Alla fine dell’incontro noi e l’altra delegazione andiamo a rendere omaggio alla tomba di Arafat, alla Mukada e alla tomba di Mahmud Darwish, il più grande poeta palestinese e tra i più grandi del mondo, morto un paio d’anni fa. Avevamo messo le rose che ci aveva regalato la MLR in un bicchiere d’acqua Luisa e io e così le abbiamo portate. Ho deposto una rosa sulla tomba di Arafat, l’altra su quella di Darwish che si trova su una collina di Ramallah che guarda Gerusalemme. Sulla lapide c’è inciso un suo verso:
“Su questa terra
C’è qualcosa che merita la vita.”
Era ormai mezzogiorno e le due delegazioni si sono divise, quella di Luisa Morgantini è andata ad appoggiare La manifestazione di Bil’in mentre noi siamo andati a Ni’lin per poter portare solidarietà a entrambi i villaggi.
Prima di partire Federica va in cucina a farsi dare dei limoni per difendersi dagli effetti dei lacrimogeni, un altro compagno ha preso dei fazzoletti di carta e qualcun altro un coltello dalla cucina per ripartire i limoni, ma Amira scuote la testa “Non serve a niente” dice.
Lasciamo andare i limoni e partiamo, non è venuta tutta la delegazione, Luisa è stata diffidata dal farlo e altri non se la sono sentita. Siamo in 11.
Quando arriviamo al villaggio i ragazzi si stanno preparando per la protesta, escono da un garage che è la loro sede con cartelli e bandiere. La metà sono stranieri. C’è un nutrito gruppo francese e perfino un ragazzo sardo. L’età dei manifestanti è decisamente bassa e ci sentiamo un po’ come i loro genitori. Ci regalano un cappellino con i colori della kefia e la foto dei prigionieri. Tutti indossano lo stesso cappello, i ragazzi di Ni’lin sono organizzati. Sono molto emozionata, ho visto queste manifestazioni solo nei video e non mi sembra vero di essere qui.
Si respira una strana aria, diversa dalle manifestazioni in Italia, sembra di respirare il clima del ‘77, se non fosse per l’ambiente rurale. Raggiungiamo un uliveto dove però gli alberi sono radi e fa un caldo pazzesco. Prima della manifestazione c’è la preghiera collettiva, noto che a compiere con serietà e precisione i gesti del rito ci sono alcuni bambini. I bambini partecipano a tutto, alla preghiera, alla lotta, al lavoro e all’arte fanno teatro e sono dei ballerini eccezionali come constaterò la sera.
Dopo la preghiera a cui abbiamo assistito all’ombra di un ulivo è cominciata la manifestazione. Ci siamo inerpicati per un sentiero stretto su un terreno accidentato e pieno di sassi, poi il piccolo corteo si è mosso verso il muro. Mentre il corteo marciava abbiamo visto dei giovani dirigersi verso il muro trasportando una barella vuota, non si sa mai. Arrivati quasi sotto il muro abbiamo cominciato a gridare slogan. Eravamo in una zona aperta e senza riparo alcuno,Yousef ci ha detto “se succede qualcosa seguite i palestinesi, loro sanno meglio come cavarsela”, mi sono guardata intorno ed ho concluso che in un posto del genere c’era ben poco da fare. Davanti a noi sul muro c’era una grande porta nera di ferro e sopra il muro la torretta con i soldati. “E’ da quella porta che escono i soldati” ha detto Yousef. I ragazzini hanno cominciato a tempestare di sassi la porta e la torretta, facevano dei lanci da record, riuscivano a tirare i sassi oltre il muro mentre quelli che cadevano sulla porta facevano un fracasso infernale. Noi gridavamo slogan in tutte le lingue. Prima in inglese “Free free Palestine” poi in francese e quando abbiamo gridato “Palestina libera” anche i ragazzi francesi ci hanno fatto coro. Entusiasmati dall’internazionalismo abbiamo gridato tutti insieme “Nosotros amigos del pueblo palestino” e “Somos todos palestinos” con molta convinzione. Dopo un paio d’ore la manifestazione si è conclusa miracolosamente senza neanche un lancio di lacrimogeni. Siamo tornati indietro sudati e assetati, chi aveva conservato il limone se lo è sgranocchiato strada facendo. Eravamo perplessi circa la mancata risposta israeliana e qualcuno ha detto che sentendo le nostre urla i soldati avranno pensato che c’era mezzo mondo là fuori.
Siamo tornati nella sede del comitato e i ragazzi ci hanno fatto vedere le foto che erano attaccate al muro, dei martiri e dei feriti delle manifestazioni del venerdì. Alla fine siamo saliti sul pullman della MLR e poiché eravamo pochi abbiamo dato un passaggio ad alcuni ragazzi francesi. Quelli del comitato hanno offerto un panino (col pane arabo e falafel) e una bibita che sapeva di succo d’uva a tutti.
La sera dovevamo trovarci a cena alle sette perché dopo saremmo andati a vedere uno spettacolo di danza, però erano le cinque e avevo, dopo i giorni scorsi, per la prima volta due ore libere. Finalmente ho potuto venire a patti con il mio telefono e fare una telefonata a Bassano a Nicoletta per dare mie notizie e chiederne della mia gatta Kelima che si trovava dal veterinario. Ho anche scritto qualcosa e cercato inutilmente di domare per l’ultima volta la macchina fotografica. Poi mi sono sentita stanchissima, ho fatto una doccia e mi sono messa a letto sperando in un’ora di sonno.
Lo spettacolo era all’aperto, l’arena era traboccante di persone, famiglie, bambini, giovani, donne con velo e senza, più senza per la verità. Pensavo si trattasse della tipica dabka palestinese, una danza tradizionale, ma era uno spettacolo molto più complesso. Le coreografie simboleggiavano varie fasi della storia palestinese, e della sua cultura. I vestiti delle danzatrici avevano colori chiari e brillanti danzavano come ninfe, come farfalle in volo. Un’esplosione di gioia e di colori. Un inno alla vita. Nella compagnia di ballo c’erano anche dei bambini che danzavano con una bravura non diversa dai loro colleghi più grandi. Ogni tanto compariva un cantante, mi hanno tradotto il verso di una canzone “
“Meglio vivere liberi o morire come un albero”.
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