venerdì 11 febbraio 2011

Torture e soprusi inammissibili. Lo "scontro di civiltà" ha fatto molte vittime innocenti

MAROCCO: TORTURE IN NOME DELLA GUERRA ALL’ISLAM RADICALE
La vicenda di Abou Elkassim Britel, cittadino italiano, vittima delle "consegne straordinarie" denunciate dal senatore svizzero Dick Marty, e della presunta "lotta al terrorismo".

DI SILVIA CATTORI*

Roma, 11 febbraio 2011, Nena News (nella foto la prigione di Kanitra) – Quando incontrai la signora Khadija Anna L. Pighizzini, tre anni fa, e mi raccontò la sua storia inaudita, mi si spezzò il cuore. Viveva una vita serena e tranquilla fino a quando, nel novembre 2001, fu improvvisamente assalita da ondate di giornalisti che, dopo aver diffuso ripetute menzogne, con lo scopo di associare suo marito al terrorismo, pretendevano sue dichiarazioni. Avevano ripreso quelle menzogne provenienti da servizi segreti, da un articolo di Guido Olimpio, giornalista al Corriere della Sera.

Fu l’inizio di un calvario tutt’ora in atto. [1]

Era il periodo in cui ordinari cittadini che frequentavano la moschea, venivano sospettati, calunniati da giornalisti legati a servizi segreti, la cui missione era di diffondere notizie false nel quadro della guerra di propaganda contro l’Islam. Si trattava di preparare l’opinione pubblica a percepire come utile la guerra contro l’Islam.

Da allora, Khadija, una signora dolce e discreta, cresciuta in una stimata famiglia italiana di Bergamo, è stata costretta a lottare per difendere l’onore della sua famiglia e far conoscere la spaventosa sorte di suo marito Abou Elkassim Britel, una persona rispettabile ingiustamente associata al terrorismo, e mantenuto in prigione senza nessuna colpa.

Rapito nel 2002 da agenti della CIA, Abou ElKassim Britel, ha subito la sorte terrificante di migliaia di musulmani nell’ambito di quelle attività segrete e illegali chiamate “extraordinary rendition”, denunciate sin dal 2004 dal senatore svizzero Dick Marty.

Imprigionato e torturato in un luogo segreto in Pakistan, Abou ElKassim Britel è stato in seguito trasportato da agenti della CIA in Marocco, consegnato ai servizi segreti marocchini per essere di nuovo torturato e mantenuto in segreto nella sede dei servizi di intelligence a Témara. Sottoposto a trattamenti violenti e umilianti per oltre 8 anni, Abou Elkassim Britel ha intrapreso lunghi e rischiosi scioperi della fame per rivendicare la sua innocenza e il diritto di essere trattato umanamente. [2]

Sua moglie, vive con sempre maggiori difficoltà la realtà crudele che colpisce il suo sposo incarcerato in Marocco, un paese assai attraente per i turisti che ignorano tutte le violazioni commesse dal Regno. Di ritorno dalla sua ultima visita al marito in prigione racconta :

« È stato un viaggio faticoso soprattutto dal punto di vista emotivo. Ho incontrato mio marito nella Prigione Centrale di Kenitra dove è stato richiuso dopo il violento trasferimento dello scorso 9 ottobre. [3]

Ancora non si è ripreso dallo choc. È stato derubato di tutto. Gli sono stati restituiti solo in parte i suoi vestiti, persino il cibo gli hanno portato via.

L’ho trovato magro, debole. Spesso la notte non riesce a dormire, c’è tensione nel reparto. Mi ha parlato delle torture subite. Di come è stato trasferito dall’altra prigione lì, bendato e ammanettato, tremante di freddo nel primo mattino. Della spinta che gli hanno dato per farlo scendere dal furgone; lui non vedeva e le braccia erano bloccate dietro la schiena. Della sensazione di disagio e terrore per la caduta nel vuoto, poi i colpi di manganello, i calci, gli insulti, le minacce.

Un’esperienza orribile per Kassim riportato all’improvviso indietro nel tempo, alla detenzione segreta, all’extraordinary rendition: la stessa violenza che si ripeteva, la stessa impossibilità a proteggersi, lo stesso timore indotto dal non sapere cosa sta per succedere.

Si è difeso con urla disperate dicendo loro: “Voglio vedere subito il Console d’Italia! Voglio vedere subito il Console d’Italia!”. Questo ha bloccato i suoi torturatori e gli ha forse risparmiato altre brutalità, ma non il denudamento, la fame, il freddo.

Gli agenti della squadra speciale -quegli stessi che hanno picchiato i prigionieri, fra i quali mio marito, al momento del trasferimento- terrorizzano, provocano, cercano di creare incidenti per colpirli di nuovo.

Un giorno sono entrati nella stanza della visita, con i loro stivali pesanti facendo roteare il manganello appeso alla cintura, la trasmittente nell’altra mano, si è sentito il gelo, è sceso il silenzio, ho visto Kassim irrigidirsi, ho cercato di mantenere viva la conversazione, niente da fare. Un’intimidazione, per farci vedere chi comanda e a che condizioni.

Mio marito non sta bene, ha tanti disturbi causati dalle torture e dalle pessime condizioni in cui vive. A Kenitra non può cucinarsi nulla, deve mangiare lo scarso e spesso cattivo cibo della prigione, temo che aggiungano sostanze psicotrope, o velenose. L’hanno già fatto, l’ho visto tremare e non reggersi in piedi dopo aver mangiato il pasto della prigione.

Vive in una cella con la muffa che avanza sui muri, dorme su qualche coperta umida poggiata sul cemento, si ripara dal freddo stendendo una coperta dal giaciglio sopra al suo; mi ha detto che gli pare di dormire in una bara, che avrebbe bisogno di una cella da solo per attuare il massimo di precauzioni per la sua salute, ma gli è negata.

Niente libri, niente telefonate a casa, per noi così lontani queste comunicazioni erano preziose.

Mio marito è cittadino italiano, ma non ha mai avuto alcun sostegno decisivo dal nostro governo. Io sono qui in Italia, devo lavorare per mantenere lui e me e per andarlo a trovare ogni tre mesi. Sono preoccupata, nulla è certo in Marocco.

Il Console d’Italia, che aveva incontrato mio marito dopo il trasferimento e aveva visto com’era ridotto, mi ha accompagnato alla prima visita ed è riuscito a strappare un permesso di visita giornaliero, spero che continuerà ad aiutarci. Ora si è reso conto della gravità della situazione, che non sfugge nemmeno ai responsabili delle carceri. Gli scioperi della fame di coloro che sono incarcerati con mio marito – i cosiddetti “islamisti”, musulmani radicali – continuano ; come pure le proteste dei loro familiari.

Oltre un centinaio di prigionieri “islamisti”, fra i quali mio marito, sono stati deportati da sei diverse prigioni e rinchiusi in questo nuovo reparto, costruito proprio per loro. Sembra che lo stato marocchino pretenda delle ammissioni di responsabilità prima di liberarli, o voglia provocare reazioni forti per poi tenerli ancora in carcere.

Molti di loro, arrestati nel 2003, sono quasi al termine della pena. Queste persone, trattenute arbitrariamente sono per la maggior parte assolutamente innocenti. È un’ingiustizia. I processi sono stati iniqui, come denunciano i militanti che si battono da allora per la loro liberazione. Lo dicono e lo ripetono le organizzazioni nazionali e internazionali, ci sono molte prove. [4]

È una denuncia impressionante che descrive gli stessi metodi brutali e fuori dalla legge toccati a mio marito e a tanti altri.

Sono otto anni di torture per i prigionieri e le loro famiglie. Il Marocco ha rifiutato ogni richiesta di dialogo e di revisione; anzi da anni prima delle occasioni di grazia reale compare la solita notizia “smantellata cellula terroristica”, spesso poi non se ne sa più nulla. Non so cosa aspettarmi.

Mio marito è uno delle decine di migliaia di persone rapite da agenti della Central Intelligence Agency (CIA) dopo l’11 settembre cui è toccata questa dura sorte. Alcuni sono spariti per sempre; altri sono rientrati a casa distrutti, dopo anni rinchiusi a Guantanamo.

A noi manca il sostegno italiano, mai nessun governo ha chiesto con forza la liberazione di questo cittadino incensurato che è mio marito. Avrebbero dovuto farlo; la loro indifferenza mi ha fatto capire l’utilizzo che si fa dell’attività di servizi segreti che hanno inventato menzogne, che hanno mentito per fare di mio marito un criminale. La sorte di cittadini italiani di religione musulmana non ha nessun valore per loro.

Temo per la vita di mio marito e mi sento impotente. Ogni giorno mi chiedo se e come tornerà a casa.

Nonostante tutto insisto. In rete comunico le informazioni che i giornali non danno, contatto le ONG. Ma mi sento molto sola e non vedo una soluzione. Quello che manca è la presa di posizione esplicita di qualche personalità conosciuta; penso a esperti nel capo del diritto e dei diritti umani in particolare, qualcuno che possa aiutarmi a comunicare con lo stato italiano.

È assurdo che di fronte al pericolo di vita che mio marito corre ogni giorno, all’ingiustizia che lo tiene detenuto da quasi nove anni, l’azione della diplomazia italiana si limiti a un colloquio con il direttore del carcere.

Questa esperienza ci ha molto provato. Mio marito è completamente innocente. Si è trovato coinvolto, senza ragione, solo perché di religione musulmana, quando gli Stati Uniti volevano accreditare l’idea di una minaccia terroristica. Il Pentagono doveva fornire un certo numero di persone da definire “terroristi”. È così che vennero incriminati uomini innocenti come lui. »

Questa vicenda terrificante, che ha distrutto la vita di queste brave persone, ha fatto emergere il ruolo inquietante di giornalisti “esperti in terrorismo”, “esperti in servizi segreti” che, a volte all’insaputa dei giornali che pubblicano i loro articoli, sono in realtà agenti la cui principale attività à di diffondere notizie false, far regnare la paura fondata sulla falsa minaccia dell’Islam, in modo da far accettare come necessarie per la “sicurezza” le guerre più crudeli e sanguinose contro i musulmani.

Gli stati in guerra si sono sempre serviti di giornalisti come copertura per i loro agenti segreti. Ma da quando alcuni giornalisti sono stati identificati e denunciati dalle vittime delle loro menzogne [5], è nostro dovere portare alla luce fatti così gravi e dolorosi.

Si veda anche:

- « “Extraordinary renditions” : Ufficiali del Pentagono sequestrano, torturano, e poi si assolvono », di Michele Paris, silviacattori.net, 11 settembre 2010.

- « Una vittoria parziale per dei prigionieri sfiniti », di Silvia Cattori, silviacattori.net, 4 gennaio 2010.

- « Alcuni detenuti muoiono lentamente nell’indifferenza generale », di Silvia Cattori, silviacattori.net, 21 dicembre 2009.

[1] In prima pagina c’era questo titolo: « El Kassim, l’ insospettabile di Bergamo che arruolava volontari della Jihad », di Guido Olimpio, Corriere della Sera 20 novembre 2001.

L’articolo era a pag. 13: « Da Bergamo a Kabul: così il marocchino reclutava militanti ».

Si veda anche: « Il mistero di El Kassim, da Bergamo a Casablanca (via Kabul) », di Guido Olimpio, Corriere della Sera, 22 maggio 2003.

[2] Si veda : « Sciopero della fame, resistenza, richiesta di giustizia e condizioni dignitose: Abou Elkassim Britel nelle prigioni del Marocco », giustiziaperkassim.net.

[3] Si veda : « Ancora violenza contro Kassim Britel », kassimlibero.splinder.com, 11 ottobre 2010.

[4] – Denuncia di Alkarama al relatore Onu sulla tortura. Si veda in francese dal sito della Ong svizzera : « M. Abou Elkassim Britel, victime de tortures et de traitements cruels en détention », alkarama.org, 21 novembre 2010.

- Human Rights Watch lo ricorda nel recente rapporto sulle detenzioni arbitrarie in Marocco (rapporto di HRW – comunicato stampa in francese) : « Maroc : Le gouvernement doit faire cesser les abus liés aux arrestations dans le cadre de la loi antiterroriste », 25 ottobre 2010.

- Si veda il rapporto in lingua inglese « Morocco: ‘Stop Looking for Your Son’ – Illegal Detentions Under the Counterterrorism Law », Human Rights Watch, 25 ottobre 2010.

- Si veda anche questo breve, ma preciso articolo in francese: « Arrêtez de chercher votre fils est le titre du dernier rapport de Human Rights Watch (HRW) sur la détention illégale au Maroc », TELQUEL, 25 ottobre 2010.

[5] Si veda : « Islam : Il nemico inventato », di Silvia Cattori, silviacattori.net, 24 novembre 2008.

Si veda anche sul Sito ufficiale di Youssef Nada l’informazione su Guido Olimpio.

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