Il sole sta tramontando e salutiamo i deputati per riuscire ad andare a Sheik Jarrah prima di cena. Su 28 famiglie di questo quartiere pende il decreto di espulsione. Finora ne sono state espulse sei. Sono famiglie che si stabilirono qui dopo essere state espulse nel ‘48. Il governo giordano aveva dato loro delle tende e poi ci fu un accordo tra il governo giordano e l’UNWRA per costruite le case, che l’UNWRA costruì nel 56. La scusa degli israeliani per le espulsioni è che lì c’è la tomba di Rachele. Kifah ci parla della prima famiglia che è stata espulsa, il marito è morto d’infarto per lo stress, loro sono rimasti un po’ nella tenda, poi la zona dove c’era la casa è diventata una discarica.
Andiamo a trovare delle famiglie evacuate che vivono nella tenda. Entriamo in un giardinetto, c’è una casa che però è sigillata e davanti alla casa è stata posta una tenda dove ora vivono. Tra gruppi di bambini che giocano ci sediamo sul bordo di un muretto e loro ci raccontano la loro storia. Parla prima un uomo, dice che le famiglie sono composte da 37 persone di cui 13 bambini dai 3 ai 13 anni. “Quando ci hanno evacuato, il 2 agosto del 2009, tutta questa zona è stata dichiarata zona militare chiusa. Sono venuti armati da capo a piedi, non hanno guardato né i bambini, né in che stato erano le persone, erano le 5 del mattino. Ci hanno buttato fuori con la forza, hanno buttato fuori la nostra roba e distrutto tutto ciò che era rimasto in casa. Subito dopo i coloni israeliani hanno introdotto i loro mobili. Durante tutta l’operazione la zona era circondata dai soldati, siamo usciti tra gli strilli e i pianti dei bambini. Dopo abbiamo messo la tenda davanti a casa per restare. I coloni e la polizia hanno portato via la tenda per 17 volte e noi altrettante volte l’abbiamo rimessa. Loro pensano che la tenda è il simbolo della nostra resistenza, ma non abbiamo alternativa, questa è la nostra casa. L’anno scorso era Ramadan e stavamo nella tenda, tra poco sarà di nuovo Ramadan. La questione non riguarda solo noi, ma tutti i palestinesi di Gerusalemme.”
Ci dicono che ricevono molta solidarietà dagli attivisti israeliani che manifestano sia a Tel Aviv che con loro cercando di impedire le demolizioni e le evacuazioni, la sera spesso cenano insieme davanti alla tenda.
Il quartiere di Sheik-Jarrah è diventato un simbolo di resistenza, da mesi si svolgono manifestazioni settimanali organizzate dagli abitanti sfrattati assieme ad attivisti israeliani e internazionali nel piccolo parco del quartiere. Gli attivisti indossano magliette bianche e nere con la scritta “Liberate Sheik-Jarrah”. C‘è sempre anche una piccola band musicale che si è formata al seguito delle manifestazioni e che è presente anche nelle proteste dei villaggi contro il muro.
Dopo parla un altro uomo, è il padrone della casa sigillata che è decorata con delle bandierine israeliane. Ce la mostra, dice “Mi sono presentato tre volte al comune per chiedere il permesso di costruire una casa qui e viverci, ma ogni volta rifiutavano di ricevere la richiesta (perché non vogliono che ci sia un documento che la attesti). Ho costruito la casa senza permesso, come tutti, (i permessi per costruire non vengono mai dati ai palestinesi). Il governo giordano mi ha dato il permesso di costruire la mia casa (si riferisce all’accordo del ‘56) ma gli israeliani vogliono cacciarmi e togliermi terra e casa. Nel 2000 ho costruito questa casa e ora non posso neppure entrarci dentro. Il giudice israeliano è venuto a chiudere la casa e ha portato le chiavi con se tenendole per 10 anni. Durante questi anni ho pagato una multa per aver costruito senza permesso. Il 3 novembre del 2009 il tribunale ha emesso la sentenza e hanno dato le chiavi ai coloni. Erano più di 70 protetti dall’esercito, hanno distrutto i mobili e li hanno buttati fuori. Abbiamo fatto una denuncia e ci hanno dato ragione, ma poi una seconda sentenza ha deciso che la precedente (non dare le chiavi ai coloni) era sbagliata. Il 29 il giudice ha dato di nuovo la casa ai coloni. Abbiamo un certificato che dimostra che questa terra è nostra (dove è costruita la casa) il certificato è rafforzato da 13 documenti che si trovano in Turchia (che è il catasto palestinese) la terra è nostra, ma la casa è dei coloni. Quando abbiamo consegnato la certificazione che abbiamo preso in Turchia, ci hanno detto che avevamo presentato il documento in ritardo. Gli israeliani dicono “queste case sono nostre” ma le case sono state costruite nel ‘56 quando loro erano dall’altra parte della città. Israele sta anticipando il futuro, sta liberando dai palestinesi quella che vogliono sia la loro capitale. A Silwan ci sono 88 case a minaccia di demolizione, sono case del ‘48 e dicono che non hanno i permessi”. Poi ci parla di Ilan Pappe, “lui ha a disposizione una documentazione e può scrivere anche meglio dei palestinesi. Leggetelo. La mia famiglia era di Haifa e abbiamo avuto amici ebrei fino al Sionismo. Ogni settimana si svolge una manifestazione qui e vi partecipano degli israeliani che solidarizzano con noi, ogni settimana aumentano un po’ di più, capiscono la nostra situazione perché non sono sionisti. Lavoriamo insieme per far cessare questi comportamenti”.
Parla anche una giovane donna e anche lei racconta di come sono entrati i coloni e hanno buttato in strada le loro cose, “ma prima” dice “hanno preso la cioccolata dal frigorifero e banchettavano davanti ai bambini.”
Quando abbiamo salutato le famiglie di Sheik Jarrah si era fatto davvero tardi ed eravamo tutti stanchi, qualcuno si è arreso e ha preso l’autobus per Ramallah. I più però volevano restare e cercare un ristorante. La mia proposta di comprare un panino e passeggiare per Gerusalemme di notte è stata subito bocciata clamorosamente, c’era però il problema del ritorno. Noi progettavamo di prendere un taxi, qui costano pochissimo, ma Kifah ci ha detto che dopo le undici i taxi non circolavano più. Non si sapeva come fare e Kifah ha proposto di far venire l’autobus di linea alle 11 davanti al ristorante quando avremmo presumibilmente finito di mangiare. Sembra incredibile, ma è andata proprio così. Abbiamo trovato un ristorante di nostro gusto e ordinato. Qui sono velocissimi, non accade mai come in Italia di dover aspettare per mangiare, sicché non abbiamo tempi morti. A un certo punto della cena decidiamo di alzare i calici di vino e gridare “Palestina libera”. Dopo la nostra uscita c’è stato un attimo di perplesso silenzio, poi sono scrosciati applausi fragorosi da tutti i presenti, clienti e personale.
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