sabato 29 settembre 2012

GAZA ISRAELE ASSASSINA ANCORA INNOCENTI E IL MONDO TACE

Cronaca di una giornata atroce. Un pescatore palestinese è stato ucciso questa mattina e suo fratello è stato ferito dall'esercito di occupazione israeliano mentre pescavano nelle acque a nord di Gaza. I due sono fratelli sono Fahmy Abu Ryash, 23 anni, e Yousif Abu Ryash, 19 anni. Fahmy Abu Ryad è stato colpito alla gamba sinistra, suo fratello Yousif è stato colpito alla mano sinistra. L'esercito israeliano ha utilizzato proiettili "ad espansione", detti anche "dum dum", vietati dalle legge internazionale. Successivamente all'attacco sono stati trasportati al Kamal Odwan hospital. Qui ho incontrato un pescatore che era con loro, Mahmoud Taha Sultan, 24 anni, di cui ho raccolto la testimonianza. Verso le 10.15 del mattino, i ragazzi stavano pescando sulle coste a nord di Gaza, nell'area di Beit Lahia. Non si trovavano su un'imbarcazione, ma pescavano a pochi metri dalla spiaggia, in piedi, lanciando con le proprie braccia le piccole reti. Sulle spiagge della Striscia di Gaza è possibile vedere tanti pescatori utilizzare questo tradizionale metodo di pesca. I pescatori si immergono in acqua e, con le proprie braccia, lanciano le reti, per poi ritirarle qualche minuto dopo. I due fratelli, insieme agli altri pescatori, in tutto una quindicina, si trovavano ad una distanza di 300 metri dal confine nord con Israele. Soldati israeliani hanno improvvisamente fatto irruzione via terra ed hanno iniziato a sparare verso i pescatori. "Non è la prima volta che sparano - racconta Mahmoud - ma in genere sparano dalle torri". I soldati israeliani si sono diretti accanto ai corpi dei due fratelli, ed hanno chiamato gli altri pescatori, che nel frattempo si erano allontanati per fuggire agli spari, per dir loro di recuperare i corpi. Così i pescatori hanno chiamato l'ambulanza che ha trasportato i due ragazzi al Kamal Odwan hospital. Quando sono arrivata in ospedale, Saleh, il padre dei due fratelli, era in lacrime. Stava pregando in moschea quando ha saputo dell'attacco. Oggi infatti è venerdì, giorno di festa per i musulmani. "Questa è ingiustizia. Siamo nella nostra terra, non possiamo pescare, non possiamo vivere nella nostra terra", mi ha detto, con una voce interrotta dal pianto. Secondo Saleh, i paesi europei dovrebbero intervenire per risolvere la questione palestinese. "Questa è ingiustizia, noi siamo solo civili", ha ripetuto. Infine, con occhi sgranati, mi ha detto "Immagina cosa un padre deve sentire trovando i suoi figli feriti". Il figlio giovane, Yousef, sta bene. Ha ricevuto medicazione alla mano ed è stato rilasciato. Non è andata così per Fahmy. Fahmy era sposato, ed aveva un bambino di un anno. Ho incontrato Fahmy disteso sul letto, prima che entrasse in sala operatoria. I dottori hanno pulito la ferita e successivamente Fahmy è stato trasportato in sala operatoria. Il proiettile è entrato dalla gamba sinistra ed ha distrutto l'area pelvica. "Sarà fortunato se potrà camminare di nuovo", aveva detto un dottore. Ho deciso di rimanere in ospedale fino al termine dell'operazione, per assicurarmi che tutto sarebbe andato bene. L'operazione sarebbe durata 2-3 ore, avevano detto i dottori. Alle ore 14:50 un dottore ci ha comunicato che l'operazione non era ancora iniziata perché Famhy riportava una pressione del sangue molto bassa. Alle ore 16:12 un dottore ci ha comunicato che in sala operatoria Fahmy aveva subito un arresto cardiaco, ma che si era ripreso. Purtroppo però ha subito una forte emorragia. Alle ore 16:25 ci hanno comunicato che l'operazione era finita e che Fahmy era stato trasportato all'unità di terapia intensiva (ICU). Successivamente un dottore mi ha detto che Fahmy ha sofferto di forte emorragia, e che si trovava in condizioni critiche: "Il proiettile ad espansione ha distrutto l'area pelvica. Ha perso un'enorme quantità di sangue". Ha detto che Famhy aveva subito un lungo arresto cardiaco, e che il cervello sarebbe stato danneggiato. Gli ho chiesto quali erano le sue previsioni, quali sarebbero state le conseguenze, ma la sua risposta mi ha agghiacciata. "Se sopravviverà andrà bene", mi ha detto. Mi sono offerta, con un attivista palestinese che era con me, di donare il sangue per Fahmy domani mattina. Ma non è stato possibile, Fahmy è morto questa sera. All'uscita dalla sala in cui ho parlato con i dottori, ho incontrato nuovamente i familiari di Fahmy, al momento ancora ignari delle reali condizioni del ragazzo. I dottori non avevano ancora comunicato loro la gravità della situazione. Nei corridoi dell'ospedale alcune donne della famiglia camminavano sorrette dalle braccia dei familiari. Il padre di Fahmy era finalmente più tranquillo, mi ha salutato sorridendo e mi ha ringraziato per la solidarietà. Ci eravamo dati appuntamento a domani. Palesemente fiducioso, sperava che tutto andasse per il meglio, "alhamdulilah". Gli occhi di Saleh sono grandi e buoni, occhi che esprimono storia di resistenza e di amore. Questa sera una telefonata ha spento ogni speranza. Fahmy non ce l'ha fatta. Domani con forza dovrò affrontare gli occhi di Saleh, il suo dolore e quello di tutta la famiglia. Morire per lavorare, morire per pescare. Che cosa ha fatto Fahmy per morire a 23 anni? Come spiegare a suo figlio di un anno il perché suo padre è stato ucciso? Nel silenzio internazionale Israele continua ad utilizzare i proiettili "dum dum" o "ad espansione", seppur vietati dalle convenzioni internazionali. Perché Israele deve rimanere impunito per l'utilizzo di questi proiettili e per questi crimini contro l'umanità? Chi rimane silente è complice di questi crimini. Chiediamo giustizia. Chiedete giustizia insieme a noi. (foto disponibili sul mio blog http://ilblogdioliva.blogspot.co.il/2012/09/un-pescatore-palestinese-ucciso.html ) Rosa Gaza 28 settembre 2012

giovedì 20 settembre 2012

ISRAELE SEMPRE ALL'AVANGUARDIA NELL'INQUINAMENTO

Reportage di Barbara Antonelli e Nicolas Helm-Grovas Ramallah, 20 settembre 2012, Nena News - Le acque reflue prodotte in Cisgiordania, sia dalle colonie israeliane che dalle comunita' palestinesi, ammontano a circa 91 milioni di metri cubi ogni anno: l'equivalente dell'acqua contenuta in 36.400 piscine olimpiche. La maggior parte di queste acque di scarico non riceve alcun trattamento di depurazione. Gli agenti contaminanti -sia organici che inorganici- si riversano direttamente in Cisgiordania, con conseguenze devastanti per l'inquinamento sia del territorio che del Massiccio Acquifero, la piu' importante risorsa di approvvigionamento idrico per israeliani e palestinesi. In 45 anni di occupazione le autorita' israeliane non si sono curate minimamente di installare impianti per il trattamento delle acque di scarico nelle 121 colonie sparse in tutta la Cisgiordania: le colonie soltanto producono 17,5 metri cubi all'anno di acque impure. Secondo un dettagliato report dell'organizzazione israeliana Bt'selem del 2009, su 121 colonie solo 81 sono dotate di impianti per il trattamento delle acque reflue. Alcuni dei quali usano metodologie superate, non seguono gli standard adottati in Israele o sono inadatti a coprire le necessita' di colonie, la cui popolazione ha subito in pochi anni un boom demografico impressionante. Altre strutture non funzionano a pieno regime o sono state parzialmente o del tutto disattivate, con la conseguenza che 5,5 milioni di metri cubi di acque reflue prodotte dalle colonie non ricevono alcun trattamento, riversandosi nelle vallate palestinesi. Le leggi a tutela dell'ambiente, in vigore in Israele, vengono ignorate nelle colonie. Cosi capita che le abitazioni degli insediamenti siano occupate da intere famiglie prima che i sistemi di depurazione e fognari siano completamente funzionanti o che industrie costruite su territorio occupato, inizino a funzionare a pieno regime, senza che siano dotate di sistemi di smaltimento a norma per le sostanze tossiche e i rifiuti. E' indicativo che il Ministero israeliano per la tutela dell'ambiente abbia seguito - dal 2000 al 2009 - solo 53 casi per il malfunzionamento degli impianti nelle colonie, mentre lo stesso Ministero ha preso in esame 230 casi in Israele, solo nel 2006. Un far west di leggi selvagge imperversa nelle colonie in Cisgiordania e al Ministero dell'ambiente fa comodo che sia cosi. Anche il 90% delle acque reflue prodotte dai palestinesi non viene trattato. E anche qui le regole del gioco le decide Israele: l'amministrazione civile negli ultimi 15 anni non ha approvato progetti per gli impianti di depurazione dei liquami urbani, presentati da istituzioni palestinesi, con i fondi europei o internazionali; in altri casi li avrebbe approvati solo con la condizione di poter collegare a quegli stessi impianti anche le colonie. Sempre Israele ha imposto all'Autorita' Palestinese di costruire impianti all'avanguardia (non usati nemmeno in Israele) che rispondono a parametri che neanche l'Organizzazione Mondiale della Sanita' richiede; cosa che fa aumentare i costi di costruzione, operativi e di mantenimento. Con la conseguenza che sia USA che Germania, principali finaziatori di tali impianti, hanno ridotto in modo considerevole i finanziamenti all'ANP per questo tipo di progetti. Il sistema che rifornisce acqua alle colonie e' inoltre gestito direttamente da Israele, quindi, che le acque reflue inquinino o meno l'ambiente palestinese circostante, non intacca minimamente la qualita' dell'acqua potabile destinata ai coloni. Al contrario, villaggi o intere comunita' palestinesi fanno affidamento sulle risorse idriche naturali; pertanto l'inquinamento delle falde acquifere prodotto dalle colonie, aggrava ulteriormente le gia' drammatiche condizioni dell'accesso all'acqua potabile per i palestinesi. Con devastanti conseguenze anche per l'agricoltura, dato che le acque reflue inquinano il terreno, contaminano i campi, diminuiscono la fertilita'della terra. Il problema si aggrava nelle aree industriali israeliane costruite in Cisgiordania. La piu' estesa, quella di Barkan nel distretto di Nablus, vede almeno 80 industrie operative, che producono alluminio, vetroresina, pesticidi, componenti per l'industria militare. Dal 1982, Israele ha ricollocato le industrie piu' inquinanti all'interno della Cisgiordania, danneggiando interee aree palestinesi. Un esempio tra tutte, la Geshuri industries, un'industria di pesticidi ricollocata nel 1987 in un'area adiacente a Tulkarem. Industrie che scaricano nelle vallate sottostanti rifiuti chimici non trattati. Con l' associazione israeliana Yesh Din, abbiamo preso in esame tre diversi casi, in tre diverse colonie, indicativi delle problematiche legate al mancato trattamento delle acque reflue, ma anche delle contraddizioni legate a un sistema di occupazione che si e' ormai cristallizzato. Proprio a nord della statale 5, vicino Qalqilya a nord della Cisgiordania, nella vallata che dalla colonia scende giu', un tubo di scarico pompa liquami urbani direttamente nelle terre palestinesi e nel piccolo torrente, principale risorsa idrica della vicina Az-Zawiya, a cui appartengono quelle terre. Sulla collina, due grandi contenitori in allestimento indicano che l'impianto di purificazione dell'acqua della colonia e' in fase di costruzione. Un'impresa che e' il frutto della Compagnia per l'Economia dell'amministrazione locale e che dovrebbe mettere un freno al libero rifluire dei liquami nelle terre palestinesi. L'impianto e' stato costruito illegalmente anche secondo la giurisdizione israeliana, al di fuori del perimetro della colonia, espropriando due 'dunum' di terra ai legittimi proprietari palestinesi. La ONG Yesh Din segue diversi casi, per conto di comunita' palestinesi, contro le attivita' di costruzioni illegali anche secondo la legge di Israele, le uniche per le quali ci si puo' appellare al sistema giuridico israeliano. Un anno fa, in una situazione simile riguardante la colonia di Ofra, vicino Silwad, gli avvocati di Yesh Din sono riusciti a congelare la costruzione di un impianto per il trattamento delle acque, ricorrendo alla Corte. Un impianto costruito senza permesso regolare e su terra espropriata a due famiglie palestinesi, rappresentate da Yesh Din. La Corte ha deciso l'immediato stop dei lavori della struttura, completata quasi al 90%. Dal momento dell'interruzione dei lavori, la colonia continua a riversare i liquami di scarico nelle terre palestinesi circostanti. Un caso che illustra bene il dilemma tra applicazione del diritto e pragmatismo: se le colonie si dotano di strutture per lo smaltimento delle acque reflue, consolidano ancora di più sul terreno il sistema illegale dell'occupazione. Se invece ci si appella al diritto israeliano, qualora possibile, si lascia però che l'inquinamento ambientale sia perpetrato impunemente, a scapito ancora una volta delle comunita' palestinesi. Nel caso della colonia di Elqana, il team di Yesh Din ha prima consultato la comunità palestinese, per verificare se fosse intenzionata a intraprendere un procedimento legale. La comunità ha scelto la strada del pragmatismo: consentire la costruzione illegale dell'impianto e rinunciare alla terra espropriata, per fermare il devastante inquinamento del terreno e sperare che la terra rimasta ritorni ad essere fertile. Non certo una vittoria, ma forse il male minore. La situazione di Ariel, a est di Elqana è molto simile. L'impianto per il trattamento delle acque qui è operativo ma non funziona a pieno regime, soprattutto non copre le reali necessita' della colonia, che ha subito - da quando è stata costruita nei primi anni Novanta - un boom demografico a ritmi serrati, con un aumento della popolazione da 10.000 a oltre 60.000 coloni. In aggiunta, anche gli scarichi di rifiuti tossici e fanghi attivi esausti prodotti dalla vicina area industriale di Barkan, si riversano nella vallata palestinese. Ancora una volta le procedure di smaltimento dei rifiuti industriali in Cisgiordania seguono una legislazione meno ferrea rispetto a quella in vigore in Israele, cosa che ha favorito il trasferimento di molte aziende proprio in territorio occupato. Sia Ariel che Barkan scaricano i loro rifiuti nella vicina Salfit, palestinese, avvelenando i campi e inquinando l'ambiente. L'area presentava gia' preoccupanti problematiche per il trattamento delle acque reflue palestinesi, dato che Salfit stessa non è dotata di alcun impianto. Tra i 60 e i 70 milioni di shekel sono stati dati al municipio di Salfit dal governo tedesco per l'installazione di un efficace sistema di smaltimento. L'amministrazione civile israeliana, che ha pieno controllo sull'area C della Cisgiordania, ha richiesto che Ariel potesse essere allacciata allo stesso sistema e quando l'amministrazione di Salfit ha rifiutato, e' stata costretta a restituire al governo tedesco il denaro gia'versato. Attualmente, sia i liquami di Salfit che di Ariel, si riversano nell'ambiente circostante. Revava è un altra colonia con infrastrutture insufficienti per coprire il trattamento di depurazione dei liquami. Le acque di scarico scorrono abbondantemente nella vallata fino a uno o due miglia lontano dalla colonia. All'interno della colonia, un lavoratore palestinese (ironicamente molti lavoratori palestinesi sono costretti a lavorare proprio nelle colonie, non avendo altra scelta) ci ha spiegato che Revava e' dotata di una cisterna per il raccoglimento delle acque reflue: la cisterna si riempie in tempi brevi perche' insufficiente a coprire le esigenze di tutti i coloni, tanto che periodicamente le acque si riversano nella vallata. I residenti palestinesi del vicino uliveto hanno rinunciato a venire qui, sia per l'odore nausenate che per la presenza degli insetti. Quando abbiamo visitato la vallata l'abbiamo trovata asciutta. Ad una più attenta indagine, ci siamo resi conto che, proprio tutto intorno all'insediamento, i coloni hanno scavato profonde voragini, per fare da contenimento alle acque di scarico ed evitare che rifluiscano direttamente nella vallata, in modo da non destare l'attenzione o i reclami dei residenti palestinesi. "L'occupazione crea una realta' ecologica che non è sostenibile", dice Dror Etkes di Yesh Din. "Non si tratta solo di un outpost o di una colonia da cui fuoriesce acqua inquinata." E' evidente che per il singolo residente palestinese o la singola comunita', la cui terra è stata espropriata o inquinata, anche una minima iniziativa legale assume un significato capitale. "La realta' pero' - prosegue Dror Etkes - e' che la 'grande architettura' messa in piedi dall'occupazione, oltre ad essere illegale, non e' a lungo termine sostenibile." Le colonie solo in alcuni casi rispondono ad un aumento demografico accelerato: e' vero che le abitazioni negli insediamenti sono spesso incomplete quando i coloni vi si trasferiscono. Ma come tutto il sistema politico dell'occupazione, la priorità è accelerare la costruzione per creare una realta' di fatto sul terreno, che difficilmente potra' essere modificata in seguito. Paradossalmente, Yesh Din è stata accusata dalle organizzazioni di coloni di "non essere interessata anzi di impedire la tutela dell'ambiente", come nel caso dello stop ai lavori di costruzione dell'impianto di Ofra, "bloccata - a detta dei coloni - a spese dell'ambiente". Il cartello (in ebraico) dell'impianto di Elqana recita: "l'impianto e' costruito a vantaggio dei residenti." Come sempre, il 'vantaggio' e' sempre e solo quello dei coloni. Nena-News

venerdì 14 settembre 2012

SABRA E CHATILA TRENTESIMO ANNIVERSARIO

Allora Stefano aveva ragione, era ora, ma.... di Stefania Limiti * Trenta anni fa, nei primi giorni di settembre, il falco israeliano Ariel Sharon, ministro della Difesa di Tel Aviv, forse aveva già cominciato a progettare, insieme ai militari fascisti del Libano, una vendetta esemplare contro il popolo palestinese. L'efferatezza del massacro pianificato e realizzato nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila tra il 16 e il 18 di quel mese, scattato proprio subito dopo la triste partenza in nave da Beirut del capo della resistenza, Yasser Arafat, concordata con le forze multinazionali, resta nelle coscienze di tutti: non solo delle vittime, di chi subì i lutti o l'oltraggio sul proprio corpo e ne porta ancora i segni visibili sulla pelle, ma anche del resto del mondo che guarda attonito, mortificato e impotente il compiersi della strage per due lunghissimi giorni e due interminabili notti. Stefano Chiarini, una delle firme più note e amate del manifesto, ancora oggi pianto in Palestina e nei campi poverissimi del Libano, sentiva proprio che doveva intestardirsi, come lui sapeva ben fare, e non lasciare che la memoria di quel delitto, il più simbolico dei tanti che hanno colpito i palestinesi perché frutto di una pura volontà di ritorsione e umiliazione di quel popolo, scomparisse: fondò perciò, insieme a Kassem Aina, coordinatore delle Ong palestinesi in Libano, e Talal Salman, direttore del prestigioso quotidiano libanese Al Safyr, e a tanti altri, il Comitato Per non dimenticare Sabra e Shatila. stefano-alla-manifestazione Da allora, era il 2000, ogni anno, fino a quando il suo cuore non si è fermato, nel febbraio del 2007, portava tanta gente a Beirut per commemorare la strage. Stefano aveva proprio ragione, se oggi il principale quotidiano nazionale, Il Corriere della sera, ha inviato uno scrittore importante, Paolo Giordano, nei vicoli dell'enorme campo profughi che riunisce oggi le due vecchie aree di Sabra e Shatila e ha pubblicatp nella prima pagina dell'inserto domenicale La lettura un suo bellissimo reportage che ricorda quel crimine contro l'umanità a tutt'oggi completamente impunito. Leggendo il racconto di Giordano, che riporta con autentica emozione le immagini raccolte durante il suo viaggio di conoscenza, sembrava quasi che gli occhi vivaci di Stefano uscissero da quelle pagine e mi, ci, dicessero: «Avete visto?, Valeva la pena tornare ogni anno in Libano, commemorare la strage lì, con i palestinesi, ricordargli che non sono soli e che noi continueremo a chiedere giustizia»». Sì, aveva ragione, non solo perché ogni anno continuano a venire in Libano moltissime persone che vogliono rivivere quella storia e stare accanto al dolore dei palestinesi (una delegazione del Comitato, circa 70 persone, partirà per Beirut il prossimo 16 settembre) ma anche perché qualcosa forse (forse) è successo, se proprio quel giornale rende omaggio alle vittime palestinesi e pubblica immagini di quella disperazione. Non che non fossero mai tornati sulla vicenda: ma colpisce che da quelle pagine esca la sofferenza di questo popolo a cui è stata strappata la terra e che, profugo, continua ogni giorno a perdere i suoi figli, costretto ancora a subire una violenta occupazione militare. Piace pensare che tutto questo sia frutto anche dello sforzo di Stefano che più di ogni altro in Italia ha impedito che il significato storico, politico e il valore evocativo di quella strage non si disperdesse. E proprio per questo è necessario rendere omaggio al suo lavoro correggendo l'errore di Giordano laddove descrive il luogo della memoria: nel campo di Sabra e Shatila c'è un luogo dove grazie a Stefano, al Comitato Per non dimenticare Sabra e Shatila e alle folte le delegazioni di questi spesso solitari dodici anni, è oggi possibile portare un fiore sotto una lapide: era la fosse comune dove erano stati sepolti centinaia di cadaveri ed era usata come discarica. Oggi lì c'è un piccolo prato, delle gigantesche foto, anche quella di Stefano perché i palestinesi non dimenticano quello che lui ha fatto. Paolo Giordano parla di «garage dietro un portone marcio chiuso con un lucchetto» e lo indica come il solo luogo di memoria del massacro: sarebbe molto bello se lo scrittore volesse unirsi al Comitato per vedere il luogo reale, quello dove ogni anno si dirige la manifestazione che ricorda quella tragedia (quest'anno è prevista il 18 settembre). I palestinesi non possono dimenticare e noi non dobbiamo dimenticare né fare confusione. Ed infine dico a Giordano: perché affermare che tutto ««il dolore di Sabra e Shatila, tutto il lutto e l'ira dei superstiti siano stati trasformati in propaganda a favore della guerriglia antisraeliana»»? Ricordiamoci che quella strage, della quale parlò per primo il grande scrittore Jean Genet, non è mai stata punita nonostante sia da tempo tutto chiaro: dove e chi fossero gli ispiratori (Sharon e i suoi generali che controllavano militarmente i campi) e il nome ed il cognome degli esecutori (i soldati di Samir Geagea, il massacratore di Sabra e Chatila). Ricordiamoci che quella gente, oltre 500 mila persone, vive senza futuro, in un paese dove non hanno cittadinanza e dunque né lavoro né un proprio Stato dove tornare. E nonostante ciò proprio tra i campi profughi del Libano si impara che la resistenza di questo popolo non si è mai trasformata in vendetta. È invece uno degli insegnamenti più commoventi della storia della resistenza palestinese che dura tenacemente da sessant'anni: Stefano Chiarini, così duro e razionale si commuoveva girando dentro quei vicoli, se incrociavi il suo sguardo spesso aveva gli occhi lucidi. * Comitato Per non dimenticare Sabra e Shatila

giovedì 13 settembre 2012

Perchè proteggono e appoggiano il terrorismo contro Cuba? Cari amici, a Cuba, la nostra amata patria, si sono appena iscritti più di 2 milioni di studenti, fra politecnici, tecnici e università. Nell’anno passato, nelle cosiddette Scienze Mediche, cioè medicina, stomatologia, psicologia, infermeria e tecnologia pertinente, si sono formati 32.171 professionisti: e fra loro 5.694 medici di 59 Paesi del mondo, un po’ più dei 5.315 nuovi medici cubani. Ogni anno dai 47 centri docenti di formazione artistica escono circa 1.200 studenti. Sono solo pochi dati dell’educazione cubana, che è del tutto gratuita. Il tasso di mortalità infantile negli ultimi cinque anni s’è mantenuto nel nostro Paese al di sotto del 5% su mille nati vivi. Nel 2011 fu del 4,9%, il più basso di tutto il nostro continente (negli Stati Uniti del 6, 06%). La speranza di vita è quella dei Paesi sviluppati: oggi a 77, 98 anni. Questo è un indicatore, secondo quanto dice un esperto, "che riflette le condizioni di vita, di salute, di educazione ed altri aspetti socioeconomici di un Paese o regione'. E questi sono solo due indicatori della sanità cubana, che è del tutto gratuita. Nel 2011 sono stati a Cuba 2 milioni e 700 mila turisti, cifra record. (...) Un 84% ripeterebbe il viaggio. Un funzionario dell’ONU per la Prevenzione del crimine ha dichiarato recentemente che Cuba è il Paese più sicuro della regione, spiegando che non presenta la grave situazione di violenza che caratterizza il continente e ha grandi risultati nella riduzione della criminalità. Inoltre, ha elogiato le conquiste nello sport, cultura, sanità ed il fatto di aver sradicato l’esclusione totale. Il rappresentante dell’UNICEF a Cuba ha dichiarato che il livello d’applicazione della Convenzione sui diritti del bambino è eccellente. Il nostro Paese solidale ha relazioni diplomatiche con 190 Paesi. Con molti mantiene una stretta relazione di fratellanza e cooperazione, offrendo non quello che ci avanza –e veramente non c’è niente che ci avanza- ma quel che abbiamo. Più di 5 milioni di persone in diversi Paesi sono state alfabetizzate grazie al metodo cubano "Yo, sí puedo". Un Rapporto al Congresso USA del luglio di quest’anno, che in gran parte è calunniatore, riconosce che Cuba non è produttore nè consumatore di droga, e che il governo cubano ha preso importanti misure per evitare che si sviluppi il problema della droga, sempre offrendo cooperazione e disponibilità a sottoscrivere accordi con il nostro vicino del nord per combattere questo flagello. Militari di alto grado, ve lo ricorderete, hanno dichiarato nel nostro processo che Cuba non è una minaccia militare per gli USA… Al compimento di 14 anni di ingiusta reclusione, esamino questi dati che nessuno può controbattere, guardo al mondo di oggi che si dibatte dentro una complessa situazione economica e di guerre di rapina che possono portare alla distruzione della nostra specie, e pensando al nostro popolo tanto abnegato, fraterno, nobile quanto eroico, mi domando: Perchè gli Stati Uniti ci strangolano con il blocco? Perchè proteggono e appoggiano il terrorismo contro Cuba? Perchè alimentano un gruppo di mercenari che si fanno chiamare "dissidenza"? Perchè mistificano costantemente la nostra realtà? La mia prima risposta che credo riassuma tutto è: Perchè si vuole uccidere l’esempio. Perchè siamo stati arrestati, sottoposti a punizioni, processati a Miami, condannati alle più sproporzionate pene, dispersi in cinque prigioni? Per difendere l’esempio del vile flagello del terrorismo o forse per meglio dire, per punire questo esempio che è il nostro popolo... "Un principio giusto, anche dal fondo di una caverna, può più di un esercito..." "...all’uomo degno non costa morire aspettando nell’oscurità al servizio della patria..." "... Patria è umanità..." così l’Apostolo della nostra piena indipendenza, José Martí. Grazie per il vostro costante appoggio, per l’indistruttibile solidarietà. Cinque abbracci. ¡Venceremos! Antonio Guerrero Rodríguez 9 settembre 2012 Prigione Federale di Marianna

sabato 8 settembre 2012

PENTONE 2012 I POPOLI CHE RESISTONO Era la seconda volta che avevo il grande piacere di partecipare alla manifestazione di Pentone organizzata dal centro di documentazione “Invictapalestina”, l'anno scorso ne ero rimasta entusiasta e commossa per il grande impegno dei militanti e simpatizzanti, per la partecipazione estesa a buona parte del paese e soprattutto per i temi affrontati con chiarezza politica, onestà e generosità. Insomma una di quelle situazioni che alla luce dei tanti conflitti e contrapposizioni,che purtroppo si verificano anche all'interno della sinistra e delle associazioni pro-Palestina, ti fanno respirare un po' di aria fresca e danno speranza. Sono partita con grandi aspettative che non sono state deluse. La manifestazione di quest'anno, ricchissima di temi è stata anche più entusiasmante. I due intensi giorni di attività hanno visto la partecipazione di esponenti di varie realtà che sono andate oltre la Palestina, ma alla situazione palestinese erano ben legate dalla stessa aspirazione alla giustizia, alla libertà, al vivere degnamente. Ospitati con la ben nota generosità dagli abitanti del paese e coccolati da un'atmosfera di amicizia e da buoni cibi, i partecipanti si sono divise le relazioni in due giornate. Nel corso della mattina del primo giorno, la bellissima voce di Daria Spada, accompagnata alla chitarra da Maksim Cristan, si è levata dai balconcini fioriti e dalle piazzette del paese richiamando attenzione. I due musicisti che poi hanno fatto un concerto a chiusura della prima serata ci hanno accompagnato per tutti e due le giornate con stacchi musicali tra un intervento e l'altro. Un discorso a se andrebbe fatto su questi due giovani musicisti lui ex manager lei ex cantante lirica che hanno scelto di essere musicisti di strada, e che hanno portato una ventata di freschezza e di libertà, ma tutto l'intreccio di tematiche politiche espresse da interventi e dalle varie forme d'arte, il teatro con la toccante interpretazione di “Ritorno ad Haifa” di Gassan Kanafani ad opera di Patrizia Cecconi, lo spettacolo teatrale di Ernesto Orrico e Manolo Muoio che hanno raccontato storie di briganti calabresi, le letture di Katia Colica sull'emarginazione, la musica di “resistenza sonora” del gruppo rap calabrese Kalafro, hanno dato a tutta la manifestazione completezza e bellezza, non c'è stato un solo momento di calo di attenzione o di vuoto. Non è mancata neppure la presentazione dei vini “Cremisan” delle antiche cantine palestinesi, per far conoscere le “eccellenze palestinesi”. Israele vuole distruggere queste vigne per espandere la colonia di Gilo, come distrugge ogni possibilità per i palestinesi di esprimere e realizzare il loro ingegno, la loro cultura e la loro economia. Il primo pomeriggio di interventi si è concentrato sulla Palestina e sul popolo Saharawi, che a seguito dell'invasione del Marocco nel 1975 vive in parte nel Sahara occidentale occupato, in parte nei campi profughi algerini. Ha introdotto il tema Francesca Doria, osservatore internazionale dell'associazione “Haima-Campania”. Silvia Todeschini che ha vissuto a Gaza alcuni mesi, ha raccontato storie di vita quotidiana nell'inferno di Gaza dove anche andare a pescare o coltivare i campi significa diventare bersaglio dei militi israeliani che sparano sui pescatori incrociandoli anche prima delle tre miglia dalla costa, mentre i contadini lavorano i campi sotto il tiro dei cecchini e le uccisioni e i ferimenti sono un fatto quotidiano. Ma la determinazione a resistere dei gazawi è grande, una ragazzina ferita a cui Silvia racconta di aver fatto visita, dice “Nemmeno nei loro sogni ce ne andremo”. Bassam Saleh ha poi parlato della situazione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, in detenzione amministrativa, delle perverse modalità di arresto in piena notte e senza spiegazioni, delle torture, delle umiliazioni e minacce delle difficoltà di farsi difendere e della situazione dei minori in carcere oggetto delle stesse torture e vessazioni degli adulti. Quanto a me, ho rievocato storie della seconda Intifada che racconto nel libro “Festa di rovine”. Ma assieme alla Palestina e ai saharawi si è parlato anche della Calabria. Pino Fabiano attraverso la figura di Rosario Migale, a cui ha dedicato un libro, racconta tratteggiando la vita di questo partigiano calabrese, fatti della nostra storia tra cui la strage di Melissa e traccia un parallelo tra i palestinesi e i contadini calabresi entrambi oppressi entrambi con pochi mezzi di difesa: pietre o strumenti di lavoro. La seconda giornata di interventi è iniziata con la relazione di Enrico Campofreda, giornalista di “Contropiano” che durante le due giornate ha anche svolto il ruolo di moderatore. Si è soffermato sul tema delle primavere arabe, in particolare sull'Egitto che è anche il tema del suo libro presente a Pentone ”Diario di una primavera incompiuta”. Maria Teresa Messidoro, che è stata a lungo in Sudamerica in particolare in Salvador a proposito del quale ha pubblicato un diario di viaggio, ha invece parlato della resistenza dei popoli latino americani e in particolare del Messico e della forte volontà di partecipazione e decisionalità delle donne e dei giovani che contestano ogni burocrazia partitica. Ermelinda Varrese esponente del movimento NO TAV ha spiegato il perchè la popolazione della Valle si oppone al progetto dell'alta velocità. Ha parlato dei rischi ambientali, dell'inutilità dell'opera e della grande coesione e partecipazione alla resistenza di ogni singolo strato della popolazione, famiglie intere anziani e mamme che si organizzano per le proteste. La resistenza della Val di Susa è diventata un punto di riferimento nazionale. Infine Nando Primerano ha raccontato del centro sociale “Angelina Cartella” nato 10 anni fa dopo l'occupazione di un edificio pubblico che poi era stato abbandonato. Il centro sociale che è da allora diventato un punto di riferimento per gli abitanti del quartiere e per i migranti ha già subito tre incendi l'ultimo dei quali molto devastante. E' evidente la mano fascista e mafiosa che ha mosso questi attentati per impedire le attività volte a sostenere i migranti e ad organizzare attività per i bambini eventi culturali e corsi di italiano per stranieri. Sicuramente questi compagni sono molto coraggiosi e determinati. Due giornate ricchissime di contenuti, di eventi, di amicizia e di bellezza. Ce ne andiamo a casa portando con noi questo regalo di cui siamo grati al centro di documentazione, a Rosario, suo ispiratore, ai militanti e simpatizzanti e alle altre associazioni tra cui Emergency che hanno partecipato alla manifestazione. Mi ha molto amareggiata la notizia che qualcuno a Pentone ha avuto il “coraggio” di criticare questa splendida iniziativa non so per quali oscuri fini. A questo proposito voglio esprimere tutta la mia solidarietà e il mio apprezzamento e affetto agli organizzatori di Invictapalestina con la speranza che possiamo ancora rivederci e riabbracciarci per nuove manifestazioni.