venerdì 28 maggio 2010

LA VITA DEI PALESTINESI E' AGLI ARRESTI DOMICILIARI

IL SOGNO DI HANNINE: ANDARE AL MARE
Il racconto di una ragazza del campo profughi di Deheishe che, a causa dell'occupazione, non aveva mai visto il mare

Deheishe (Betlemme) 27 maggio 2010, Nena News - Mi chiamo Hannine e sono una ragazza palestinese. Una rifugiata fin dalla nascita e da sempre in un campo profughi. Ho vissuto abbastanza per raccontarvi molte storie sulla vita qui. Oggi pero’ c’e' una cosa di cui vorrei parlare: il mio sogno.

Il mio sogno come quelli che fanno altre giovani donne nel mondo, è vivere una vita normale. Una vita lontana dalla guerra e dall’occupazione israeliana, una vita in uno stato indipendente. Una vita in cui regni la pace. Una vita in cui mi sia concesso di andare al mare: il mio sogno è andare al mare.

Posso andare al mare in paesi che non sono i miei, in posti lontani ed esotici, però il mio sogno è andare al mare nel mio paese, ad un’ora da casa mia. Noi palestinesi non abbiamo quel diritto che a molti pare scontato: andare al mare…

Da molti anni cercavo qualcuno che potesse portarmi al mare illegalmente, perché per me andare al mare è illegale. Qualche giorno fa parlavo con un’amica italiana e le dicevo che non ero mai stata al mare, mi ha guardato sconvolta e mi ha detto: “Davvero? Non sei mai stata al mare qui?”. Ho detto di no e mi ha promesso che mi avrebbe portata durante il week end. Ed è così che sono rimasta in attesa di quel giorno e la notte precedente non potevo dormire, il cuore mi batteva nel ventre, non potevo chiudere gli occhi. E’ infine sorto il sole e la mia amica è venuta a prendermi in macchina.

Per raggiungere il mare ho fatto cose di cui non ho orgoglio, ma senza le quali non avrei mai potuto attraversare il chek point insospettata. Mi sono vestita con abiti che non sono i miei, abbiamo lasciato suonare una musica sconosicuta nello stereo della macchina. Al posto di blocco si avvicinava e non smettevo di pregare, non riuscivo a contenere la paura per quanto sarebbe accaduto se ci avessero fermate. Eppure è stato un attimo, la macchina è scivolata, il mio cuore in discesa a perdifiato, in un battito, eravamo dal’altra parte: i soldati non ci avevano fermate. Ed ho pianto, volevo parlare, gridare, ma non sapevo a chi indirizzare le mie parole. Finalmente potevo guardare dall’altra parte del finestrino, annusare la libertà nell’aria e la bellezza del mio paese. Ho afferrato la macchina fotografica e senza sosta ho scattato mille fotografie, perché non sapevo quando e se sarei potuta ritornare.

Guardavo i boschi, le strade, gli alberi e la mia amica mi indicava i villaggi palestinesi evacuati nel 1948: “Quella era la moschea, questo è Beit Jibrin”. Così ho provato un dolore indescrivibile, sentirmi straniera nel mio proprio paese: era lei, italiana, che mi indicava i luoghi che io avrei dovuto descriverle. Eppure ho preferito ascoltarla, perché non avevo mai visto quei posti, e li conoscevo solamente nei racconti dei miei parenti più anziani.

Ed è così che ho realizzato il mio sogno più grande: andare al mare. Il mio mare, non quello di altri.
Vorrei che il mio sogno fosse legale, come lo è il sogno di libertà di ogni essere umano.

Hannine, campo profughi Dehishe (Betlemme)

articolo scritto in collaborazione con Caterina Donattini

1 commento:

Andrea ha detto...

Le solite balle della propaganda palestinese sul “povero palestinese ammazzato dal perfido Israele". Tutto questo perchè la propaganda palestinese vuole cercare di nascondere che i palestinesi si stanno ammazzando fra loro, decine di morti, violenza, distruzione e allora è meglio far guardare altrove.