionista. Prima di tutto, il nome arabo del luogo viene sostituito con uno ebraico, preferibilmente tratto dalla bibbia. Proprio come per il vicino Jebel-Abu-Gneim che è divenuto Har Homa prima ancora che vi venisse edificato quel mostruoso progetto abitativo da pugno in un occhio, perciò ora al-Walaja è divenuta Giv’at Yael. Evidentemente un luogo chiamato Collina di Yael deve appartenere al popolo ebraico, ed è un compito divino quello di costruirvi un'altra colonia.
Allora, che c’è da dire se tutto ciò rende necessario lo spostamento del muro? Si può sempre trovare un ufficiale dell’esercito di seconda mano che lo giustificherà per ragioni di sicurezza.
E’ da anni che sto proponendo che si dovrebbe esaminare più da vicino questo aspetto dell’iniziativa della colonia.
Il dibattito pubblico si è sempre basato si ideali elevati. La promessa divina in contrapposizione alla visione umana. La Grande Israele in contrapposizione alla soluzione dei Due-Stati. I valori del sionismo in contrapposizione al valore della pace. Fascismo in contrapposizione all’umanesimo.
E qualcuno lungo la strada verso la banca stava facendosi una risata.
Le colonie stanno sviluppandosi tuttora con rapidità. In tutta la West Bank ed a Gerusalemme Est le colonie spuntano come funghi velenosi, intossicando le prospettive di pace. In questa faccenda non c’è mai stata alcuna differenza tra Golda Meir e Menachem Begin, tra Ehud Barak e Ariel Sharon, tra Shimon Peres e Benjamin Netanyahu.
Tra i coloni c’è un nocciolo duro di zeloti ideologici. Ma molti dei costruttori sono proprio degli intelligenti uomini di affari, il cui unico dio è Mammone. Con facilità fanno amicizia con i dirigenti del Likud e con i capi del Labor Party, per non citare la folla del Kadima.
Le enormi colonie a Gerusalemme Est – quelle già esistenti e quelle ancora solo in fase di progetto – stanno procedendo lungo le stesse linee di sviluppo del mostro sulla collina Terrasanta, in quanto hanno bisogno degli stessi permessi dalle stesse autorità municipali e governative. Dopo tutto, Gerusalemme è stata unificata. Perciò su di loro sta accumulandosi la stessa nube cupa.
Ciò di cui c’è necessità è un consiglio giudiziario d’inchiesta che indaghi su tutti i permessi concessi a Gerusalemme negli ultimi anni, certamente dall’inizio del periodo in cui Ehud Olmert ha assunto la carica di sindaco. Olmert lottò come una tigre per la costituzione di Har Homa e delle altre grandi colonie di Gerusalemme Est. Tutto per il bene del sionismo e del diritto ebraico sulla Città Santa. Ora lui è il sospettato n°1.
Si deve indagare su tutto fin dall’inizio. E ogni nuovo progetto deve essere bloccato fino a che la proprietà dello stesso non è stata accertata oltre ogni dubbio.
Queste cose sono abbastanza serie di per sé stesse e risultano perfino ancor più gravi quando vengono a collocarsi al centro del conflitto israelo-palestinese e della crisi tra Israele e gli Stati Uniti.
Per il bene dei progetti residenziali israeliani a Gerusalemme Est, il governo di Netanyahu sta mettendo a rischio la nostra linea di comunicazione con gli Stati Uniti. Il sindaco di estrema destra afferma che non glie ne frega niente degli ordini del governo e continuerà a portare a termine le costruzioni fino all’ultima, se può o non può Netanyahu non lo dice. Ovviamente i palestinesi si rifiutano di negoziare con il governo israeliano mentre proseguono le attività di costruzione a Gerusalemme Est.
Mettiamo a rischio il futuro di Israele per generazioni solo perché degli squali dei terreni possano fare una maggiore quantità di milioni?
Tra i patrioti che stanno dividendo Gerusalemme Est sono compresi anche quei funzionari eletti e designati che stanno facendo affidamento su grosse tangenti da parte dei costruttori?
C’è una connessione tra la dilagante corruzione, della quale l’affare Terrasanta è solo la punta di un iceberg, e le decisioni storiche nazionali?
In breve, permetteremo che il futuro della terra santa venga sacrificato sull’empio altare del profitto e della corruzione?
Testo inglese in http://zope.gush-shalom.org/home/en/channels/avnery/1272747796/ - tradotto da Mariano Mingarelli
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