lunedì 14 novembre 2011

TRIBUNALE RUSSELL ACCUSA:ISRAELE PRATICA APARTHEID

Formato da personalità emerite, giuristi e intellettuali, il Tribunale ha affermato che i palestinesi sono "soggetti a un regime istituzionalizzato di dominazione che integra la nozione di apartheid come definita in diritto internazionale".

di CHANTAL MELONI

Roma, 09 novembre 2011, Nena News – Si è chiusa a Cape Town (Sud-Africa) la terza sessione del Tribunale Russell sulla Palestina. Nel corso dei tre giorni appena trascorsi, giuristi, intellettuali e attivisti provenienti da tutto il mondo si sono confrontati con la domanda se le pratiche israeliane contro la popolazione palestinese violino il divieto di apartheid in base al diritto internazionale. La conclusione è stata una netta affermazione di responsabilità nei confronti di Israele: il Tribunale Russell ha affermato che il popolo palestinese è “soggetto a un regime istituzionalizzato di dominazione che integra la nozione di apartheid come definita in diritto internazionale”.



Nato dall’idea del filosofo inglese Bertrand Russell e del commediografo e filosofo francese Jean Paul Sartre nel 1966 – come risposta ai crimini commessi durante la guerra del Vietnam – il Tribunale Russell è un cosiddetto tribunale di opinione. Si tratta in altre parole di un’istituzione priva di poteri giudiziari o coercitivi, composta non da magistrati togati ma da personalità emerite, giuristi e intellettuali, tra cui, storicamente, diversi premi Nobel. Il suo scopo è di portare attenzione e pubblica consapevolezza su gravi situazioni di violazioni di diritti umani, commissione di crimini di guerra, contro l’umanità, o altre violazioni del diritto internazionale.

Il presente Tribunale Russell sulla Palestina si inserisce dunque in una lunga tradizione: dopo l’esperienza molto positiva del tribunale post-Vietnam un certo numero di altri tribunali di opinione (anche chiamati Peoples’ Tribunals) sono stati istituiti negli ultimi quaranta anni per situazioni quali l’America latina, l’Argentina, le Filippine, il Salvador, l’Afghanistan, Timor Est, lo Zaire, il Guatemala, nonché per il genocidio degli armeni da parte della Turchia e per la recente invasione e occupazione dell’Iraq da parte della coalizione guidata dalle truppe americane.

Tale tribunale vuole essere una risposta all’inazione della comunità internazionale di fronte alle accertate violazioni del diritto internazionale commesse da Israele. Due sessioni sono già state celebrate nel corso del 2010, la prima a Barcellona e la seconda a Londra, dedicate rispettivamente alle responsabilità dell’Unione Europea e alla complicità delle coorporations rispetto alle violazioni commesse contro i Palestinesi da parte dello Stato di Israele.

La giuria della sessione sud-africana è stata composta, tra gli altri, da uno dei padri della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, il giurista, partigiano, sopravvissuto all’olocausto, Stéphane Hessel, dalla premio Nobel per la pace Mairead Maguire e dall’ex senatrice americana Cynthia McKinney. Il discorso introduttivo è stato affidato all’arcivescovo Desmond Tutu, che ha ovviamente voluto ricordare l’esperienza del Sud-Africa, ove il regime di apartheid fu sconfitto anche e soprattutto grazie alla protesta coraggiosa e ostinata di migliaia di cittadini comuni (demonizzati come terroristi dal regime), attorno ai quali si formò un movimento di solidarietà internazionale di tale portata che mise alle spalle il regime. Certamente di fondamentale importanza fu la adozione della Convenzione Onu sul crimine di apartheid del 1973, e le relative Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e dell’Assemblea Generale.

Come lo stesso Tutu notava in un recente editoriale sul Guardian, non si possono trarre facili paralleli tra la situazione sud-africana e quella israelo-palestinese. Si tratta di due situazioni certamente diverse da un punto di vista storico e di contesto, e tuttavia come da lui riconosciuto, molte delle pratiche israeliane addirittura superano – a livello di discriminazione e oppressione – quella che era la realtà sud-africana. In questo senso anche le recenti esternazioni di Richard Goldstone, che in una excusatio non petita ha sostenuto dalle pagine del New York Times che le accuse mosse ad Israele di essere uno stato che pratica l’apartheid sono “false e maliziose”, sono state definite superficiali ed erronee, nelle parole di Tutu, nonché in cattiva fede (si veda tra gli altri Richard Falk in un duro commento di tre giorni fa).

Quel che è certo è che il crimine di apartheid non è scomparso una volta terminata l’apartheid in Sud-Africa e la sua nozione è di per sé utilizzabile anche al fuori del contesto sud-africano. Questo è reso peraltro esplicito dallo Statuto della Corte Penale Internazionale (del 1998, quindi successiva alla fine del regime di apartheid sud-africana), che all’art. 7 comma 1 prevede l’apartheid tra i crimini contro l’umanità, definendolo come un “atto inumano commesso nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominazione di un gruppo razziale su di un altro gruppo razziale e commesso con l’intento di mantenere quel regime” (sub 7(1)(j) degli Elements of crimes).

Molti testimoni ed esperti sono stati chiamati a testimoniare davanti al Tribunale Russell a Cape Town; tra questi Raji Sourani, il direttore del Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR) di Gaza. Esponendo le pratiche discriminatorie perpetrate da Israele ai danni del popolo Palestinese, Sourani ha messo bene in luce come queste pratiche siano diverse a seconda che si tratti della minoranza palestinese residente in Israele, dei Palestinesi in Cisgiordania, a Gerusalemme Est o dell’oltre milione e mezzo di Palestinesi di Gaza. E tuttavia nella sostanza poco cambia: il complesso delle gravi discriminazioni commesse ai danni della popolazione non ebrea in Israele o dei Palestinesi nei territori occupati integra una forma di apartheid, che sebbene non coincidente nella forma quella a suo tempo praticata in Sud-Africa, ne ricalca la sostanza.

Lo spiega particolarmente bene John Dugard (anche lui sud-africano), professore emerito di diritto internazionale, ex Special Rapporteur all’Onu sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato (fino al 2008) e voce particolarmente autorevole in materia, non solo per essere l’autore della più importante pubblicazione scientifica in tema di apartheid, ma anche in quanto come avvocato e direttore del Center for Applied Legal Studies sud-africano, fu in prima persona impegnato nel movimento di opposizione all’apartheid.

Come Dugard ricorda in un recente breve articolo, l’essenza del regime di apartheid si basa su tre pilastri: la discriminazione razziale, la repressione e la frammentazione territoriale. Nel Sud-Africa dell’apartheid era reato per un nero trovarsi nelle cosiddette “zone bianche” senza i necessari permessi; la legge permetteva di arrestare e detenere gli oppositori per motivi di sicurezza a tempo indeterminato e senza processo.

Dugard, che conosce benissimo la situazione israelo-palestinese avendo ricoperto diversi incarichi di alto profilo e avendo visitato la regione regolarmente a partire dal 1982, racconta di essere da subito rimasto scioccato dalle similitudini tra il regime di apartheid in Sud-Africa e le pratiche israeliane nei confronti dei palestinesi nel territorio occupato (e che tuttavia fino al 2005 come Special Rapporteur decise nei primi anni di astenersi da tale paragone per paura di essere delegittimato). Dugard non manca a sua volta di notare le differenze tra i due regimi: mentre il Sud-Africa dell’apartheid era un regime che praticava la discriminazione avverso i suoi propri cittadini, Israele è una potenza di occupazione che controlla un territorio straniero e i suoi abitanti in forza di un regime che è riconosciuto dal diritto umanitario internazionale.

Ma in pratica, nota ancora Dugard, non vi è molta differenza: entrambi i regimi sono caratterizzati da discriminazione, repressione e frammentazione territoriale. L’esperienza degli umilianti check points, delle strade separate (riservate ai coloni), della demolizione di case e degli accampamenti dei beduini, del muro di separazione (in realtà atto a confiscare terre ai contadini), le detenzioni amministrative a tempo indeterminato e senza garanzie: tutte pratiche di cui Dugard fa esperienza con i suoi occhi per una seconda volta. La differenza maggiore a suo parere è che il regime di apartheid sud-africano “era più onesto: la legge di apartheid era stata passata in parlamento ed era visibile a tutti, mentre quella che governa i Palestinesi nei territori occupati è contenuta in oscuri decreti militari e regolamenti di emergenza che sono praticamente inaccessibili”.

Non solo lo stato di Israele viene continuamente meno al suo obbligo, imposto dal diritto internazionale come potenza occupante, di garantire il benessere e la sicurezza della popolazione civile del territorio occupato (è bene notare che quasi tutte le infrastrutture nel territorio palestinese, incluse le scuole, gli ospedali, le strade, gli acquedotti sono opera di donors stranieri e agenzie di aiuti internazionali); Israele pratica, sempre nelle parole di Dugard, il peggiore tipo di colonalismo, sfruttando le risorse idriche e la terra dei Palestinesi mediante una aggressiva comunità di coloni ebrei che non ha alcun interesse nel benessere degli abitanti della zona.

Se non è apartheid questa, occorre allora coniare una nuova parola per descrivere il crimine che i palestinesi stanno subendo, una parola che rispecchi la disumanità delle politiche di soggiogamento e oppressione di una intera popolazione da oltre 44 anni. Nena News

*Ricercatrice in Diritto Penale / Istituto Cesare Beccaria, Universitá degli Studi di Milano
Alexander Von Humboldt Stipendiatin / Völkerstrafrecht, Humboldt Universität zu Berlin

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