mercoledì 30 aprile 2014

ICAHD ADERISCE ALL'ESPOSTO ALLA SUPREMA CORTE D'ISRAELE CONTRO IL POTERE DEI MILITARI RIGUARDO ALLA PIANIFICAZIONE DEL TERRITORIO NELL'AREA C DELLA CISGIORDANIA.

Comunicato Stampa del 24 aprile 2014






Il Comitato Israeliano contro le Demolizioni di Case (ICAHD) insieme a Rabbini per i Diritti Umani/ Shomrei Mishpat, al Centro dei Diritti Umani e di Supporto Legale di Gerusalemme, alla Società di San Yves, al Centro Cattolico per i Diritti Umani, insieme al consiglio del villaggio palestinese di Ad-Dirat- Al-Rfai’ya del distretto meridionale di Hebron in Cisgiordania, ha presentato un esposto alla Suprema Corte d'Israele per togliere dalle mani dei militari israeliani il potere di pianificare il territorio nell'area C della Cisgiordania, compreso quello di autorizzare le demolizioni delle case palestinesi e di restituire tale potere all'Autorità palestinese.

La Corte discuterà il caso lunedì 28 aprile 2014.

I precedenti: Le commissioni di pianificazione territoriale palestinesi sono sopravvissute alla guerra del 1967, ma senza alcun preavviso o “immediato bisogno militare”, il Comandante militare ha emesso nel 1971 l'ordinanza 418, che aboliva le commissioni e dava tutto il potere ai militari, che tuttora lo detengono. Durante il processo di pace di Oslo Israele accettava di restituire il potere di pianificazione urbanistica nell'area C all'Autorità palestinese, ma ciò non è mai stato fatto.

Nell'esposto si sostiene che l'Ordinanza 418 ha creato un regime separato e discriminatorio di pianificazione territoriale che, attraverso l’abolizione di qualsiasi rappresentanza della popolazione palestinese, rende illegali quasi tutte le nuove costruzioni da parte dei palestinesi che non hanno nessun’altra possibilità se non quella di costruire senza permesso e quindi di rischiare la demolizione. Questo è una palese violazione dell'articolo 64 della Quarta Convenzione di Ginevra che proibisce alla potenza occupante di estendere il proprio sistema legislativo ai territori occupati. In più la parte convenuta in giudizio - Il Ministero della Difesa, il Comandante dell'IDF [esercito israeliano] nei territori occupati, il Capo dell'Amministrazione Civile e il suo Consiglio Superiore di Pianificazione- hanno illegalmente trasferito ai militari il potere di pianificazione e di amministrazione di diritti garantiti a protezione della popolazione dalla Quarta Convenzione di Ginevra. Inoltre costoro hanno incluso i coloni nel processo di pianificazione e nella struttura. Esistono sedici comitati locali nell'area C per gli insediamenti coloniali, ma nessuna amministrazione locale palestinese dell'area C ha una commissione di pianificazione territoriale.

Il nostro esposto solleva per la prima volta davanti alla Corte Suprema la questione del trasferimento forzato dei palestinesi all'interno dei territori occupati come il risultato della pratica delle demolizioni di case- circa 30mila case e strutture abitative demolite dal 1967 e dei difetti della politica di pianificazione. Gli effetti delle demolizioni o della minaccia della demolizione sono devastanti e la politica di “ebraicizzazione” è evidente: nell'area C meno dell'1% viene destinato allo sviluppo palestinese, paragonato al 70% dei coloni. Infine il nostro esposto pone la fondamentale domanda: perché l'Amministrazione Civile [Militare] interferisce soprattutto sui problemi di pianificazione e di costruzione dei palestinesi nei territori occupati?

Per maggiori informazioni per favore contattare:

Jeff Halper, Direttore dell'ICAHD, +972 543039170 oppure

(traduzione di carlo tagliacozzo)

martedì 29 aprile 2014

Accordo di pace o capitolazione palestinese?

Adista Documenti 15/2014

Israele e la farsa dei negoziati
DOC-2613. PARIGI-ADISTA. A distanza di otto mesi dalla ripresa dei negoziati tra Israele e Autorità nazionale palestinese e a poco più di un mese dalla loro scadenza, fissata per il 29 aprile prossimo, il raggiungimento di un’intesa complessiva sulla fine del conflitto è ancora lontano. Il 2 aprile scorso il segretario di Stato statunitense John Kerry ha cancellato la visita a Ramallah prevista per quel giorno a seguito del rifiuto opposto dal leader dell’Anp, Abu Mazen, alla proposta di prolungare i negoziati e dell’avvio da parte dell’Anp delle procedure di adesione a 15 convenzioni, protocolli e trattati internazionali. 
A niente è servito il tentativo di Kerry, il quale, al fine di estendere i colloqui fino al 2015, aveva messo sul tavolo delle trattative la liberazione della spia israeliana Jonathan Pollard, in prigione negli Stati Uniti, in cambio dell’impegno del premier Netanyahu ad un congelamento degli insediamenti e alla liberazione di 400 detenuti palestinesi. Abu Mazen ha opposto un secco rifiuto. 
Ma se è vero che gli accordi sulla base dei quali sono ripartiti i colloqui dello scorso luglio impegnavano l’Anp a non rivolgersi alle istituzioni internazionali, è altrettanto vero che il primo a violarne i termini è stato il governo israeliano, che il 29 marzo scorso non ha rilasciato, come invece stabilito, 26 prigionieri palestinesi, gli ultimi dei 104 pattuiti a luglio. 
La sensazione è che abbia ragione lo storico israeliano Ilan Pappe, il quale, lo scorso anno, intervistato da il manifesto in occasione della ripresa dei negoziati (25/7, v. Adista Documenti n. 31/13), affermava che israeliani e statunitensi hanno tutto l’interesse a proseguire i colloqui con i palestinesi mentre Israele continua ad essere padrone della situazione nei Territori occupati e libero di espandere le sue colonie e l'Autorità nazionale palestinese è impegnata a impedire lo sviluppo di qualsiasi forma di resistenza all'occupazione militare. Secondo Pappe, al fine di evitare che i palestinesi si rivolgano alle istituzioni internazionali per vedere sanzionata l'occupazione e i crimini che commette, statunitensi e israeliani rilanceranno sempre il “processo di pace”, «dialogando tanto per dialogare senza prospettive di una soluzione fondata sulla legalità internazionale».
Che quella dei negoziati sia una farsa che Israele ha tutto l’interesse a prolungare indefinitamente, lo pensano in tanti. Così anche Michèle Sibony, dell’Union Juive Française pour la Paix (Unione ebraica francese per la pace), la quale, nel corso del convegno “Stato di Palestina: quali prospettive”, organizzato il 6 febbraio scorso a Parigi dalla Fondazione Gabriel Péri e dall’Istituto di relazioni internazionali e strategiche (Iris), ha tenuto un intervento nel quadro della tavola rotonda “Palestinesi e israeliani: due popoli pronti per la pace?”. «I negoziati – ha detto in questa occasione – sono diventati il fine e non il mezzo di tutta la politica israeliana degli ultimi anni: mantenere una situazione permanente di negoziazione in parallelo alla colonizzazione permanente, l’una relativizzando ininterrottamente gli effetti nocivi dell’altra». «I governi succedutisi in Israele non credono alla pace ma alla gestione del conflitto», ha proseguito: «Non essendo loro a subire l’occupazione, non hanno niente da perdere dalla creazione di situazioni di fatto che si convalidano da sole nel tempo, ritenendole spesso anche giuste». 
La domanda da porsi per Sibony non è dunque se palestinesi e israeliani sono pronti per la pace ma come porre fine alla dominazione coloniale per far sì che si giunga alla pace. «Il gruppo israeliano ebraico è pronto a riconoscere i propri privilegi? Il gruppo palestinese può accedere ai suoi diritti? La pace – ha concluso – non può che nascere da qui» e «non può essere che la conseguenza di queste due questioni, non un prerequisito come si è spesso voluto far credere».
Di seguito, in una nostra traduzione dal francese, ampi stralci dell’intervento di Sibony, tratto dal sito dell’Union Juive Française pour la Paix. (ingrid colanicchia)
Pronti per la pace?
di Michèle Sibony
Il titolo di questa tavola rotonda, “Palestinesi e israeliani, due popoli pronti per la pace?”, invita a una serie di riflessioni. Prima di tutto vi sono due termini da definire. Con popolo israeliano cosa si intende? Tutti i cittadini israeliani? Sappiamo bene che il 20% della popolazione israeliana è palestinese. Inoltre, la rivendicata corrispondenza perfetta tra Stato e gruppo ebraico conferisce a questa nozione di popolo una componente etnica nel migliore dei casi pre-moderna. Una delle ambiguità di Oslo, che ha fatto fallire il processo di pace, riposa proprio sulla definizione confusa, equivoca, di popolo israeliano.
Pensiamo allo slogan di Peace Now (movimento israeliano nato nel 1978, ndt): “Due popoli, due Stati”. Quali popoli? Quali Stati? Interrogativi elusi dal processo di Oslo (…). Potremmo ipotizzare che per il negoziatore israeliano si trattasse di uno Stato ebraico con i suoi cittadini ebrei - versus uno Stato palestinese - sulla base della definizione di Stato d’Israele come Stato del popolo ebraico. È d’altronde questa la ragione per cui la legge israeliana distingue nazionalità e cittadinanza, fatto raro in quelle che si è soliti chiamare democrazie. (…). Ipotesi poi ampiamente confermata, a ogni tentativo di negoziato, dalla reiterata richiesta dei governi israeliani del previo riconoscimento, da parte dell’Autorità nazionale palestinese, di Israele “come Stato nazione del popolo ebraico”. «Una vera pace è fondata sul riconoscimento da parte palestinese di Israele come Stato-nazione del popolo ebraico, perché questa è stata ed è la radice del conflitto», ha ribadito Benyamin Netanyahu il 20 gennaio scorso in un discorso alla Knesset. 
Piccola parentesi. In occasione di una riunione a Bruxelles il 18 luglio 2011, l’allora ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, dichiarava: «Penso che la menzione di “Stato ebraico” possa creare problemi; che io sappia, oggi in Israele ci sono anche degli arabi…». Due giorni dopo, nel corso di una conferenza stampa a Madrid, ecco arrivare la rettifica: «… non ci sarà soluzione al conflitto in Medio Oriente, senza il riconoscimento di due Stati nazione per due popoli. Lo Stato-nazione d’Israele per il popolo ebraico, lo Stato-nazione di Palestina per il popolo palestinese…».
Il negoziatore palestinese Nabeel Kassis gli ha di fatto risposto in un articolo pubblicato il 25 ottobre 2013 su Al Monitor, dal titolo “Perché i palestinesi non devono riconoscere Israele come Stato ebraico”: «I palestinesi vantano un diritto storico sulla Palestina e hanno il diritto di applicare il principio di autodeterminazione al fine di crearvi un loro Stato sovrano. Ne deriva il fatto che riconoscere Israele come Stato nazione degli ebrei contraddice e mette in pericolo i diritti di tutti i palestinesi che continuano a vivere sulla terra dei loro antenati, così come il diritto dei rifugiati palestinesi che sono stati cacciati con la forza, espulsi dalle proprie case nel 1948 per fare spazio a uno Stato con una maggioranza ebraica. Poiché i palestinesi non possono e non vogliono nuocere alla propria causa, non possono riconoscere Israele che come lo Stato del popolo che lì abita e questo popolo non è composto solo da ebrei! Di fatto, un quarto della sua popolazione attuale non è ebraico».
Dobbiamo dunque per prima cosa sottolineare l’inaccettabile parallelo stabilito tra i due gruppi israeliano e palestinese (…). E questo ci conduce al problema posto dal secondo termine del dibattito - “pronti per la pace” - il quale stabilisce una simmetria nelle responsabilità dei due gruppi che si suppone siano in guerra. Ma niente è più arbitrario rispetto ai fatti. Si sarebbe potuto trattare la questione sostituendo così le parti in causa: algerini e francesi, due popoli pronti per la pace?(…).
Ci si trovava di fronte, in quel caso, a un gruppo assoggettato in via di decolonizzazione e autodeterminazione nazionale, quello algerino, e a un gruppo dominante, i francesi. La questione riguardava le condizioni che avrebbero permesso al gruppo francese di rimanere in Algeria. Una sola condizione ma essenziale: che il popolo colonizzatore rinunciasse ai suoi privilegi e divenisse parte del popolo dell’Algeria indipendente, dove tutti i cittadini, quale che fosse la loro origine, avrebbero avuto uguali diritti. È senza dubbio perché è stato impossibile, specialmente a causa della violenza dello scontro, risolvere questa equazione, privilegi contro diritti, che il gruppo francese d’Algeria ha dovuto lasciare la sua terra natale.
La questione ora non è cercare la pace tra belligeranti, ma riconoscere il rapporto di dominazione coloniale tra un gruppo privilegiato, la cui componente ebraica gode anche di diritti preclusi a quella non ebraica, e un gruppo oppresso, che comprende anche coloro che hanno la cittadinanza israeliana, privato di diritti in maniera crescente a seconda che viva in Israele, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, nei campi rifugiati o in esilio.
La questione dovrebbe dunque essere formulata così: come porre fine alla dominazione coloniale per far sì che si giunga alla pace? Il gruppo israeliano ebraico è pronto a riconoscere i propri privilegi? Il gruppo palestinese può accedere ai suoi diritti? La pace non può che nascere da qui (…). Inoltre, non può essere che la conseguenza di queste due questioni e non un prerequisito come si è spesso voluto far credere.
In questo senso, il titolo di questa tavola rotonda chiama in causa anche la visione prevalsa in tutti i negoziati precedenti, in cui le proposte di pace israeliane hanno finito per somigliare al Trattato di Versailles, frutto di un rapporto di forza schiacciante che avrebbe poi condotto alla Seconda Guerra Mondiale, come riconosceva già nel 1993, dopo gli Accordi di Oslo, Edward Said (nel suo articolo “The morning after”): «Chiamiamo questo accordo con il suo vero nome: uno strumento per la capitolazione palestinese, una Versailles palestinese…».
Rinunciare ai propri privilegi è un’opzione che si prende in considerazione solo se questi divengono così costosi che la pace diviene preferibile (…). Ora, nell’ultimo decennio, Israele ha goduto di una crescita economica straordinaria, come risulta dai dati dell’Ocse, di cui fa parte dal 2010: una crescita al 3,7% nel 2013 contro un tasso medio dell’Ocse dell’1,2%; un debito inferiore alla media degli Stati Ocse e un volume di esportazioni di beni e servizi passato da 43 miliardi di dollari nel 2002 a 79 miliardi di dollari nel 2013.(…).
Quanto alla sicurezza, questa non è mai stata così alta. Basta citare i rapporti dei servizi di sicurezza israeliani del 2009, i quali precisavano come quell’anno fosse stato il più tranquillo degli ultimi dieci, e del 2010, «anno in cui il numero di attentati e di morti è stato il più basso in 10 anni», come pure la dichiarazione di Netanyahu, sul suo profilo Facebook, il 27 gennaio scorso, in occasione della Giornata internazionale della memoria: «Il 2013 è stato l’anno più tranquillo per la sicurezza dei cittadini israeliani da un decennio a questa parte». (…).
Crescita, economia fiorente, sicurezza, più un’impunità acquisita presso tutti gli organismi internazionali: presso l’Onu che non ha sanzionato i crimini dell’operazione Piombo fuso, sotterrando il rapporto Goldstone; e presso l’Unione Europea che in questi dieci anni non ha messo in atto alcuna sanzione contro le violazioni del diritto internazionale da parte del governo israeliano, accantonando il rapporto dei suoi esperti (novembre 2005) sulla strisciante annessione di Gerusalemme Est e sviluppando con Israele stretti e privilegiati legami di cooperazione scientifica, militare, commerciale, accademica.

STRATEGIA DI CONQUISTA E STRUTTURA COLONIALE
La strategia di conquista israeliana può essere sintetizzata nei tre elementi seguenti: occupare, colonizzare e negoziare.
Prima di tutto il mito più impressionante, quello del carattere temporaneo dell’occupazione, quando si tratta invece della più lunga occupazione della storia moderna: lo Stato di Israele, fondato 66 anni fa, convive da 47 anni, due terzi della sua esistenza, con il regime di occupazione che ha instaurato. Generazioni di israeliani non hanno conosciuto altro che questo e i più giovani non vedono nulla degli effetti mortali di questa occupazione, celati dal muro di separazione. Al punto che l’occupazione è diventata una caratteristica intrinseca del regime, dei suoi apparati, della sua economia.(…).
In occasione di una conferenza stampa tenuta a Davos il 24 gennaio scorso, Netanyahu ha dichiarato: «L’ho detto e lo ripeto: non ho intenzione di rinunciare a un solo insediamento e non ho intenzione di cacciare un solo israeliano».
Israele non ha mai rinunciato a questo atto di guerra, mentre, grazie o a causa di Oslo, l’Anp ha cessato ogni ostilità, entrando persino in un meccanismo di collaborazione securitaria con i servizi israeliani.
I negoziati sono diventati il fine e non il mezzo di tutta la politica israeliana degli ultimi anni: mantenere una situazione permanente di negoziazione in parallelo alla colonizzazione permanente, l’una relativizzando ininterrottamente gli effetti nocivi dell’altra.
I governi succedutisi in Israele non credono alla pace, ma alla gestione del conflitto: non essendo loro a subire l’occupazione, non hanno niente da perdere dalla creazione di situazioni di fatto che si convalidano da sole nel tempo, ritenendole spesso anche giuste.
L’esempio più eclatante è quello della famosa Linea verde del 1967 (i confini precedenti la Guerra dei sei giorni del 1967, ndt) la quale non è più un punto di riferimento per nessuna delle parti nei negoziati in corso. I blocchi di colonie sono annessi di fatto e non si tratterà più che di scambi di territori popolati da ebrei contro territori popolati da palestinesi. (...).
È il principio che prende piede nell’insieme dei territori tra il Mediterraneo e la Giordania: il principio di separazione. Strade separate, enclavi separate, colonie separate, Gaza circondata e completamente separata e, all’interno di Israele, l’opzione “ogni popolazione sul suo territorio”.
Così il Piano Prawer prevede l’evacuazione e l’espropriazione di migliaia di palestinesi beduini del Negev: ufficialmente ritirato, è di fatto messo in pratica già da anni, richiamando alla mente quello degli anni ‘70 che aveva come bersaglio la Galilea e si chiamava “Yehud hagalil”, giudaizzazione della Galilea.
In Israele, come nella Valle del Giordano in Cisgiordania, si applica la stessa politica: spingere le popolazioni palestinesi in enclavi territoriali predefinite da Israele al fine di liberare territori per le popolazioni ebraiche. Anche la zona chiamata “il Triangolo”, fortemente popolata da palestinesi dopo la Nakba del 1948, è considerata da anni come zona da scambiare con i blocchi di colonie in occasione dei negoziati. Siamo oggi di fronte a una configurazione spaziale quasi completata, disegnata dal muro, dalle strade, dagli insediamenti coloniali, dalle enclavi palestinesi, rispetto a cui la questione si pone nei termini di una distribuzione delle popolazioni, una distribuzione etnica.
L’impressionante arsenale di leggi e progetti di legge che minaccia lo status di cittadinanza dei palestinesi d’Israele mostra fino a che punto questi abbiano recuperato protagonismo. Considerati una minaccia interna dal governo israeliano, perché non sufficientemente separati, costituiscono, insieme al ritorno dei rifugiati, una delle questioni più spinose della risoluzione del conflitto, in quanto minacciano di “sommergere” il gruppo ebraico.

REGIME DI SEPARAZIONE
Tale stato di cose è messo in relazione a ciò che è divenuto oggi il sionismo. In un articolo pubblicato nel 2011, Ariella Azoulay e Adi Ophir ricordano che (…) «il sionismo è diventato un sostegno non allo Stato di Israele ma al suo regime attuale. Questo regime è confuso con lo Stato e lo Stato con la nazione». Spiegano che dal 1967 «il territorio che si estende dal Mediterraneo al Giordano è governato da un sistema statale unico e da un insieme coerente di apparati di Stato» che opera attraverso tre principi distinti di separazione: uno fondato sulla nazione, tra arabi ed ebrei, un altro sulla cittadinanza, tra cittadini e non cittadini, e un terzo sul territorio, basato sul moltiplicarsi degli status quo - 1948, 1967, Gerusalemme, Cisgiordania, zone A, B, C - che caratterizzano questo regime: mishtar hafrada, regime di separazione. Il sionismo è dunque divenuto un sostegno al Regime di separazione.
Questa caratterizzazione del regime israeliano è attestata anche dai lavori del Tribunale Russell per la Palestina nella sua sessione di Cape Town del 7 novembre 2011: «Il Tribunale conclude che Israele sottopone il popolo palestinese a un regime istituzionalizzato di dominio considerato come apartheid dal diritto internazionale. Questo regime discriminatorio si manifesta con intensità e forme variabili a seconda del luogo di residenza dei palestinesi che lo subiscono. I palestinesi che vivono sotto il regime militare coloniale nei Territori palestinesi occupati sono sottoposti a una forma di apartheid particolarmente grave. I cittadini palestinesi israeliani, pur godendo del diritto di voto, non fanno parte della nazione ebraica secondo il diritto israeliano, sono privati dei vantaggi che ne derivano e sottoposti a una discriminazione sistematica (…). Indipendentemente da tali differenze, il Tribunale conclude che l’applicazione dell’autorità israeliana sul popolo palestinese, quale che sia il luogo di residenza, equivale nel suo insieme a un regime integrato unico di apartheid».
L’appello del 2005 della società civile palestinese faceva per la prima volta riferimento, e con ragione, al regime di separazione instaurato in Sudafrica e agli strumenti utilizzati per porvi fine: Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).
(…). BDS è un movimento squisitamente politico finalizzato a porre termine a questo regime ed è un movimento «esponenziale», per citare Tipsi Livni, che oggi, finalmente, minaccia il senso di onnipotenza assicurato ad Israele grazie all’impunità che credeva fino ad oggi acquisita.
L’Unione Europea, senza dubbio sotto la pressione dei numerosi attori europei implicati nel movimento BDS, ha infine cominciato ad agire, emanando raccomandazioni riguardanti le imprese che hanno legami con le colonie. La Germania, la Romania, la Norvegia, le banche danesi e olandesi, l’American Studies Association che ha adottato il boicottaggio accademico di Israele… la lista cresce di giorno in giorno e preoccupa imprenditori e politici israeliani.
(…). BDS fa la differenza su più piani, rivelando efficacemente la vera natura di questo regime, illustrando presso un ampio pubblico le ragioni delle proprie azioni e richiamandosi chiaramente ai diritti rivendicati dall’appello palestinese del 2005, tra cui il diritto del ritorno per i rifugiati. Inoltre, unisce gli ebrei in un insieme diverso da quello che Israele vuole costruire nel mondo a partire dall’ebraismo. Tanti cittadini ebrei, statunitensi, europei e anche israeliani sono fortemente impegnati nel movimento BDS, dimostrando così di non riconoscersi nell’uso dell’ebraicità al servizio del regime e rifiutando il regime di apartheid non solo perché opprime un popolo ma anche perché mette in pericolo gli israeliani, e pure gli ebrei nel mondo, attraverso l’amalgama, propugnata dal sionismo, tra antisionismo e antisemitismo.
È questa la pace: l’aspirazione alla fine del calvario imposto al popolo palestinese, a una società libera dal suo razzismo strutturale e dal regime di separazione, che dovrebbe poter iscriversi, quale che sia la forma statale adottata tra il mare e il Giordano, nella ricerca di una coesistenza fondata sull’uguaglianza.
«La giustizia e l’uguaglianza dei diritti per tutti distruggeranno veramente Israele? L’uguaglianza ha distrutto l’America Latina o il Sudafrica? Ha messo fine all’ordine razziale discriminante che era prevalso, ma non ha distrutto né il popolo né il Paese» (Omar Barghouti, 31 gennaio 2014, New York Times)

Il monopolio della sofferenza e la questione palestinese In evidenza



Lunedì, 28 Aprile 2014 13:00
Sergio Cararo


Il monopolio della sofferenza e la questione palestinese

La questione palestinese – spesso rimossa o liquidata dall’agenda politica come una seccatura – è tornata ad imporsi all’attenzione di tutti, fin dentro casa nostra, con i gravi fatti avvenuti a Roma alla manifestazione del 25 aprile. Fatti che segnalano il crescente “nervosismo” delle autorità israeliane e di conseguenze dei loro terminali attivi nei vari paesi, Italia inclusa.

In pochi giorni abbiamo assistito ad una dinamica che ha riaperto i giochi nella regione ma che sta anche investendo il dibattito sulla memoria storica europea, italiana e mediorientale.

1) Dopo quasi otto anni di scontro, quasi una guerra civile a Gaza e divisioni profonde, le due maggiori organizzazioni palestinesi – Al Fatah e Hamas – hanno raggiunto un accordo che dovrebbe portare alle elezioni e produrre una nuova leadership dell’Autorità Nazionale Palestinese. L’accordo in questione ha fatto saltare i nervi del governo israeliano e degli Stati Uniti che, evidentemente preferivano di gran lunga la divisione interna ai palestinesi e il mantenimento dello stallo negoziale. Uno stallo del quale Israele ha approfittato sistematicamente per costruire nuovi insediamenti coloniali e mettere tutti di fronte al fatto compiuto

2) Il presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen in una dichiarazione ha condannato lo sterminio nazista degli ebrei in Europa. La cosa sembra “aver colto di sorpresa” molti osservatori piuttosto distratti. Il movimento di liberazione nazionale palestinese infatti non ha mai negato lo sterminio o le persecuzioni naziste contro gli ebrei in Europa. Ne ha contestato la strumentalizzazione da parte delle organizzazioni sioniste per legittimare l’espansione del colonialismo israeliano. Ma è cosa sostanzialmente diversa e ampiamente documentabile.

3) L’uno/due palestinese di questi giorni sta mettendo in serissima difficoltà il governo israeliano. Appare difficile sostenere che adesso non si può più negoziare perché i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania si stanno riunificando dopo otto anni di divisioni. Al contrario questo offrirebbe un interlocutore negoziale più rappresentativo. In secondo luogo il riconoscimento delle sterminio nazista priva la propaganda israeliana di uno dei suoi strumenti preferiti sia nella coesione interna che nella politica internazionale.

4) Viene da chiedersi, e se lo chiedono molti anche in Palestina, che cosa e su cosa oggi sia ancora possibile un negoziato tra palestinesi e israeliani. Gaza, dopo il colpo di stato in Egitto, somiglia sempre più ad un carcere a cielo aperto, la Cisgiordania è un territorio strappato, disgregato e forato in più punti dai vecchi e dai nuovi insediamenti coloniali israeliani che creano intorno a sé “zone di sicurezza” sempre più ampie a tutto discapito della vita e della mobilità dei palestinesi. E’ una trattativa ancora totalmente asimmetrica, costretta dentro ad un impari gioco a tre (Israele-Anp-Stati Uniti) che esclude del tutto altri soggetti internazionali e che vede un arbitro – gli Usa – del tutto sbilanciato sul versante degli interessi israeliani.

5) Eppure il debolissimo e indebolito potere negoziale palestinese sta facendo saltare i nervi agli apparati ideologici israeliani. La smaccata aggressione dei gruppi sionisti romani contro i manifestanti con le bandiere palestinesi lo scorso 25 aprile, ne è un indicatore evidente. A evidenziarlo erano gli argomenti usati dai sionisti: “cosa c’entrano le bandiere palestinesi con il 25 aprile?”. Qui si apre la pagina della memoria storica

6) Nelle manifestazioni del 25 aprile – da sempre – sono state ospitate delegazioni e bandiere di tutti i paesi e i popoli in lotta per la loro liberazione o che hanno portato a conclusione la loro autodeterminazione: da quelle del Vietnam e del Cile a quelle palestinesi o kurde. Nella giornata che celebra la Liberazione ottenuta attraverso la Resistenza contro l’occupazione, queste bandiere non possono che trovare ospitalità, consenso, empatia, solidarietà. Negli ultimi dodici anni, invece, la presenza delle bandiere della Brigata Ebraica (un reparto arruolato nelle forze armate anglo-americane che hanno combattuto in Italia contro i nazifascisti) sono diventate lo strumento per estendere questa presenza alle bandiere dello Stato di Israele e qui la contraddizione è diventata insanabile.

7) Agli occhi della comunità internazionale le bandiere dello Stato di Israele rappresentano ancora oggi quelle dell’oppressione coloniale contro il popolo palestinese. Per quanti sforzi siano stati fatti dagli apparati ideologici dello Stato israeliano (ambasciate, giornalisti amici, occupazione del sistema massmediatico) quelle bandiere non riescono ad essere vissute come emblemi di libertà e autodeterminazione. La memoria delle persecuzioni e dello sterminio nazisti contro gli ebrei in Europa è una memoria condivisa con l'antifascismo nel nostro e in altri paesi. Ma sta diventando insopportabile il tentativo degli apparati ideologici di Stato israeliani di monopolizzare e autocentrare su se stessi il monopolio della sofferenza e della memoria storica sulle tragedie dovute al nazifascismo e alla Seconda Guerra Mondiale, soprattutto quando questo viene strumentalizzato come fattore di sostegno alla politica dello Stato di Israele oggi. In questi anni abbiamo assistito ad una occupazione della storia che non rende giustizia alle sue vittime ma, al contrario, le allontana dall’empatia e dal senso comune della Resistenza come momento di rottura dell’occupazione nazifascista e dei suoi orrori. Soprattutto sulle nuove generazioni questo ha contribuito a indebolire la coscienza antifascista che dovrebbe essere il patrimonio comune di tutti coloro che lottano contro l’oppressione. I fischi che stavolta si è beccato in piazza il minoritario e oltranzista presidente della comunità ebraica romana dopo l’occupazione del palco, hanno segnato un punto di rottura che dovrebbe indurre a seria riflessione gli ambienti progressisti ebraici oggi troppo timidi, intimiditi o troppo indulgenti.

Viene spesso da chiedersi se la ruota della storia stia ancora girando in avanti o si stia fermando per tornare indietro. L’Europa che elegge se stessa a tempio della democrazia, vede crescere ancora una volta al suo interno - e per precise responsabilità delle sue classi dominanti – mostri e mostriciattoli del passato. Le profezie convergenti di Primo Levi e Bertold Brecht che invitavano a non ritenere ormai morta e sepolta “la bestia ancora feconda”, dovrebbe guidare la riflessione e l’azione di chi vede nella lotta di liberazione e nella Resistenza dei valori fondativi dell’umanità, anche in Palestina. Hegel afferma che diventa tragedia quando sono in lotta tra loro "due ragioni". Assistiamo invece ad un continuo rovesciamento della storia e del presente (vedi l'Ucraina). Ormai siamo abbondantemente oltre la tragedia. Prima ce se ne accorge, meglio è per tutti.

domenica 27 aprile 2014

Accordo Fatah-Hamas, Israele oggi decide le sanzioni


24 apr 2014


Si prevede l’approvazione di dure misure punitive nei confronti dei palestinesi. Gli Stati Uniti si schierano con Israele, l’Europa ha una posizione più sfumata

della redazione

Gerusalemme, 24 aprile 2014, Nena News – Il gabinetto di sicurezza israeliano si riunisce oggi per decidere la rappresaglia all’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas annunciato ieri a Gaza. La radio statale israeliana ha parlato dell’adozione di dure misure punitive ma ha escluso l’arresto completo delle trattative con l’Anp di Abu Mazen. Un funzionario dell’ufficio del primo ministro Netanyahu ha descritto l’accordo di riconciliazione tra i due movimenti politici palestinesi “molto grave”. Ieri Netanyahu aveva sentenziato che ”Chi sceglie Hamas, non vuole la pace, Abu Mazen ha scelto Hamas e non la pace con Israele”. Il premier quindi ha annullato l’incontro previsto tra i negoziatori delle due parti.

L’impressione è che il governo israeliano intenda usare la riconciliazione palestinese per addossare ad Abu Mazen la responsabilità del fallimento del negoziato mediato dagli Stati Uniti e per sottrarsi all’accusa di aver avvelenato per nove mesi il clima delle trattative con continui annunci di progetti di espansione delle colonie ebraiche nei Territori occupati palestinesi e, a fine marzo, con la decisione di Netanyahu di non far scarcerare l’ultimo gruppo di prigionieri politici che si era impegnato a liberare lo scorso luglio, all’avvio del negoziato.

L’esecutivo israeliano è forte anche della “delusione” americana per l’accordo Hamas-Fatah. Il Dipartimento di stato, attraverso la portavoce Jennifer Psaki, ha fatto sapere che l’accordo annunciato a Gaza potrebbe compromettere l’esito dei colloqui in corso per estendere le trattative di pace israelo-palestinesi oltre la scadenza prevista del 29 aprile.

Per Abu Mazen invece la riconcilizione con Hamas è una questione interna che non contraddice il suo impegno a favore della pace. Il presidente palestinese si prepara ora a visitare Gaza per la prima volta dal 2007, quando le sue forze di sicurezza si scontrarono, uscendone sconfitte, con le milizie del movimento islamico. Non è detto però che ciò avvenga. Non è la prima volta che i palestinesi annunciano la ricomposizione della frattura interna senza poi riuscire ad applicare i passi decisi a tavolino.

L’accordo siglato ieri prevede la formazione rapida, entro cinque settimane, di un governo di unità nazionale, elezioni entro sei mesi in Cisgiordania e a Gaza e la riorganizzazione delle forze di sicurezza. Punti sui quali Hamas e Fatah sembrano essere ancora lontani. In casa palestinese intanto si festeggia. Ieri a migliaia sono scesi in strada a celebrare l’intesa appena raggiunta inneggiando ad Abu Mazen e al premier di Hamas, Ismail Haniyeh. La gente di Gaza in particolare spera nel successo del processo di riconciliazione, augurandosi che ciò possa aiutare ad allentare il blocco attuato da Israele e l’Egitto. Al momento però le prospettiva vanno proprio nella direzione opposta. Nena News
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martedì 15 aprile 2014

Una lettera aperta a J Street: parliamone


di Jeff Halper

Mondoweiss, 3 aprile 2014

Jeremy Ben-Ami of J Street

Jeremy Ben-Ami di J Street [J Street, la nuova associazione ebraica americana “liberal” che sostiene la soluzione dei due Stati come conclusione del conflitto israelo-palestinese].

E' ora di ingoiare il rospo. Noi del campo critico (non/ anti/ post-sionista) per la pace capiamo perchè un'organizzazione sionista liberal come J Street non potrà mai prendere in considerazione, per non dire accettare, la fine della soluzione dei due Stati. lo avete detto voi stessi: la fine della soluzione dei due Stati è la fine di Israele come Stato ebraico; segna la fine del sionismo.

Abbiamo capito perché non potete arrivare fino a questo punto - ma il privilegio di scegliere la soluzione che preferite senza tener conto della sua attualità e praticabilità non è più un' opzione. Alla luce del fallimento dell'iniziativa di Kerry (e alla fine è fallita, non importa se Abbas può essere convinto a non andare all'ONU), non potete continuare a negare il fallimento della soluzione dei due Stati sulla quale si era basata. Non è stato un errore di Kerry o dei "negoziati" o di "entrambe le parti" e neppure dei falliti negoziatori di Oslo come Martin Indyk che voi e il governo americano continuate a esaltare che hanno portato a questo risultato; è stata una cosciente, deliberata ed esplicita politica di tutti i successivi governi israeliani fin dal 1967 che hanno reso impraticabile la soluzione dei due Stati.

Potreste avere ragione [a dire] che molti ebrei israeliani e arabi palestinesi vogliono la soluzione dei due Stati. Avete ragione [a dire] che sarebbe l'unico modo per salvaguardare uno Stato "ebraico". Ma voi andate a sbattere contro tre insormontabili dati di fatto: (1) nessun governo israeliano - e sicuramente non l'attuale - ha mai considerato seriamente una reale soluzione dei due Stati, e nei fatti tutti hanno lavorato assiduamente (e con successo) per creare "situazioni di fatto sul terreno" per prevenire la formazione di uno Stato palestinese realmente sovrano e vitale; (2) l'opinione pubblica israeliana non ha la minima idea cosa significhi la "soluzione dei due Stati" e semplicemente non gliene importa niente; quella che chiamiamo "occupazione" è diventata un non-problema in Israele e gli ebrei israeliani non faranno niente per eliminarla; e (3) fino a quando Israele ha in mano il Congresso - cosa che fa nonostante tutti i vostri sforzi - potrà sbeffeggiare il Governo, gli Europei, l'ONU, le leggi internazionali, i valori progressisti degli ebrei e pure J Street; o almeno così crede.

La fine del tentativo di Kerry è una gran cosa. Rappresenta quel decisivo momento critico di cui noi della sinistra critica abbiamo parlato per anni: nel giro dei prossimi mesi, forse giorni, Israele avrà definitivamente abbandonato ogni possibilità di fare una giusta pace con i palestinesi in favore di un sistema di apartheid o, peggio, di una segregazione dei palestinesi in ghetti permanenti. Israele annetterà unilateralmente i "blocchi di colonie", fino a un 30-40% della Cisgiordania, affermando che "non ci sono partner per la pace", dobbiamo garantire la nostra sicurezza e, d'altronde, il 95% dei palestinesi vive sotto il controllo dell'Autorità Nazionale Palestinese nelle aree A e B (38% della Cisgiordania divisa in 70 enclave) e a Gaza. Sia che l'ANP rimanga come regime collaborazionista o scompaia non fa differenza. L'occupazione è finita. J Street ammetterà che siamo arrivati all'apartheid, o cercherà di considerare un bantustan palestinese come una soluzione dei due Stati "abbastanza buona"?

Alla luce della lotta per una pace veramente giusta tra israeliani e palestinesi, per la quale la soluzione dei due Stati era semplicemente una diversione, vorrei suggerire che noi vediamo la fine dell'iniziativa di Kerry come una cosa positiva. Finalmente la nebbia della soluzione dei due Stati si è dissolta. Finalmente vediamo la realtà: messi a nudo, la rude occupazione e l'apartheid senza pretese di due”parti” uguali o negoziati onesti. E adesso, dove andremo a finire?

Se J Street può prendere insegnamento da quando esiste, è che non si può semplicemente sostenere una posizione politica. Non puoi promuovere "soluzioni" come quella dei due Stati semplicemente perché non puoi prendere in considerazione nient'altro. Se non c'è più un rapporto tra le tue posizioni politiche e la realtà politica sul terreno, le tue posizioni devono cambiare che tu voglia o no "arrivarci". Alla fine, se J Street vuole davvero salvare qualcosa che valga la pena dalle macerie della soluzione dei due Stati, deve rendersi conto ciò che era evidente per tutti il 1 aprile 2014: Israele stesso e nessun altro ha reso Israele/Palestina uno Stato indivisibile.

Perché scrivo questa lettera aperta a voi di J Street, un’organizzazione che non accetterebbe mai gente come me tra le sue fila? Perché dopo la soluzione dei due Stati, J Street può aiutare a creare un ponte [che superi] le differenze tra i sostenitori di una soluzione giusta e permanente [che fanno parte ]della sinistra critica e dei progressisti. Unendosi a noi, dissidenti israeliani, palestinesi ed altri, in una riflessione comune su una questione che rimane [aperta] per tutti noi: ora che la soluzione dei due Stati è svanita, dove siamo diretti? Questa è una questione resa urgente dal fallimento dell'iniziativa di Kerry. Ciò è importante non solo per i palestinesi post-ANP che ora devono dotarci di una guida, ma per chiunque sia interessato a garantire un posto per gli ebrei israeliani in quello che sarà un paese comune.

Il nuovo capitolo aperto davanti a noi sarà infinitamente più difficile e impegnativo di quanto sarebbe stato ottenere una soluzione dei due Stati, ma è andata così. Israele ha fatto la sua scelta. Questo è un momento storico. Siamo tutti noi all'altezza della situazione?

Jeff Halper è il presidente del Comitato Israeliano contro la Demolizione di Case (ICAHD). Può essere contattato all'indirizzo jeff@icahd.org

(Traduzione di Amedeo Rossi)


venerdì 11 aprile 2014

I diplomatici dell’UE avvertono del pericolo di un conflitto regionale riguardo alla Spianata delle Moschee.


I diplomatici dell’UE avvertono del pericolo di un conflitto regionale riguardo alla Spianata delle Moschee.

Le politiche di Israele,secondo il rapporto, mirano a consolidare l’annessione illegale e unilaterale di Gerusalemme Est.

di

Amira Hass

Haaretz 28 marzo 2014

I diplomatici dell’Unione Europea accreditati a Gerusalemme e a Ramallah hanno avvertito [della possibilità] di un conflitto concernente la Spianata delle Moschee. Un rapporto interno del 18 marzo, inoltrato a Bruxelles, avverte del pericolo di un cambiamento dello status quo del luogo sacro e anche della crescente tensione alimentata dalle richieste dei gruppi ebraici di destra.

Secondo il rapporto, pervenuto a Haaretz, “ vi è un pericolo reale che incidenti in questo sito estremamente delicato o supposte minacce contro lo status quo, possano provocare reazioni estreme non solo a livello locale ma anche in tutto il mondo arabo e musulmano, e possano far fallire i negoziati di pace”.

Nel rapporto si dice che quasi 100mila residenti di Gerusalemme Est sono a rischio di perdere la loro casa a causa delle restrizioni che Israele ha imposto sul diritto di costruire [abitazioni].

Il rapporto descrive come Israele infrange i diritti dei palestinesi che vivono a Gerusalemme est, centrando [il discorso] sui limiti al loro diritto di movimento e all'accesso alle abitazioni.

La politica di Israele tende a "rafforzare l'unilaterale ed illegale annessione di Gerusalemme est", dice il rapporto.

I rappresentanti UE hanno anche lanciato l’allarme in merito all’idea di dividere la Spianata delle Moschee e di attribuire ad ogni religione tempi separati per la preghiera, come è stato fatto a Hebron alla Grotta dei Patriarchi che per i musulmani è conosciuta con il nome della moschea di Ibrahim. Il rapporto contiene una critica implicita nei confronti di una tendenza delle autorità religiose musulmane e palestinesi a negare lo storico legame degli ebrei alla Spianata delle Moschee.

I rappresentanti della UE presso l’Autorità Palestinese hanno cominciato a scrivere rapporti annuali sulla politica di Israele verso i territori palestinesi fin dal 2005.

“Incremento nella costruzione di colonie”

In un messaggio riservato inviato agli USA, il rapporto scrive che una vera pace è possibile solamente se viene risolto lo status di Gerusalemme come capitale di Israele e del futuro Stato di Palestina.

Il rapporto sottolinea “l’incremento senza precedenti della [costruzione di nuovi] insediamenti” dalla ripresa dei negoziati nel luglio del 2013. Ciò sembra parte della strategia di Israele di usare la costruzione delle colonie e delle infrastrutture “per espandere Gerusalemme in profondità nella Cisgiordania” in modo da includervi i blocchi di colonie di Maale Adumin, Gush Etzion e Givat Ze’ev.

Lo studio analizza il deliberato detoriamento delle condizioni politiche, sociali e economiche dei palestinesi di Gerusalemme, in conseguenza di una politica deliberata da parte di Israele.

Mentre il 39% (372.000) degli 800.000 residenti di Gerusalemme sono palestinesi, a loro è assegnato solamente un 10% del bilancio comunale, afferma il rapporto.

E afferma che 200.000 tra i residenti sono ebrei che vivono negli insediamenti colonici di Gerusalemme Est.

“La maggior parte di questa area è già edificata; la densità abitativa consentita è ridotta e gli standard di programmazione e di costruzione richiesti sono difficili da rispettare. L’insieme di questi due [requisiti] rendono la procedura di richiesta complessa e costosa. Almeno il 33% di tutte le case palestinesi di Gerusalemme Est sono prive della licenza di costruzione da parte israeliana, il che pone oltre 93.000 palestinesi a rischio di espulsione” dice il rapporto.

Nel 2013 le autorità israeliane hanno demolito 98 edifici a Gerusalemme Est, quasi il doppio di quelli dei precedenti due anni messi insieme. Degli edifici demoliti 39 erano di natura commerciale e 24 erano abitazioni. Il risultato è che 298 persone, di cui 153 bambini, hanno perso la loro casa nel 2013, mentre altre 400 hanno perso il loro posto di lavoro e la fonte del proprio sostentamento afferma il rapporto.

In aggiunta alle restrizioni sulla libertà di movimento dei palestinesi, secondo il rapporto Israele si comporta allo stesso modo con i cittadini europei. Viene citato il caso di europei che, avendo ricevuto il visto solamente per la Cisgiordania, si sono visti impedire l’ingresso a Gerusalemme per andare dai propri consolati.

L’80 per cento vive sotto il livello di povertà.

Più di 2.000 scolari e di 250 insegnanti a Gerusalemme Est devono attraversare ogni giorno i checkpoint per andare a scuola. A causa di tali restrizioni e del rifiuto da parte di Israele di riconoscere l’Università di Al Quds, le scuole di Gerusalemme Est soffrono di una forte carenza di insegnanti di matematica e di scienze. Per la stessa ragione anche gli ospedali sono carenti di medici, è detto nel rapporto.

A causa della barriera di separazione, delle restrizioni sulla libertà di movimento, e della separazione di Gerusalemme Est dalla Cisgiordania, la città ha cessato di essere il centro delle attività economiche, commerciali e culturali di tutti i palestinesi della Cisgiordania.

Prima della firma degli Accordi di Oslo, l’economia di Gerusalemme Est rappresentava il 15% dell’economia palestinese, ma oggi siamo solamente al 7%. L’80% della popolazione palestinese di Gerusalemme e l’85% dei bambini palestinesi vivono sotto il livello di povertà , [dati] del 2013.

Il rapporto ripete le stesse raccomandazioni fatte negli anni precedenti. Lancia un appello affinchè venga incrementata [la presenza] della popolazione palestinese e perché venga preservato il carattere di Gerusalemme come possibile capitale di entrambi i due popoli.

Raccomanda vivamente uno stretto controllo sulla Spianata delle moschee e sul quartiere di Silwan a Gerusalemme Est. Si appella alla Unione Europea perché agisca contro il piano di Israele di trasferire forzatamente i Beduini fuori dalla zona E1 vicino a Gerusalemme. Infine il rapporto afferma che l’UE dovrebbe prendere in considerazione di vietare l’ingresso in Europa ai coloni rei di violenze.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)

mercoledì 2 aprile 2014

Il sangue che è accettabile spargere.


Gli ulteriori dolori e tribolazioni dell'esercito più morale del mondo (parte di una serie in corso, ahimè)

di

Gideon Levy

Haaretz 30 marzo 2014


Cos’è peggio, un insensato omicidio colposo o un omicidio premeditato? Cosa è più efferato, l’uccidere gratuitamente a causa di un errore di identità o un omicidio gratuito senza errori di identità?

L’esercito israeliano (IDF) ha risposte certe a queste domande, a riprova del proprio sistema di principi.

Non sono le circostanze dell’uccisione, quanto piuttosto esclusivamente l’identità delle vittime che stabiliscono la sua [dell’ omicidio] tipologia.

Se l'esercito israeliano pretende di essere “guidato da principi morali”, e questi sono i suoi principi, allora sarebbe meglio non avere tali pretese come prioritarie. Il capitano Tal Nachman, Yusef un Shawamreh e Samir Awad non non si sono mai incontrati né da vivi né da morti.

Tutti e tre devono aver avuto sogni e progetti per il futuro, famiglie che gli volevano bene e amici solidali.

Solo il loro unico, terribile destino li ha uniti, e solo per un attimo: tutti e tre sono stati uccisi dall'esercito israeliano, senza alcun motivo.

Nachman, 21enne, di Nes Tziona; Shawamreh, 14enne, di Deir al-'Asal al-Foqa e Awad,16enne, di Budrus, sono stati vittime della politica del grilletto facile dell’IDF.

Nachman è morto circa due mesi fa, nei pressi della barriera al confine con Gaza; Shawamreh è morto dieci giorni fa, vicino alla barriera di separazione in Cisgiordania sul monte Hebron, e Awad è morto circa 15 mesi fa a Budrus, nei pressi della barriera.

Tutti e tre sono stati uccisi in un agguato: Nachman dopo che i soldati hanno notato un movimento sospetto senza preoccuparsi di identificarlo; Shawamreh quando è entrato in Israele attraverso un buco nella recinzione effettuato almeno due anni prima, per raccogliere delle piante selvatiche sul campo della sua famiglia; e Awad dopo aver attraversato un buco simile, per una sfida tra amici. Nessuno di loro meritava di morire. I due palestinesi erano disarmati e non costituivano pericolo per nessuno.

Shawamreh è stato colpito da solo qualche decina di metri e, secondo un rapporto di B'Tselem - il Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati - è morto dissanguato, in attesa di un'ambulanza che ha impiegato circa 30 minuti per arrivare. Awad è stato per prima colpito e ferito, intrappolato tra due recinzioni; quando ha cercato di fuggire in direzione del suo villaggio, i soldati gli hanno sparato altre due volte, a distanza ravvicinata, alla testa e alla spalla, uccidendolo.

Un ufficiale del Comando Centrale dell'IDF ha definito l'evento come "non positivo."

Positivo o no,vediamo come l'IDF ha affrontato questi tre episodi, due dei quali forse sono crimini di guerra.

La scorsa settimana, circa due mesi dopo l'uccisione accidentale di Nachman, il Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Gen. Benny Gantz, ha annunciato l’allontanamento di alcuni soldati e ufficiali che sono stati coinvolti nell'incidente.

Secondo un'indagine dell’IDF - che ovviamente è stata subito realizzata - ci sono stati "errori nella pianificazione e nell'esecuzione dell’ operazione" che hanno portato alla tragica uccisione di Nachman. Le morti dei due ragazzi palestinesi non erano meno tragiche, ma nei loro casi "l'inchiesta non è ancora stata completata," nessun "errore" è stato riconosciuto, e nessuno è stato allontanato o indagato. Nachman è stato elogiato dal capo di stato maggiore - "Abbiamo perso una persona meravigliosa" - ma forse anche le famiglie Awad e Shawamreh hanno perso delle persone meravigliose.

Quindici mesi dopo la morte di Awad, alla fine della scorsa settimana il padre, Ahmad Awad, ha inoltrato una petizione all'Alta Corte di Giustizia, insieme a B'Tselem, chiedendo che il procuratore generale militare, il Gen. di Brigata Dany Efroni, decidesse se processare i soldati che avevano sparato al figlio o chiudere il caso.

L'IDF sostiene che l'indagine è "complessa", la formula tipica per insabbiare casi [del genere]. L'inchiesta sulla morte di Shawamreh sicuramente avrà lo stesso destino. Che cosa c’è di così complesso nell’indagine sulle circostanze della morte di Awad? Ho visitato la scena due giorni dopo che fu ucciso, le macchie di sangue sulle rocce erano ancora fresche. Gli amici [che erano] con lui in quel momento mi hanno fatto vedere dove ha cercato di fuggire, prima di essere ucciso.

Persino l'ufficiale che ha detto che l'incidente non era "positivo" deve aver saputo di cosa stesse parlando. Ma la polvere si sta depositando sul fascicolo.

Shawamreh è morto in circostanze analoghe, perché nessuno è stato punito per la morte di Awad. Questo è il messaggio "del principio morale" per i soldati: è lecito versare il sangue di adolescenti palestinesi, nessuno di voi sarà allontanato ed anzi potreste persino essere promossi - perché funziona così nell'esercito più morale del mondo.


(traduzione di Carlo Tagliacozzo)

martedì 1 aprile 2014

Gli intellettuali che hanno salvato la Palestina dall’oblio






CULTURA. Gli intellettuali che hanno salvato la Palestina dall’oblio
1
31 mar 2014
apartheid, cultura, Israele, Palestina, wasim dahmash
by Redazione

Con intere generazioni ora sotto Apartheid, la cultura è stata fondamentale per la sopravvivenza della Palestina. Intervista a Wasim Dahmash, docente di lingua e letteratura araba all’Università di Cagliari e traduttore di numerosi autori arabi contemporanei.







di Ilaria Brusadelli e Marco Besana

Roma, 31 marzo 2014, Nena News – Cosa significa “cultura”? E come, soprattutto, la cultura può aiutare la Palestina a uscire dal silenzio di un’Occupazione che si nutre di stereotipi e che punta a cancellare un popolo con tradizioni millenarie?

Lo abbiamo chiesto a Wasim Dahmash, che spiega il rapporto tra due culture – quella italiana e quella palestinese – e insiste sulla difficile situazione in cui si trova quest’ultima, soffocata da una nuova Apartheid ma che ancora resiste nelle nuove generazioni di intellettuali, ricercatori, scienziati.

Wasim Dahmash nasce in un campo profughi di Damasco nel 1948, l’anno della Nakba, da genitori palestinesi, come lui dice, “appena arrivati in città”: espulsi da Lidda (ora città israeliana) e costretti a trovare rifugio al di fuori della loro terra.

Arriva in Italia nel 1966. Qui studia e insegna per vent’anni Dialettologia Araba all’Università La Sapienza di Roma. Ora è docente di Lingua e Letteratura araba all’Università di Cagliari. Ha curato inoltre la traduzione in italiano di numerosi testi di autori arabi.

Che cos’è cultura per lei? E come due culture, incontrandosi, possono arricchirsi?

È una domanda molto difficile, in realtà non esiste una vera risposta. I grandi intellettuali concordano almeno su un aspetto: la cultura è un sistema di valori nel quale si riconosce gran parte di un gruppo umano. In questo sistema di valori ci sono un’infinità di connotazioni che formano il gruppo e lo distinguono da altre culture. Io non azzarderei una definizione, ma da un punto di vista generale ciò che potrebbe distinguere una comunità culturale è principalmente la lingua. L’incontro di vari gruppi umani connotati culturalmente può essere un arricchimento solo se sono in una condizione di parità di diritto ma soprattutto di fatto. Ad esempio, l’incontro dei coloni britannici in varie parti del mondo con gli indigeni è stato un arricchimento o un impoverimento? In una situazione di disuguaglianza l’incontro tra due culture provoca un impoverimento per entrambe. Nella realtà è difficile che due culture siano in una situazione di uguaglianza. Possono essere “quasi” in parità: anche quando c’è una parità di diritto, può non esserci di fatto. Nonostante questo, la presenza di gruppi e anche di individui provenienti da culture diverse arricchisce la realtà che li ospita e viceversa perché tutti sono chiamati a condividere un sistema di valori.

Oggi si parla di Palestina soprattutto per quanto riguarda la situazione politico-sociale, dando poco spazio alla cultura, spesso poco conosciuta.

Non è vero che non si conosce la cultura palestinese, una cultura millenaria culla di tradizioni che hanno influenzato molti gruppi umani. Un aspetto fondamentale, ad esempio, è quello della religione ed è acquisito in gran parte del mondo. Esistono oltre due miliardi di cristiani: quasi terzo dell’umanità crede nei valori che si sono creati in Palestina. Esiste anche il gruppo ebraico, che crede in una religione nata in questo territorio ed un miliardo e mezzo di musulmani, che sono partecipi di questo sistema di valori e credenze.

Inoltre uno dei sistemi di scrittura più diffusi al mondo, quello alfanumerico, nasce proprio in Palestina. Questi sono solo degli esempi per dire che non esiste una cultura così isolata da sembrare estranea. Nel caso della cultura palestinese possiamo dire che condivide parte delle sue radici con almeno metà dell’umanità.

Certo, su alcune questioni che riguardano la cultura palestinese contemporanea, ovvero la storia dell’Occupazione della Palestina e della nascita dello Stato di Israele, allora sì che non si conosce abbastanza…

Che autori e artisti consiglierebbe per avvicinarsi alla cultura palestinese dell’ultimo secolo?

La produzione artistica palestinese è importantissima, e molto ricca.

Uno dei massimi poeti del XX-XXI secolo è Mahmoud Darwish. Uno scrittore fondamentale è Ghassan Kanafani: tra i suoi romanzi e racconti brevi cito l’ultimo dal punto di vista cronologico “La terra delle arance tristi”, e le sue opere più celebri “Ritorno ad Haifa” e “Uomini sotto il sole”. Poi consiglio il film palestinese “Omar” del regista Hani Abu-Asad, che quest’anno è stato candidato anche all’Oscar. Una bellissima storia d’amore tra ragazzi…

Si può dire che non solo il popolo, ma anche la cultura palestinese oggi sia sotto Apartheid?

Sì, certo. Gli intellettuali vivono in una situazione di discriminazione perché non hanno le condizioni che permettono di operare socialmente. Condizioni diverse, ma pur sempre di discriminazione sono quelle in cui si trova la comunità culturale palestinese che vive nei territori dello stato di Israele, visto che non ha accesso ai finanziamenti.

Negli altri stati in cui vivono la maggior parte dei palestinesi profughi le condizioni sono diverse, ma, comunque, spesso difficili.

Cosa permette in generale di preservare la “cultura palestinese” contemporanea?

L’operato di grandi intellettuali. Dall’inizio dell’intervento coloniale, che inizia con il mandato britannico, c’è una reazione quasi di sfida sul piano dell’alta cultura. C’è una crescita straordinaria di un’élite palestinese soprattutto scientifica che forse in una situazione diversa non si sarebbe realizzata. Da ricercatori a uomini di teatro, gli intellettuali hanno dato una risposta positiva alla situazione. È questo che ci fa sperare, altrimenti sarebbe la fine.

Vive in Italia da quasi 50 anni, qual è l’immagine che l’Italia ha della Palestina?

In questo momento è assolutamente distorta. I personaggi politici sono influenzati dalla narrazione israeliana e spesso non si rendono conto di essere caduti nel tranello del razzismo. Questo riguarda anche uomini e donne di cultura. L’élite italiana, in gran parte, non ha una visione della realtà del territorio israelo-palestinese: non si può parlare di Israele senza parlare di Palestina e viceversa. La realtà è questa: c’è una popolazione indigena che si è vista invadere da una popolazione coloniale e si è creata una realtà nuova. È con questa realtà che bisogna confrontarsi.

Però c’è un’altra Italia – che oggi sembra minoritaria – che crede nei valori della giustizia, che s’informa e non crede alla propaganda sionista. Capisce che c’è una grande ingiustizia che continua ad essere perpetrata sulla Terra Santa. Esiste una doppia visione della situazione.

Quindi crede che l’Italia di tutti i giorni abbia una visione reale sulla Palestina?

Solo la parte che ha più coscienza etica è attenta alle condizioni delle popolazioni sottomesse. Ieri del Sudafrica e oggi della Palestina. Purtroppo oggi questa è una parte minoritaria, ma non è sempre stato così: l’Italia di oggi è molto diversa di quella di 20 anni fa.

Oggi sembra ci sia il dovere morale di giustificare a ogni costo l’esistenza Israele, cosa che spesso impedisce di avere una visione obiettiva della situazione della Palestina.

C’è uno Stato, che è quello di Israele, che cerca di “camuffare” la Palestina. Lo stato di Israele è dislocato su un territorio che storicamente è territorio palestinese, è semplice. Non è che cambiando il nome cambia la realtà. Quella parte di territorio con la popolazione a maggioranza israeliana è il risultato di una pulizia etnica e del fatto che ci sono moltissimi profughi che hanno lasciato la loro terra, ma aspettano ancora di tornare.

Abbiamo parlato dell’immagine che ha l’Italia della Palestina. Che immagine hanno invece i palestinesi dell’Italia?

L’immagine diffusa è quella di un Paese meraviglioso, splendido. Gli arabi in generale, ma in particolare i Palestinesi, hanno un amore incredibile per l’Italia, e quasi non si capisce il perché. Forse c’è qualcosa di inconsapevole nella memoria collettiva dovuto ai forti legami storici che ci sono stati.

L’Italia gode di una reputazione ottima: la musica italiana è meravigliosa, il cinema italiano è fantastico, le scarpe italiane sono le migliori, l’Italia è il paese più bello del mondo, gli italiani sono le persone più gentili del pianeta e così via. Questo è vero. Ma solo in parte.

Quali sono i punti di contatto e le differenze tra la cultura palestinese e la cultura italiana?

La cultura mediterranea esiste ancora, nonostante i cambiamenti portati dalla globalizzazione: c’è una comunanza dello sviluppo della civiltà che è lungo secoli, millenni e che non si può negare.

Una differenza che rende il popolo palestinese unico è il fatto che nessun gruppo umano si è mai trovato nella condizione di essere condannato a morte senza potersi né liberare né di vedere l’esecuzione della loro condanna.

Ma gli occupanti non riusciranno a eliminare la presenza degli indigeni. Non ci riusciranno mai. Il Centro di Statistiche israeliano dichiarava che tra il Mediterraneo e il Giordano (Israele, Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme) vivono 12.118.510 persone. I palestinesi (compresi quelli con passaporto israeliano) sono 6.076.510, mentre gli israeliani ebrei 6.042.000 alla data del 14 aprile 2013. Hanno consapevolmente cercato di cancellare i palestinesi. Ma non ci sono riusciti. E questa condizione ha irrimediabilmente influito non solo sulla vita delle persone, ma ovviamente anche sul loro pensiero, sulla cultura e sulla produzione artistica.

Ci ha raccontato gli stereotipi che hanno gli italiani e i palestinesi vicendevolmente. Esiste un antidoto a queste generalizzazioni?

Il comportamento a livello di massa è fortemente condizionato da chi ha un ruolo guida. Da molti anni la società civile palestinese ha fatto un appello per il boicottaggio, anche culturale, che mira a colpire non i singoli intellettuali israeliani ma le istituzioni di Israele. Ad esempio le università israeliane che partecipano alla progettazione di armi nuove dovrebbero essere boicottate. Questo appello in Italia è stato accolto solo a livello personale da alcuni ricercatori. Negli Stati Uniti, invece, molte università non collaborano più con le università israeliane. Gli israeliani sono arrabbiatissimi per questo. E ciò porterà un cambiamento. È molto importante l’esempio delle persone che guidano la comunità: a livello nazionale, locale ma anche in gruppi più piccoli: dal sindacato a una classe scolastica. Un insegnante che spiega ai suoi alunni come stanno le cose, un prete che nella sua omelia spiega la differenza tra l’Israele dei testi Sacri e lo stato d’Israele… tutti questi sono i veri “antidoti” ad ogni stereotipo. Nena News.