RAID ISRAELIANO IN TEATRO JENIN, DELLE 14.12
ROMA
(ANSA) - ROMA, 27 LUG - La direzione del 'Teatro della Liberta' del campo profughi di Jenin (Gisgiordania) denuncia l'attacco dell'esercito israeliano e ricostruisce le fasi dell'irruzione della notte scorsa. "Forze speciali dell'esercito israeliano hanno attaccato il Teatro della Libertà intorno alle 3.30 - si legge in un comunicato - la guardia notturna, Ahmad Nasser Matahen e uno studente sono stati svegliati da lanci di pietre contro l'entrata del Teatro e quando hanno aperto la porta si sono resi conto che il Teatro era circondato da militari pesantemente armati". "Erano mascherati e mi hanno detto di alzare le mani - racconta Ahmad - e mi hanno costretto ad abbassarmi i pantaloni. Ho pensato che fosse venuta la mia ora, che mi avrebbero ucciso. Mio fratello che era con me è stato ammanettato". Il responsabile della logistica, Adnan Naghnaghiye, è stato arrestato e portato in una località sconosciuta insieme a Bilal Saadi, membro del 'board' del Teatro, si afferma nel comunicato. "Quando abbiamo tentato di dire loro che stavano attaccando la sede di un centro culturale ci hanno detto di chiudere la bocca e ci hanno minacciato", aggiunge Jonatan Gough, uno dei fondatori del teatro, arrivato subito sul luogo. Dura condanna è stata espressa dall'Associazione per la Pace e da Luisa Morgantini, ex vice presidente del Parlamento europeo, che sostiene l'attività del Teatro e che lo ha visitato con una delegazione alla fine della scorsa settimana. "Vorrei sottolineare - afferma Morgantini - che il campo profughi e la città di Jenin si trovano nella zona A della Cisgiordania. Quindi sotto il pieno controllo, anche militare, dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), dove l'esercito israeliano non dovrebbe mettere piede. Si tratta di un'irruzione completamente illegale che va denunciata". (ANSA).
sabato 30 luglio 2011
mercoledì 27 luglio 2011
L'ASSASSINO NORVEGESE È UN FILO-ISRAELIANO
l'affermazione viene dal giornale israeliano che sostiene Netanjau. L'editoriale del Jerusalem Post spiega che l'assassino non aveva tutti i torti.
Simile la posizione di Borghezio secondo cui -le idee del mostro di Oslo non sono così male-
Per Feltri invece la colpa è delle vittime che non si sono difese, ma prima quando ancora si potevano rimestare le acque, la colpa era del terrorismo islamico.
Come risulta evidente le posizioni naziste e quelle sioniste convergono sempre, a queste si assimilano quelle della feccia umana e politica di ogni dove.
Di fronte a tanto sudiciume non resta che un sentimento di disgusto e di schifo.
Simile la posizione di Borghezio secondo cui -le idee del mostro di Oslo non sono così male-
Per Feltri invece la colpa è delle vittime che non si sono difese, ma prima quando ancora si potevano rimestare le acque, la colpa era del terrorismo islamico.
Come risulta evidente le posizioni naziste e quelle sioniste convergono sempre, a queste si assimilano quelle della feccia umana e politica di ogni dove.
Di fronte a tanto sudiciume non resta che un sentimento di disgusto e di schifo.
JENIN, RAID ISRAELE AL FREEDOM THEATRE
La scorsa notte militari sono penetrati nel campo profughi della città palestinese e hanno arrestato due membri dello staff del teatro, minacciando con le armi le altre persone presenti. Oscuri i motivi degli arresti.
MARTA FORTUNATO
Beit Sahour, 27 luglio 2011, Nena News – Sono ormai passati quasi quattro mesi da quando Juliano Mer Khamis è stato assassinato. E la sua morte è ancora avvolta nel mistero, gli assassini non sono stati identificati e gli attori non si sentono più sicuri all’interno del campo. Tuttavia vogliono portare avanti il progetto nato con l’ebrea Arna Mer durante la prima Intifada e fatto rivivere dal figlio Juliano Mer dopo la seconda Intifada.
“Il progetto teatrale sopravviverà alla morte di Mer-Khamis e seguirà il sentiero da lui tracciato” ha dichiarato all’Alternative Information Center Eyad Hurani, un giovane di Ramallah che ha trascorso gli ultimi tre anni a Jenin, studiando teatro e trascorrendo il suo tempo con Juliano. E anche gli altri attori dell’ultimo spettacolo portato in scena da Jule, Alice nel paese delle meraviglie, tutti giovani e pieni di speranza, appaiono determinati e positivi per il futuro, nonostante ogni giorno ci siano sfide nuove da affrontare.
Com’è avvenuto stanotte, quando le forze speciali israeliane ha fatto un’incursione nel campo profughi di Jenin. Nel comunicato stampa diffuso questa mattina dal Freedom Theatre si legge che Ahmed Nasser Matahen, guardia notturna e studente del teatro, è stato svegliato quando l’esercito ha gettato grossi blocchi di pietra contro il teatro e le finestre sono andate in mille pezzi. Ad attenderlo all’esterno c’erano dei soldati armati e mascherati che lo hanno obbligato a spogliarsi con una pistola puntata addosso.
Il vice-regista Ahmad Matahen e un membro del consiglio di amministrazione del teatro, Bilal Saadi, sono stati arrestati. Quando il dirigente generale Jacob Gough e il co-fondatore del Freedom Theatre Jonatan Stanczak sono arrivati sul posto, sono stati minacciati e costretti a rifugiarsi presso una famiglia del campo. Inutile la richiesta di aiuto. “Ho cercato di telefonare all’amministrazione civile dell’esercito per spiegare loro quello che stava accadendo, ma hanno riattaccato” ha dichiarato Jonathan.
La continuità del teatro rappresenta una sfida, e di questo ne sono consapevoli tutti all’interno del Freedom Theatre: una sfida contro l’occupazione israeliana che opprime ogni giorno la vita di milioni di palestinesi, ma anche una sfida contro una parte di società palestinese conservatrice e reazionaria che si oppone a qualsiasi forma di libertà, anche artistica.
“Sappiamo che in ogni rivoluzione, viene versato del sangue” hanno dichiarato gli attori dello spettacolo Alice nel paese delle meraviglie, “Jule è stato il primo, ma potrebbero essercene altri. E noi siamo pronti, in nome della libertà”.
Il Freedom Theatre rappresenta infatti un modo per liberare se stessi, per sconfiggere l’occupazione che ogni giorno ciascun palestinese vive, un’occupazione fisica e mentale che pervade l’uomo, lo incatena, lo umilia e lo rende violento. Attraverso il teatro si riesce a trovare una forma di liberazione che si può trasmettere agli altri, una sorta di catarsi, di purificazione, di rimozione di molti stereotipi e modi di pensare tipici della mentalità dell’occupato.
“Si può iniziare a porre fine all’occupazione solo nel momento in cui liberiamo noi stessi” hanno concluso gli attori. Nena News
http://www.alternativenews.org/italiano/index.php/topics/news/3039-jenin-incursione-israeliana-al-freedom-theatre
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MARTA FORTUNATO
Beit Sahour, 27 luglio 2011, Nena News – Sono ormai passati quasi quattro mesi da quando Juliano Mer Khamis è stato assassinato. E la sua morte è ancora avvolta nel mistero, gli assassini non sono stati identificati e gli attori non si sentono più sicuri all’interno del campo. Tuttavia vogliono portare avanti il progetto nato con l’ebrea Arna Mer durante la prima Intifada e fatto rivivere dal figlio Juliano Mer dopo la seconda Intifada.
“Il progetto teatrale sopravviverà alla morte di Mer-Khamis e seguirà il sentiero da lui tracciato” ha dichiarato all’Alternative Information Center Eyad Hurani, un giovane di Ramallah che ha trascorso gli ultimi tre anni a Jenin, studiando teatro e trascorrendo il suo tempo con Juliano. E anche gli altri attori dell’ultimo spettacolo portato in scena da Jule, Alice nel paese delle meraviglie, tutti giovani e pieni di speranza, appaiono determinati e positivi per il futuro, nonostante ogni giorno ci siano sfide nuove da affrontare.
Com’è avvenuto stanotte, quando le forze speciali israeliane ha fatto un’incursione nel campo profughi di Jenin. Nel comunicato stampa diffuso questa mattina dal Freedom Theatre si legge che Ahmed Nasser Matahen, guardia notturna e studente del teatro, è stato svegliato quando l’esercito ha gettato grossi blocchi di pietra contro il teatro e le finestre sono andate in mille pezzi. Ad attenderlo all’esterno c’erano dei soldati armati e mascherati che lo hanno obbligato a spogliarsi con una pistola puntata addosso.
Il vice-regista Ahmad Matahen e un membro del consiglio di amministrazione del teatro, Bilal Saadi, sono stati arrestati. Quando il dirigente generale Jacob Gough e il co-fondatore del Freedom Theatre Jonatan Stanczak sono arrivati sul posto, sono stati minacciati e costretti a rifugiarsi presso una famiglia del campo. Inutile la richiesta di aiuto. “Ho cercato di telefonare all’amministrazione civile dell’esercito per spiegare loro quello che stava accadendo, ma hanno riattaccato” ha dichiarato Jonathan.
La continuità del teatro rappresenta una sfida, e di questo ne sono consapevoli tutti all’interno del Freedom Theatre: una sfida contro l’occupazione israeliana che opprime ogni giorno la vita di milioni di palestinesi, ma anche una sfida contro una parte di società palestinese conservatrice e reazionaria che si oppone a qualsiasi forma di libertà, anche artistica.
“Sappiamo che in ogni rivoluzione, viene versato del sangue” hanno dichiarato gli attori dello spettacolo Alice nel paese delle meraviglie, “Jule è stato il primo, ma potrebbero essercene altri. E noi siamo pronti, in nome della libertà”.
Il Freedom Theatre rappresenta infatti un modo per liberare se stessi, per sconfiggere l’occupazione che ogni giorno ciascun palestinese vive, un’occupazione fisica e mentale che pervade l’uomo, lo incatena, lo umilia e lo rende violento. Attraverso il teatro si riesce a trovare una forma di liberazione che si può trasmettere agli altri, una sorta di catarsi, di purificazione, di rimozione di molti stereotipi e modi di pensare tipici della mentalità dell’occupato.
“Si può iniziare a porre fine all’occupazione solo nel momento in cui liberiamo noi stessi” hanno concluso gli attori. Nena News
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martedì 26 luglio 2011
ISRAELE, “INDIGNATI” IN PIAZZA
Nuove manifestazioni a Tel Aviv contro il carovita ma tra le tende di viale Rothschild si discute anche dei Territori Occupati grazie ad "Anarchici contro il muro". Guarda il VIDEO
MICHELE GIORGIO
Roma, 26 luglio 2011, Nena News – Gli «indignados» di Tel Aviv resistono. L’accampamento di viale Rothschild non smobilita, nonostante le cariche della polizia a cavallo di sabato sera e le decine di fermi effettuati tra le oltre 20mila persone che hanno sfilato nelle vie del centro per protestare contro le «case d’oro», gli affitti stratosferici, il costo della vita insopportabile e a favore dell’aumento dei salari e di ciò che rimane dello stato sociale. Al contrario la mobilitazione si intensifica. Ieri centinaia di manifestanti hanno bloccato alcuni degli incroci stradali più trafficati a Tel Aviv e in altre città, come Haifa e Rosh Hain. Un campo di tende improvvisato è spuntato all’improvviso accanto alle Torri Azrieli mandando in tilt il traffico. Ma nessun taxista e automobilista ha protestato, il consenso alle iniziative degli indignati è ampio in tutto il paese. Tutti si sentono nella stessa barca.
Proteste di questa portata non si vedevano da tempo nella più importante delle città israeliane, più nota per la vita notturna e lo stile liberal dei suoi abitanti che per le rivolte contro i governi. Ormai sono centinaia le tende allineate che partono dalla «bianca» piazza Habima, a poche centinaia di metri dalla centralissima via Dizengoff. Ci sono gli studenti, giovani disoccupati, famiglie intere, gli israeliani poveri di Holon e Bat Yam qualche homeless. Più di tutto c’è la classe media istruita e ben avviata appena qualche anno fa e che ora precipita, trascinata giù nel baratro dall’ansia di non arrivare alla fine del mese. Il costo della vita è salito oltre il 15% negli ultimi anni. L’acquisto di un’abitazione è un’impresa eccezionale per i giovani o una famiglia di 4-5 persone, quando i prezzi al supermercato sono tra i più alti dei paesi occidentali e le tasse da pagare pesanti. In Israele fare il pieno di benzina costa il 30% in più rispetto alla media europea, fare il pieno costa di più solo in Italia. Così la protesta si allarga, coinvolge altre città, le tende aumentano ovunque e le manifestazioni arrivano davanti alla Knesset. Non è (ancora) una rivolta, manca una direzione politica che gli «indignati» in ogni caso rifiutano. Ma dove si spingerà la protesta di viale Rothschild nessuno può prevederlo.
«Tutto è cominciato per i prezzi delle case e il costo degli affitti, paragonabili oggi a quelli di Mosca e Manhattan. Ma quelli erano solo i problemi immediati che hanno portato la gente in strada» spiega in un buon italiano Senny Rapoport, giovane fotografo di Tel Aviv rientrato qualche settimana fa da un lungo periodo trascorso a Napoli. «Il quadro è ben più grave, in particolare per le retribuzioni – aggiunge Senny – qui tanti guadagnano non più di 5.000 shekel, più o meno mille euro, che se ne vanno per il 90% nel pagamento dell’affitto e quello che rimane si spende per il cibo che (In Israele) costa il 40-70% più che in Europa». La ragione di tutto ciò è semplice, dice Senny, «il paese è governato economicamente da un gruppo molto stretto di persone, poche imprese che controllano il mercato e fissano i prezzi». Un oligopolio che negli ultimi trent’anni ha sostituito il vecchio modello laburista di stato sociale, smantellato dagli stessi leader del Labour durante l’orgia liberista che ha segnato la vita economica di Israele in questi ultimi anni. «Sono un medico condotto e posso dire che la sanità pubblica in Israele è molto buona ma i nostri salari sono bassi e questo ha spinto tanti medici ad andare verso la medicina privata – racconta Miriam, in agitazione da settimane con centinaia di medici – per questo motivo lottiamo anche per salvare la medicina pubblica. In Israele tutto il sistema pubblico crollando, così come lo stato sociale. Ci sentiamo vicini ai giovani qui (in viale Rothschild) che sono istruiti, vanno all’università ma quando completano gli studi non trovano lavoro e la casa».
Credeva di poter dormire sonni tranquilli il premier Netanyahu. Per oltre due anni si è preoccupato quasi esclusivamente di «politica estera», ossia di come far deragliare il negoziato con i palestinesi e di rilanciare la colonizzazione israeliana nei territori occupati di Cisgiordania e Gerusalemme Est, anche a costo di una rottura (che in concreto non è mai avvenuta) con l’Amministrazione Usa. A rendere più sereno il suo riposo è stata di recente la complicità greca ed europea nel silurare la Freedom Flotilla per Gaza e il sicuro veto di Barack Obama alla proclamazione unilaterale d’indipendenza palestinese alle Nazioni Unite. Ma proprio quasi pensava di poter chiudere la legislatura con scioltezza, per inerzia, tra le mani gli è esplosa la questione del carovita e delle «case d’oro». Il primo ministro non ha compreso che il recente boicottaggio popolare del sempre più costoso formaggio cottage (di largo consumo in Israele) è stato il segnale di un malessere profondo e non un’espressione isolata del malcontento dei consumatori.
In Occidente esaltano il governo israeliano per la gestione dell’economia nazionale che non solo ha retto all’urto delle recessione mondiale ma è cresciuta negli ultimi due anni del 4-5%, tenendo bassi i livelli di disoccupazione. Qualcuno ha anche proposto il governatore della Banca centrale d’Israele, Stanley Fischer, un alfiere dei tassi alti, come direttore generale del Fondo Monetario Internazionale. Ma in realtà la crescita è avvenuta solo nelle tasche di pochi perché larghi strati di popolazione si sono impovertiti sotto i colpi dell’aumento dei prezzi e delle picconate a ciò che rimaneva stato sociale inferte da Netanyahu (quando era ministro dell’economia) e ora dal suo «braccio armato», il ministro delle finanze Yuval Steinitz. Non sorprende perciò che un sondaggio pubblicato domenica scorsa dal quotidiano Haaretz abbia rivelato che la maggioranza degli israeliani boccia il governo per la gestione dell’economia. Il 62% degli interpellati giudica «cattivo» e perfino «pessimo» l’operato dell’esecutivo nelle questioni economiche e sociali. Il premier è un liberista accanito ma il 36% della popolazione vuole la socialdemocrazia e un maggiore coinvolgimento dello Stato nelle questioni socioeconomiche. Il 31% degli israeliani ebrei afferma che la propria condizione è peggiorata e il 41% che non è cambiata. Tra gli arabi (i palestinesi con passaporto israeliano) il 75% denuncia un «peggioramento» figlio diretto delle risorse esigue che lo Stato assegna alle aree con una maggioranza di cittadini non ebrei. Netanyahu, si dice, potrebbe sacrificare Steinitz (che nel frattempo non commenta le proteste) ed è pronto ad assegnare terre dello Stato a prezzi stracciati per progetti edilizi a basso costo.
Non basterà a placare la protesta. Sono in tanti a dirlo in viale Rothschild. L’accampamento di tende si allarga e con esso i temi in discussione. E qualcuno prova a far capire agli «indignati» di Tel Aviv che la loro condizione è anche figlia delle ingenti spese statali a favore delle colonizzazione nei Territori palestinesi e delle risorse enormi destinate all’occupazione e alle Forze Armate. Alcuni giorni fa tra le tende è spuntata anche quella degli «Anarchici contro il Muro», da anni in lotta accanto ai palestinesi contro la barriera israeliana in Cisgiordania. «Proviamo a far comprendere alla gente che il problema non è solo quello degli affitti e del costo delle case ma è una situazione ben più ampia legata anche all’occupazione e all’apartheid», dice Naomi Lyth, una militante di «Anarchici contro il Muro». Le reazioni sono spesso negative. «Parliamo della condizione dei palestinesi, del Bds (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni contro Israele) – prosegue Naomi - cerchiamo di spiegare che tanti soffrono come soffrono i palestinesi (a causa dell’occupazione) perché troppi fondi vanno all’esercito, alle sue basi (nei Territori occupati), agli armamenti. Molti ci dicono che questa non è una questione politica ma economica. Noi insistiamo, è qualcosa di più ampio». Nena News
MICHELE GIORGIO
Roma, 26 luglio 2011, Nena News – Gli «indignados» di Tel Aviv resistono. L’accampamento di viale Rothschild non smobilita, nonostante le cariche della polizia a cavallo di sabato sera e le decine di fermi effettuati tra le oltre 20mila persone che hanno sfilato nelle vie del centro per protestare contro le «case d’oro», gli affitti stratosferici, il costo della vita insopportabile e a favore dell’aumento dei salari e di ciò che rimane dello stato sociale. Al contrario la mobilitazione si intensifica. Ieri centinaia di manifestanti hanno bloccato alcuni degli incroci stradali più trafficati a Tel Aviv e in altre città, come Haifa e Rosh Hain. Un campo di tende improvvisato è spuntato all’improvviso accanto alle Torri Azrieli mandando in tilt il traffico. Ma nessun taxista e automobilista ha protestato, il consenso alle iniziative degli indignati è ampio in tutto il paese. Tutti si sentono nella stessa barca.
Proteste di questa portata non si vedevano da tempo nella più importante delle città israeliane, più nota per la vita notturna e lo stile liberal dei suoi abitanti che per le rivolte contro i governi. Ormai sono centinaia le tende allineate che partono dalla «bianca» piazza Habima, a poche centinaia di metri dalla centralissima via Dizengoff. Ci sono gli studenti, giovani disoccupati, famiglie intere, gli israeliani poveri di Holon e Bat Yam qualche homeless. Più di tutto c’è la classe media istruita e ben avviata appena qualche anno fa e che ora precipita, trascinata giù nel baratro dall’ansia di non arrivare alla fine del mese. Il costo della vita è salito oltre il 15% negli ultimi anni. L’acquisto di un’abitazione è un’impresa eccezionale per i giovani o una famiglia di 4-5 persone, quando i prezzi al supermercato sono tra i più alti dei paesi occidentali e le tasse da pagare pesanti. In Israele fare il pieno di benzina costa il 30% in più rispetto alla media europea, fare il pieno costa di più solo in Italia. Così la protesta si allarga, coinvolge altre città, le tende aumentano ovunque e le manifestazioni arrivano davanti alla Knesset. Non è (ancora) una rivolta, manca una direzione politica che gli «indignati» in ogni caso rifiutano. Ma dove si spingerà la protesta di viale Rothschild nessuno può prevederlo.
«Tutto è cominciato per i prezzi delle case e il costo degli affitti, paragonabili oggi a quelli di Mosca e Manhattan. Ma quelli erano solo i problemi immediati che hanno portato la gente in strada» spiega in un buon italiano Senny Rapoport, giovane fotografo di Tel Aviv rientrato qualche settimana fa da un lungo periodo trascorso a Napoli. «Il quadro è ben più grave, in particolare per le retribuzioni – aggiunge Senny – qui tanti guadagnano non più di 5.000 shekel, più o meno mille euro, che se ne vanno per il 90% nel pagamento dell’affitto e quello che rimane si spende per il cibo che (In Israele) costa il 40-70% più che in Europa». La ragione di tutto ciò è semplice, dice Senny, «il paese è governato economicamente da un gruppo molto stretto di persone, poche imprese che controllano il mercato e fissano i prezzi». Un oligopolio che negli ultimi trent’anni ha sostituito il vecchio modello laburista di stato sociale, smantellato dagli stessi leader del Labour durante l’orgia liberista che ha segnato la vita economica di Israele in questi ultimi anni. «Sono un medico condotto e posso dire che la sanità pubblica in Israele è molto buona ma i nostri salari sono bassi e questo ha spinto tanti medici ad andare verso la medicina privata – racconta Miriam, in agitazione da settimane con centinaia di medici – per questo motivo lottiamo anche per salvare la medicina pubblica. In Israele tutto il sistema pubblico crollando, così come lo stato sociale. Ci sentiamo vicini ai giovani qui (in viale Rothschild) che sono istruiti, vanno all’università ma quando completano gli studi non trovano lavoro e la casa».
Credeva di poter dormire sonni tranquilli il premier Netanyahu. Per oltre due anni si è preoccupato quasi esclusivamente di «politica estera», ossia di come far deragliare il negoziato con i palestinesi e di rilanciare la colonizzazione israeliana nei territori occupati di Cisgiordania e Gerusalemme Est, anche a costo di una rottura (che in concreto non è mai avvenuta) con l’Amministrazione Usa. A rendere più sereno il suo riposo è stata di recente la complicità greca ed europea nel silurare la Freedom Flotilla per Gaza e il sicuro veto di Barack Obama alla proclamazione unilaterale d’indipendenza palestinese alle Nazioni Unite. Ma proprio quasi pensava di poter chiudere la legislatura con scioltezza, per inerzia, tra le mani gli è esplosa la questione del carovita e delle «case d’oro». Il primo ministro non ha compreso che il recente boicottaggio popolare del sempre più costoso formaggio cottage (di largo consumo in Israele) è stato il segnale di un malessere profondo e non un’espressione isolata del malcontento dei consumatori.
In Occidente esaltano il governo israeliano per la gestione dell’economia nazionale che non solo ha retto all’urto delle recessione mondiale ma è cresciuta negli ultimi due anni del 4-5%, tenendo bassi i livelli di disoccupazione. Qualcuno ha anche proposto il governatore della Banca centrale d’Israele, Stanley Fischer, un alfiere dei tassi alti, come direttore generale del Fondo Monetario Internazionale. Ma in realtà la crescita è avvenuta solo nelle tasche di pochi perché larghi strati di popolazione si sono impovertiti sotto i colpi dell’aumento dei prezzi e delle picconate a ciò che rimaneva stato sociale inferte da Netanyahu (quando era ministro dell’economia) e ora dal suo «braccio armato», il ministro delle finanze Yuval Steinitz. Non sorprende perciò che un sondaggio pubblicato domenica scorsa dal quotidiano Haaretz abbia rivelato che la maggioranza degli israeliani boccia il governo per la gestione dell’economia. Il 62% degli interpellati giudica «cattivo» e perfino «pessimo» l’operato dell’esecutivo nelle questioni economiche e sociali. Il premier è un liberista accanito ma il 36% della popolazione vuole la socialdemocrazia e un maggiore coinvolgimento dello Stato nelle questioni socioeconomiche. Il 31% degli israeliani ebrei afferma che la propria condizione è peggiorata e il 41% che non è cambiata. Tra gli arabi (i palestinesi con passaporto israeliano) il 75% denuncia un «peggioramento» figlio diretto delle risorse esigue che lo Stato assegna alle aree con una maggioranza di cittadini non ebrei. Netanyahu, si dice, potrebbe sacrificare Steinitz (che nel frattempo non commenta le proteste) ed è pronto ad assegnare terre dello Stato a prezzi stracciati per progetti edilizi a basso costo.
Non basterà a placare la protesta. Sono in tanti a dirlo in viale Rothschild. L’accampamento di tende si allarga e con esso i temi in discussione. E qualcuno prova a far capire agli «indignati» di Tel Aviv che la loro condizione è anche figlia delle ingenti spese statali a favore delle colonizzazione nei Territori palestinesi e delle risorse enormi destinate all’occupazione e alle Forze Armate. Alcuni giorni fa tra le tende è spuntata anche quella degli «Anarchici contro il Muro», da anni in lotta accanto ai palestinesi contro la barriera israeliana in Cisgiordania. «Proviamo a far comprendere alla gente che il problema non è solo quello degli affitti e del costo delle case ma è una situazione ben più ampia legata anche all’occupazione e all’apartheid», dice Naomi Lyth, una militante di «Anarchici contro il Muro». Le reazioni sono spesso negative. «Parliamo della condizione dei palestinesi, del Bds (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni contro Israele) – prosegue Naomi - cerchiamo di spiegare che tanti soffrono come soffrono i palestinesi (a causa dell’occupazione) perché troppi fondi vanno all’esercito, alle sue basi (nei Territori occupati), agli armamenti. Molti ci dicono che questa non è una questione politica ma economica. Noi insistiamo, è qualcosa di più ampio». Nena News
lunedì 25 luglio 2011
Massacro del 22 luglio in Norvegia: tentacoli sionisti dietro l'attentato?
Il massacro del 22 luglio
Norvegia ed Israele
María José Lera y Ricardo García Pérez
Il massacro del 22 luglio in Norvegia si è svolto in un contesto a cui vale la pena prestare attenzione. Vi sono stati due attentati, uno contro la sede del governo e l’altro nell’isola di Utaya, a distanza di due ore l’uno dall’altro.
Nell’isola di Utaya si stava svolgendo una “riunione-campo” della Lega Giovanile dei Lavoratori del Partito Laburista (Arbeidaranes Ungdomsfylking, AUF) il cui rappresentante Eskil Pedersen è uno dei difensori più importanti e di grande rilievo del boicottaggio d’Israele in Europa.
Boicottaggio d’Israele
La partecipazione della Norvegia al boicottaggio di Israele è fondamentale e tocca diverse sensibilità. Il boicottaggio universitario è stato guidato da una delle istituzioni accademiche più importanti della Norvegia, l’Università di Bergen, a favore del boicottaggio accademico contro Israele per il suo comportamento paragonato all’apartheid (YNET, 24 gennaio 2010); accompagnata dalla giunta dei rettori dell’Università di Trondheim, che ha discusso e votato per decidere se aderire o meno al boicottaggio accademico contro Israele.
Già in aprile, questo boicottaggio universitario aveva dato i suoi frutti: Alan M. Dershowitz recandosi in Norvegia si era offerto per tenere delle conferenze su Israele nelle tre università più importanti, ma tutte e tre gli avevano rifiutato l’offerta, mentre erano stati invitati Ilan Pappé, e Stephen Walt. La rimostranza di Desrhowitz per il «boicottaggio norvegese contro gli oratori pro-Israele» si può leggere su: http://soysionista.blogspot.com/2011/04/el-boicot-de-noruega-los-oradores-pro.html.
Il ministro degli esteri norvegese, Jonas Gahr Store, il giorno prima del massacro aveva detto: «L’occupazione deve cessare, il muro deve essere abbattuto e bisogna farlo subito»… e lo ha detto nello stesso campo in cui si è consumata la mattanza (fonte: http://tinyurl.com/3zhsj4w).
Nella foto: La AUF chiede il boicottaggio d’ Israele. Jonas Gahr Store, ministro degli esteri norvegese, è stato ricevuto lo scorso giovedì nel campo estivo della AUF nell’isola Utaya, dove ha ascoltato la petizione per il riconoscimento dello Stato palestinese da parte della Norvegia. Il ministro ha visitato il campo estivo organizzato da Eskil Pedersen, dirigente della AUF (Reuters).
Mercoledì scorso, Eskil Pedersen aveva affermato che la Lega Giovanile dei Lavoratori (AUF) vuole che la Norvegia imponga un embargo economico unilaterale su Israele.
«L’AUF assumerà una politica più attiva in Medio Oriente e dobbiamo riconoscere alla Palestina. “Il danaro è solo danaro”, adesso dobbiamo spingere il processo di pace verso un’altra direzione», ha dichiarato Pedersen.
La campagna BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) è stata appoggiata nel gennaio del 2006 dalla Ministra dell’Economía (http://www.elreloj.com/article.php?id=16385) e si è concretizzata con il ritiro degli investimenti. Il 23 agosto del 2010 la Norvegia comunicava che il Fondo Norvegese del Petrolio (Norway Oil Fund) avrebbe ritirato i suoi investimenti dalla compagnia di costruzioni internazionale Danya Cebus, che appartiene al fondo d’investimento Africa-Israele. Secondo Sigbjoern Johnsen, Ministra dell’Economia «“Il Consiglio dell’Etica” sottolinea che la costruzione degli insediamenti nei territori occupati costituisce una violazione della Convenzione di Ginevra sulla Protezione dei Civili in Tempo di Guerra”. “Varie risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sentenze del Tribunale Internazionale di Giustizia hanno concluso che la costruzione di insediamenti israeliani nei territori occupati palestinesi è proibita dalla Convenzione. (http://www.nocturnar.com/forum/economia/427216-fondo-noruego-retira-inversiones-de-companias-israelies.html)
Il ritiro degli investimenti si è esteso anche al commercio delle armi e nel settembre del 2009 è stato cancellato l’investimento in Elbit, impresa israeliana di armi. (http://www.haaretz.com/news/israel-summons-norway-envoy-to-protest-divestment-from-arms-firm-1.8535). Oltre ad avere bandito la vendita di armi ad Israele, nel giugno del 2010, di fronte alle uccisioni da parte di Israele dei nove attivisti turchi nell’attacco alla Flotilla, la Ministra norvegese dell’Istruzione ha lanciato un appello internazionale perché il boicottaggio contro le imprese israeliane fosse condiviso dal resto della Comunità Internazionale (http://www.swedishwire.com/nordic/4809-norway-calls-for-boycott-on-arms-to-israel).
Il boicottaggio norvegese è fortemente sostenuto anche dalla sua popolazione. Secondo fonti israeliane, nel 2010 il 40 per cento dei norvegesi si è rifiutato di comprare prodotti israeliani (http://www.ynetnews.com/articles/0.7340.L-3898052.00.html)
Appoggio al popolo palestinese
La Norvegia oltre a distinguersi nel boicottaggio contro Israele, lo ha fatto anche nel dichiarare e riconoscere lo Stato palestinese. Il 19 luglio il presidente palestinese Mahmoud Abbas è andato in Norvegia e il Ministro degli esteri norvegese, Jonas Gahr Store, ha dichiarato sul canale TV2 che il suo Paese è disposto a riconoscere lo Stato palestinese. Queste sono le parole che ha ripetuto durante l’incontro sull’isola di Utaya: «Siamo disposti a riconoscere lo Stato palestinese. Sto aspettando il testo concreto della risoluzione che i palestinesi presenteranno a settembre presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite»(fonte:http://english.ruvr.ru/2011/07/19/53408557.html).
In autunno il presidente palestinese Mahmoud Abbas esporrà la questione presso le Nazioni Unite, dove chiederà l’ingresso all’ONU, il riconoscimento dello Stato palestinese secondo i confini precedenti alla guerra del 1967 e Gerusalemme Est come sua capitale. Né gli Stati Uniti né l’Unione Europea appoggiano la creazione di uno Stato palestinese indipendente.
Inoltre, all’ex ministro degli esteri, Kare Willoch, recentemente gli è stato regalato un passaporto palestinese. Willoch ha espresso il suo appoggio ai palestinesi e alla loro situazione: «Ho capito la gravissima ingiustizia che il popolo palestinese subisce e che in effetti tutto il mondo occidentale ha in questo una grande responsabilità» (fonte: http://theforeigner.no/pages/news/abbas-to-meet-norwegian-foreign-minister/).
Le reazioni d’Israele
Israele non ignora tutte queste vicende. Il 15 novembre del 2010 la stampa israeliana pubblicava: “La Norvegia incita l’odio contro di noi” (fonte: ynetnews.com), dando luogo ad un incidente diplomatico. Israele ha accusato il governo norvegese di finanziare e fomentare sfacciatamente l’istigazione contro Israele. In quel caso le critiche riguardavano il finanziamento e la partecipazione della Norvegia alla diffusione di opere che informavano sulle sofferenze dei bambini a Gaza.
Questo è il testo completo della notizia:
Secondo alcuni rapporti consegnati al Ministro degli Esteri a Gerusalemme, il municipio di Trondheim finanzierà un viaggio a New York agli studenti protagonisti dell’opera Monologhi di Gaza, «che parla delle sofferenze dei bambini di Gaza come conseguenza dell’occupazione israeliana».
L’opera, scritta da un palestinese di Gaza, verrà presentata nella sede delle Nazioni Unite. L’esibizione si somma ad una mostra di un artista norvegese, già esposta a Damasco, Beirut e Amman con la collaborazione delle ambasciate della Norvegia in Siria, Libano e Giordania.
L’esposizione mostra bambini palestinesi morti accanto a caschi dell’Esercito israeliano che ricordano i caschi dei soldati nazisti, ed una bandiera israeliana zuppa di sangue.
I norvegesi contribuiscono anche a distribuire nei festival del cinema di tutto il mondo un documentario intitolato Tears of Gaza («Lacrime di Gaza»). Secondo il Ministro degli Esteri a Gerusalemme, il documento parla delle sofferenze dei bambini di Gaza senza citare Hamas, i razzi lanciati su Israele e il suo diritto a difendersi.
Nel documentario si vedono gli abitanti di Gaza che cantano Itbah al-Yahud, ma la traduzione norvegese dice «massacrate gli israeliani» invece di «massacrate gli ebrei».
Da poco è stato pubblicato, un libro scritto da medici norvegesi, unici stranieri a Gaza a concedere interviste durante l’Operazione Piombo Fuso. Il libro, che accusa i soldati dell’Esercito d’Israele di uccidere deliberatamente donne e bambini, è un successo di vendite in Norvegia ed è stato caldamente raccomandato dal ministro degli esteri, Jonas Gahr Store.
L’ambasciata israeliana in Norvegia ha protestato energicamente contro la partecipazione delle autorità alla demonizzazione d’Israele. «La politica ufficiale e dichiarata della Norvegia parla di comprensione e riconciliazione –ha detto la sera di domenica un’autorità israeliana--, ma dalla guerra di Gaza, la Norvegia è diventata una superpotenza nella esportazione di materiale multimediale diretto a delegittimare Israele mentre impiega il denaro dei contribuenti norvegesi per produrre e diffondere questi materiali».
Daniel Avalon, vice-ministro degli Esteri d’Israele, in una riunione con i membri del parlamento norvegese, ha dichiarato: «questo tipo di attività allontana la possibilità di riconciliazione e favorisce una radicalizzazione della posizione palestinese che gli impedisce di negoziare».
I norvegesi hanno risposto alle critiche israeliane dicendo che il governo appoggia la libertà di espressione e che non interverrà per alterare il contenuto delle opere d’arte.
Fonte; http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3984621,00.html
La stampa israeliana ha pubblicato diversi articoli evidenziando che le relazioni tra i due Stati non stanno vivendo il loro momento migliore. Occorre aggiungere che la Norvegia ha sempre mantenuto il dialogo con Hamas da quando venne formato un governo di unità nel 2007, prendendo le distanze dalla posizione statunitense ed europea e, come c’era da aspettarselo, irritando oltremodo Israele. (http://www.norway.org.ps/News_and_events/Press_Release/Facts_about_Norway%E2%80%99s_position_with_regard_to_Hamas/) (http://news.bbc.co.uk/2/hi/6470669.stm).
I cattivi rapporti riemergono nelle dichiarazioni dello stesso Presidente israeliano, Simon Peres, il quale lo scorso maggio ha dichiarato che dialogare con Hamas significa sostenere questa organizzazione terroristica, al quale Jonas Gahr Store -ministro degli esteri norvegese- ha risposto: «condanniamo le organizzazioni coinvolte nel terrorismo, ma la Norvegia ritiene che possedere delle liste in cui includere un’organizzazione per additarla come terrorista non serva ai nostri obiettivi» (http://www.newsinenglish.no/2011/05/06/peres-criticizes-norway-on-hamas/).
Come se fossero i norvegesi a mettere sul tavolo la “definizione di terrorismo”, una semplice etichetta che dà un nome a delle liste e condanna immediatamente milioni di persone ad un blocco genocida o ad un attacco mortale.
Curiosamente, il «terrorista» norvegese accusato del massacro, Anders Behring Breivik, viene segnalato come titolare di un blog chiamato «Fjordman» ed i suoi messaggi da tempo vengono pubblicati con i link Jihad Watch e Gates of Vienna http://www.wakeupfromyourslumber.com/blog/joeblow/zionists-admit-breivik-fjordman-breivik-rightist-mass-murderer-atlas-shrugged-contribut). Se è così, il blog di Fjordman dimostra che Breivik sarebbe un estremista neocon che odia gli immigrati e soprattutto i musulmani, oltre ad essere pro-israeliano; vedi il blog, «perché la lotta di Israele è anche la nostra lotta» (http://vladtepesblog.com/?p=21434).
Può darsi che alla fine i tentacoli d’Israele non siano così lontani da questa strage; non sarebbe certo la prima che commette né purtroppo l’ultima Certo la Lega Giovanile Norvegese dei Lavoratori (AUF), il ministro degli esteri norvegese e tutto il suo governo hanno ricevuto un durissimo colpo.
Chi più condanna la politica genocida d’Israele contro il popolo palestinese è chi soffrirà di più, previamente avvertito da Israele per la sua “tremenda audacia”... che nel linguaggio israeliano significa pagarne le conseguenze.
*María José Lera è professoressa all’Università di Siviglia e Ricardo García Pérez è traduttore.
Norvegia ed Israele
María José Lera y Ricardo García Pérez
Il massacro del 22 luglio in Norvegia si è svolto in un contesto a cui vale la pena prestare attenzione. Vi sono stati due attentati, uno contro la sede del governo e l’altro nell’isola di Utaya, a distanza di due ore l’uno dall’altro.
Nell’isola di Utaya si stava svolgendo una “riunione-campo” della Lega Giovanile dei Lavoratori del Partito Laburista (Arbeidaranes Ungdomsfylking, AUF) il cui rappresentante Eskil Pedersen è uno dei difensori più importanti e di grande rilievo del boicottaggio d’Israele in Europa.
Boicottaggio d’Israele
La partecipazione della Norvegia al boicottaggio di Israele è fondamentale e tocca diverse sensibilità. Il boicottaggio universitario è stato guidato da una delle istituzioni accademiche più importanti della Norvegia, l’Università di Bergen, a favore del boicottaggio accademico contro Israele per il suo comportamento paragonato all’apartheid (YNET, 24 gennaio 2010); accompagnata dalla giunta dei rettori dell’Università di Trondheim, che ha discusso e votato per decidere se aderire o meno al boicottaggio accademico contro Israele.
Già in aprile, questo boicottaggio universitario aveva dato i suoi frutti: Alan M. Dershowitz recandosi in Norvegia si era offerto per tenere delle conferenze su Israele nelle tre università più importanti, ma tutte e tre gli avevano rifiutato l’offerta, mentre erano stati invitati Ilan Pappé, e Stephen Walt. La rimostranza di Desrhowitz per il «boicottaggio norvegese contro gli oratori pro-Israele» si può leggere su: http://soysionista.blogspot.com/2011/04/el-boicot-de-noruega-los-oradores-pro.html.
Il ministro degli esteri norvegese, Jonas Gahr Store, il giorno prima del massacro aveva detto: «L’occupazione deve cessare, il muro deve essere abbattuto e bisogna farlo subito»… e lo ha detto nello stesso campo in cui si è consumata la mattanza (fonte: http://tinyurl.com/3zhsj4w).
Nella foto: La AUF chiede il boicottaggio d’ Israele. Jonas Gahr Store, ministro degli esteri norvegese, è stato ricevuto lo scorso giovedì nel campo estivo della AUF nell’isola Utaya, dove ha ascoltato la petizione per il riconoscimento dello Stato palestinese da parte della Norvegia. Il ministro ha visitato il campo estivo organizzato da Eskil Pedersen, dirigente della AUF (Reuters).
Mercoledì scorso, Eskil Pedersen aveva affermato che la Lega Giovanile dei Lavoratori (AUF) vuole che la Norvegia imponga un embargo economico unilaterale su Israele.
«L’AUF assumerà una politica più attiva in Medio Oriente e dobbiamo riconoscere alla Palestina. “Il danaro è solo danaro”, adesso dobbiamo spingere il processo di pace verso un’altra direzione», ha dichiarato Pedersen.
La campagna BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) è stata appoggiata nel gennaio del 2006 dalla Ministra dell’Economía (http://www.elreloj.com/article.php?id=16385) e si è concretizzata con il ritiro degli investimenti. Il 23 agosto del 2010 la Norvegia comunicava che il Fondo Norvegese del Petrolio (Norway Oil Fund) avrebbe ritirato i suoi investimenti dalla compagnia di costruzioni internazionale Danya Cebus, che appartiene al fondo d’investimento Africa-Israele. Secondo Sigbjoern Johnsen, Ministra dell’Economia «“Il Consiglio dell’Etica” sottolinea che la costruzione degli insediamenti nei territori occupati costituisce una violazione della Convenzione di Ginevra sulla Protezione dei Civili in Tempo di Guerra”. “Varie risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sentenze del Tribunale Internazionale di Giustizia hanno concluso che la costruzione di insediamenti israeliani nei territori occupati palestinesi è proibita dalla Convenzione. (http://www.nocturnar.com/forum/economia/427216-fondo-noruego-retira-inversiones-de-companias-israelies.html)
Il ritiro degli investimenti si è esteso anche al commercio delle armi e nel settembre del 2009 è stato cancellato l’investimento in Elbit, impresa israeliana di armi. (http://www.haaretz.com/news/israel-summons-norway-envoy-to-protest-divestment-from-arms-firm-1.8535). Oltre ad avere bandito la vendita di armi ad Israele, nel giugno del 2010, di fronte alle uccisioni da parte di Israele dei nove attivisti turchi nell’attacco alla Flotilla, la Ministra norvegese dell’Istruzione ha lanciato un appello internazionale perché il boicottaggio contro le imprese israeliane fosse condiviso dal resto della Comunità Internazionale (http://www.swedishwire.com/nordic/4809-norway-calls-for-boycott-on-arms-to-israel).
Il boicottaggio norvegese è fortemente sostenuto anche dalla sua popolazione. Secondo fonti israeliane, nel 2010 il 40 per cento dei norvegesi si è rifiutato di comprare prodotti israeliani (http://www.ynetnews.com/articles/0.7340.L-3898052.00.html)
Appoggio al popolo palestinese
La Norvegia oltre a distinguersi nel boicottaggio contro Israele, lo ha fatto anche nel dichiarare e riconoscere lo Stato palestinese. Il 19 luglio il presidente palestinese Mahmoud Abbas è andato in Norvegia e il Ministro degli esteri norvegese, Jonas Gahr Store, ha dichiarato sul canale TV2 che il suo Paese è disposto a riconoscere lo Stato palestinese. Queste sono le parole che ha ripetuto durante l’incontro sull’isola di Utaya: «Siamo disposti a riconoscere lo Stato palestinese. Sto aspettando il testo concreto della risoluzione che i palestinesi presenteranno a settembre presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite»(fonte:http://english.ruvr.ru/2011/07/19/53408557.html).
In autunno il presidente palestinese Mahmoud Abbas esporrà la questione presso le Nazioni Unite, dove chiederà l’ingresso all’ONU, il riconoscimento dello Stato palestinese secondo i confini precedenti alla guerra del 1967 e Gerusalemme Est come sua capitale. Né gli Stati Uniti né l’Unione Europea appoggiano la creazione di uno Stato palestinese indipendente.
Inoltre, all’ex ministro degli esteri, Kare Willoch, recentemente gli è stato regalato un passaporto palestinese. Willoch ha espresso il suo appoggio ai palestinesi e alla loro situazione: «Ho capito la gravissima ingiustizia che il popolo palestinese subisce e che in effetti tutto il mondo occidentale ha in questo una grande responsabilità» (fonte: http://theforeigner.no/pages/news/abbas-to-meet-norwegian-foreign-minister/).
Le reazioni d’Israele
Israele non ignora tutte queste vicende. Il 15 novembre del 2010 la stampa israeliana pubblicava: “La Norvegia incita l’odio contro di noi” (fonte: ynetnews.com), dando luogo ad un incidente diplomatico. Israele ha accusato il governo norvegese di finanziare e fomentare sfacciatamente l’istigazione contro Israele. In quel caso le critiche riguardavano il finanziamento e la partecipazione della Norvegia alla diffusione di opere che informavano sulle sofferenze dei bambini a Gaza.
Questo è il testo completo della notizia:
Secondo alcuni rapporti consegnati al Ministro degli Esteri a Gerusalemme, il municipio di Trondheim finanzierà un viaggio a New York agli studenti protagonisti dell’opera Monologhi di Gaza, «che parla delle sofferenze dei bambini di Gaza come conseguenza dell’occupazione israeliana».
L’opera, scritta da un palestinese di Gaza, verrà presentata nella sede delle Nazioni Unite. L’esibizione si somma ad una mostra di un artista norvegese, già esposta a Damasco, Beirut e Amman con la collaborazione delle ambasciate della Norvegia in Siria, Libano e Giordania.
L’esposizione mostra bambini palestinesi morti accanto a caschi dell’Esercito israeliano che ricordano i caschi dei soldati nazisti, ed una bandiera israeliana zuppa di sangue.
I norvegesi contribuiscono anche a distribuire nei festival del cinema di tutto il mondo un documentario intitolato Tears of Gaza («Lacrime di Gaza»). Secondo il Ministro degli Esteri a Gerusalemme, il documento parla delle sofferenze dei bambini di Gaza senza citare Hamas, i razzi lanciati su Israele e il suo diritto a difendersi.
Nel documentario si vedono gli abitanti di Gaza che cantano Itbah al-Yahud, ma la traduzione norvegese dice «massacrate gli israeliani» invece di «massacrate gli ebrei».
Da poco è stato pubblicato, un libro scritto da medici norvegesi, unici stranieri a Gaza a concedere interviste durante l’Operazione Piombo Fuso. Il libro, che accusa i soldati dell’Esercito d’Israele di uccidere deliberatamente donne e bambini, è un successo di vendite in Norvegia ed è stato caldamente raccomandato dal ministro degli esteri, Jonas Gahr Store.
L’ambasciata israeliana in Norvegia ha protestato energicamente contro la partecipazione delle autorità alla demonizzazione d’Israele. «La politica ufficiale e dichiarata della Norvegia parla di comprensione e riconciliazione –ha detto la sera di domenica un’autorità israeliana--, ma dalla guerra di Gaza, la Norvegia è diventata una superpotenza nella esportazione di materiale multimediale diretto a delegittimare Israele mentre impiega il denaro dei contribuenti norvegesi per produrre e diffondere questi materiali».
Daniel Avalon, vice-ministro degli Esteri d’Israele, in una riunione con i membri del parlamento norvegese, ha dichiarato: «questo tipo di attività allontana la possibilità di riconciliazione e favorisce una radicalizzazione della posizione palestinese che gli impedisce di negoziare».
I norvegesi hanno risposto alle critiche israeliane dicendo che il governo appoggia la libertà di espressione e che non interverrà per alterare il contenuto delle opere d’arte.
Fonte; http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3984621,00.html
La stampa israeliana ha pubblicato diversi articoli evidenziando che le relazioni tra i due Stati non stanno vivendo il loro momento migliore. Occorre aggiungere che la Norvegia ha sempre mantenuto il dialogo con Hamas da quando venne formato un governo di unità nel 2007, prendendo le distanze dalla posizione statunitense ed europea e, come c’era da aspettarselo, irritando oltremodo Israele. (http://www.norway.org.ps/News_and_events/Press_Release/Facts_about_Norway%E2%80%99s_position_with_regard_to_Hamas/) (http://news.bbc.co.uk/2/hi/6470669.stm).
I cattivi rapporti riemergono nelle dichiarazioni dello stesso Presidente israeliano, Simon Peres, il quale lo scorso maggio ha dichiarato che dialogare con Hamas significa sostenere questa organizzazione terroristica, al quale Jonas Gahr Store -ministro degli esteri norvegese- ha risposto: «condanniamo le organizzazioni coinvolte nel terrorismo, ma la Norvegia ritiene che possedere delle liste in cui includere un’organizzazione per additarla come terrorista non serva ai nostri obiettivi» (http://www.newsinenglish.no/2011/05/06/peres-criticizes-norway-on-hamas/).
Come se fossero i norvegesi a mettere sul tavolo la “definizione di terrorismo”, una semplice etichetta che dà un nome a delle liste e condanna immediatamente milioni di persone ad un blocco genocida o ad un attacco mortale.
Curiosamente, il «terrorista» norvegese accusato del massacro, Anders Behring Breivik, viene segnalato come titolare di un blog chiamato «Fjordman» ed i suoi messaggi da tempo vengono pubblicati con i link Jihad Watch e Gates of Vienna http://www.wakeupfromyourslumber.com/blog/joeblow/zionists-admit-breivik-fjordman-breivik-rightist-mass-murderer-atlas-shrugged-contribut). Se è così, il blog di Fjordman dimostra che Breivik sarebbe un estremista neocon che odia gli immigrati e soprattutto i musulmani, oltre ad essere pro-israeliano; vedi il blog, «perché la lotta di Israele è anche la nostra lotta» (http://vladtepesblog.com/?p=21434).
Può darsi che alla fine i tentacoli d’Israele non siano così lontani da questa strage; non sarebbe certo la prima che commette né purtroppo l’ultima Certo la Lega Giovanile Norvegese dei Lavoratori (AUF), il ministro degli esteri norvegese e tutto il suo governo hanno ricevuto un durissimo colpo.
Chi più condanna la politica genocida d’Israele contro il popolo palestinese è chi soffrirà di più, previamente avvertito da Israele per la sua “tremenda audacia”... che nel linguaggio israeliano significa pagarne le conseguenze.
*María José Lera è professoressa all’Università di Siviglia e Ricardo García Pérez è traduttore.
mercoledì 20 luglio 2011
Questione palestinese: i sauditi si preparano a intervenire
14/07/2011
Original Version: The Saudis prepare to step up
Il piano palestinese di dichiarare un proprio Stato alle Nazioni Unite, sempre più minacciato da Israele e dagli Stati Uniti, potrebbe guadagnarsi nuovo sostegno a livello internazionale; in particolare quello dei sauditi – scrive l’analista ebreo americano MJ Rosenberg
***
Fortemente incoraggiato dai finanziatori dell’AIPAC, il Congresso tratta i palestinesi come guerrafondai anche quando perseguono la pace, e gli israeliani come amanti della pace anche quando la rifiutano. Questo è cinico. E le persone che esigono che il Congresso si comporti in questo modo sono solo degli sciovinisti che tifano per la propria squadra, come se si trattasse di una partita di baseball e non di un conflitto che uccide.
Alla fine di giugno il Senato ha approvato all’unanimità una risoluzione redatta dall’AIPAC con lo scopo di mettere in guardia i palestinesi contro le terribili conseguenze che dovranno affrontare se si rivolgeranno alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento del loro Stato.
Il disegno di legge è pieno zeppo del solito linguaggio dell’AIPAC, concentrato su Hamas e sul terrorismo, mentre appoggia entusiasticamente i tentativi di Israele di raggiungere la pace attraverso i negoziati.
L’unica cosa nuova, che dimostra un reale senso dell’umorismo, è il riferimento ai 550 milioni di dollari che gli Stati Uniti offrono ai palestinesi ogni anno, denotando implicitamente che mezzo miliardo di dollari in aiuti dovrebbero essere sufficienti per convincere i palestinesi ad esaudire i nostri desideri.
Gli israeliani, ovviamente, ricevono sei volte tanto, e hanno essenzialmente augurato al presidente Obama di crepare ogni volta che ha loro chiesto un congelamento temporaneo degli insediamenti per aiutarlo a progredire nei negoziati.
Ma la risoluzione si concentra solo su quei 550 milioni di dollari. Il Senato, sollecitato dall’AIPAC, praticamente dice che se i palestinesi andranno alle Nazioni Unite, possono scordarsi di ricevere qualsiasi aiuto.
L’opposizione degli Stati Uniti al fatto che i palestinesi si rivolgano alle Nazioni Unite è assurda.
Che alternativa hanno i palestinesi? Secondo i termini dell’accordo di Oslo del 1993 (l’accordo di mutuo riconoscimento firmato da Yasser Arafat e Yitzhak Rabin), i palestinesi avrebbero dovuto vedere il loro Stato già nel 2000, al più tardi.
Ma in 18 anni gli israeliani non hanno ceduto un solo centimetro di territorio. (Hanno ritirato le loro truppe da Gaza, ma ne controllano lo spazio aereo, terrestre e marittimo, e tengono Gaza sotto assedio). Il numero dei coloni in Cisgiordania (il luogo del futuro Stato) è triplicato, da 100.000 a oltre 300.000. E, come detto sopra, Israele ha ripetutamente rifiutato la richiesta del presidente Obama di congelare l’attività di colonizzazione per tre mesi al fine di facilitare i negoziati.
Tuttavia, la risoluzione dell’AIPAC e del Senato richiede che i palestinesi tornino a “negoziati diretti” con Israele senza precondizioni, e che stiano lontani dalle Nazioni Unite. Per quanto riguarda le colonie, la risoluzione dice che i palestinesi dovrebbero negoziare sul futuro del territorio, mentre Israele lo sta riempendo di insediamenti sempre più grandi e di un numero sempre maggiore di coloni.
La risposta palestinese: ci abbiamo già provato, non è servito a nulla.
Come gli israeliani fecero nel 1947, i palestinesi dovrebbero andare alle Nazioni Unite per ottenere il riconoscimento. In seguito, lo Stato di Israele dovrebbe negoziare un accordo definitivo con lo Stato della Palestina.
Riconoscimento
C’è chi afferma che i palestinesi non avranno successo alle Nazioni Unite, che gli Stati Uniti eseguiranno gli ordini di Israele e bloccheranno la nascita di uno Stato utilizzando il loro potere di veto al Consiglio di Sicurezza.
Questo è probabilmente vero. Tuttavia, la posizione palestinese sarà incommensurabilmente rafforzata dalla dimostrazione di un ampio sostegno a livello internazionale. La prova migliore di ciò è quanto duramente Israele stia lavorando per evitare un voto alle Nazioni Unite. Se le azioni delle Nazioni Unite fossero così insignificanti, né Israele né la sua lobby qui negli Stati Uniti si ingegnerebbero con tutte le loro forze (come è accaduto con questa risoluzione del Senato) per spaventare i palestinesi in modo da non farli andare alle Nazioni Unite.
Tuttavia minacciare di sospendere gli aiuti significa darsi la zappa sui piedi. Il solo potere di influenza che abbiamo sui palestinesi proviene da tali aiuti. Se li sospendiamo, i palestinesi si rivolgeranno a qualcun altro.
Questo “qualcun altro” è l’Arabia Saudita.
In un editoriale apparso sul Washington Post il mese scorso, il principe Turki al-Faisal, che fu capo dei servizi segreti sauditi tra il 1977 e il 2001 e ambasciatore negli Stati Uniti dal 2004 al 2006, ha scritto che “è giunto il momento che i palestinesi bypassino gli Stati Uniti e Israele, e cerchino l’appoggio diretto della comunità internazionale al loro Stato presso le Nazioni Unite”. Egli ha anche detto che gli Stati Uniti pagheranno un caro prezzo se bloccheranno le aspirazioni a un futuro Stato:
“Nel mese di settembre il regno saudita potrebbe usare il suo considerevole potere diplomatico per sostenere i palestinesi nella loro ricerca di un riconoscimento internazionale. I leader americani hanno da tempo definito Israele un alleato ‘indispensabile’. Presto impareranno che ci sono altri attori nella regione – non ultima la piazza araba – che sono ugualmente ‘indispensabili’, se non di più. Il favoritismo nei confronti di Israele non è stato un atteggiamento saggio per Washington, e presto diverrà ancora più chiaro come esso sia una follia”.
La sua conclusione è sorprendente:
“Noi arabi eravamo soliti dire no alla pace, e ricevemmo la nostra giusta punizione nel 1967. Nel 2002 il re Abdullah offrì quella che diventò l’Iniziativa di Pace Araba. Basata sulla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, essa chiede di porre fine al conflitto sulla base del concetto “terra in cambio di pace”. Gli israeliani si ritirano da tutti i territori occupati, compresa Gerusalemme Est, raggiungono una soluzione concordata per i rifugiati palestinesi e riconoscono lo Stato palestinese. In cambio, otterranno il pieno riconoscimento diplomatico del mondo arabo e di tutti gli Stati musulmani, la fine delle ostilità, e normali relazioni con tutti questi Stati”.
“Ora, sono gli israeliani a dire di no. Non vorrei esserci il giorno in cui si troveranno ad affrontare la loro giusta punizione”.
Quella “giusta punizione” è inevitabile a meno che Israele non si ravveda, eleggendo un nuovo governo e ignorando i consigli degli sciovinisti qui negli Stati Uniti, che sono sempre disposti a combattere fino alla fine. Non so se il principe Turki davvero “non vorrebbe esserci” quando Israele sarà costretta a pagare il prezzo della stupida arroganza del suo attuale governo. Ma io sicuramente non vorrei.
M. J. Rosenberg è senior fellow per la politica estera presso il Media Matters Action Network; in precedenza è stato direttore delle politiche dell’Israel Policy Forum
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Original Version: The Saudis prepare to step up
Il piano palestinese di dichiarare un proprio Stato alle Nazioni Unite, sempre più minacciato da Israele e dagli Stati Uniti, potrebbe guadagnarsi nuovo sostegno a livello internazionale; in particolare quello dei sauditi – scrive l’analista ebreo americano MJ Rosenberg
***
Fortemente incoraggiato dai finanziatori dell’AIPAC, il Congresso tratta i palestinesi come guerrafondai anche quando perseguono la pace, e gli israeliani come amanti della pace anche quando la rifiutano. Questo è cinico. E le persone che esigono che il Congresso si comporti in questo modo sono solo degli sciovinisti che tifano per la propria squadra, come se si trattasse di una partita di baseball e non di un conflitto che uccide.
Alla fine di giugno il Senato ha approvato all’unanimità una risoluzione redatta dall’AIPAC con lo scopo di mettere in guardia i palestinesi contro le terribili conseguenze che dovranno affrontare se si rivolgeranno alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento del loro Stato.
Il disegno di legge è pieno zeppo del solito linguaggio dell’AIPAC, concentrato su Hamas e sul terrorismo, mentre appoggia entusiasticamente i tentativi di Israele di raggiungere la pace attraverso i negoziati.
L’unica cosa nuova, che dimostra un reale senso dell’umorismo, è il riferimento ai 550 milioni di dollari che gli Stati Uniti offrono ai palestinesi ogni anno, denotando implicitamente che mezzo miliardo di dollari in aiuti dovrebbero essere sufficienti per convincere i palestinesi ad esaudire i nostri desideri.
Gli israeliani, ovviamente, ricevono sei volte tanto, e hanno essenzialmente augurato al presidente Obama di crepare ogni volta che ha loro chiesto un congelamento temporaneo degli insediamenti per aiutarlo a progredire nei negoziati.
Ma la risoluzione si concentra solo su quei 550 milioni di dollari. Il Senato, sollecitato dall’AIPAC, praticamente dice che se i palestinesi andranno alle Nazioni Unite, possono scordarsi di ricevere qualsiasi aiuto.
L’opposizione degli Stati Uniti al fatto che i palestinesi si rivolgano alle Nazioni Unite è assurda.
Che alternativa hanno i palestinesi? Secondo i termini dell’accordo di Oslo del 1993 (l’accordo di mutuo riconoscimento firmato da Yasser Arafat e Yitzhak Rabin), i palestinesi avrebbero dovuto vedere il loro Stato già nel 2000, al più tardi.
Ma in 18 anni gli israeliani non hanno ceduto un solo centimetro di territorio. (Hanno ritirato le loro truppe da Gaza, ma ne controllano lo spazio aereo, terrestre e marittimo, e tengono Gaza sotto assedio). Il numero dei coloni in Cisgiordania (il luogo del futuro Stato) è triplicato, da 100.000 a oltre 300.000. E, come detto sopra, Israele ha ripetutamente rifiutato la richiesta del presidente Obama di congelare l’attività di colonizzazione per tre mesi al fine di facilitare i negoziati.
Tuttavia, la risoluzione dell’AIPAC e del Senato richiede che i palestinesi tornino a “negoziati diretti” con Israele senza precondizioni, e che stiano lontani dalle Nazioni Unite. Per quanto riguarda le colonie, la risoluzione dice che i palestinesi dovrebbero negoziare sul futuro del territorio, mentre Israele lo sta riempendo di insediamenti sempre più grandi e di un numero sempre maggiore di coloni.
La risposta palestinese: ci abbiamo già provato, non è servito a nulla.
Come gli israeliani fecero nel 1947, i palestinesi dovrebbero andare alle Nazioni Unite per ottenere il riconoscimento. In seguito, lo Stato di Israele dovrebbe negoziare un accordo definitivo con lo Stato della Palestina.
Riconoscimento
C’è chi afferma che i palestinesi non avranno successo alle Nazioni Unite, che gli Stati Uniti eseguiranno gli ordini di Israele e bloccheranno la nascita di uno Stato utilizzando il loro potere di veto al Consiglio di Sicurezza.
Questo è probabilmente vero. Tuttavia, la posizione palestinese sarà incommensurabilmente rafforzata dalla dimostrazione di un ampio sostegno a livello internazionale. La prova migliore di ciò è quanto duramente Israele stia lavorando per evitare un voto alle Nazioni Unite. Se le azioni delle Nazioni Unite fossero così insignificanti, né Israele né la sua lobby qui negli Stati Uniti si ingegnerebbero con tutte le loro forze (come è accaduto con questa risoluzione del Senato) per spaventare i palestinesi in modo da non farli andare alle Nazioni Unite.
Tuttavia minacciare di sospendere gli aiuti significa darsi la zappa sui piedi. Il solo potere di influenza che abbiamo sui palestinesi proviene da tali aiuti. Se li sospendiamo, i palestinesi si rivolgeranno a qualcun altro.
Questo “qualcun altro” è l’Arabia Saudita.
In un editoriale apparso sul Washington Post il mese scorso, il principe Turki al-Faisal, che fu capo dei servizi segreti sauditi tra il 1977 e il 2001 e ambasciatore negli Stati Uniti dal 2004 al 2006, ha scritto che “è giunto il momento che i palestinesi bypassino gli Stati Uniti e Israele, e cerchino l’appoggio diretto della comunità internazionale al loro Stato presso le Nazioni Unite”. Egli ha anche detto che gli Stati Uniti pagheranno un caro prezzo se bloccheranno le aspirazioni a un futuro Stato:
“Nel mese di settembre il regno saudita potrebbe usare il suo considerevole potere diplomatico per sostenere i palestinesi nella loro ricerca di un riconoscimento internazionale. I leader americani hanno da tempo definito Israele un alleato ‘indispensabile’. Presto impareranno che ci sono altri attori nella regione – non ultima la piazza araba – che sono ugualmente ‘indispensabili’, se non di più. Il favoritismo nei confronti di Israele non è stato un atteggiamento saggio per Washington, e presto diverrà ancora più chiaro come esso sia una follia”.
La sua conclusione è sorprendente:
“Noi arabi eravamo soliti dire no alla pace, e ricevemmo la nostra giusta punizione nel 1967. Nel 2002 il re Abdullah offrì quella che diventò l’Iniziativa di Pace Araba. Basata sulla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, essa chiede di porre fine al conflitto sulla base del concetto “terra in cambio di pace”. Gli israeliani si ritirano da tutti i territori occupati, compresa Gerusalemme Est, raggiungono una soluzione concordata per i rifugiati palestinesi e riconoscono lo Stato palestinese. In cambio, otterranno il pieno riconoscimento diplomatico del mondo arabo e di tutti gli Stati musulmani, la fine delle ostilità, e normali relazioni con tutti questi Stati”.
“Ora, sono gli israeliani a dire di no. Non vorrei esserci il giorno in cui si troveranno ad affrontare la loro giusta punizione”.
Quella “giusta punizione” è inevitabile a meno che Israele non si ravveda, eleggendo un nuovo governo e ignorando i consigli degli sciovinisti qui negli Stati Uniti, che sono sempre disposti a combattere fino alla fine. Non so se il principe Turki davvero “non vorrebbe esserci” quando Israele sarà costretta a pagare il prezzo della stupida arroganza del suo attuale governo. Ma io sicuramente non vorrei.
M. J. Rosenberg è senior fellow per la politica estera presso il Media Matters Action Network; in precedenza è stato direttore delle politiche dell’Israel Policy Forum
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OGGI SIT-IN ALL'AMBASCIATA ISRAELIANA
Israele, in violazione di basilari norme del diritto internazionale, ha compiuto l'ennesimo sopruso catturando con abbordaggio in acque internazionali la nave francese Dignité e sequestrando i pacifisti che vi erano a bordo per impedire che i natante e passeggeri giungessero a Gaza superando dal mare l'assedio che illegalmente ed illegittimamente ha decretato per quella popolazione.
Israele invoca il suo diritto alla sicurezza e denuncia di sentirsi minacciato dal terrorismo. Ma in realtà questo è solo un pretestuoso falso. Dignité come tutto il naviglio della Freedom Flotilla II non trasportava armi né qualcosa che potesse attentare alla sicurezza della popolazione israeliana: era stata perquisita dalle autorità greche che lo avevano accertato. La verità è che Israele non teme il terrorismo che ben conosce, perché - come storicamente è ben noto anche se pochissimi lo ricordano per evitare l'assurda ed impropria accusa di antisemitismo - è la pratica del terrorismo che ha aperto la strada alla costituzione dello stato israeliano ed è tuttora ricorrente pratica di questa "unica democrazia del Medio Oriente". Israele sa come difendersi dal terrorismo e dalla violenza e sa che su questo terreno ha facilmente partita vinta. Non sa invece come difendersi dai pacifisti, dalla resistenza popolare non violenta.Sul terreno della non violenza sa che alla lunga risulterà perdente. Per questo teme i pacifisti e le pratiche non violente. Per questo sequestra i pacifisti, li espelle forzosamente e proibisce il loro ritorno per cinque ed ora addirittura per dieci anni.
E ciò va svelato. Va fatto sapere che ormai si è scoperto qual è il tallone di Achille di questo nerboruto ed armatissimo Stato che è impotente nei confronti di chi è disarmato.
E vanno smascherate le illegalità che sono alla base delle politiche aggressive e razziste di Israele come va denunciata la connivente complicità degli stati occidentali che garantiscono l'impunità a questo presunto esempio di democrazia nel Medio Oriente.
Per questo LA RETE ROMANA DI SOLIDARIETA' CON IL POPOLO PALESTINESE invita quant^ hanno a cuore le ragioni della democrazia e della pace a partecipare al
sit in indetto per oggi 20 luglio alle ore 18 innanzi all'ambasciata israeliana (via Aldovrandi angolo via Mercati)
Israele invoca il suo diritto alla sicurezza e denuncia di sentirsi minacciato dal terrorismo. Ma in realtà questo è solo un pretestuoso falso. Dignité come tutto il naviglio della Freedom Flotilla II non trasportava armi né qualcosa che potesse attentare alla sicurezza della popolazione israeliana: era stata perquisita dalle autorità greche che lo avevano accertato. La verità è che Israele non teme il terrorismo che ben conosce, perché - come storicamente è ben noto anche se pochissimi lo ricordano per evitare l'assurda ed impropria accusa di antisemitismo - è la pratica del terrorismo che ha aperto la strada alla costituzione dello stato israeliano ed è tuttora ricorrente pratica di questa "unica democrazia del Medio Oriente". Israele sa come difendersi dal terrorismo e dalla violenza e sa che su questo terreno ha facilmente partita vinta. Non sa invece come difendersi dai pacifisti, dalla resistenza popolare non violenta.Sul terreno della non violenza sa che alla lunga risulterà perdente. Per questo teme i pacifisti e le pratiche non violente. Per questo sequestra i pacifisti, li espelle forzosamente e proibisce il loro ritorno per cinque ed ora addirittura per dieci anni.
E ciò va svelato. Va fatto sapere che ormai si è scoperto qual è il tallone di Achille di questo nerboruto ed armatissimo Stato che è impotente nei confronti di chi è disarmato.
E vanno smascherate le illegalità che sono alla base delle politiche aggressive e razziste di Israele come va denunciata la connivente complicità degli stati occidentali che garantiscono l'impunità a questo presunto esempio di democrazia nel Medio Oriente.
Per questo LA RETE ROMANA DI SOLIDARIETA' CON IL POPOLO PALESTINESE invita quant^ hanno a cuore le ragioni della democrazia e della pace a partecipare al
sit in indetto per oggi 20 luglio alle ore 18 innanzi all'ambasciata israeliana (via Aldovrandi angolo via Mercati)
martedì 19 luglio 2011
Marina israeliana abborda battello ,fermati gli attivisti diretti a Gaza
martedì 19 luglio 2011
La "Dignité - Al Karama" è l'unica imbarcazione della Freedom Flotilla 2 a essere riuscita ad aggirare il blocco navale greco. A poche miglia dalla costa della Striscia, riferiscono gli attivisti, è stata avvicinata da unità israeliane che vogliono impedirle di giungere a destinazioneGERUSALEMME - Giunta a poche miglia dalla costa della Striscia di Gaza, ma ancora in acque internazionali, la "Dignité - Al Karama", yacht facente parte della Freedom Flotilla 2 1 con a bordo 17 passeggeri, ha trovato ad attenderla, come previsto, il blocco navale israeliano 2. La piccola imbarcazione, l'unica a essere riuscita a compiere il tragitto dell'intera flotta carica di aiuti umanitari per i palestinesi, è stata affiancata in mattinata da unità della marina militare di Tel Aviv, decise a impedirle di proseguire, ha riferito un organizzatore della Freedom Flotilla 2. Secondo la radio pubblica israeliana, lo yacht è stato intercettato a circa 50-60 miglia marittime (circa 110 chilometri) dalla costa di Gaza. Al Jazeerariferisce che militari israeliani sono saliti a bordo e hanno assunto il controllo dell'imbarcazione, per scortarla nel porto israeliano di Ashdod. L'abbordaggio, dice la radio israeliana, è avvenuto senza incidenti.prevedevano di arrivare in un porto dell'enclave palestinese intorno a mezzogiorno. Gli attivisti hanno anche lanciato un appello al governo francese perché "si assuma le proprie responsabilità e protegga i passeggeri" e hanno chiesto a Israele di "non fare ricorso alla violenza".Sulla "Dignité - Al Karama" sono presenti diversi giornalisti, partiti al seguito di Freedom Flotilla 2. A bordo è salita anche una giornalista israeliana, Amira Hass, inviata del quotidiano Haaretz. Secondo la sua corrispondenza, prima di salire a bordo la marina israeliana ha preso contatto col battello e ha chiesto ai passeggeri di identificarsi e di dichiarare l'eventuale possesso di armi. Gli attivisti della "Dignité - Al Karama", secondo i portavoce del Free Gaza Movement che ha organizzato l'iniziativa, si limiteranno a una resistenza passiva.La "Dignité - Al Karama" è salpata domenica scorsa dal porto greco di Kastellorizo, vicino al confine con la Turchia, unica imbarcazione della Flotilla sfuggita, ancora una volta, alla sorveglianza della guardia costiera greca. Le altre nove navi sono rimaste bloccate in diversi porti per problemi tecnici o burocratici. Il 5 luglio scorso, proprio la "Dignité - Al Karama" aveva eluso nella notte il blocco 3 alla partenza della missione umanitaria degli attivisti imposto dalle autorità di Atene. Due giorni dopo, lo yacht era stato intercettato dalla guardia costiera ellenica 4mentre faceva rifornimento di carburante in un porticciolo dell'isola di Creta e rimorchiato verso il porto più grande di Sitia, sulla stessa isola. Ma stavolta i greci non hanno potuto trattenere la "Dignité" oltre misura: essendo arrivato il via libera da Parigi per il viaggio dell'imbarcazione verso Gaza, hanno infine dovuto lasciarla partire per la sua destinazione finale.Un'altra nave, l'americana "Audacity of Hope" aveva tentato la sortita a inizio luglio, subito dopo l'ordine di non salpare impartito da Atene alla Flotilla, ma era stata bloccata e il suo capitano era finito agli arresti
dal blog Frammenti Vocali in Medio oriente
La "Dignité - Al Karama" è l'unica imbarcazione della Freedom Flotilla 2 a essere riuscita ad aggirare il blocco navale greco. A poche miglia dalla costa della Striscia, riferiscono gli attivisti, è stata avvicinata da unità israeliane che vogliono impedirle di giungere a destinazioneGERUSALEMME - Giunta a poche miglia dalla costa della Striscia di Gaza, ma ancora in acque internazionali, la "Dignité - Al Karama", yacht facente parte della Freedom Flotilla 2 1 con a bordo 17 passeggeri, ha trovato ad attenderla, come previsto, il blocco navale israeliano 2. La piccola imbarcazione, l'unica a essere riuscita a compiere il tragitto dell'intera flotta carica di aiuti umanitari per i palestinesi, è stata affiancata in mattinata da unità della marina militare di Tel Aviv, decise a impedirle di proseguire, ha riferito un organizzatore della Freedom Flotilla 2. Secondo la radio pubblica israeliana, lo yacht è stato intercettato a circa 50-60 miglia marittime (circa 110 chilometri) dalla costa di Gaza. Al Jazeerariferisce che militari israeliani sono saliti a bordo e hanno assunto il controllo dell'imbarcazione, per scortarla nel porto israeliano di Ashdod. L'abbordaggio, dice la radio israeliana, è avvenuto senza incidenti.prevedevano di arrivare in un porto dell'enclave palestinese intorno a mezzogiorno. Gli attivisti hanno anche lanciato un appello al governo francese perché "si assuma le proprie responsabilità e protegga i passeggeri" e hanno chiesto a Israele di "non fare ricorso alla violenza".Sulla "Dignité - Al Karama" sono presenti diversi giornalisti, partiti al seguito di Freedom Flotilla 2. A bordo è salita anche una giornalista israeliana, Amira Hass, inviata del quotidiano Haaretz. Secondo la sua corrispondenza, prima di salire a bordo la marina israeliana ha preso contatto col battello e ha chiesto ai passeggeri di identificarsi e di dichiarare l'eventuale possesso di armi. Gli attivisti della "Dignité - Al Karama", secondo i portavoce del Free Gaza Movement che ha organizzato l'iniziativa, si limiteranno a una resistenza passiva.La "Dignité - Al Karama" è salpata domenica scorsa dal porto greco di Kastellorizo, vicino al confine con la Turchia, unica imbarcazione della Flotilla sfuggita, ancora una volta, alla sorveglianza della guardia costiera greca. Le altre nove navi sono rimaste bloccate in diversi porti per problemi tecnici o burocratici. Il 5 luglio scorso, proprio la "Dignité - Al Karama" aveva eluso nella notte il blocco 3 alla partenza della missione umanitaria degli attivisti imposto dalle autorità di Atene. Due giorni dopo, lo yacht era stato intercettato dalla guardia costiera ellenica 4mentre faceva rifornimento di carburante in un porticciolo dell'isola di Creta e rimorchiato verso il porto più grande di Sitia, sulla stessa isola. Ma stavolta i greci non hanno potuto trattenere la "Dignité" oltre misura: essendo arrivato il via libera da Parigi per il viaggio dell'imbarcazione verso Gaza, hanno infine dovuto lasciarla partire per la sua destinazione finale.Un'altra nave, l'americana "Audacity of Hope" aveva tentato la sortita a inizio luglio, subito dopo l'ordine di non salpare impartito da Atene alla Flotilla, ma era stata bloccata e il suo capitano era finito agli arresti
dal blog Frammenti Vocali in Medio oriente
Appello per la condanna della legge israeliana antiboicottaggio
Dopo la dichiarazione di incostituzionalità da parte di 34 docenti di diritto israeliani, il Governo e il Parlamento italiani nonché l’Unione Europea non possono rimanere muti (e complici) sulla legge di Anti- boicottaggio approvata dalla Knesset che, ignorando i diritti umani, limita la libertà d'espressione e preoccupa gli stessi cittadini israeliani sulla democrazia in Israele.
L’11 luglio 2011, la Knesset (parlamento israeliano) ha approvato, con 47 voti contro 38, la legge “Per la prevenzione dei Danni allo Stato di Israele attraverso il boicottaggio”. Questa legge costituisce l’ennesimo attacco alla libertà di associazione ed espressione in quella che i media e la classe politica italiana amici del governo israeliano descrivono ancora come “Unica democrazia del medio oriente”.
Essa proibisce e considera un illecito l’appello per boicottaggi di tipo economico, culturale ed accademico promosso da persone ed organizzazioni israeliane, nello Stato di Israele e nei territori occupati dove continuano ad essere costruiti insediamenti, in palese violazione della legge internazionale (IV convenzione di Ginevra).
Prevede inoltre la revoca dell’esenzione delle tasse ad ONG, associazioni ed istituzioni che supportino o si dichiarino a favore del boicottaggio, e nega loro la possibilità di accedere a benefici e pubblici finanziamenti, ivi compresi quelli dell’Unione Europea. In tal modo venendo a colpire le ONG israeliane impegnate nella difesa dei diritti umani, i cittadini di entrambe le parti ed i loro rappresentanti politici; inoltre le aziende che partecipassero o rispondessero ad azioni di boicottaggio potrebbero essere escluse dagli appalti di Governo.
La legge appena approvata, attraverso l’imposizione di sanzioni amministrative, finanziarie e di costosi risarcimenti ai coloni, rappresenta un inaccettabile e gravissimo tentativo di ridurre al silenzio, delegittimare e restringere la libertà di azione delle organizzazioni della società civile israeliana che si battono contro l’occupazione, contro gli insediamenti illegali, contro le numerose e quotidiane violazioni del diritti umani in Israele, e vanifica un efficace strumento di lotta nonviolenta.
Essa, in evidente contrasto con ogni principio di democrazia, rappresenta una palese violazione dei trattati internazionali sul rispetto dei diritti umani che sono stati ratificati dallo stesso stato di Israele, in particolare la Convenzione Internazionale di Ginevra, ed avrà un effetto agghiacciante sulla libertà di espressione e di associazione in Israele.
Pertanto, in accordo con la direttiva dell' Unione Europea sulla tutela e difesa degli attivisti per i diritti umani, ci appelliamo alle istituzioni italiane ed europee, affinché facciano rispettare anche da Israele le leggi ed il diritto cui essi si ispirano, ed in particolare chiediamo:
- Una decisa condanna pubblica della legge appena assunta, invitando Israele a revocarla immediatamente e ad astenersi, per il futuro dall’assumere norme ed iniziative che mettano a rischio la libertà di espressione e di associazione in Israele
- L’adozione di ogni mezzo a loro disposizione per difendere e tutelare la libertà di associazione e di espressione degli attivisti e delle associazioni che in Israele lottano per la difesa dei diritti umani e contro l’occupazione
- La continuazione del supporto alle organizzazioni della società civile che in Israele ed in Palestina si battono per la difesa dei diritti fondamentali di tutte le popolazioni, della libertà di espressione e di associazione e contro l’occupazione.
- Che tali volontà vengano esercitate con forza al prossimo incontro, avente per oggetto la Tutela dei diritti Umani, che Europa ed Israele terranno il 13 settembre 2011.
RETE ROMANA DI SOLIDARIETA’ CON IL POPOLO PALESTINESE
Per adesioni: http://www.firmiamo.it/condanna-legge-israeliana-anti-boicottaggio
L’11 luglio 2011, la Knesset (parlamento israeliano) ha approvato, con 47 voti contro 38, la legge “Per la prevenzione dei Danni allo Stato di Israele attraverso il boicottaggio”. Questa legge costituisce l’ennesimo attacco alla libertà di associazione ed espressione in quella che i media e la classe politica italiana amici del governo israeliano descrivono ancora come “Unica democrazia del medio oriente”.
Essa proibisce e considera un illecito l’appello per boicottaggi di tipo economico, culturale ed accademico promosso da persone ed organizzazioni israeliane, nello Stato di Israele e nei territori occupati dove continuano ad essere costruiti insediamenti, in palese violazione della legge internazionale (IV convenzione di Ginevra).
Prevede inoltre la revoca dell’esenzione delle tasse ad ONG, associazioni ed istituzioni che supportino o si dichiarino a favore del boicottaggio, e nega loro la possibilità di accedere a benefici e pubblici finanziamenti, ivi compresi quelli dell’Unione Europea. In tal modo venendo a colpire le ONG israeliane impegnate nella difesa dei diritti umani, i cittadini di entrambe le parti ed i loro rappresentanti politici; inoltre le aziende che partecipassero o rispondessero ad azioni di boicottaggio potrebbero essere escluse dagli appalti di Governo.
La legge appena approvata, attraverso l’imposizione di sanzioni amministrative, finanziarie e di costosi risarcimenti ai coloni, rappresenta un inaccettabile e gravissimo tentativo di ridurre al silenzio, delegittimare e restringere la libertà di azione delle organizzazioni della società civile israeliana che si battono contro l’occupazione, contro gli insediamenti illegali, contro le numerose e quotidiane violazioni del diritti umani in Israele, e vanifica un efficace strumento di lotta nonviolenta.
Essa, in evidente contrasto con ogni principio di democrazia, rappresenta una palese violazione dei trattati internazionali sul rispetto dei diritti umani che sono stati ratificati dallo stesso stato di Israele, in particolare la Convenzione Internazionale di Ginevra, ed avrà un effetto agghiacciante sulla libertà di espressione e di associazione in Israele.
Pertanto, in accordo con la direttiva dell' Unione Europea sulla tutela e difesa degli attivisti per i diritti umani, ci appelliamo alle istituzioni italiane ed europee, affinché facciano rispettare anche da Israele le leggi ed il diritto cui essi si ispirano, ed in particolare chiediamo:
- Una decisa condanna pubblica della legge appena assunta, invitando Israele a revocarla immediatamente e ad astenersi, per il futuro dall’assumere norme ed iniziative che mettano a rischio la libertà di espressione e di associazione in Israele
- L’adozione di ogni mezzo a loro disposizione per difendere e tutelare la libertà di associazione e di espressione degli attivisti e delle associazioni che in Israele lottano per la difesa dei diritti umani e contro l’occupazione
- La continuazione del supporto alle organizzazioni della società civile che in Israele ed in Palestina si battono per la difesa dei diritti fondamentali di tutte le popolazioni, della libertà di espressione e di associazione e contro l’occupazione.
- Che tali volontà vengano esercitate con forza al prossimo incontro, avente per oggetto la Tutela dei diritti Umani, che Europa ed Israele terranno il 13 settembre 2011.
RETE ROMANA DI SOLIDARIETA’ CON IL POPOLO PALESTINESE
Per adesioni: http://www.firmiamo.it/condanna-legge-israeliana-anti-boicottaggio
Incredibile sentenza faziosa e ipocrita
Leggendo questo articolo mi ha preso un moto di profonda indignazione. Sicchè le sette otto famiglie di Sderot che avrebbero avuto vittime debbono essere risarcite secondo gli USA e chi dovrebbe e quando risarcire le 1500 famiglie che hanno avuto vittime A GAZA DOPO IL TERRORISMO ISRAELIANO DI "PIOMBO FUSO"? E quando saranno risarcite le famiglie dei 2000 feriti gravi di cui certamente molti sono morti sempre per il terrorismo israeliano di Piombo fuso? E quando saranno risarcite le famiglie dei pescatori uccisi, dei bambini uccisi nella buffer-zone? E quando saranno risarciti i pastori e i contadini della West Bank che hanno avuto vittime in famiglia? E chi risarcirà i pescatori sparati le cui barche sono state distrutte? E i pastori le cui pecore sono state bruciate vive? E i contadini a cui è stata sottratta la terra e l'acqua? Le banche americane che regalano denaro agli assassini israeliani dovrebbero essere chiuse e sbarrate e i criminali israeliani e americani gueffafondai e assassini dovrebbero essere sbattuti in galera a marcire come meritano. Razzisti e colonialisti occidentali la fanno da padroni, ma non sarà sempre così, il mondo sta cambiando e forse riuscirà passo dopo passo a non essere più un mondo alla rovescia dove i cirminali vengono premiati e la legge della giungla impallidisce al confronto.
tHAMAS: CORTE SUPREMA USA CONDANNA BANK OF CHINA
L'istituto di credito dovrà risarcire le famiglie di 84 vittime di razzi Qassam e dell’attentato di Eilat del 2007. Avrebbe permesso il trasferimento di denaro da Siria e Iran a Gaza. Ma la sentenza appare "politica" e inoltre i conti non tornano: i morti israeliani dei razzi sono una dozzina.
DI EMMA MANCINI
Roma, 18 luglio 2011, Nena News (nella foto una filiale della Bank of China) – Hamas è un “gruppo terrorista”, chi lo agevola verrà punito. Su un simile punto di partenza una sentenza è stata pronunciata venerdì scorso dalla Corte di Suprema di New York: nella causa Keren Elmaliach contro Bank of China, il giudice Barbara E. Kapnick ha stabilito che la banca cinese dovrà risarcire 84 vittime di attacchi e un attentato attribuito da Israele al gruppo islamista palestinese, perché nelle sue casse sono transitati soldi che avrebbero finanziato la costruzione di razzi Qassam.
Secondo l’accusa del procuratore e la sentenza finale, il denaro sarebbe partito dalla Siria e dall’ Iran, per poi entrare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Qua sarebbero stati utilizzati per acquistare il materiale necessario alla costruzione dei razzi Qassam, sparati poi contro la cittadina israeliana di Sderot, al confine con la Striscia. Inoltre, gli stessi soldi, sempre secondo l’accusa, sarebbero stati impiegati per finanziare l’attentato suicida di Eilat del 29 gennaio 2007. Attacchi che in totale avrebbero provocato 84 vittime. Insomma, la Corte ha riconosciuto il diritto per i parenti delle vittime di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese, considerati “gruppi terroristi” da Israele e Stati Uniti, di chiedere i danni all’istituto di credito cinese accusato dall’Israel Law Center di aver permesso il trasferimento di denaro da altri Paesi arabi alla Striscia di Gaza.
A promuovere l’azione legale è stata la famiglia di Emil Elmaliakh, residente di Eliat morto nell’attentato del 2007, con il sostegno dell’Israel Law Center e dell’avvocato di New York Robert Tolchin. Successivamente, alla causa si sono unite le famiglie di altre 50 vittime. “La sentenza crea un precedente importante per le vittime israeliane – ha detto al quotidiano Jerusalem Post il legale del centro, Nitsana Dashan – Generalmente, i cittadini statunitensi hanno il diritto di intentare un processo contro le organizzazioni terroristiche. In questo caso, abbiamo fatto applicare una vecchia legge che permette anche a chi non è cittadino Usa di fare lo stesso”.
L'attentato suicida di Eilat del 29 gennaio 2007 di fronte ad una panetteria
Gli Stati Uniti considerano sia la Jihad Islamica che Hamas come organizzazioni terroristiche straniere dal 1997. Per questo, i due gruppi sono sottoposti a dure sanzioni economiche con l’obiettivo di ostacolare attività bancarie che potrebbero finanziare le loro azioni. La Bank of China è accusata di aver permesso ad Hamas e alla Jihad Islamica di compiere operazioni di trasferimento di denaro dalla Siria e dall’Iran a Gaza dal 2003, per molti milioni di dollari. I due gruppi avrebbero i propri conti aperti presso la filiale di Guangzhou, in Cina, entrambi a nome di Said al-Shurafa, considerato un membro operativo sia di Hamas che dalla Jihad Islamica.
Secondo le informazioni raccolte dall’accusa, Shurafa avrebbe trasferito il denaro dai conti cinesi ai Territori Palestinesi Occupati “per pianificare, preparare e compiere attentati terroristici”. E quando nell’aprile 2005 funzionari della divisione anti-terrorismo dell’Ufficio del Primo Ministro israeliano hanno chiesto alla Bank of China di interrompere i rapporti con i due gruppi, l’istituto ha rifiutato non ritenendo Hamas un’organizzazione terroristica e non avendo prove concrete che il denaro venisse utilizzato per attentati suicidi e lancio di razzi. Elemento che ha aggravato la posizione della banca: i trasferimenti, in media pari a 100mila dollari, avvenivano in contanti e avrebbero dovuto mettere in allarme l’istituto.
Oggi le famiglie sorridono: potranno farsi risarcire dalla Bank of China. L’ammontare del risarcimento sarà reso noto il 14 settembre prossimo. E subito altre associazioni ebraiche annunciano simili richieste contro altri istituti di credito, mentre l’Israel Law Center prosegue la sua battaglia legale contro la banca cinese per ottenere informazioni e dettagli delle operazioni bancarie compiute da Hamas.
Critiche piovono sulla sentenza da parte di chi ritiene si tratti di uno strumento puramente politico per minacciare indirettamente Siria, Iran e lo stesso Hamas. Se pare non esistano prove certe che il denaro abbia seguito proprio quella strada, c’è chi mette in dubbio anche il numero delle vittime. Dal 1995 ad oggi, infatti, sono stati nove gli israeliani uccisi da razzi Qassam, di cui cinque erano anziani morti di infarto per la paura. Le restanti 75 vittime sarebbero quindi morte nell’attentato suicida di Eilat. Ma all’epoca giornali e televisioni parlarono solo di tre giovani, uccisi da un kamikaze di fronte ad una panetteria nella zona Sud di Eliat. Nena News
tHAMAS: CORTE SUPREMA USA CONDANNA BANK OF CHINA
L'istituto di credito dovrà risarcire le famiglie di 84 vittime di razzi Qassam e dell’attentato di Eilat del 2007. Avrebbe permesso il trasferimento di denaro da Siria e Iran a Gaza. Ma la sentenza appare "politica" e inoltre i conti non tornano: i morti israeliani dei razzi sono una dozzina.
DI EMMA MANCINI
Roma, 18 luglio 2011, Nena News (nella foto una filiale della Bank of China) – Hamas è un “gruppo terrorista”, chi lo agevola verrà punito. Su un simile punto di partenza una sentenza è stata pronunciata venerdì scorso dalla Corte di Suprema di New York: nella causa Keren Elmaliach contro Bank of China, il giudice Barbara E. Kapnick ha stabilito che la banca cinese dovrà risarcire 84 vittime di attacchi e un attentato attribuito da Israele al gruppo islamista palestinese, perché nelle sue casse sono transitati soldi che avrebbero finanziato la costruzione di razzi Qassam.
Secondo l’accusa del procuratore e la sentenza finale, il denaro sarebbe partito dalla Siria e dall’ Iran, per poi entrare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Qua sarebbero stati utilizzati per acquistare il materiale necessario alla costruzione dei razzi Qassam, sparati poi contro la cittadina israeliana di Sderot, al confine con la Striscia. Inoltre, gli stessi soldi, sempre secondo l’accusa, sarebbero stati impiegati per finanziare l’attentato suicida di Eilat del 29 gennaio 2007. Attacchi che in totale avrebbero provocato 84 vittime. Insomma, la Corte ha riconosciuto il diritto per i parenti delle vittime di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese, considerati “gruppi terroristi” da Israele e Stati Uniti, di chiedere i danni all’istituto di credito cinese accusato dall’Israel Law Center di aver permesso il trasferimento di denaro da altri Paesi arabi alla Striscia di Gaza.
A promuovere l’azione legale è stata la famiglia di Emil Elmaliakh, residente di Eliat morto nell’attentato del 2007, con il sostegno dell’Israel Law Center e dell’avvocato di New York Robert Tolchin. Successivamente, alla causa si sono unite le famiglie di altre 50 vittime. “La sentenza crea un precedente importante per le vittime israeliane – ha detto al quotidiano Jerusalem Post il legale del centro, Nitsana Dashan – Generalmente, i cittadini statunitensi hanno il diritto di intentare un processo contro le organizzazioni terroristiche. In questo caso, abbiamo fatto applicare una vecchia legge che permette anche a chi non è cittadino Usa di fare lo stesso”.
L'attentato suicida di Eilat del 29 gennaio 2007 di fronte ad una panetteria
Gli Stati Uniti considerano sia la Jihad Islamica che Hamas come organizzazioni terroristiche straniere dal 1997. Per questo, i due gruppi sono sottoposti a dure sanzioni economiche con l’obiettivo di ostacolare attività bancarie che potrebbero finanziare le loro azioni. La Bank of China è accusata di aver permesso ad Hamas e alla Jihad Islamica di compiere operazioni di trasferimento di denaro dalla Siria e dall’Iran a Gaza dal 2003, per molti milioni di dollari. I due gruppi avrebbero i propri conti aperti presso la filiale di Guangzhou, in Cina, entrambi a nome di Said al-Shurafa, considerato un membro operativo sia di Hamas che dalla Jihad Islamica.
Secondo le informazioni raccolte dall’accusa, Shurafa avrebbe trasferito il denaro dai conti cinesi ai Territori Palestinesi Occupati “per pianificare, preparare e compiere attentati terroristici”. E quando nell’aprile 2005 funzionari della divisione anti-terrorismo dell’Ufficio del Primo Ministro israeliano hanno chiesto alla Bank of China di interrompere i rapporti con i due gruppi, l’istituto ha rifiutato non ritenendo Hamas un’organizzazione terroristica e non avendo prove concrete che il denaro venisse utilizzato per attentati suicidi e lancio di razzi. Elemento che ha aggravato la posizione della banca: i trasferimenti, in media pari a 100mila dollari, avvenivano in contanti e avrebbero dovuto mettere in allarme l’istituto.
Oggi le famiglie sorridono: potranno farsi risarcire dalla Bank of China. L’ammontare del risarcimento sarà reso noto il 14 settembre prossimo. E subito altre associazioni ebraiche annunciano simili richieste contro altri istituti di credito, mentre l’Israel Law Center prosegue la sua battaglia legale contro la banca cinese per ottenere informazioni e dettagli delle operazioni bancarie compiute da Hamas.
Critiche piovono sulla sentenza da parte di chi ritiene si tratti di uno strumento puramente politico per minacciare indirettamente Siria, Iran e lo stesso Hamas. Se pare non esistano prove certe che il denaro abbia seguito proprio quella strada, c’è chi mette in dubbio anche il numero delle vittime. Dal 1995 ad oggi, infatti, sono stati nove gli israeliani uccisi da razzi Qassam, di cui cinque erano anziani morti di infarto per la paura. Le restanti 75 vittime sarebbero quindi morte nell’attentato suicida di Eilat. Ma all’epoca giornali e televisioni parlarono solo di tre giovani, uccisi da un kamikaze di fronte ad una panetteria nella zona Sud di Eliat. Nena News
domenica 17 luglio 2011
Freedom Flotilla, parte la nave francese alla volta di Gaza
Freedom Flotilla, parte la nave francese alla volta di Gaza
La Dignitè/Karama è partita nella notte, l'unica a essere sfuggita alle maglie dell'ostruzionismo greco
La barca francese Dignité / Karama ha lasciato l'isola greca di Kastellorizo intorno alle 20:30 ora locale ieri, sabato 16 Luglio, 2011, in direzione sud. I dieci passeggeri a bordo rappresentano ora tutta la Freedom Flotilla 2, essendo le altre navi rimaste bloccate in diversi porti greci da ostacoli burocratici, sabotaggi, improvvisi impedimenti e ritiro delle bandiere.
La Dignité, battente bandiera francese, ha lasciato la Corsica il 25 giugno e nelle ultime settimane è rimasta in acque greche, che è riuscita a lasciare senza essere, per ora, seguita dalla Guardia Costiera Greca o dalla Marina.
Tra i passeggeri ci sono Dror Feiler, portavoce di Ship to Gaza Sweden e anche presidente della Rete Ebrei Europei per una Giusta Pace, Vangelis Pissias, portavoce di Ship to Gaza Greece, Claude Léostic, rappresentante di Un bateau français vers Gaza, Omeyya Naoufel Seddik di Tunisiens des Fédération pour une citoyenneté des deux Rives (FTCR), Stéphan Corriveau, coordinatore di Canada Boat to Gaza, Thomas Sommer-Houdeville, portavoce di Un bateau français vers Gaza, e altri rappresentanti delle iniziative canadese, francese e greca della Freedom Flotilla 2. A bordo della Dignité c'è anche la giornalista israeliana Amira Hass, di Haaretz, e una troupe di Al-Jazeera TV.
La Dignitè/Karama è partita nella notte, l'unica a essere sfuggita alle maglie dell'ostruzionismo greco
La barca francese Dignité / Karama ha lasciato l'isola greca di Kastellorizo intorno alle 20:30 ora locale ieri, sabato 16 Luglio, 2011, in direzione sud. I dieci passeggeri a bordo rappresentano ora tutta la Freedom Flotilla 2, essendo le altre navi rimaste bloccate in diversi porti greci da ostacoli burocratici, sabotaggi, improvvisi impedimenti e ritiro delle bandiere.
La Dignité, battente bandiera francese, ha lasciato la Corsica il 25 giugno e nelle ultime settimane è rimasta in acque greche, che è riuscita a lasciare senza essere, per ora, seguita dalla Guardia Costiera Greca o dalla Marina.
Tra i passeggeri ci sono Dror Feiler, portavoce di Ship to Gaza Sweden e anche presidente della Rete Ebrei Europei per una Giusta Pace, Vangelis Pissias, portavoce di Ship to Gaza Greece, Claude Léostic, rappresentante di Un bateau français vers Gaza, Omeyya Naoufel Seddik di Tunisiens des Fédération pour une citoyenneté des deux Rives (FTCR), Stéphan Corriveau, coordinatore di Canada Boat to Gaza, Thomas Sommer-Houdeville, portavoce di Un bateau français vers Gaza, e altri rappresentanti delle iniziative canadese, francese e greca della Freedom Flotilla 2. A bordo della Dignité c'è anche la giornalista israeliana Amira Hass, di Haaretz, e una troupe di Al-Jazeera TV.
Israele si arricchisce con i bambini palestinesi arrestati
di Emma Mancini
Le casse israeliane si sono arricchite di 900mila dollari negli ultimi nove mesi grazie alle sanzioni e alle multe fatte pagare ai bambini palestinesi di Gerusalemme Est arrestati dall’esercito. Ieri, intanto, sono finiti in manette altri undici minori, arrestati nel quartiere di Silwan.
Un’escalation preoccupante quella delle detenzioni di minori palestinesi nella zona araba della città denunciata da Fakhri Abu Diab, residente nel martoriato quartiere di Silwan a Gerusalemme Est e membro del Comitato Popolare di Al-Bustan: oltre 900mila dollari di sanzioni sono state fatte pagare alle famiglie dei bambini arrestati e detenuti negli ultimi nove mesi.
“La polizia rapisce dei bambini e impone loro il pagamento di multe accusandoli di aver tirato delle pietre ai militari – ha spiegato Abu Diab – Le corti israeliane stabiliscono sanzioni altissime e i genitori sono costretti a pagare per far liberare i propri figli”.
Solo nel 2011, Israele ha intascato ben 500mila shekel (circa 145mila dollari) dalle sanzioni pagate dalle famiglie di 100 minori palestinesi di Gerusalemme Est. Generalmente, ogni multa è pari a 5mila shekel. A questi si aggiungono un altro milione di shekel (300mila dollari) collezionati tra i familiari di 500 detenuti maggiorenni, che sono chiamati a pagare duemila shekel a testa per essere rilasciati.
Ma non basta: a 300 detenuti sono stati fatti pagare 200 shekel a testa, per un totale di 750mila shekel; a 52 detenuti 1500 shekel a testa, per un totale di 78mila shekel; ed infine mille shekel per 31 detenuti, per un totale di 31mila shekel.
Le agenzie riportano, intanto, l’arresto da parte della polizia israeliana di altri undici bambini. Sono finiti in manette ieri nel quartiere di Silwan accusati di aver tirato pietre e petardi contro l’insediamento ebraico illegale di Beit Yonatan. Tutti i minori arrestati hanno tra i quattordici e i diciassette anni e sono stati catturati dalla polizia che è penetrata nelle loro case strappandoli ai genitori.
Secondo l’associazione palestinese Addameer, che tutela i diritti dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, i bambini attualmente detenuti in Israele sono 340. La legge israeliana considera i palestinesi maggiorenni a partire dall’età di 16 anni, in aperta violazione della Convenzione sui Diritti del Bambino del 1989 che definisce “bambino” ogni essere umano che non abbia compiuto 18 anni. Una violazione ancora più odiosa se si pensa che una simile legge vale solo per la popolazione palestinese: gli israeliani sono considerati minori fino al compimento del 18° anno d’età.
Le casse israeliane si sono arricchite di 900mila dollari negli ultimi nove mesi grazie alle sanzioni e alle multe fatte pagare ai bambini palestinesi di Gerusalemme Est arrestati dall’esercito. Ieri, intanto, sono finiti in manette altri undici minori, arrestati nel quartiere di Silwan.
Un’escalation preoccupante quella delle detenzioni di minori palestinesi nella zona araba della città denunciata da Fakhri Abu Diab, residente nel martoriato quartiere di Silwan a Gerusalemme Est e membro del Comitato Popolare di Al-Bustan: oltre 900mila dollari di sanzioni sono state fatte pagare alle famiglie dei bambini arrestati e detenuti negli ultimi nove mesi.
“La polizia rapisce dei bambini e impone loro il pagamento di multe accusandoli di aver tirato delle pietre ai militari – ha spiegato Abu Diab – Le corti israeliane stabiliscono sanzioni altissime e i genitori sono costretti a pagare per far liberare i propri figli”.
Solo nel 2011, Israele ha intascato ben 500mila shekel (circa 145mila dollari) dalle sanzioni pagate dalle famiglie di 100 minori palestinesi di Gerusalemme Est. Generalmente, ogni multa è pari a 5mila shekel. A questi si aggiungono un altro milione di shekel (300mila dollari) collezionati tra i familiari di 500 detenuti maggiorenni, che sono chiamati a pagare duemila shekel a testa per essere rilasciati.
Ma non basta: a 300 detenuti sono stati fatti pagare 200 shekel a testa, per un totale di 750mila shekel; a 52 detenuti 1500 shekel a testa, per un totale di 78mila shekel; ed infine mille shekel per 31 detenuti, per un totale di 31mila shekel.
Le agenzie riportano, intanto, l’arresto da parte della polizia israeliana di altri undici bambini. Sono finiti in manette ieri nel quartiere di Silwan accusati di aver tirato pietre e petardi contro l’insediamento ebraico illegale di Beit Yonatan. Tutti i minori arrestati hanno tra i quattordici e i diciassette anni e sono stati catturati dalla polizia che è penetrata nelle loro case strappandoli ai genitori.
Secondo l’associazione palestinese Addameer, che tutela i diritti dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, i bambini attualmente detenuti in Israele sono 340. La legge israeliana considera i palestinesi maggiorenni a partire dall’età di 16 anni, in aperta violazione della Convenzione sui Diritti del Bambino del 1989 che definisce “bambino” ogni essere umano che non abbia compiuto 18 anni. Una violazione ancora più odiosa se si pensa che una simile legge vale solo per la popolazione palestinese: gli israeliani sono considerati minori fino al compimento del 18° anno d’età.
Freedom Flotilla, resta la certezza
Pubblicato da ab il 16/7/11 • Inserito nella categoria: Primo Piano
15/07/2011
Maria Elena Delia, tra i coordinatori del gruppo italiano, fa il punto della situazione
scritto per noi da
Maria Elena Delia*
Un mese fa cominciava la grande migrazione di quella a cui abbiamo deciso di attribuire ufficiale dignità di “nuova specie” comparsa miracolosamente su questo pianeta, quella dei Freedom Riders, vale a dire quelle centinaia di entusiasti e determinatissimi attivisti, giornalisti e rappresentanti di varia politica internazionale pronti, senza riserva alcuna, ad imbarcarsi sulle navi della Freedom Flotilla. Verso Gaza.
Un mese fa, lo ricordo bene, cominciava quell’esodo che da ogni parte del mondo li avrebbe visti sciamare su suolo ellenico. E che li avrebbe visti, poi, dover tristemente ripartire senza nemmeno aver potuto tentare di raggiungere Gaza. Le barche bloccate dal governo greco, manus longa di Israele, impossibilitate a muoversi, inchiodate da un fermo del tutto illegale, ma inamovibile e difeso a spada tratta dalla maggior parte dei governi europei, e non solo.
Oggi, ad un mese di distanza, sono già in troppi a chiedersi, a chiederci che fine abbia fatto la Flotilla, perché nessuno ne stia più parlando come, invece, si dovrebbe fare considerando la gravità di quanto accaduto e, soprattutto, quali saranno i prossimi passi.
Le nostre barche sono ancora in Grecia, la Stefano Chiarini a Corfù, la Tahrir (Canada) e la Gernika (Spagna) a Creta, i due cargo e le altre navi passeggeri ferme al Pireo (fatta eccezione per la Saoirse, la barca irlandese che fu sabotata proprio nelle stesse ore in cui la greca Juliano subiva la stessa sorte e che è attualmente ferma in Turchia).
La Gernika e la Chiarini hanno ricevuto proprio in queste ultime ore il via-libera amministrativo a muoversi. Dopo un esasperante braccio di ferro con le autorità portuali, fino ad ora impegnatissime ad individuare improbabili e bizzarre irregolarità (che i nostri capitani hanno candidamente ammesso di non aver mai neppure sentito nominare in decenni di onorata carriera), pare che alcuni di noi abbiano ora il permesso di lasciare la Grecia. Verso ovest, naturalmente. Permesso, naturalmente, tutto da verificare.
Nel frattempo altri, meno fortunati, restano ancora prigionieri. L’Audacity of Hope, ad esempio, la barca statunitense che per prima aveva tentato di divincolarsi dal laccio greco per essere, ahimè, subito fermata, è da settimane sequestrata al Pireo senza che neppure le venga fornita energia elettrica per rendere sopportabile la vita di coloro che, ancora a bordo a proteggere l’imbarcazione e attendere eventuali sviluppi, vivono senza luce né refrigerio in un’Atene che da settimane ha superato i 40 gradi.
La Juliano, dopo aver riparato i danni riportati dal sabotaggio, ha potuto muoversi per brevi tratti, sempre in acque greche e sempre seguita fedelmente dalle imbarcazioni della guardia costiera greca, per doversi fermare infine ad Heraklion e vedersi ritirare la bandiera di navigazione dal Presidente della Sierra Leone in persona.
Che la Flotilla sia stata solo momentaneamente fermata e che si ripartirà non è solo una speranza, né un’ipotesi. E’ una certezza. Che si dovranno identificare altri porti di partenza, anche. L’Europa, infatti, pare proprio non averci gradito. Mercoledì mattina alcuni rappresentanti del Coordinamento di Freedom Flotilla Italia sono stati invitati a partecipare ad uno strano incontro con Mikhail Kampanis, l’Ambasciatore Greco in Italia e con il suo Primo Consigliere. Il diplomatico non ha fatto alcun mistero di non aver per nulla apprezzato, come tutto il popolo greco del resto, la scelta del suo Paese e ha voluto condividere con noi un documento ufficiale interno in cui il governo greco dichiarava alle sue ambasciate che la Flotilla sarebbe stata fermata su “richiesta” non solo di Israele e Stati Uniti, ma anche di Francia, Italia e Turchia.
Mai ci era capitato di sentire un diplomatico esprimersi in questo modo nei confronti del proprio Paese, diventato ormai l’unico capro espiatorio in un groviglio politico e legale della cui complessità non sarebbe credibile, né serio, considerare la Grecia unica responsabile. E crediamo fermamente che questo bizzarro invito di Kampanis abbia avuto proprio questo scopo, un moto d’orgoglio e di rabbia a ribadirci che, sì, forse il lavoro sporco è stato tutto greco, ma che il mondo sapesse che dietro le quinte c’erano ben altri attori, alcuni dei quali, confessiamo, sorprendenti. Che la Turchia, ad esempio, avrebbe addirittura fatto parte del quintetto dei principali boicottatori di questa missione ci ha molto sorpreso e sarà certamente oggetto delle nostre prossime analisi.
Che la Francia, l’unica ad aver lasciato liberamente salpare dalle proprie coste una delle barche essendosi così guadagnata i nostri elogi e la nostra ammirazione, sia invece parte integrante dello stesso quintetto, è stata un’altra sorpresa. Ma la nostra perplessità è stata prontamente ridimensionata da Kampanis: nulla sarebbe stato più facile per il governo francese che lasciar partire la Dignitè dalla Corsica, garantendosi così la popolarità di un beau geste, sicuri che una volta arrivata in Grecia la barca non avrebbe fatto comunque molta strada.
E proprio la Dignitè è l’unico dei cuori pulsanti di questa Flotilla che potrebbe, forse, ancora soprendere. E sorprenderci.
15/07/2011
Maria Elena Delia, tra i coordinatori del gruppo italiano, fa il punto della situazione
scritto per noi da
Maria Elena Delia*
Un mese fa cominciava la grande migrazione di quella a cui abbiamo deciso di attribuire ufficiale dignità di “nuova specie” comparsa miracolosamente su questo pianeta, quella dei Freedom Riders, vale a dire quelle centinaia di entusiasti e determinatissimi attivisti, giornalisti e rappresentanti di varia politica internazionale pronti, senza riserva alcuna, ad imbarcarsi sulle navi della Freedom Flotilla. Verso Gaza.
Un mese fa, lo ricordo bene, cominciava quell’esodo che da ogni parte del mondo li avrebbe visti sciamare su suolo ellenico. E che li avrebbe visti, poi, dover tristemente ripartire senza nemmeno aver potuto tentare di raggiungere Gaza. Le barche bloccate dal governo greco, manus longa di Israele, impossibilitate a muoversi, inchiodate da un fermo del tutto illegale, ma inamovibile e difeso a spada tratta dalla maggior parte dei governi europei, e non solo.
Oggi, ad un mese di distanza, sono già in troppi a chiedersi, a chiederci che fine abbia fatto la Flotilla, perché nessuno ne stia più parlando come, invece, si dovrebbe fare considerando la gravità di quanto accaduto e, soprattutto, quali saranno i prossimi passi.
Le nostre barche sono ancora in Grecia, la Stefano Chiarini a Corfù, la Tahrir (Canada) e la Gernika (Spagna) a Creta, i due cargo e le altre navi passeggeri ferme al Pireo (fatta eccezione per la Saoirse, la barca irlandese che fu sabotata proprio nelle stesse ore in cui la greca Juliano subiva la stessa sorte e che è attualmente ferma in Turchia).
La Gernika e la Chiarini hanno ricevuto proprio in queste ultime ore il via-libera amministrativo a muoversi. Dopo un esasperante braccio di ferro con le autorità portuali, fino ad ora impegnatissime ad individuare improbabili e bizzarre irregolarità (che i nostri capitani hanno candidamente ammesso di non aver mai neppure sentito nominare in decenni di onorata carriera), pare che alcuni di noi abbiano ora il permesso di lasciare la Grecia. Verso ovest, naturalmente. Permesso, naturalmente, tutto da verificare.
Nel frattempo altri, meno fortunati, restano ancora prigionieri. L’Audacity of Hope, ad esempio, la barca statunitense che per prima aveva tentato di divincolarsi dal laccio greco per essere, ahimè, subito fermata, è da settimane sequestrata al Pireo senza che neppure le venga fornita energia elettrica per rendere sopportabile la vita di coloro che, ancora a bordo a proteggere l’imbarcazione e attendere eventuali sviluppi, vivono senza luce né refrigerio in un’Atene che da settimane ha superato i 40 gradi.
La Juliano, dopo aver riparato i danni riportati dal sabotaggio, ha potuto muoversi per brevi tratti, sempre in acque greche e sempre seguita fedelmente dalle imbarcazioni della guardia costiera greca, per doversi fermare infine ad Heraklion e vedersi ritirare la bandiera di navigazione dal Presidente della Sierra Leone in persona.
Che la Flotilla sia stata solo momentaneamente fermata e che si ripartirà non è solo una speranza, né un’ipotesi. E’ una certezza. Che si dovranno identificare altri porti di partenza, anche. L’Europa, infatti, pare proprio non averci gradito. Mercoledì mattina alcuni rappresentanti del Coordinamento di Freedom Flotilla Italia sono stati invitati a partecipare ad uno strano incontro con Mikhail Kampanis, l’Ambasciatore Greco in Italia e con il suo Primo Consigliere. Il diplomatico non ha fatto alcun mistero di non aver per nulla apprezzato, come tutto il popolo greco del resto, la scelta del suo Paese e ha voluto condividere con noi un documento ufficiale interno in cui il governo greco dichiarava alle sue ambasciate che la Flotilla sarebbe stata fermata su “richiesta” non solo di Israele e Stati Uniti, ma anche di Francia, Italia e Turchia.
Mai ci era capitato di sentire un diplomatico esprimersi in questo modo nei confronti del proprio Paese, diventato ormai l’unico capro espiatorio in un groviglio politico e legale della cui complessità non sarebbe credibile, né serio, considerare la Grecia unica responsabile. E crediamo fermamente che questo bizzarro invito di Kampanis abbia avuto proprio questo scopo, un moto d’orgoglio e di rabbia a ribadirci che, sì, forse il lavoro sporco è stato tutto greco, ma che il mondo sapesse che dietro le quinte c’erano ben altri attori, alcuni dei quali, confessiamo, sorprendenti. Che la Turchia, ad esempio, avrebbe addirittura fatto parte del quintetto dei principali boicottatori di questa missione ci ha molto sorpreso e sarà certamente oggetto delle nostre prossime analisi.
Che la Francia, l’unica ad aver lasciato liberamente salpare dalle proprie coste una delle barche essendosi così guadagnata i nostri elogi e la nostra ammirazione, sia invece parte integrante dello stesso quintetto, è stata un’altra sorpresa. Ma la nostra perplessità è stata prontamente ridimensionata da Kampanis: nulla sarebbe stato più facile per il governo francese che lasciar partire la Dignitè dalla Corsica, garantendosi così la popolarità di un beau geste, sicuri che una volta arrivata in Grecia la barca non avrebbe fatto comunque molta strada.
E proprio la Dignitè è l’unico dei cuori pulsanti di questa Flotilla che potrebbe, forse, ancora soprendere. E sorprenderci.
Spari su Oliva, la barca che monitora le violazioni dei diritti umani nel mare di Gaza
Oliva, la barca internazionale che naviga in acque palestinesi per monitorare le violazioni dei diritti umani in esse perpetrate, è stata attaccata due volte in due giorni dalla marina militare israeliana, mettendo in pericolo le vite stesse del suo equipaggio.
L'idea era partita quest'inverno da Vittorio e Nacho. Nacho veniva dalla Spagna, ed aveva conosciuto Vittorio a causa di un film su Gaza che aveva girato, lo aveva intervistato quando raccontava degli accompagnamenti dei pescatori palestinesi. Vittorio diceva che, con la presenza di internazionali nella barche palestinesi, con i pescatori erano riusciti a superare il limite delle 3 miglia marine imposto da Israele e la quantità di pesce era aumentata al punto da far calare drasticamente i prezzi al mercato. Hanno smesso quando i soldati li hanno portati via tutti, con i pescatori che accompagnavano, e sono stati tenuti sotto sequestro in una prigione israeliana prima di essere deportati nel loro paese d'origine.
Allora, appunto quest'inverno, Vittorio e Nacho si sono messi in testa che una barca internazionale, individuata chiaramente come “terza parte” posta in acque palestinesi per osservare e documentare quel che succedeva, sarebbe stato un aiuto concreto per i pescatori sotto minaccia israeliana. Il nome “Oliva” era stato scelto in una partecipata assemblea al Gallery, un bar all'aperto di Gaza city. Gli ultimi tre nomi rimasti erano: Tahrir (libertà), AlManara (faro) e, appunto, Oliva. Oliva ricorda l'amore dei palestinesi per la loro terra. Oliva ricorda gli alberi sradicati e l'olio, quell'olio che deve per forza essere il migliore del mondo perché porta in se tutta la forza ed il sangue di coloro che sono morti per difenderlo. La parola Oliva, poi, ha proprio un bel suono.
Intanto i pescatori continuavano a raccontare le loro storie. Come quella di Mustafa, Mahmoud e Hjazi, usciti il 5 di marzo durante una tempesta per pescare (“non possiamo permetterci di perdere un giorno di lavoro” - dicevano). La nave da guerra israeliana li ha raggiunti mentre si trovavano a 2,5 miglia dalla costa, ed ha cominciato e sparare alle loro reti, e loro continuavano a tirarle dentro la barchetta perché, dicevano, non potevano lasciarle li, e non è una novità che i soldati sparino alle reti. I soldati, però, hanno minacciato di sparare anche a loro se non si fossero fermati. Così hanno spento il motore, la nave da guerra ha compiuto qualche giro attorno alla piccola barca rischiando di farla capovolgere, i pescatori sono stati obbligati a denudarsi e buttarsi in mare per nuotare fino alla nave sionista, dove sono stati bendati, fatti inginocchiare sul freddo ponte in metallo e legati con strette cinghie alle mani. Ad Ashdod (il porto israeliano) sono stati interrogati, e componenti dello shin bet (servizio segreto israeliano) hanno chiesto loro dove si trovassero i diversi uffici del porto, loro hanno risposto in maniera evasiva. Di fronte a Mustafa, il più vecchio, è stato posto del denaro, molto denaro...gli è stato domandato se volesse lavorare per loro. Lui ha scosso la testa in segno di diniego. Sono stati rimandati a Gaza senza scarpe, entrando da Erez. Non hanno più rivisto la loro barca, con le reti e tutto il materiale.
Alaam ha 15 anni ed è stato sequestrato con suo padre Nasser mentre stava pescando. Nasser racconta: “La nostra barca è ridicolmente lenta, ha un motore di soli 8 cavalli. Così, mentre gli altri con cui eravamo sono riusciti a scappare, siamo rimasti da soli. [Le navi da guerra] ci hanno raggiunti e ci hanno ordinato di fermarci. Gli ho risposto che stavo andando a casa ed ho continuato ad andare indietro. Ci hanno ordinato nuovamente di fermarci, ma ho continuato a navigare verso la spiaggia... solo 4 giorni fa avevano sparato a mio figlio Yasser e non avevo nessuna voglia di obbedire loro. A quel punto hanno iniziato a sparare e non mi è rimasta altra alternativa che fermarmi”. Poi, come in tutte le volte, sono stati fatti spogliare, hanno nuotato fino alla nave israeliana e sono stati sottoposti ad interrogatorio ad Ashdod. La barca, come sempre, sequestrata. Alaam era stato colpito dai proiettili israeliani anche un anno prima, e ha mostrato le cicatrici sul petto.
La storia di Yasser non è molto diversa da queste o da moltissime (troppe) altre: ha un proiettile nel petto ben visibile dalle ecografie e, quando gli è stato chiesto se volesse lasciare un messaggio, ha affermato: “vogliamo il nostro mare indietro. Aiutateci a far si che il mare sia di nuovo aperto per noi!”.
Durante gli accordi di Oslo era stato stabilito che i pescatori palestinesi non potessero allontanarsi più di 20 miglia marine dalla costa di Gaza. Questo limite è stato abbassato unilateralmente da Israele prima alle 6 miglia marine e poi, dopo l'attacco terroristico israeliano denominato “piombo fuso”, fino alle 3 miglia marine. Questo limite è fatto rispettare dalle navi da guerra sioniste tramite l'uso di armi da fuoco. Per dare dei numeri, tra il 27 dicembre 2010 ed il 27 gennaio 2011 sono stati riportati 5 attacchi da parte della marina militare israeliana, che hanno portato al sequestro di 16 persone. Tra l'agosto 2008 ed il giugno 2009 55 palestinesi e 3 attivisti internazionali sono stati portati via dalle navi da guerra; nello stesso periodo sono state confiscate 26 navi e relativo materiale necessario per la pesca. Tutto ciò ha portato ad un aumento delle famiglie sotto la soglia di povertà presso i pescatori palestinesi: esse erano il 90% nel 2010 e il 50% nel 2008. Secondo il Palestinain Center for Human Rights (PCHR) le forze militari israeliane violano il diritto dei pescatori palestinesi alla vita, sicurezza ed incolumità. L'attacco diretto ai civili è una violazione delle legge umanitaria internazionale, ed è considerato crimine di guerra.
Lo scopo principale di Oliva è di sviluppare una terza parte nonviolenta che supporti lo stato di diritto in acque palestinesi e monitori le potenziali violazioni di diritti umani. Sul sito è possibile leggere: “CPSGAZA impiegherà un gruppo di pace di circa 10 internazionali formati per fare da osservatori in acque territoriali di Gaza. […] La squadra CPSGAZA si muoverà in una barca identificabile con il nome di “Oliva”. L'Oliva accompagnerà i pescatori di Gaza e riporterà e documenterà riguardo i diritti umani e le violazioni dello stato di diritto alle parti in gioco ed ai rappresentanti della comunità internazionale”. È un progetto pensato per durare a lungo, perché è sul lungo termine che si possono cambiare le ingiustizie. Il gruppo attivo in CPSGAZA è indipendente da qualsiasi partito politico, e rispettoso della cultura locale.
Oggi gli ideatori iniziali del progetto non si trovano più a Gaza, Vittorio è morto ammazzato e Nacho ha ricevuto il “denied entry” da Israele. Però la barca continua a salpare, grazie alle numerose associazioni che la supportano e grazie al coraggioso e paziente lavoro di un gruppo di attivisti ed attiviste.
Il 13 ed il 14 di luglio Oliva ha subito pericolosi attacchi da parte delle navi da guerra israeliane. Alle 12.05 di mercoledì 13 si trovavano a bordo un'attivista inglese, un danese, il capitano ed una giornalista. Ruqaya, inglese, racconta: “Quando ci hanno attaccato ci trovavamo a meno di 2 miglia marine dalla costa di Gaza. Li abbiamo visti sparare acqua ad alcune barche di pescatori così ci siamo diretti verso quell'area. Quando ci siamo avvicinat*, la nave da guerra ha abbandonato le barche dei pescatori e si è rivolta verso di noi. Ci hanno attaccat* per circa 10 minuti, seguendoci mentre noi ci dirigevano verso la costa ed infine rallentando quando ci trovavamo a circa un miglio da essa.”
Per quanto riguarda giovedì 14, alle 8:15 due navi da guerra si sono avvicinate ad Oliva mentre stava navigando entro le 3 miglia. Gli statunitensi a bordo ed il capitano sono stati attaccati con cannoni ad acqua che hanno riempito la nave di acqua fino al punto di farne rischiare l'affondamento o il capovolgimento. I due membri statunitensi dell'equipaggio ed il capitano sono stati salvati dalla nave e portati in un peschereccio palestinese che però ha continuato a subire le angherie dei soldati israeliani -che continuavano a girare attorno alla barca sparando acqua- per un'altra ora. Prima di allontanarsi la marina israeliana ha fatto sapere che se fossero tornati in mare avrebbe sparato sia ai pescatori palestinesi che a chi era li per monitorare le violazioni dei diritti umani.
Mi hanno scritto da Gaza dicendo che sono riusciti a recuperare la barca, e che continueranno con i quattro viaggi settimanali come era stato deciso all'inizio. Domani saranno di nuovo in mare...
I sionisti sono violenti e sadici, ma non sono stupidi. Se attaccano Oliva hanno le loro ragioni. E le loro ragioni mi sembrano oggi più palesi che mai: quello di cui loro hanno paura, quello che li mette in stato di angoscia, quello che può realmente mettere in crisi il sistema terroristico che hanno creato, è dire la verità su quel che stanno facendo. Raccontare i loro feroci crimini, fare in modo che si sappia cosa stanno facendo passare al popolo palesitinese. Perché talvolta accade che chi legge o ascolta riguardo le infamie di questa forza occupante prende posizione attivamente contro di esse, per esempio boicottando Israele. E questo fa paura ai sionisti: loro sono li perché il nostro mondo li autorizza a starci, perché non abbiamo preso posizione con sufficiente forza... Boicotta Israele.
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http://libera-palestina.blogspot.com/
L'idea era partita quest'inverno da Vittorio e Nacho. Nacho veniva dalla Spagna, ed aveva conosciuto Vittorio a causa di un film su Gaza che aveva girato, lo aveva intervistato quando raccontava degli accompagnamenti dei pescatori palestinesi. Vittorio diceva che, con la presenza di internazionali nella barche palestinesi, con i pescatori erano riusciti a superare il limite delle 3 miglia marine imposto da Israele e la quantità di pesce era aumentata al punto da far calare drasticamente i prezzi al mercato. Hanno smesso quando i soldati li hanno portati via tutti, con i pescatori che accompagnavano, e sono stati tenuti sotto sequestro in una prigione israeliana prima di essere deportati nel loro paese d'origine.
Allora, appunto quest'inverno, Vittorio e Nacho si sono messi in testa che una barca internazionale, individuata chiaramente come “terza parte” posta in acque palestinesi per osservare e documentare quel che succedeva, sarebbe stato un aiuto concreto per i pescatori sotto minaccia israeliana. Il nome “Oliva” era stato scelto in una partecipata assemblea al Gallery, un bar all'aperto di Gaza city. Gli ultimi tre nomi rimasti erano: Tahrir (libertà), AlManara (faro) e, appunto, Oliva. Oliva ricorda l'amore dei palestinesi per la loro terra. Oliva ricorda gli alberi sradicati e l'olio, quell'olio che deve per forza essere il migliore del mondo perché porta in se tutta la forza ed il sangue di coloro che sono morti per difenderlo. La parola Oliva, poi, ha proprio un bel suono.
Intanto i pescatori continuavano a raccontare le loro storie. Come quella di Mustafa, Mahmoud e Hjazi, usciti il 5 di marzo durante una tempesta per pescare (“non possiamo permetterci di perdere un giorno di lavoro” - dicevano). La nave da guerra israeliana li ha raggiunti mentre si trovavano a 2,5 miglia dalla costa, ed ha cominciato e sparare alle loro reti, e loro continuavano a tirarle dentro la barchetta perché, dicevano, non potevano lasciarle li, e non è una novità che i soldati sparino alle reti. I soldati, però, hanno minacciato di sparare anche a loro se non si fossero fermati. Così hanno spento il motore, la nave da guerra ha compiuto qualche giro attorno alla piccola barca rischiando di farla capovolgere, i pescatori sono stati obbligati a denudarsi e buttarsi in mare per nuotare fino alla nave sionista, dove sono stati bendati, fatti inginocchiare sul freddo ponte in metallo e legati con strette cinghie alle mani. Ad Ashdod (il porto israeliano) sono stati interrogati, e componenti dello shin bet (servizio segreto israeliano) hanno chiesto loro dove si trovassero i diversi uffici del porto, loro hanno risposto in maniera evasiva. Di fronte a Mustafa, il più vecchio, è stato posto del denaro, molto denaro...gli è stato domandato se volesse lavorare per loro. Lui ha scosso la testa in segno di diniego. Sono stati rimandati a Gaza senza scarpe, entrando da Erez. Non hanno più rivisto la loro barca, con le reti e tutto il materiale.
Alaam ha 15 anni ed è stato sequestrato con suo padre Nasser mentre stava pescando. Nasser racconta: “La nostra barca è ridicolmente lenta, ha un motore di soli 8 cavalli. Così, mentre gli altri con cui eravamo sono riusciti a scappare, siamo rimasti da soli. [Le navi da guerra] ci hanno raggiunti e ci hanno ordinato di fermarci. Gli ho risposto che stavo andando a casa ed ho continuato ad andare indietro. Ci hanno ordinato nuovamente di fermarci, ma ho continuato a navigare verso la spiaggia... solo 4 giorni fa avevano sparato a mio figlio Yasser e non avevo nessuna voglia di obbedire loro. A quel punto hanno iniziato a sparare e non mi è rimasta altra alternativa che fermarmi”. Poi, come in tutte le volte, sono stati fatti spogliare, hanno nuotato fino alla nave israeliana e sono stati sottoposti ad interrogatorio ad Ashdod. La barca, come sempre, sequestrata. Alaam era stato colpito dai proiettili israeliani anche un anno prima, e ha mostrato le cicatrici sul petto.
La storia di Yasser non è molto diversa da queste o da moltissime (troppe) altre: ha un proiettile nel petto ben visibile dalle ecografie e, quando gli è stato chiesto se volesse lasciare un messaggio, ha affermato: “vogliamo il nostro mare indietro. Aiutateci a far si che il mare sia di nuovo aperto per noi!”.
Durante gli accordi di Oslo era stato stabilito che i pescatori palestinesi non potessero allontanarsi più di 20 miglia marine dalla costa di Gaza. Questo limite è stato abbassato unilateralmente da Israele prima alle 6 miglia marine e poi, dopo l'attacco terroristico israeliano denominato “piombo fuso”, fino alle 3 miglia marine. Questo limite è fatto rispettare dalle navi da guerra sioniste tramite l'uso di armi da fuoco. Per dare dei numeri, tra il 27 dicembre 2010 ed il 27 gennaio 2011 sono stati riportati 5 attacchi da parte della marina militare israeliana, che hanno portato al sequestro di 16 persone. Tra l'agosto 2008 ed il giugno 2009 55 palestinesi e 3 attivisti internazionali sono stati portati via dalle navi da guerra; nello stesso periodo sono state confiscate 26 navi e relativo materiale necessario per la pesca. Tutto ciò ha portato ad un aumento delle famiglie sotto la soglia di povertà presso i pescatori palestinesi: esse erano il 90% nel 2010 e il 50% nel 2008. Secondo il Palestinain Center for Human Rights (PCHR) le forze militari israeliane violano il diritto dei pescatori palestinesi alla vita, sicurezza ed incolumità. L'attacco diretto ai civili è una violazione delle legge umanitaria internazionale, ed è considerato crimine di guerra.
Lo scopo principale di Oliva è di sviluppare una terza parte nonviolenta che supporti lo stato di diritto in acque palestinesi e monitori le potenziali violazioni di diritti umani. Sul sito è possibile leggere: “CPSGAZA impiegherà un gruppo di pace di circa 10 internazionali formati per fare da osservatori in acque territoriali di Gaza. […] La squadra CPSGAZA si muoverà in una barca identificabile con il nome di “Oliva”. L'Oliva accompagnerà i pescatori di Gaza e riporterà e documenterà riguardo i diritti umani e le violazioni dello stato di diritto alle parti in gioco ed ai rappresentanti della comunità internazionale”. È un progetto pensato per durare a lungo, perché è sul lungo termine che si possono cambiare le ingiustizie. Il gruppo attivo in CPSGAZA è indipendente da qualsiasi partito politico, e rispettoso della cultura locale.
Oggi gli ideatori iniziali del progetto non si trovano più a Gaza, Vittorio è morto ammazzato e Nacho ha ricevuto il “denied entry” da Israele. Però la barca continua a salpare, grazie alle numerose associazioni che la supportano e grazie al coraggioso e paziente lavoro di un gruppo di attivisti ed attiviste.
Il 13 ed il 14 di luglio Oliva ha subito pericolosi attacchi da parte delle navi da guerra israeliane. Alle 12.05 di mercoledì 13 si trovavano a bordo un'attivista inglese, un danese, il capitano ed una giornalista. Ruqaya, inglese, racconta: “Quando ci hanno attaccato ci trovavamo a meno di 2 miglia marine dalla costa di Gaza. Li abbiamo visti sparare acqua ad alcune barche di pescatori così ci siamo diretti verso quell'area. Quando ci siamo avvicinat*, la nave da guerra ha abbandonato le barche dei pescatori e si è rivolta verso di noi. Ci hanno attaccat* per circa 10 minuti, seguendoci mentre noi ci dirigevano verso la costa ed infine rallentando quando ci trovavamo a circa un miglio da essa.”
Per quanto riguarda giovedì 14, alle 8:15 due navi da guerra si sono avvicinate ad Oliva mentre stava navigando entro le 3 miglia. Gli statunitensi a bordo ed il capitano sono stati attaccati con cannoni ad acqua che hanno riempito la nave di acqua fino al punto di farne rischiare l'affondamento o il capovolgimento. I due membri statunitensi dell'equipaggio ed il capitano sono stati salvati dalla nave e portati in un peschereccio palestinese che però ha continuato a subire le angherie dei soldati israeliani -che continuavano a girare attorno alla barca sparando acqua- per un'altra ora. Prima di allontanarsi la marina israeliana ha fatto sapere che se fossero tornati in mare avrebbe sparato sia ai pescatori palestinesi che a chi era li per monitorare le violazioni dei diritti umani.
Mi hanno scritto da Gaza dicendo che sono riusciti a recuperare la barca, e che continueranno con i quattro viaggi settimanali come era stato deciso all'inizio. Domani saranno di nuovo in mare...
I sionisti sono violenti e sadici, ma non sono stupidi. Se attaccano Oliva hanno le loro ragioni. E le loro ragioni mi sembrano oggi più palesi che mai: quello di cui loro hanno paura, quello che li mette in stato di angoscia, quello che può realmente mettere in crisi il sistema terroristico che hanno creato, è dire la verità su quel che stanno facendo. Raccontare i loro feroci crimini, fare in modo che si sappia cosa stanno facendo passare al popolo palesitinese. Perché talvolta accade che chi legge o ascolta riguardo le infamie di questa forza occupante prende posizione attivamente contro di esse, per esempio boicottando Israele. E questo fa paura ai sionisti: loro sono li perché il nostro mondo li autorizza a starci, perché non abbiamo preso posizione con sufficiente forza... Boicotta Israele.
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http://libera-palestina.blogspot.com/
venerdì 15 luglio 2011
ANCORA RAID ISRAELIANI A CATENA SU GAZA
Gaza - InfoPal. Ieri sera, F-16 israeliani hanno attaccato la Striscia di Gaza lanciando una catena di raid a breve distanza l'uno dall'altro.
Un missile è stato sganciato contro la postazione "Bader" della brigate al-Qassam, braccio armato del Movimento di resistenza islamica Hamas, a sud-ovest di Gaza City.
Due ragazzi sono stati feriti ad est del quartiere di az-Zaytoun e sono stati condotti all'ospedale "al-Aqsa", a Deir al-Balah, al centro di Gaza.
Un secondo missile sganciato da un elicottero Apache ha colpito il sito a "al-Qadisiyah", anche questa è una postazione della resistenza palestinese, a ovest di Khan Younes, a sud del territorio assediato.
Qui sono rimasti feriti due bambini palestinesi, immediatamente soccorsi all'ospedale di Gaza "ash-Shifa".
Un terzo missile è stato lanciato a sud della Striscia di Gaza, contro Khan Younes e Rafah danneggiando alcuni tunnel.
L'aviazione israeliana ha continuato a sorvolare sulla Striscia di Gaza per lunghe ore, provocando il terrore tra la popolazione.
Altre fonti:
http://www1.wafa.ps/arabic/index.php?action=detail&id=109309
Un missile è stato sganciato contro la postazione "Bader" della brigate al-Qassam, braccio armato del Movimento di resistenza islamica Hamas, a sud-ovest di Gaza City.
Due ragazzi sono stati feriti ad est del quartiere di az-Zaytoun e sono stati condotti all'ospedale "al-Aqsa", a Deir al-Balah, al centro di Gaza.
Un secondo missile sganciato da un elicottero Apache ha colpito il sito a "al-Qadisiyah", anche questa è una postazione della resistenza palestinese, a ovest di Khan Younes, a sud del territorio assediato.
Qui sono rimasti feriti due bambini palestinesi, immediatamente soccorsi all'ospedale di Gaza "ash-Shifa".
Un terzo missile è stato lanciato a sud della Striscia di Gaza, contro Khan Younes e Rafah danneggiando alcuni tunnel.
L'aviazione israeliana ha continuato a sorvolare sulla Striscia di Gaza per lunghe ore, provocando il terrore tra la popolazione.
Altre fonti:
http://www1.wafa.ps/arabic/index.php?action=detail&id=109309
Dal mio libro "Gabbie" uscito nel 2009
MUSEO DELLA TOLLERANZA
Malgrado le numerose proteste, perfino da parte di parlamentari del Likud, la costruzione del museo della tolleranza, sull'antico cimitero mussulmano di Gerusalemme era stata ormai decisa. Gli operai lavoravano alacremente continuando a dissotterrare gli scheletri, tra quei mucchi d'ossa chissà, forse vi erano i resti degli amici di Maometto. Il cimitero risaliva a mille anni fa. Alcune famiglie palestinesi avevano perfino avviato una battaglia legale per interrompere i lavori. Anche associazioni islamiche avevano protestato presso la corte suprema israeliana, ma nulla era servito a fermare lo scempio. Il museo fu costruito e i lavori ultimati nel più completo silenzio. Venne così il giorno dell'inaugurazione.
Un pubblico numeroso e composito affollò ben presto la grande sala. Quando finirono fruscii, chiacchiericcio e spostamenti di sedie e tutti si furono accomodati, comparve la personalità incaricata di pronunciare il discorso. C'erano anche il rappresentante dell'Autorità israeliana per le antichità e un famoso archeologo. Ma prima che l'oratore dicesse una sola parola accadde qualcosa di strano. Un lungo corteo di strani personaggi stava avanzando nella sala. Erano avvolti in una specie di lenzuolo decrepito. Non facevano rumore camminando, al pari di corpi senza peso. Per qualche minuto il silenzio fu totale. Poi, lentamente uno di loro si staccò dal gruppo e avanzò fino al palco, il pubblico assisteva col cuore sospeso.
-Chi è quest'uomo? Come è entrato qui?-
Tuonò l'aspirante oratore. Un poliziotto si avvicinò all'intruso e cercò di afferrarlo e buttarlo fuori, ma costui lo ignorò e si avvicinò di più rivolgendosi ai tre sul palco
-Come potete parlare di tolleranza voi che ci avete cacciati dalle nostre case e ora volete cacciarci anche dai nostri cimiteri…-
-Vuoi vedere che è una manifestazione politica?- Suggerì il giovane Oren all'orecchio della sua ragazza
-A me sembra di più una manifestazione di Purim- rispose questa mentre le sfuggiva un risolino divertito. Le tre personalità sul palco erano inviperite, arrivarono altri poliziotti di rinforzo e circondarono l'intruso, uno di loro disse minaccioso
-Fuori i documenti!- l'uomo rispose
-Non mi fate più paura con i vostri documenti, non ne ho bisogno, questa è casa mia.-
Ora non lo è più, ora è casa nostra- rispose l'archeologo.
Avete cacciato via la nostra gente ed ora volete cancellarne anche la memoria!- Accusò l'arabo, i tre ora lo avevano così vicino che potevano sentire l'odore della terra smossa.
Ma chi diavolo è?- Chiese il politico che doveva parlare. Nel pubblico cominciava a sopravvenire un certo malessere, un disagio ancora senza nome.
Dev'essere uno di quei morti che abbiamo sloggiato- rispose l'archeologo.
Siete fastidiosi anche da morti- sbraitò il portavoce dell'autorità israeliana per le antichità.
In Israele ci sono antichità dappertutto, se non costruissimo su vecchi cimiteri, non potremmo mai costruire-
Allora perché non costruite sui vostri?-
Nel pubblico serpeggiava ora una certa paura. Era chiaro che quegli uomini erano dei sovversivi pericolosi. Per di più mentre andava avanti il battibecco, altri ne erano arrivati, tutti abbigliati nello stesso modo e già erano in numero superiore alla gente del pubblico.
Io me ne vado- disse Yael alla sua amica Rivka che guardava il palco con la bocca aperta per lo stupore -Me ne vado, non mi piace, vedrai che hanno una bomba-
Di cosa ti lamenti?- Stava dicendo adesso il sindaco che era giunto nel frattempo
E' tutto regolare. La municipalità di Gerusalemme ha comprato il cimitero dal custode della proprietà degli assenti-
Noi non siamo assenti. Noi siamo qui da secoli, con quale diritto vendete e comprate il nostro luogo di riposo?-
La lunga processione intanto aveva avuto termine e i morti si erano seduti per terra come se volessero fare un sit-in.
Chi è questo matto?- Chiese il sindaco. L'archeologo gli disse piano all'orecchio
Non si preoccupi, è solo un morto-
Avete costruito un museo della tolleranza sopra le nostre ossa, come quando parlate di democrazia mentre torturate…-
Il sindaco stava perdendo la pazienza
So bene che non potete capire la tolleranza voi che siete un popolo di terroristi!- Disse la parola -terroristi- quasi gridando e con un tale accento che un brivido di paura attraversò il pubblico già in parte decimato.
Siete voi che vivete prigionieri nella gabbia del vostro odio, noi vogliamo solo riposare in pace-
Riposerete, riposerete- aggiunse il politico -i resti non li abbiamo buttati, li porteremo da un'altra parte dove saranno seppelliti-
-Non vi accontentate di cacciare le persone, volete deportare anche le ossa…-
-Tu non capisci- riprese il sindaco -tu non capisci l'importanza della cosa. Il museo è stato costruito per il centro Wiesenthal ed ha un alto valore etico. Ma di cosa sto a parlare con te…- e fece un gesto spazientito.
Ma è veramente morta tutta quella gente lì seduta?- Chiese con una certa apprensione la piccola Ilana a sua madre
Ma no- rispose questa, ma anche lei cominciava a spaventarsi -ma no, è una performance, non vedi?-
-Adesso basta! E' troppo! Morti o non morti ve ne dovete andare. Non si è mai visto un branco di straccioni tanto molesti!-
-Non possiamo. Questa è la nostra casa per sempre-.
Il sindaco telefonò con il suo cellulare, mentre qualcuno avvertiva nel microfono che il discorso di inaugurazione era rimandato, ma il pubblico, a parte qualche coraggioso o qualche curioso di vedere come finiva la faccenda, si era già defilato. Il portavoce dei morti si era frattanto seduto con gli altri.
-E' inutile parlare con loro, Amhed- disse uno dei morti mettendogli affettuosamente la mano sulla spalla. In pochi minuti la sala del museo fu piena di poliziotti che si buttarono sugli uomini seduti per sbatterli fuori, ma costoro non reagirono nemmeno alle manganellate, come se fossero acqua fresca e quando cercarono di afferrarli e trascinarli fuori di peso essi gli scivolavano di mano come anguille.
-Insomma, sparate!- Tuonò il sindaco. La polizia sparò e le pareti furono crivellate di colpi mentre il sit-in continuava in silenzio, imperterrito.
-Non si è mai vista una cosa del genere!- Gridò un ufficiale, ci vorrebbero delle granate-
-Ebbene prendetele, che aspettate!- Gridò il politico. Ormai erano così inveleniti che non potevano più fermarsi se non quando quei morti fossero stati definitivamente distrutti. Il sindaco aveva chiamato l'esercito il quale aveva provveduto a circoscrivere il museo dichiarandolo zona militare e a sloggiare tutti i curiosi.
-Non possono sfuggirci- dichiarò un ufficiale.
-Uccideteli tutti!- Gridò il sindaco rosso in faccia
-Non ci aveva detto che erano morti?-
-Morti o vivi, distruggeteli!-
L'esercito sparò all'interno con la mitragliatrice e poi con il cannone, dopo un po’ uno dei morti si fece alla soglia protestando
-Quando finirete di disturbare il nostro riposo?-
Le pareti del museo, che era costato 150 milioni di dollari, erano piene di buchi grandi come finestre, l'ufficiale disse
Non riusciremo mai ad aver ragione di loro con questi mezzi, ci vorrebbe il fuoco!-
Incendiarono l'edificio del museo e tra le fiamme attraverso i buchi aperti dalle palle di cannone poterono vedere il gruppo dei morti seduti in cerchio che meditavano o pregavano con un massabeh tra le mani.
-Non abbiamo altra scelta- disse l'ufficiale ordinando al soldato nell'elicottero di sganciare una bomba di una tonnellata sull'edificio.
-Non può esserci rimasto nulla là sotto, signor sindaco- disse l'ufficiale al primo cittadino che ora guardava allibito e smarrito le macerie del museo della tolleranza.
Più tardi vennero le ruspe e le macerie furono portate via, per un po’ non si parlò più del museo della tolleranza, chi aveva ancora voglia di costruire qualcosa su quella terra stregata?
-Finalmente un po’ di pace- disse Saleh all'amico Amhed.
-Già,- rispose costui, -ma dove diavolo saranno finite le mie ossa?-
Malgrado le numerose proteste, perfino da parte di parlamentari del Likud, la costruzione del museo della tolleranza, sull'antico cimitero mussulmano di Gerusalemme era stata ormai decisa. Gli operai lavoravano alacremente continuando a dissotterrare gli scheletri, tra quei mucchi d'ossa chissà, forse vi erano i resti degli amici di Maometto. Il cimitero risaliva a mille anni fa. Alcune famiglie palestinesi avevano perfino avviato una battaglia legale per interrompere i lavori. Anche associazioni islamiche avevano protestato presso la corte suprema israeliana, ma nulla era servito a fermare lo scempio. Il museo fu costruito e i lavori ultimati nel più completo silenzio. Venne così il giorno dell'inaugurazione.
Un pubblico numeroso e composito affollò ben presto la grande sala. Quando finirono fruscii, chiacchiericcio e spostamenti di sedie e tutti si furono accomodati, comparve la personalità incaricata di pronunciare il discorso. C'erano anche il rappresentante dell'Autorità israeliana per le antichità e un famoso archeologo. Ma prima che l'oratore dicesse una sola parola accadde qualcosa di strano. Un lungo corteo di strani personaggi stava avanzando nella sala. Erano avvolti in una specie di lenzuolo decrepito. Non facevano rumore camminando, al pari di corpi senza peso. Per qualche minuto il silenzio fu totale. Poi, lentamente uno di loro si staccò dal gruppo e avanzò fino al palco, il pubblico assisteva col cuore sospeso.
-Chi è quest'uomo? Come è entrato qui?-
Tuonò l'aspirante oratore. Un poliziotto si avvicinò all'intruso e cercò di afferrarlo e buttarlo fuori, ma costui lo ignorò e si avvicinò di più rivolgendosi ai tre sul palco
-Come potete parlare di tolleranza voi che ci avete cacciati dalle nostre case e ora volete cacciarci anche dai nostri cimiteri…-
-Vuoi vedere che è una manifestazione politica?- Suggerì il giovane Oren all'orecchio della sua ragazza
-A me sembra di più una manifestazione di Purim- rispose questa mentre le sfuggiva un risolino divertito. Le tre personalità sul palco erano inviperite, arrivarono altri poliziotti di rinforzo e circondarono l'intruso, uno di loro disse minaccioso
-Fuori i documenti!- l'uomo rispose
-Non mi fate più paura con i vostri documenti, non ne ho bisogno, questa è casa mia.-
Ora non lo è più, ora è casa nostra- rispose l'archeologo.
Avete cacciato via la nostra gente ed ora volete cancellarne anche la memoria!- Accusò l'arabo, i tre ora lo avevano così vicino che potevano sentire l'odore della terra smossa.
Ma chi diavolo è?- Chiese il politico che doveva parlare. Nel pubblico cominciava a sopravvenire un certo malessere, un disagio ancora senza nome.
Dev'essere uno di quei morti che abbiamo sloggiato- rispose l'archeologo.
Siete fastidiosi anche da morti- sbraitò il portavoce dell'autorità israeliana per le antichità.
In Israele ci sono antichità dappertutto, se non costruissimo su vecchi cimiteri, non potremmo mai costruire-
Allora perché non costruite sui vostri?-
Nel pubblico serpeggiava ora una certa paura. Era chiaro che quegli uomini erano dei sovversivi pericolosi. Per di più mentre andava avanti il battibecco, altri ne erano arrivati, tutti abbigliati nello stesso modo e già erano in numero superiore alla gente del pubblico.
Io me ne vado- disse Yael alla sua amica Rivka che guardava il palco con la bocca aperta per lo stupore -Me ne vado, non mi piace, vedrai che hanno una bomba-
Di cosa ti lamenti?- Stava dicendo adesso il sindaco che era giunto nel frattempo
E' tutto regolare. La municipalità di Gerusalemme ha comprato il cimitero dal custode della proprietà degli assenti-
Noi non siamo assenti. Noi siamo qui da secoli, con quale diritto vendete e comprate il nostro luogo di riposo?-
La lunga processione intanto aveva avuto termine e i morti si erano seduti per terra come se volessero fare un sit-in.
Chi è questo matto?- Chiese il sindaco. L'archeologo gli disse piano all'orecchio
Non si preoccupi, è solo un morto-
Avete costruito un museo della tolleranza sopra le nostre ossa, come quando parlate di democrazia mentre torturate…-
Il sindaco stava perdendo la pazienza
So bene che non potete capire la tolleranza voi che siete un popolo di terroristi!- Disse la parola -terroristi- quasi gridando e con un tale accento che un brivido di paura attraversò il pubblico già in parte decimato.
Siete voi che vivete prigionieri nella gabbia del vostro odio, noi vogliamo solo riposare in pace-
Riposerete, riposerete- aggiunse il politico -i resti non li abbiamo buttati, li porteremo da un'altra parte dove saranno seppelliti-
-Non vi accontentate di cacciare le persone, volete deportare anche le ossa…-
-Tu non capisci- riprese il sindaco -tu non capisci l'importanza della cosa. Il museo è stato costruito per il centro Wiesenthal ed ha un alto valore etico. Ma di cosa sto a parlare con te…- e fece un gesto spazientito.
Ma è veramente morta tutta quella gente lì seduta?- Chiese con una certa apprensione la piccola Ilana a sua madre
Ma no- rispose questa, ma anche lei cominciava a spaventarsi -ma no, è una performance, non vedi?-
-Adesso basta! E' troppo! Morti o non morti ve ne dovete andare. Non si è mai visto un branco di straccioni tanto molesti!-
-Non possiamo. Questa è la nostra casa per sempre-.
Il sindaco telefonò con il suo cellulare, mentre qualcuno avvertiva nel microfono che il discorso di inaugurazione era rimandato, ma il pubblico, a parte qualche coraggioso o qualche curioso di vedere come finiva la faccenda, si era già defilato. Il portavoce dei morti si era frattanto seduto con gli altri.
-E' inutile parlare con loro, Amhed- disse uno dei morti mettendogli affettuosamente la mano sulla spalla. In pochi minuti la sala del museo fu piena di poliziotti che si buttarono sugli uomini seduti per sbatterli fuori, ma costoro non reagirono nemmeno alle manganellate, come se fossero acqua fresca e quando cercarono di afferrarli e trascinarli fuori di peso essi gli scivolavano di mano come anguille.
-Insomma, sparate!- Tuonò il sindaco. La polizia sparò e le pareti furono crivellate di colpi mentre il sit-in continuava in silenzio, imperterrito.
-Non si è mai vista una cosa del genere!- Gridò un ufficiale, ci vorrebbero delle granate-
-Ebbene prendetele, che aspettate!- Gridò il politico. Ormai erano così inveleniti che non potevano più fermarsi se non quando quei morti fossero stati definitivamente distrutti. Il sindaco aveva chiamato l'esercito il quale aveva provveduto a circoscrivere il museo dichiarandolo zona militare e a sloggiare tutti i curiosi.
-Non possono sfuggirci- dichiarò un ufficiale.
-Uccideteli tutti!- Gridò il sindaco rosso in faccia
-Non ci aveva detto che erano morti?-
-Morti o vivi, distruggeteli!-
L'esercito sparò all'interno con la mitragliatrice e poi con il cannone, dopo un po’ uno dei morti si fece alla soglia protestando
-Quando finirete di disturbare il nostro riposo?-
Le pareti del museo, che era costato 150 milioni di dollari, erano piene di buchi grandi come finestre, l'ufficiale disse
Non riusciremo mai ad aver ragione di loro con questi mezzi, ci vorrebbe il fuoco!-
Incendiarono l'edificio del museo e tra le fiamme attraverso i buchi aperti dalle palle di cannone poterono vedere il gruppo dei morti seduti in cerchio che meditavano o pregavano con un massabeh tra le mani.
-Non abbiamo altra scelta- disse l'ufficiale ordinando al soldato nell'elicottero di sganciare una bomba di una tonnellata sull'edificio.
-Non può esserci rimasto nulla là sotto, signor sindaco- disse l'ufficiale al primo cittadino che ora guardava allibito e smarrito le macerie del museo della tolleranza.
Più tardi vennero le ruspe e le macerie furono portate via, per un po’ non si parlò più del museo della tolleranza, chi aveva ancora voglia di costruire qualcosa su quella terra stregata?
-Finalmente un po’ di pace- disse Saleh all'amico Amhed.
-Già,- rispose costui, -ma dove diavolo saranno finite le mie ossa?-
ANCORA CON IL MUSEO DELLA (IN)TOLLERANZA!
Il Museo della (in)Tolleranza israeliano sorgerà sopra un cimitero musulmano
di Emma Mancini
Il Ministero dell’Interno israeliano e la Municipalità di Gerusalemme hanno dato ufficialmente il via ai lavori per la costruzione del controverso “Museo della Tolleranza”, che sorgerà sopra l’antico cimitero musulmano Mamun Allah (Mamilla per gli ebrei).
Il progetto del Museo della Tolleranza di Gerusalemme
Il Museo, il cui progetto si deve al Simon Wiesenthal Center e che si rifà ai musei della Tolleranza di Los Angeles e New York, ha ricevuto l’ok finale dalla Commissione per la Pianificazione e la Costruzione del Ministero dell’Interno, dopo che il mese scorso la Municipalità aveva approvato il piano finale. Accanto al Museo della Tolleranza verranno costruiti una piazza, un anfiteatro, uno show room e altre attività commerciali. Che andranno a cancellare uno dei luoghi della memoria storica e religiosa della popolazione araba della città, un cimitero risalente al dodicesimo secolo e dove sono sepolte importanti personalità religiose per la cultura musulmana. L’edificio che ospiterà il Museo sarà alto sei piani, di cui tre sotterranei, per un costo totale pari a cento milioni di dollari.
Per completare i lavori il Comune impiegherà sei anni, durante i quali quello che resta delle centinaia di corpi sepolti nel cimitero verranno spostati in località ancora non note. Dure critiche da parte dei leader religiosi musulmani della città: da tempo è partita una battaglia contro la costruzione del Museo e la cancellazione del cimitero. A sostenerla associazioni palestinesi e gruppi israeliani che hanno presentato in tribunale una petizione per fermare i lavori. La corte ha ricettato ogni argomentazione, sostenendo che il sito è stato sconsacrato decenni fa. Nel 2008 è intervenuta anche la Corte Suprema israeliana: il sito non è considerabile un cimitero dagli anni Sessanta, quindi via ai lavori.
“Il progetto presenta un’architettura modesta e contribuisce alla creazione di uno spazio pubblico che coprirà l’area a livello locale e urbano”, ha detto in una dichiarazione ufficiale il ministro dell’Interno. “I permessi per i lavori sono stati approvati da tempo – ha detto all’agenzia di stampa AFP la portavoce della Commissione, Efrat Orbach – Ieri è stato semplicemente dato il via alla costruzione vera e propria”. Non si è fatta attendere la levata di scudi da parte della popolazione palestinese di Gerusalemme e dei familiari di alcune persone sepolte nel cimitero, che hanno accusato la Municipalità di oltraggiarne la memoria: costruire un Museo della Tolleranza sopra un cimitero appare a dir poco ipocrita.
A combattere il progetto anche il Centro Studi di Gerusalemme il cui direttore Huda Al-Imam ha da subito annunciato che attivisti palestinesi e israeliani daranno battaglia fino alla cancellazione del progetto: “Stiamo facendo il possibile non solo facendo pressioni sulle Nazioni Unite ma anche intervenendo presso le corti di giustizia israeliani e quelle internazionali”. “Il cimitero di Mamun Allah – ha continuato – fa parte del patrimonio culturale palestinese e dovrebbe essere un luogo protetto. Gli israeliani dovrebbero rispettare la cultura e la dignità umana e non costruire un museo della tolleranza sopra un luogo tanto importante per i palestinesi così da cancellarne l’identità”.
di Emma Mancini
Il Ministero dell’Interno israeliano e la Municipalità di Gerusalemme hanno dato ufficialmente il via ai lavori per la costruzione del controverso “Museo della Tolleranza”, che sorgerà sopra l’antico cimitero musulmano Mamun Allah (Mamilla per gli ebrei).
Il progetto del Museo della Tolleranza di Gerusalemme
Il Museo, il cui progetto si deve al Simon Wiesenthal Center e che si rifà ai musei della Tolleranza di Los Angeles e New York, ha ricevuto l’ok finale dalla Commissione per la Pianificazione e la Costruzione del Ministero dell’Interno, dopo che il mese scorso la Municipalità aveva approvato il piano finale. Accanto al Museo della Tolleranza verranno costruiti una piazza, un anfiteatro, uno show room e altre attività commerciali. Che andranno a cancellare uno dei luoghi della memoria storica e religiosa della popolazione araba della città, un cimitero risalente al dodicesimo secolo e dove sono sepolte importanti personalità religiose per la cultura musulmana. L’edificio che ospiterà il Museo sarà alto sei piani, di cui tre sotterranei, per un costo totale pari a cento milioni di dollari.
Per completare i lavori il Comune impiegherà sei anni, durante i quali quello che resta delle centinaia di corpi sepolti nel cimitero verranno spostati in località ancora non note. Dure critiche da parte dei leader religiosi musulmani della città: da tempo è partita una battaglia contro la costruzione del Museo e la cancellazione del cimitero. A sostenerla associazioni palestinesi e gruppi israeliani che hanno presentato in tribunale una petizione per fermare i lavori. La corte ha ricettato ogni argomentazione, sostenendo che il sito è stato sconsacrato decenni fa. Nel 2008 è intervenuta anche la Corte Suprema israeliana: il sito non è considerabile un cimitero dagli anni Sessanta, quindi via ai lavori.
“Il progetto presenta un’architettura modesta e contribuisce alla creazione di uno spazio pubblico che coprirà l’area a livello locale e urbano”, ha detto in una dichiarazione ufficiale il ministro dell’Interno. “I permessi per i lavori sono stati approvati da tempo – ha detto all’agenzia di stampa AFP la portavoce della Commissione, Efrat Orbach – Ieri è stato semplicemente dato il via alla costruzione vera e propria”. Non si è fatta attendere la levata di scudi da parte della popolazione palestinese di Gerusalemme e dei familiari di alcune persone sepolte nel cimitero, che hanno accusato la Municipalità di oltraggiarne la memoria: costruire un Museo della Tolleranza sopra un cimitero appare a dir poco ipocrita.
A combattere il progetto anche il Centro Studi di Gerusalemme il cui direttore Huda Al-Imam ha da subito annunciato che attivisti palestinesi e israeliani daranno battaglia fino alla cancellazione del progetto: “Stiamo facendo il possibile non solo facendo pressioni sulle Nazioni Unite ma anche intervenendo presso le corti di giustizia israeliani e quelle internazionali”. “Il cimitero di Mamun Allah – ha continuato – fa parte del patrimonio culturale palestinese e dovrebbe essere un luogo protetto. Gli israeliani dovrebbero rispettare la cultura e la dignità umana e non costruire un museo della tolleranza sopra un luogo tanto importante per i palestinesi così da cancellarne l’identità”.
giovedì 14 luglio 2011
34 professori di diritto israeliani firmano petizione contro la legge anti-BDS approvata dalla Knesset
Giovedì (13 luglio) trentaquattro professori di legge hanno firmato una petizione criticando nettamente la Legge contro il Boicottaggio passata alla Knesset lunedì scorso.
La legge permette ai cittadini di chiamare in giudizio le organizzazioni e le persone che si appellano al boicottaggio contro Israele o parti di Israele, e vieta al governo di finanziare tali organizzazioni.
"Abbiamo letto la legge attentamente, e siamo convinti senza alcun dubbio che sia incostituzionale e un colpo mortale alla libertà di espressione e al diritto di protestare in Israele", dichiarano nel comunicato.
Il Professor Alon Harel dell'Università Ebraica ha dato il via alla petizione con l'intenzione di inoltrarla al Ministro della Giustizia Yehuda Weinstein.
La legge permette ai cittadini di chiamare in giudizio le organizzazioni e le persone che si appellano al boicottaggio contro Israele o parti di Israele, e vieta al governo di finanziare tali organizzazioni.
"Abbiamo letto la legge attentamente, e siamo convinti senza alcun dubbio che sia incostituzionale e un colpo mortale alla libertà di espressione e al diritto di protestare in Israele", dichiarano nel comunicato.
Il Professor Alon Harel dell'Università Ebraica ha dato il via alla petizione con l'intenzione di inoltrarla al Ministro della Giustizia Yehuda Weinstein.
Abir Aramin è stata colpita in testa ma nessuno le ha sparato.
.
Nurit Peled-Elhanan
12 Luglio 2011
Domenica 10 luglio 2011, il libro “La Torah del Re” [1] ha ricevuto il sigillo legale di approgazione, 8 Tammuz, dall'Alta Corte d'Israele che attesta che la bimba Abir Aramin, 10 anni, sparata in testa tre anni fa ad Anata, fu colpita da una pallottola proveniente da un'arma sconosciuta di un soldato o un poliziotto sconosciuto. Il proiettile trovato sotto il suo corpicino non ha provenienza, e si può anche chiudere l'indagine.
In altre parole, l'Alta Corte ha autorizzato lo spargimento di sangue di tutte le ragazze Palestinesi e ha mandato un messaggio chiaro ai soldati/poliziotti delle Forze di Occupazione Israeliane – l'omicidio delle bimbe Palestinesi, soprattutto quelle che stanno comprando caramelle in un chiosco vicino la loro scuola alle nove del mattino, non è un crimine. Nessuno è stato punito e nessuno sarà punito. Le dichiarazioni degli accusatori, cioè, dei genitori, dei testimoni oculari, dell'organizzazione Yesh Din, della prova e dell'evidenza – non hanno sortito effetti alle orecchie dei giudici [donna]. Sono anche loro madri?
Questa sentenza è l'apice di una campagna evidentemente pianificata in modo fantastico e ben oliata per permettere l'omicidio dei Palestinesi protratto da decenni sui giornali, nei discorsi politici, nella letteratura e nelle canzoni, nei piani militari, nella formulazione del codice etico militare e nei libri di testo che spiegano quanto ogni massacro dei Palestinesi fin dal 1948 sia stato buono per gli Ebrei, per la democrazia ebraica e per la conservazione della maggioranza ebraica nello Stato/Terra di Israele nel lungo, breve e medio periodo.
Questa campagna ha ottenuto maggior impulso a partire dal massacro di piombo fuso e fosforo a Gaza due anni fa. Da quel momento chiunque ha trovato giustificazioni e razionalità per gli omicidi dei Palestinesi. Ufficiali militari in pensione e ufficiali in servizio si presentano agli scolari e agli studenti dei programmi di preparazione militare, o persone che vogliono dormire con la coscienza a posto, e spiegano loro che l'esercito più etico nel mondo non fa nulla senza giustificazioni morali-etiche-”di valore”, così se i bambini Palestinesi sono armati durante un'operazione militare giustificata-morale-etica, piena di valori e di moralità, allora era certamente il male minore, una ingiustizia necessaria, schegge, imposto dalle circostanze, una necessità che non va condannata – non va mai condannata.
Perché l'omicidio dei Palestinesi viene sempre fatto in nome della legge – internazionale o nazionale, o nel nome delle leggi della Torah, nel nome dei sublimi valori della preservazione della vita umana non-Palestinese, nel nome della Guerra del Terrore, adempimenti militari, il principale deterrente, che è sempre giustificato e spiegato con parole che non includono la componente umana. La Morte dei Palestinesi è un bersaglio, un obiettivo, un “settore”, un'operazione, un'azione, una procedura.
E infatti i giudici [donna] dell'Alta Corte – sono madri anche loro? - non hanno condannato l'omicidio, né hanno stabilito punizioni per i soldati che hanno tirato fuori un fucile da un mezzo blindato e hanno mirato alla nuca della bambina che stava comprando caramelle al chiosco con una mano e che teneva la sorella con l'altra mano, e hanno sparato con precisione, un colpo che ha lasciato una mano sospesa, che teneva la mano di Arin, e il resto del corpo di Abir disteso in una strada vuota e sporca. Non hanno condannato il gesto o l'istanza di cui i soldati o la polizia (dal massacro di Kfar Qasim [2] l'IDF ha sempre sottolineato che i componenti della Guardia di Frontiera sono poliziotti, non soldati) sono accusati ad ogni processo di ogni tipo.
Non hanno condannato gli assassini, né hanno espresso compassione per la famiglia di Abir. Le famiglie Palestinesi non provano dolore – mai, e quindi non è necessario condividere il loro dolore. Hanno troppi figli per provare dolore per la perdita di uno dei loro figli.
E per questa ragione dobbiamo chiedere la fine immediata delle vessazioni del Rabbino Elitzur e degli altri rabbini che hanno contribuito alla stesura del libro “Torah ha-Melech” dove viene esposto, utilizzando le sacre scritture e la Hlacha Ebraica, perché i bambini non-Ebrei debbano essere uccisi senza rimpianti o rimorsi, per il bene della nazione Ebraica, e coloro che predicano alle uscite come agli incontri organizzati con i soldati, nelle scuole e nei giornali, a favore dell'omicidio dei bambini Palestinesi. Le vessazioni/molestie dei rabbini potrebbero essere interpretate, Dio non voglia, come razzismo o discriminazione, dal momento che l'Alta Corte ha decretato che il loro predicare è lecito (kosher). Non che abbiano bisogno di una tale certificazione.
E l'unica consolazione che resta per chi di noi l'ha conosciuta (Abir), e sono addolorati per la sua morte e del dolore dei suoi fratelli, sorelle e genitori, è che Dio vendicherà il suo sangue.
La Prof.ssa Nurit Peled-Elhanan è la figlia dell'ex MK Matti Peled, moglie di Rami, madre di Smadar uccisa il 4 settembre 1997 durante un attacco ad un centro commerciale pedonale a Gerusalemme.
Note del traduttore:
in Ebraico, “Torat ha-Melech”. Un libro controverso scritto da un rabbino israeliano nel quale si argomenta che gli Ebrei possono uccidere i bambini se si pensa che questi possano crescere per fare del male agli Ebrei.
Il 29 ottobre 1956, truppe della Guardia di Frontiera (tecnicamente ufficiali di polizia) uccisero 48 Palestinesi nel villaggio Arabo Israeliano di Kfar Qasim, durante l'applicazione di un coprifuoco imposto ai villaggi Arabo Israeliani a causa della guerra del Suez.
Nurit Peled-Elhanan
12 Luglio 2011
Domenica 10 luglio 2011, il libro “La Torah del Re” [1] ha ricevuto il sigillo legale di approgazione, 8 Tammuz, dall'Alta Corte d'Israele che attesta che la bimba Abir Aramin, 10 anni, sparata in testa tre anni fa ad Anata, fu colpita da una pallottola proveniente da un'arma sconosciuta di un soldato o un poliziotto sconosciuto. Il proiettile trovato sotto il suo corpicino non ha provenienza, e si può anche chiudere l'indagine.
In altre parole, l'Alta Corte ha autorizzato lo spargimento di sangue di tutte le ragazze Palestinesi e ha mandato un messaggio chiaro ai soldati/poliziotti delle Forze di Occupazione Israeliane – l'omicidio delle bimbe Palestinesi, soprattutto quelle che stanno comprando caramelle in un chiosco vicino la loro scuola alle nove del mattino, non è un crimine. Nessuno è stato punito e nessuno sarà punito. Le dichiarazioni degli accusatori, cioè, dei genitori, dei testimoni oculari, dell'organizzazione Yesh Din, della prova e dell'evidenza – non hanno sortito effetti alle orecchie dei giudici [donna]. Sono anche loro madri?
Questa sentenza è l'apice di una campagna evidentemente pianificata in modo fantastico e ben oliata per permettere l'omicidio dei Palestinesi protratto da decenni sui giornali, nei discorsi politici, nella letteratura e nelle canzoni, nei piani militari, nella formulazione del codice etico militare e nei libri di testo che spiegano quanto ogni massacro dei Palestinesi fin dal 1948 sia stato buono per gli Ebrei, per la democrazia ebraica e per la conservazione della maggioranza ebraica nello Stato/Terra di Israele nel lungo, breve e medio periodo.
Questa campagna ha ottenuto maggior impulso a partire dal massacro di piombo fuso e fosforo a Gaza due anni fa. Da quel momento chiunque ha trovato giustificazioni e razionalità per gli omicidi dei Palestinesi. Ufficiali militari in pensione e ufficiali in servizio si presentano agli scolari e agli studenti dei programmi di preparazione militare, o persone che vogliono dormire con la coscienza a posto, e spiegano loro che l'esercito più etico nel mondo non fa nulla senza giustificazioni morali-etiche-”di valore”, così se i bambini Palestinesi sono armati durante un'operazione militare giustificata-morale-etica, piena di valori e di moralità, allora era certamente il male minore, una ingiustizia necessaria, schegge, imposto dalle circostanze, una necessità che non va condannata – non va mai condannata.
Perché l'omicidio dei Palestinesi viene sempre fatto in nome della legge – internazionale o nazionale, o nel nome delle leggi della Torah, nel nome dei sublimi valori della preservazione della vita umana non-Palestinese, nel nome della Guerra del Terrore, adempimenti militari, il principale deterrente, che è sempre giustificato e spiegato con parole che non includono la componente umana. La Morte dei Palestinesi è un bersaglio, un obiettivo, un “settore”, un'operazione, un'azione, una procedura.
E infatti i giudici [donna] dell'Alta Corte – sono madri anche loro? - non hanno condannato l'omicidio, né hanno stabilito punizioni per i soldati che hanno tirato fuori un fucile da un mezzo blindato e hanno mirato alla nuca della bambina che stava comprando caramelle al chiosco con una mano e che teneva la sorella con l'altra mano, e hanno sparato con precisione, un colpo che ha lasciato una mano sospesa, che teneva la mano di Arin, e il resto del corpo di Abir disteso in una strada vuota e sporca. Non hanno condannato il gesto o l'istanza di cui i soldati o la polizia (dal massacro di Kfar Qasim [2] l'IDF ha sempre sottolineato che i componenti della Guardia di Frontiera sono poliziotti, non soldati) sono accusati ad ogni processo di ogni tipo.
Non hanno condannato gli assassini, né hanno espresso compassione per la famiglia di Abir. Le famiglie Palestinesi non provano dolore – mai, e quindi non è necessario condividere il loro dolore. Hanno troppi figli per provare dolore per la perdita di uno dei loro figli.
E per questa ragione dobbiamo chiedere la fine immediata delle vessazioni del Rabbino Elitzur e degli altri rabbini che hanno contribuito alla stesura del libro “Torah ha-Melech” dove viene esposto, utilizzando le sacre scritture e la Hlacha Ebraica, perché i bambini non-Ebrei debbano essere uccisi senza rimpianti o rimorsi, per il bene della nazione Ebraica, e coloro che predicano alle uscite come agli incontri organizzati con i soldati, nelle scuole e nei giornali, a favore dell'omicidio dei bambini Palestinesi. Le vessazioni/molestie dei rabbini potrebbero essere interpretate, Dio non voglia, come razzismo o discriminazione, dal momento che l'Alta Corte ha decretato che il loro predicare è lecito (kosher). Non che abbiano bisogno di una tale certificazione.
E l'unica consolazione che resta per chi di noi l'ha conosciuta (Abir), e sono addolorati per la sua morte e del dolore dei suoi fratelli, sorelle e genitori, è che Dio vendicherà il suo sangue.
La Prof.ssa Nurit Peled-Elhanan è la figlia dell'ex MK Matti Peled, moglie di Rami, madre di Smadar uccisa il 4 settembre 1997 durante un attacco ad un centro commerciale pedonale a Gerusalemme.
Note del traduttore:
in Ebraico, “Torat ha-Melech”. Un libro controverso scritto da un rabbino israeliano nel quale si argomenta che gli Ebrei possono uccidere i bambini se si pensa che questi possano crescere per fare del male agli Ebrei.
Il 29 ottobre 1956, truppe della Guardia di Frontiera (tecnicamente ufficiali di polizia) uccisero 48 Palestinesi nel villaggio Arabo Israeliano di Kfar Qasim, durante l'applicazione di un coprifuoco imposto ai villaggi Arabo Israeliani a causa della guerra del Suez.
mercoledì 13 luglio 2011
ISRAELE APPROVA LEGGE CONTRO IL BOICOTTAGGIO
ISRAELE APPROVA LEGGE CONTRO IL BOICOTTAGGIO
E' passata ieri in via definitiva alla Knesset con 47 voti favorevoli contro 38, la "Boycott Bill" che sanzionerà individui e gruppi che invitano a boicottare Israele, incluse le sue colonie. La società civile: "È una legge antidemocratica".
DI EMMA MANCINI
Roma, 12 luglio 2011, Nena News (nella foto, manifesto della Birzeit University disegnato da Zanstudio) – La controversa “Boycott Bill” è passata ieri dopo tre votazioni alla Knesset israeliana: da oggi saranno sanzionate tutte le persone e le organizzazioni che inviteranno al boicottaggio di Israele e delle sue colonie nei Territori Palestinesi Occupati.
Per legge Israele potrà chiedere un risarcimento di 50mila shekel (circa 10mila euro) per i danni finanziari provocati dal boicottaggio economico, culturale e accademico. Un esempio? Il boicottaggio artistico del centro culturale della colonia di Ariel e quello contro tutte le compagnie internazionali che lavorano in Israele, come le società di costruzioni impegnate nei lavori per il tram che da quest’anno collegherà il centro di Gerusalemme alle colonie ad Est. Ma soprattutto la campagna internazionale del BDS, Boycott, Divestment and Sanctions, impegnata dal 2005 nel boicottaggio economico e culturale di Tel Aviv.
La legge appena sfornata, inoltre, prevede la revoca delle esenzioni dalle tasse e dei benefici legali e economici a tutti quegli individui, gruppi israeliani e istituzioni accademiche e culturali che sostengono il boicottaggio del proprio Stato. Ad essere penalizzate anche compagnie e società economiche israeliane che decideranno di mettersi al servizio dell’Autorità Palestinese e che accetteranno di lavorare con compagnie palestinesi.
Inizialmente si era pensato di rimandare il voto in vista dell’incontro di ieri del Quartetto per il Medio Oriente, tenutosi a Washington. Ma il primo ministro Netanyahu non pare essersi fatto troppi scrupoli: nella mattinata di ieri l’ufficio del premier ha annunciato che non sarebbe stato posto alcun ostacolo al naturale percorso della legge.
La “Boycott Bill”, presentata dal parlamentare Ze’ev Elkin, avvocato del partito Likud del premier Netanyahu, è passata per 47 voti a 38, appoggiata da tutta la coalizione di maggioranza e dalle opposizioni, con il solo voto contrario di Kadima e l’astensione di Indipendenza (il partito del ministro della difesa Ehus Barak). Duri gli attacchi dai parlamentari di Kadima al premier: “Netanyahu ha passato la linea rossa della stupidità e dell’irresponsabilità nazionale. Il suo governa crea problemi a Israele e dovrebbe essere il primo a pagarne il prezzo”.
Da tempo si erano levate le voci contrarie della società civile israeliana che ha definito la legge antidemocratica, un assalto alla libertà di espressione e manifestazione. I sostenitori della legge si sono difesi affermando che il “Boycott Bill” altro non è che un mezzo per tutelare lo Stato di Israele da quello che il governo chiama delegittimazione globale.
Ma la levata di scudi da parte degli artisti e gli intellettuali israeliani non si è fermata, convinti che una legge simile violi duramente il diritto di espressione e intacchi lo spirito democratico su cui si fonderebbe lo Stato di Israele. Anche alla luce del fatto che a Tel Aviv non serviranno prove di effettivi danni economici per intentare un’azione contro il “boicottatore”: secondo la nuova legge, non sarà necessario individuare e quantificare il danno economico causato, ma basterà l’invito al boicottaggio. Insomma, saranno possibili target tutti coloro, individui o associazioni, che chiameranno società civili israeliana e internazionale a boicottare “lo Stato di Israele, una delle sue istituzioni o un’area sotto il suo controllo, nell’obiettivo di causare danni economici, culturali e accademici”.
Quattro organizzazioni per i diritti umani (Adalah, The Public Committee Against Torture in Israel, Physicians for Human Rights e Coalition of Women for Peace) hanno annunciato nella notte che presenteranno ricorso all’Alta Corte contro la nuova legge. La legge, secondo i quattro gruppi, è “completamente anticostituzionale perché limita la libertà di espressione politica ed è contraria al diritto internazionale”. “La Knesset tenta non solo di chiudere la bocca della protesta contro l’occupazione, ma anche di impedire alle vittime e a chi si oppone di lottare contro”, ha detto Hassan Jabarin, direttore generale di Adalah, certo che il “Boycott Bill” non riceverà mai l’assenso dell’Alta Corte.
A preoccupare è l’idea di fondo su cui si basa la nuova legge: come spiegano le quattro organizzazioni, la Knesset ha l’obiettivo di proteggere le colonie illegali in Cisgiordania penalizzando chi vi si oppone attraverso quello che definiscono un boicottaggio del boicottaggio.
Dure critiche anche da parte palestinese, soprattutto in vista dell’incontro del Quartetto. Nella mattinata di ieri, prima del voto finale, il membro anziano dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Abd Rabbo, ha avvertito del pericolo di una simile legge: il sì al “Boycott Bill” renderebbe inutile l’impegno del Quartetto ad una ripartenza dei negoziati di pace. Nena News
E' passata ieri in via definitiva alla Knesset con 47 voti favorevoli contro 38, la "Boycott Bill" che sanzionerà individui e gruppi che invitano a boicottare Israele, incluse le sue colonie. La società civile: "È una legge antidemocratica".
DI EMMA MANCINI
Roma, 12 luglio 2011, Nena News (nella foto, manifesto della Birzeit University disegnato da Zanstudio) – La controversa “Boycott Bill” è passata ieri dopo tre votazioni alla Knesset israeliana: da oggi saranno sanzionate tutte le persone e le organizzazioni che inviteranno al boicottaggio di Israele e delle sue colonie nei Territori Palestinesi Occupati.
Per legge Israele potrà chiedere un risarcimento di 50mila shekel (circa 10mila euro) per i danni finanziari provocati dal boicottaggio economico, culturale e accademico. Un esempio? Il boicottaggio artistico del centro culturale della colonia di Ariel e quello contro tutte le compagnie internazionali che lavorano in Israele, come le società di costruzioni impegnate nei lavori per il tram che da quest’anno collegherà il centro di Gerusalemme alle colonie ad Est. Ma soprattutto la campagna internazionale del BDS, Boycott, Divestment and Sanctions, impegnata dal 2005 nel boicottaggio economico e culturale di Tel Aviv.
La legge appena sfornata, inoltre, prevede la revoca delle esenzioni dalle tasse e dei benefici legali e economici a tutti quegli individui, gruppi israeliani e istituzioni accademiche e culturali che sostengono il boicottaggio del proprio Stato. Ad essere penalizzate anche compagnie e società economiche israeliane che decideranno di mettersi al servizio dell’Autorità Palestinese e che accetteranno di lavorare con compagnie palestinesi.
Inizialmente si era pensato di rimandare il voto in vista dell’incontro di ieri del Quartetto per il Medio Oriente, tenutosi a Washington. Ma il primo ministro Netanyahu non pare essersi fatto troppi scrupoli: nella mattinata di ieri l’ufficio del premier ha annunciato che non sarebbe stato posto alcun ostacolo al naturale percorso della legge.
La “Boycott Bill”, presentata dal parlamentare Ze’ev Elkin, avvocato del partito Likud del premier Netanyahu, è passata per 47 voti a 38, appoggiata da tutta la coalizione di maggioranza e dalle opposizioni, con il solo voto contrario di Kadima e l’astensione di Indipendenza (il partito del ministro della difesa Ehus Barak). Duri gli attacchi dai parlamentari di Kadima al premier: “Netanyahu ha passato la linea rossa della stupidità e dell’irresponsabilità nazionale. Il suo governa crea problemi a Israele e dovrebbe essere il primo a pagarne il prezzo”.
Da tempo si erano levate le voci contrarie della società civile israeliana che ha definito la legge antidemocratica, un assalto alla libertà di espressione e manifestazione. I sostenitori della legge si sono difesi affermando che il “Boycott Bill” altro non è che un mezzo per tutelare lo Stato di Israele da quello che il governo chiama delegittimazione globale.
Ma la levata di scudi da parte degli artisti e gli intellettuali israeliani non si è fermata, convinti che una legge simile violi duramente il diritto di espressione e intacchi lo spirito democratico su cui si fonderebbe lo Stato di Israele. Anche alla luce del fatto che a Tel Aviv non serviranno prove di effettivi danni economici per intentare un’azione contro il “boicottatore”: secondo la nuova legge, non sarà necessario individuare e quantificare il danno economico causato, ma basterà l’invito al boicottaggio. Insomma, saranno possibili target tutti coloro, individui o associazioni, che chiameranno società civili israeliana e internazionale a boicottare “lo Stato di Israele, una delle sue istituzioni o un’area sotto il suo controllo, nell’obiettivo di causare danni economici, culturali e accademici”.
Quattro organizzazioni per i diritti umani (Adalah, The Public Committee Against Torture in Israel, Physicians for Human Rights e Coalition of Women for Peace) hanno annunciato nella notte che presenteranno ricorso all’Alta Corte contro la nuova legge. La legge, secondo i quattro gruppi, è “completamente anticostituzionale perché limita la libertà di espressione politica ed è contraria al diritto internazionale”. “La Knesset tenta non solo di chiudere la bocca della protesta contro l’occupazione, ma anche di impedire alle vittime e a chi si oppone di lottare contro”, ha detto Hassan Jabarin, direttore generale di Adalah, certo che il “Boycott Bill” non riceverà mai l’assenso dell’Alta Corte.
A preoccupare è l’idea di fondo su cui si basa la nuova legge: come spiegano le quattro organizzazioni, la Knesset ha l’obiettivo di proteggere le colonie illegali in Cisgiordania penalizzando chi vi si oppone attraverso quello che definiscono un boicottaggio del boicottaggio.
Dure critiche anche da parte palestinese, soprattutto in vista dell’incontro del Quartetto. Nella mattinata di ieri, prima del voto finale, il membro anziano dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Abd Rabbo, ha avvertito del pericolo di una simile legge: il sì al “Boycott Bill” renderebbe inutile l’impegno del Quartetto ad una ripartenza dei negoziati di pace. Nena News
martedì 12 luglio 2011
L'esercito israeliano rapisce sei palestinesi
Ancora rapimenti e arresti arbitrari da parte dell'esercito israeliano ai danni dei palestinesi, ma al consiglio comunale di Milano si blatera solo della liberazione del soldato Shalit, alla faccia del vento nuovo...Il soldato di un feroce esercito occupante è la vittima, mentre migliaia di civili donne, bambini, giovani arrestati in detenzione amministrativa non sono niente. Adesso ne abbiamo le tasche piene! Almeno chi si definisce di sinistra faccia un serio esame di coscienza e la smetta di essere connivente con questo stato di apartheid che occupa, arresta tortura uccide persone e diritti. La Palestina è tutta una prigione e Gaza è un carcere speciale come è dimostrato dai recenti fatti della Freedom flotilla e dal trattamento ricevuto da coloro che volevano partecipare senza mentire all'evento "Benvenuti in Palestina", L'invito dei palestinesi non potrà essere accolto perchè chi voleva farlo è stato arrestato o rimandato indietro o gli è stato impedito di prendere l'aereo dopo aver pagato il biglietto. La sinistra a Milano come altrove non è stata eletta per fare da tappetino ai sionisti!
di Emma Mancini
Un venerdì di arresti quello appena trascorso, arresti che appaiono come veri e propri rapimenti. Le forze di sicurezza israeliane in Cisgiordania hanno catturato e portato in località sconosciute sei palestinesi, da Jenin a Gerusalemme Est.
arresto-giovane
Un giovane palestinese arrestato dalle forze di sicurezza israeliane (foto The Washington Post)
Tra loro la 21enne Besan Mahmoud Abu Maker, figlia della parlamentare palestinese Najat Abu Baker. Secondo fonti locali, truppe dell’esercito israeliano stazionavano e controllavano il blocco stradale militare di Atara, a Nord di Ramallah. “I soldati israeliani presenti al checkpoint di Atara – ha raccontato la parlamentare all’agenzia di stampa palestinese Ma’an News – hanno fermato l’auto in cui viaggiava mia figlia, l’hanno costretta a scendere e l’hanno arrestata portandola in una località sconosciuta”.
Secondo associazioni locali, l’esercito israeliano ha condotto per tutto il venerdì di ieri perquisizioni arbitrarie alle automobili palestinesi che attraversavano il checkpoint di Atara: altri sei palestinesi sono stati arrestati per poi essere rilasciati qualche ora dopo.
Nei pressi di Jenin, nel profondo Nord della Cisgiordania, i militari hanno rapito un residente della città di Qabatia, dopo averlo fermato al blocco stradale di Za’tara. L’uomo, Rami Mohammad Mo’tasem, stava ritornando verso Ramallah, dove vive, quando è stato fermato e costretto a entrare in un veicolo militare che lo ha condotto in una località ignota. Mo’tasem, da ex detenuto politico, ha già alle spalle un’esperienza nelle carceri israeliane.
Spostandosi a Nablus, stessa situazione: nelle prime ore di ieri, i soldati israeliani hanno arrestato un giovane palestinese residente nel villaggio di Salem. Khaldoun Hasan Issa, 25 anni, è stato portato in prigione dopo l’assalto che l’esercito ha compiuto contro il villaggio e le perquisizioni arbitrarie condotte nelle case. Infine, a Gerusalemme Est, si sono registrati scontri nel quartiere di Silwan tra le forze di sicurezza israeliane e i giovani residenti: tre palestinesi sono stati fermati e condotti in località sconosciute.
di Emma Mancini
Un venerdì di arresti quello appena trascorso, arresti che appaiono come veri e propri rapimenti. Le forze di sicurezza israeliane in Cisgiordania hanno catturato e portato in località sconosciute sei palestinesi, da Jenin a Gerusalemme Est.
arresto-giovane
Un giovane palestinese arrestato dalle forze di sicurezza israeliane (foto The Washington Post)
Tra loro la 21enne Besan Mahmoud Abu Maker, figlia della parlamentare palestinese Najat Abu Baker. Secondo fonti locali, truppe dell’esercito israeliano stazionavano e controllavano il blocco stradale militare di Atara, a Nord di Ramallah. “I soldati israeliani presenti al checkpoint di Atara – ha raccontato la parlamentare all’agenzia di stampa palestinese Ma’an News – hanno fermato l’auto in cui viaggiava mia figlia, l’hanno costretta a scendere e l’hanno arrestata portandola in una località sconosciuta”.
Secondo associazioni locali, l’esercito israeliano ha condotto per tutto il venerdì di ieri perquisizioni arbitrarie alle automobili palestinesi che attraversavano il checkpoint di Atara: altri sei palestinesi sono stati arrestati per poi essere rilasciati qualche ora dopo.
Nei pressi di Jenin, nel profondo Nord della Cisgiordania, i militari hanno rapito un residente della città di Qabatia, dopo averlo fermato al blocco stradale di Za’tara. L’uomo, Rami Mohammad Mo’tasem, stava ritornando verso Ramallah, dove vive, quando è stato fermato e costretto a entrare in un veicolo militare che lo ha condotto in una località ignota. Mo’tasem, da ex detenuto politico, ha già alle spalle un’esperienza nelle carceri israeliane.
Spostandosi a Nablus, stessa situazione: nelle prime ore di ieri, i soldati israeliani hanno arrestato un giovane palestinese residente nel villaggio di Salem. Khaldoun Hasan Issa, 25 anni, è stato portato in prigione dopo l’assalto che l’esercito ha compiuto contro il villaggio e le perquisizioni arbitrarie condotte nelle case. Infine, a Gerusalemme Est, si sono registrati scontri nel quartiere di Silwan tra le forze di sicurezza israeliane e i giovani residenti: tre palestinesi sono stati fermati e condotti in località sconosciute.
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