giovedì 31 maggio 2012

Prigionieri in sciopero della fame: Israele li lascia morire

APPELLO URGENTE: Grave preoccupazione per la vita di Mahamoud Sarsak ed Akram Rikhawi da lungo tempo in sciopero della fame Jaffa-Rasmallah, 31 maggio 2012 - Le condizioni di salute di Mahamoud Sarkas, attualmente al suo 74° giorno di sciopero della fame ed Akram Rikhawi, attualmente al 50° giorno di sciopero della fame, stanno rapidamente deteriorandosi. A dispetto dell'urgenza delle loro condizioni, il Servizio Israeliano della Prigione (IPS) sta ancora negando l'accesso a dottori indipendenti di Medici Israeliani per i Diritti Umani (PHR-Israel) perché li visitino e rifiutando di trasferirli ad ospedali civili per trattamenti appropriati. Il giudice Abraham Talgave del Distretto della Corte Israeliana ha dato all'IPS un periodo di 12 giorni da ieri, 30 maggio, per permettere l'accesso di dottori indipendenti per entrambi i prigionieri. PHR-Israel, Addameer e Al-Haq sono state oltraggiate dal fatto che l'IPS abbia infranto flagrantemente il diritto alla salute e dalla noncuranza per l'immediato pericolo per le loro vite mostrata dalla Corte Distrettuale Israeliana. Mahamoud Sarsak (1) è entrato oggi nel suo 74à giorno di sciopero della fame. Iniziò il proprio sciopero della fame il 19 marzo, dopo che la sua detenzione era stata prolungata di sei mesi il primo marzo, in protesta contro il proseguimento della sua detenzione senza capo d'accusa o processo secondo la legge israeliana "sui combattenti illegali". Fu trasferito al centro medico dell'IPS della prigione di Ramleh il 16 aprile, a seguito del deterioramento delle sue condizioni di salute. Ad un certo momento durante il suo sciopero della fame, a Mahamoud fu promnesso che la sua detenzione non sarebbe stata prolungata e lui sarebbe stato rilasciato il 1° luglio se avesse accettato di terminare lo sciopero della fame. Dal momento in cui egli insistette per avere accordi scritti, le offerte furono ritirate. Egli non fu incluso nell'accordo finale che poneva termine allo sciopero della fame di massa il 14 maggio, in forma sia scritta che orale. Quando lui chiese la data del suo rilascio, a Mahamoud fu detto che sarebbe stata considerata solo alla successiva data della revisione del giudizio per la sua detenzione, il 22 agosto. Durante l'ultima visita con un avvocato di Addameer il 23 maggio, la salute di Mahamoud era in condizioni così gravi che poteva parlare con lei solo per pochi secondi. Akram Rikhawi, anche lui della Striscia di gaza, fu arrestato il 7 giugno 2004 e condannato a 9 anni di prigione. E' stato tenuto nell'infermeria della prigione di Ramleh sin dal suo arresto dal momento che soffre di diverse malattie croniche, incluso il diabete, l'asma e l'osteoporosi. Akram incominciò lo sciopero della fame il 12 aprile, chiedendo che le sue condizioni di salute fossero considerate durante la discussione della sua richiesta di rilascio anticipato. Ad ogni prigioniero è riconosciutoa la possibilità di chiedere che sia considerato il suo rilascio anticipato quando ha scontato almeno due terzi della pena. Il PHR-Israel dal 6 maggio ha cercato di ottenere l'accesso ad Akram e gli è stato costantemente impedito. Un appello per conto di Mahamoud ed Akram è stato sottoscritto dal PHR-Israel alla Corte Distrettuale il 24 maggio per chiedere l'immediata visita di medici indipendenti. Il giudice ammise l' ISP fino al 10 giugno per permettere l'accesso di dottori indipendenti per entrambi i prigionieri, in completa noncuranza per le loro gravi condizioni di salute e la possibilità che si vada oltre tempo. Secondo l'Associazione Mondiale dei Medici, nella maggior parte dei casi la morte sopraggiunge tra il 42° ed il 72° giorno dello sciopero della fame. Il centro medico dell'IPS non è un ospedale e non ha l'equipaggiamento adeguato per trattare il deterioramento fisico e gli effetti di uno sciopero della fame prolungato, in aggiunta al fragile periodo di ricovero dopo lo sciopero della fame. Inoltre, in un ospedale civile ci sono migliori opportunità per creare condizioni che possono permettere di aprire con fiducia un dialogo tra dottore e paziente. Tale dialogo può essere essenziale per condurre verso un accordo di risoluzione, e salva la vita e la salute dei pazienti. PHR-Israel, Addameer e Al-Haq ripetono che questi prigionieri in sciopero della fame sono in grave pericolo e chiedono con urgenza le seguenti azioni: . L'IPS deve immediatamente trasferire Mahamoud Sarsak e Akram Rkhawi in un ospedale civile; . L'IPS deve permettere immediatamente la visita di dottori indipendenti; . L'IPS deve permettere immediatamente alle famiglie di visitare i prigionieri in sciopero della fame; . Mahamoud Sarsak, detenuto senza capo d'accusa, deve essere immediatamente liberato; . Deve essere condotta un'equa ed obiettiva revisione della richiesta di Rikhawi per un periodo della sua terza detenzione più breve. > (1) Mahamoud Sarsak ha 25 anni, è del Campo Profughi di Rafah nella Striscia di Gaza. Mahamoud era un membro della squadra nazionale palestinese prima del suo "arresto". Fu "arrestato" il 22 luglio 2009 al posto di blocco di Erez, mentre si recava ad una gara della squadra nazionale nel Campo §Profughi di Balata in Cisgiordania. Ricevette l'ordine di detenzione il 23 agosto 2009, secondo la legge israeliana "sui combattenti illegali", secondo la quale i Palestinesi di Gaza possono essere trattenuti per un tempo illimitato senza capo d'accusa o processo. In pratica, la "Legge sui Combattenti Illegali" contiene meno protezioni per i detenuti delle poche garantite secondo gli ordini di detenzione amministrativa in Cisgiordania. Per ulteriori informazioni sulla "Legge sui Combattenti Illegali", vedere http://www.addameer.org/etemplate.php?id=293.

martedì 29 maggio 2012

Dégage alle politiche migratorie

Posted on 28/05/2012 by leventicinqueundici Questo comunicato è un aggiornamento sulla campagna “da una sponda all’altra: vite che contano” e contiene anche alcune proposte emerse durante l’incontro con alcune delle madri in Tunisia, in occasione di un nostro recente viaggio. Vorremmo diffondere al massimo questo comunicato e chiediamo a tutte/i coloro che sinora hanno supportato la campagna o fossero interessate/i di mandarci la loro adesione e contribuire alla diffusione. Per adesioni: venticinquenovembre@gmail.com Partiamo da alcuni fatti. Tra i migranti partiti dalla Tunisia verso l’Europa nel corso dei mesi di marzo, aprile, maggio 2011 alcuni non danno notizia di sé alle famiglie. Queste ultime riconoscono o credono riconoscere alcuni di loro nelle immagini di Tg italiani, ritengono dunque che siano arrivati. Si organizzano, cominciano a fare una lista con i nomi dei loro figli e delle imbarcazioni con cui sono partiti insieme da alcune spiagge della Tunisia. Nel mese di ottobre 2011 viene scritto un appello alle istituzioni italiane e tunisine per chiedere che si proceda a un raffronto delle impronte digitali, l’appello viene sostenuto in Italia dal nostro collettivo, le 2511, e da alcune donne tunisine e le loro associazioni. Viene lanciata la campagna “Da una sponda all’altra: vite che contano” nel corso della quale abbiamo fatto numerose iniziative in Italia e in Tunisia. In Tunisia, nel frattempo, non passa settimana senza che le madri e le famiglie organizzino un sit-in, una manifestazione, una protesta davanti alla sede di varie istituzioni e vengano a volte incontrate da ministri e funzionari, a volte allontanate dai luoghi in cui protestano. Alla fine di gennaio, in Italia arriva una delegazione delle famiglie; con la delegazione, come collettivo delle 2511 chiediamo incontri alle istituzioni italiane che nel mese di marzo ci fanno sapere che le impronte digitali sono alla fine state inviate dalla Tunisia e che il raffronto è cominciato, nel mese di aprile ci viene comunicato che il lavoro è quasi terminato.Questi i fatti di cui siamo certe. Il resto sono “verità-non verità”, frasi ambigue, comunicazioni non trasparenti, incontri delle istituzioni tunisine e italiane con le famiglie in cui non si capisce bene che cosa venga comunicato. Cosa ha detto Napolitano nella sua visita in Tunisia il 16 maggio scorso nei pochi minuti in cui ha incontrato alcune madri? E’ un rebus riuscire a capirlo: secondo alcuni giornali tunisini avrebbe detto tre cose contradditorie (piangeva la scomparsa dei loro figli, si impegnava a cercarli, riteneva che questo dramma fosse dovuto a uno scarso controllo delle coste tunisine); secondo alcuni giornali italiani avrebbe comunicato alle famiglie che l’esito del raffronto delle impronte sarebbe negativo. Quando sarebbe stato comunicato dalle istituzioni tunisine il risultato negativo del raffronto delle impronte alle famiglie? E a quali famiglie? Le madri e le famiglie, infatti, nelle ultime settimane hanno intensificato le loro proteste davanti alle sedi istituzionali che dovrebbero rispondere loro, ma non sempre vengono ricevute, non sempre tutte insieme, non sempre sono le stesse. Nel frattempo, la settimana scorsa, anche noi, come 2511 siamo state per alcuni giorni in Tunisia a incontrare le madri e le famiglie (non tutte, perché abitano in quartieri diversi della periferia di Tunisi o in altre città) e a cercare di parlare con le istituzioni. Da quest’ultime abbiamo saputo altre verità-non verità: il confronto è terminato e il risultato è negativo; il confronto è al 60% e il risultato verrà comunicato tutto insieme; il risultato negativo è già stato comunicato. C’è da stupirsi allora che nessuno creda più a nessuno? Che le madri continuino con il loro linguaggio di donne ostinate che pretendono certezze sulla vita o la morte dei loro figli? Se anche dopo il nostro viaggio in Tunisia volessimo ripartire da un fatto certo, potremmo comunicare soltanto l’unica verità da cui per noi non si può prescindere: le politiche di governo delle migrazioni dell’Ue e dell’Italia, con la complicità in questo caso della Tunisia, sono politiche di morte e di scomparsa e per rispondere a una domanda come quella che giunge dalle madri e dalle famiglie tunisine, in cui per la prima volta si chiede conto a tali politiche della vita di uomini e donne che scompaiono, i rappresentanti di queste politiche dovrebbero rispondere con un atto di riconoscimento delle proprie responsabilità. Non possono farlo, perché questo implicherebbe un’assoluta revisione dei “credo” alla base delle loro politiche e la necessaria constatazione che la terra è di tutte e di tutti, come insieme alle madri e alle famiglie tunisine abbiamo affermato nelle nostre iniziative, e che la libertà di movimento non può essere riservata esclusivamente a una parte dell’umanità. Di qui le “false verità”, le “mezze verità”, le “verità-non verità” con cui hanno deciso di comunicare le loro non-verità. Dopo i nostri incontri con le istituzioni, dapprima in Italia e poi in Tunisia, ci siamo allora accordate con le madri e le famiglie a Tunisi su alcune pretese, sapendo che nemmeno queste sarebbero del tutto sufficienti a stabilire una certezza e rivolgendoci in modo generale alle istituzioni, consapevoli che da esse continueranno a pervenire soltanto non-verità: pretendiamo: 1) Una conferenza stampa di qualche rappresentante dello stato tunisino e italiano che comunichi alle famiglie il risultato del raffronto delle impronte. Solo in questo modo, infatti, tutte le famiglie potrebbero venire a conoscenza del risultato. 2) La comunicazione della lista dei nomi delle impronte di cui è stato fatto il raffronto. Le impronte, infatti, per le famiglie così come per noi, appartengono ad esseri umani, figli, giovani, con un nome, un cognome, un corpo, un’età, dei desideri, una propria storia e una propria concretezza. Esseri umani, per l’appunto, e non impronte. Alle famiglie, per ora, nessuno si è degnato di comunicare di quale di questi nomi, cognomi, esseri umani, figli, siano state inviate le impronte, di modo che ogni famiglia può pensare che il “risultato negativo” non riguardi il proprio figlio. 3) Un’indagine più approfondita sulle ultime telefonate arrivate alle famiglie dopo la partenza dei loro figli. Sappiamo che su questo un giudice in Tunisia sta indagando e che le telefonate sono arrivate da e a numeri di telefono della compagnia telefonica Tunisiana. Nel dossier che abbiamo costituito insieme alle famiglie ci sono alcuni numeri precisi, il giorno e pressappoco l’ora della telefonata. Chiediamo che la compagnia renda pubblici tutti gli elementi necessari per individuare la posizione da cui è partita la telefonata. E’ assurdo che a distanza di un anno tale ricerca non sia ancora stata realizzata. Così come è assurdo che nessun funzionario istituzionale sia a piena conoscenza di un dossier che insieme alle famiglie noi siamo riuscite a stabilire. 4) Un raffronto tecnico tra le immagini dei telegiornali italiani e francesi in cui le famiglie riconoscono i loro figli e le fotografie di quest’ultimi. Anche questo un raffronto che avrebbe potuto essere fatto sin dall’inizio nel caso in cui qualcuno avesse preso sul serio il dolore dei famigliari. A più di un anno di distanza circa 300 madri e famiglie continuano a pretendere di sapere che fine abbiano fatto i loro figli. Scomparsi nel nulla e fatti diventare fantasmi dalle politiche migratorie. Quei “fantasmi”, però, erano giovani tunisini, alcuni giovanissimi, due o tre minori, tra loro una donna partita con il figlio sedicenne. A più di un anno di distanza nessun responsabile ha preso sul serio il dolore di quella scomparsa; sappiamo, invece, che l’Italia e la Tunisia stanno continuando i negoziati per un ulteriore accordo migratorio: qualche visto in più, quote più alte di viaggi “legali” e l’ennesima intesa sulla sorveglianza delle coste e sui rimpatri. L’Europa e l’Italia elogiano la nuova fase politica della Tunisia e moltiplicano i loro vertici in cui promettono finanziamenti per quella che chiamano “transizione democratica”. Continuano, però, inesorabilmente, a chiedere accordi migratori, perpetrando le loro politiche di scomparsa. E’ un nuovo esperimento: una democrazia senza libertà di movimento, una democrazia-prigione, identica in questo alla dittatura di Ben Ali. Con il loro linguaggio di foto, con l’ostinazione del loro sapere di vita – quei figli erano figli e non è possibile che siano scomparsi nel nulla – le madri e le famiglie tunisine ci stanno suggerendo qualcosa: la necessità di un “dégage” generalizzato di tutte le politiche di scomparsa affinché le vite, da una sponda all’altra, possano contare. Non pochi, vedendole apparire in gruppo davanti alle sedi di ministeri e segretari generali, alludono alla loro follia. “E’ un problema psicologico”, ci ha detto un funzionario istituzionale, “c’est du n’importe quoi”, commentava una segretaria vedendole arrivare. Ostinarsi a volere figli, vivi o morti, sapendoli concreti e reali e non fantasmi o impronte, è certo un’azione radicale, capace di smascherare sino in fondo l’assoluta illegittimità di tali politiche. Continueremo a essere con loro e a inseguire la loro ostinazione. Le 2511 Per informazioni: venticinquenovembre@gmail.com Per aggiornamenti https://leventicinqueundici.noblogs.org/

lunedì 28 maggio 2012

Casa della memoria e della storia? Decidono i sionisti

Care compagne/i e amici Avremmo voluto scrivervi per sollecitare una vostra partecipazione alla mostra “Notte molto nera – Sabra e Chatila, una memoria scomoda”, che si doveva realizzare a Roma alla Casa della Memoria e della Storia il prossimo 30 maggio. Però non possiamo farlo perché la mostra è stata bloccata a pochissime ore dalla sua inaugurazione. E questo malgrado la curatrice, Laura Cusano, avesse tutte le autorizzazioni compresa una lettera di incarico protocollata dal Comune di Roma. Ad oggi però nessuna comunicazione ufficiale è arrivata e gli organizzatori si celano dietro la richiesta di un rinvio a data indefinita. Nessuna spiegazione sui motivi del rinvio, quindi, solo silenzi ed imbarazzi. Ma da notizie ufficiose apprendiamo che il tutto è partito – ancora una volta – da sollecitazioni verso l’assessore alla cultura del Comune di Roma fatte da esponenti della comunità ebraica di Roma. Questi signori hanno voluto bloccare la mostra fotografica, perché evidentemente giudicata colpevole di smascherare le nefandezze compiute verso il popolo di Palestina. Le immagini rappresentano per questi signori una prova d’accusa intollerabile e da eliminare. Probabilmente in altri tempi avrebbero chiesto anche la messa al rogo delle fotografie. Il tema della mostra – vogliamo ricordarlo - era una riflessione su immagini e memoria a partire dai fatti di Sabra e Chatila, di cui quest’anno ricorre il trentesimo anniversario. Una strage compiuta dalle falangi fasciste libanesi, con la diretta complicità dell’esercito di Israele. Quello che più ci sconcerta e addolora è la mancanza di spiegazioni e il silenzio delle tante associazioni che riempiono di contenuti il lavoro della Casa della memoria, ovvero l’impossibilità di dire la verità e la costatazione che un luogo importante e ricco di significati, come dovrebbe essere la Casa della memoria e della storia, sia nella realtà solo casa della prepotenza e dell’oscurantismo. A questo proposito nei giorni scorsi abbiamo scritto all’Anpi, per chiedere loro un incontro su questa vicenda. La negazione delle autorizzazioni per la mostra fotografica non offende solo chi per mesi ha lavorato alla sua realizzazione, non solo rappresenta l’ennesimo atto di censura verso la storia del popolo di Palestina, ma è un attacco all’intelligenza e alla sensibilità di tutta la cittadinanza di Roma. Per queste ragioni vi chiediamo di manifestare con noi in tutti i modi possibili l’indignazione e la rabbia verso chi con prepotenza e vigliaccheria continua ad infangare la storia della nostra città. Facciamo inoltre appello a tutte le forze democratiche affinché prendano posizione condannando un gretto atto di censura che non aiuta nessuno e che svilisce la memoria di tutti. Il Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila

mercoledì 23 maggio 2012

Un messaggio dalla Palestina di Moira Jilani, vedova di Ziad, assassinato dal poliziotto di frontiera Maxim Vinogradov l' 11 giugno 2010

Il mio caro marito Ziad Jilani è stato assassinato dal poliziotto di frontiera israeliana Maxim Vinogradov il giorno 11 giugno 2010. Ci sono incontestabili evidenze sul fatto che mio marito fosse sdraiato a terra disarmato e ferito, non causava nessuna minaccia quando Il poliziotto di frontiera Maxim Vinogradov gli ha sparato a bruciapelo un colpo in testa. Nonostante le diverse contraddizioni, revisioni e le sfacciate bugie nella testimonianza del soldato che lo ha ucciso, smascherato dall'autopsia, le autorità israeliane hanno chiuso il caso contro Maxim Vinogradov e il suo comandante Shadi Kheir Al-Din. La chiusura del caso contro l'assassino di Ziad è un messaggio chiaro ai soldati israeliani: Basta semplicemente sostenere di sospettare che un o una palestinese sia un terrorista e nessuno sarà ritenuto responsabile della sua morte. Io e mia figlia ci siamo appellate alla Corte Suprema Israeliana affinchè il procuratore dello stato israeliano condannasse per le loro responsabilità criminali l'assassino di Ziad e il suo comandante. Cerchiamo supporto internazionale, non solo per chiedere giustizia per Ziad ma anche per salvare le vite di potenziali vittime future mandando ai soldati israeliani un messaggio, e cioè che verranno ritenuti responsabili per l'uccisione di vittime innocenti. Aiutateci a cambiare questo messaggio, firmate the petition chiedendo che il procuratore di stato israeliano metta sotto accusa gli assassini di Ziad. Manda una mail a killingwithoutconsequence@gmail.com se puoi organizzare un memorial per Ziad nella tua città l'11 Giugno.L’11 Giugno 2010 iniziò come qualsiasi altro giorno, a parte il fatto che prima di uscire Ziad menzionò che non avevamo ancora portato da nessuna parte le nostre tre bambine dopo che avevano finito gli esami. Pensava che meritassero una gita dove volessero. Dopo avermi dato un bacio di saluto si girò un ‘ultima volta per ricordarmi di parlare con loro affinché decidessero dove andare. Ziad mi disse di farci trovare pronte per partire, quando avrebbe suonato il clacson avremmo dovuto prendere le nostre cose, scendere giù e salire sul suo furgone. Sfortunatamente non ritornò mai a casa. Quella fu l’ultima volta che vidi mio marito Dovemmo investigare da sole per sapere come morì mio marito. L’alternativa era la propaganda che fosse un “terrorista”. Partimmo per provare non solo l’innocenza di mio marito, ma anche per svelare le bugie che venivano prodotte dai media. Facemmo appello ad un giudice israeliano affinché riesumasse il corpo di Ziad, tre settimane dopo averlo seppellito. Dopo che il giudice accolse la nostra richiesta per un’autopsia Maxim Vinogradov e Shadi Kheir Al-Din cambiarono bruscamente le loro testimonianze, “ricordando” più fatti schiaccianti. Poiché la polizia israeliana decise di non interrogare nessun testimone a parte i soldati implicati, ci appellammo a qualsiasi testimone indipendente che potesse andare dalla polizia. L’investigazione successiva concluse che Ziad stesse ritornando a casa dalla moschea Aqsa per la preghiera del venerdì, che si trova a Wadi Jouz, un quartiere di Gerusalemme Est. La corsia per Wadi Jouz era chiusa dall’esercito israeliano e dalla polizia di frontiera, mentre la corsia opposta era piena di macchine in fila una dietro l’altra. Un masso, possibilmente da una dimostrazione vicina, colpì il vetro di Ziad e lui saltò fuori dalla macchina sulla strada dove un gruppo di agenti di frontiera stava camminando. Il suo furgone apparentemente colpì qualche soldato causando ferite lievi. Solo un soldato fu portato all’ospedale per aver subito degli sgraffi. La polizia di frontiera aprì immediatamente il fuoco su Ziad e il suo furgone. Gli spari colpirono altri veicoli ferendo una piccola bambina seduta su una macchina vicina. Ziad fuggì dalle pallottole, cercando rifugio in un vicolo a fondo chiuso nella quale viveva un suo zio. Tre poliziotti di frontiera corsero avanti sparando dentro il vicolo. Ziad quindi saltò dalla macchina e corse verso la casa di suo zio. Gli spararono alle spalle e cadde ferito a terra. Il poliziotto di frontiera Maxim Vinogradov si avvicinò a mio marito, puntò il suo M16 alla testa di Ziad, e sparò tre colpi. Secondo un testimone, Maxim Vinogradov teneva il suo stivale sul collo di mio marito e gridando qualcosa in ebraico gli sparò. Dodici giorni prima che Maxim Vinogradov uccise mio marito, i commandi israeliani avevano fatto un incursione sulla Mavi Marmara, una nave turca che portava aiuti a Gaza, mentre in acque internazionali, uccidendo nove passeggeri. In quel giorno, Vinogradov rispose su facebook ad un messaggio di un suo amico , Avi Yaacobov, che diceva in ebraico “Sterminare i turchi e gli arabi dal mondo”. Vinogradov rispose” Sono con te fratello mio ed io con l’aiuto di Dio inizierò”. Il suo amico replicò, “ E tu, toccando ferro, ne sei capace”. Questo è solo uno dei molti simili messaggi nei quali Maxim esprime opinioni propugnando la morte degli arabi. Maxim è incoraggiato a praticare le sue convinzioni razziste dall’impunità garantitagli dalle autorità israeliane. Mio marito amava la vita e godeva di ogni suo momento a pieno, amava le persone e gli animali e amava noi, la sua famiglia, con passione. Non era un terrorista. La mia cittadinanza americana non ha significato niente per le autorità israeliane e troppo poco per il governo americano. Mi piacerebbero delle risposte e vedere che ai soldati dal grilletto felice ed ai poliziotti che servono la polizia militare e di frontiera israeliana non sia consentito uccidere persone innocenti. Per ulteriori informazioni vai su http://killingwithoutconsequence.com/ Nessuno dei nostri bambini è sicuro in un mondo nel quale i bambini di gaza possono essere imprigionati e bombardati. www.assopacepalestina.org

martedì 22 maggio 2012

APPELLO A FAVORE DEL POPOLO PALESTINESE CONTRO TEATRO FESTIVAL A NAPOLI CHE HA COME OSPITE ISRAELE

l'APPELLO È STATO REDATTO E LANCIATO DA: CAU // collettivo autorganizzato universitario - Napoli sito web: caunapoli.org facebook: Giulia Valle

APPELLO A FAVORE DEL POPOLO PALESTINESE CONTRO TEATRO FESTIVAL A NAPOLI CHE HA COME OSPITE ISRAELE

Quest’anno,  per la sua 5 edizione, il Napoli Teatro Festival avrà una sezione dedicata ad Israele, che si aprirà con il concerto di inaugurazione al San Carlo della nota cantante Noa  per poi proseguire con una serie di spettacoli di compagnie di danza israeliane. Da sempre certi intellettuali, artisti, enti ed istituzioni sono implicati nel processo di costruzione e di accurata propaganda di un'immagine dello stato d'Israele come di una democrazia modello, pluralista, accogliente, tollerante. La cosiddetta cultura "neutra", o “equidistante”, è il perno attraverso cui ruota l'elaborazione di una narrazione ideologica che si adopera alla messa a punto di termini che rendano accettabile, normalizzato, uno stato di cose palesemente eccezionale: i palestinesi vivono sulla loro pelle un'occupazione militare che dura oramai da 64 anni, politiche di apartheid, espulsione, pulizia etnica. Strumentalizzando la cultura lo Stato di Israele cerca quindi di “ripulirsi la faccia” e nascondere con la retorica di un’apparente tolleranza e pluralismo la realtà delle politiche messe in atto quotidianamente che non lasciano spazio invece a chi realmente prova nella discussione e nella pratica politica a mettere in discussione l’operato del governo di Tel Aviv. Iniziamo col prendere in esempio il caso emblematico della cantante Noa, il cui impegno in musica, si legge sul sito del San Carlo, “ha gettato le solide basi per la diffusione di un messaggio di pace capace di superare i confini geografici e far dialogare diverse culture.” mentre, in realtà, Noa ha sempre giustificato e appoggiato le azioni militari dello Stato di Israele.  Dopo l’Operazione Piombo Fuso a cavallo tra il 2008 e il 2009, che ha visto l’uccisione di circa 1400 palestinesi e più di 5000 feriti, con l’utilizzo illegale da parte di Israele del fosforo bianco in una delle aree più densamente popolate al mondo, Noa scrisse una lettera aperta al popolo palestinese, in cui diceva: “Io so che nel profondo del vostro cuore DESIDERATE (il maiuscolo è nel testo, n.d.t.) la morte di questa bestia chiamata Hamas che vi ha terrorizzato e massacrato, che ha trasformato Gaza in un cumulo di spazzatura fatto di povertà, malattia e miseria”. “Posso soltanto augurarvi che Israele faccia il lavoro che tutti noi sappiamo deve esser fatto, e VI LIBERI definitivamente da questo cancro, questo virus, questo mostro chiamato fanatismo, oggi chiamato Hamas. E che questi assassini scoprano quanta poca compassione possa esistere nei loro cuori e CESSINO di usare voi e i vostri bambini come scudi umani per la loro vigliaccheria e i loro crimini”. Dopo queste dichiarazioni, Noa,  incurante, continuò a suonare e cantare in eventi per la “pace”, per il “dialogo” e quant’altro di retorico ci fosse in programma. In ogni caso partì già dall’interno di Israele una campagna di boicottaggio nei suoi confronti sostenuta, tra gli altri, da Udi Aloni, regista e scrittore israeliano e Juliano Mer Khamis, figlio di madre ebrea israeliana e padre palestinese, attore, regista e fondatore del Freedom Theatre nel campo profughi di Jenin che rappresenta tutt’altra esperienza di teatro rispetto a quella che andrà in scena al San Carlo e in altri teatri napoletani. Proprio Juliano, che credeva nella cultura come forma di resistenza e strumento per stimolare l’analisi e la comprensione dell’Altro, rispose a Noa con queste parole: “Non c’è limite alla tua ipocrisia, Noa. Hai supportato la guerra che ha reso orfani questi bambini e ora vuoi giocare a “Madre Teresa” e aiutarli? Quanto puoi essere cinica? Migliaia di bambini sono stati mutilati fisicamente e psicologicamente per il resto delle loro vite in una guerra che non solo tu non hai ostacolato, ma hai pubblicamente giustificato. Forse puoi aumentare la tua popolarità e cercare di lavare le tue mani insanguinate creando titoli di testa sulle spalle di questi bambini, ma non sarai capace di pulire la tua ormai sporca coscienza. Non finchè non riconoscerai che un occupante non ha alcun diritto morale di dire alla popolazione occupata cosa fare, incluso quale leadership può o non può democraticamente eleggere. Non prima che tu riconosca  che il reale “virus” o “cancro”, per usare le tue malevoli parole, il “mostro” è la continua occupazione e l’oppressione che ne risulta. I veri fanatici qui, Noa, sono le persone che pensano di avere il diritto di infliggere così tanto dolore e danno a una popolazione assediata.” Inoltre, per quanto riguarda invece le compagnie di danza, che si esibiranno dal 19 al 24 giugno in vari teatri napoletani, nessuna di queste, né singoli artisti, sembrano risultare tra i 150 firmatari israeliani dell’appello al boicottaggio del  Complesso Teatrale di Ariel (una delle più grandi colonie israeliane in Cisgiordania) che nell’estate 2010 suscitò incredibile scalpore in Israele, con il premier Netanyahu che si affrettò a dichiarare che non era possibile finanziare e supportare qualsiasi teatro, compagnia, artista che avesse appoggiato l’appello al boicottaggio. Anzi la Vertigo Dance Company e la Kibbutz Contemporary Dance Company che appaiono nel programma del NapoliTeatroFestival, dichiararono ufficialmente che non avrebbero partecipato al boicottaggio senza entrare nel merito politico della questione. La solita presa di posizione di una cultura che si fa semplice erudizione e non si schiera, che  anzi fugge da quello che dovrebbe essere il ruolo fondamentale della stessa: un processo formativo della personalità dei singoli, ma anche una presa di coscienza, con la consapevolezza di essere parte integrante di una società e che la vita della società è politica, che lo si voglia o no. Purtroppo, chiunque provi, anche all’estero, a criticare le politiche di apartheid del governo di Tel Aviv, magari addirittura partendo dall’ideologia che sottende a tali politiche, il sionismo, viene subito bollato dai media come "antisemita". Eppure essere ebrei non significa essere sionisti, contrastare il sionismo non significa attaccare gli ebrei in nome di un odio razziale antisemita, bensì opporsi ad un’ideologia di colonialismo che ha in sè i termini dell’esclusione etnica che si è tradotta concretamente nella nascita dello stato d’Israele e che per i palestinesi ha significato la Naqba del ‘48, il moltiplicarsi senza tregua degli insediamenti coloniali, migliaia di profughi senza diritto al ritorno, migliaia di prigionieri detenuti illegalmente, la cancellazione sistematica dei diritti più elementari.  Con questo appello vogliamo quindi contrastare la già citata “normalizzazione” propagandata da certi artisti e intellettuali israeliani che, per l’appunto,  rivendicando la “neutralità” della cultura, o addirittura proclamandosi pacifisti e portando avanti posizioni ambigue e ipocrite, continuano a promuovere le loro attività attraverso le stesse istituzioni israeliane. Al contrario, agli israeliani e agli ebrei che realmente mettono in discussione l’occupazione dei Territori Palestinesi, le politiche razziste e di apartheid dello Stato d’Israele, non viene dato spazio e, anzi, subiscono un vero e proprio linciaggio mediatico e di opportunità lavorative. Pensiamo a personalità come Ilan Pappè, storico israeliano, praticamente costretto all’esilio a Londra per le sue prese di posizione politiche, a Noam Chomsky, noto linguista ebreo americano a cui è stato impedito l’ingresso in Israele perchè intendeva partecipare ad una conferenza dell’Università palestinese a Bir Zeit, lo stesso è accaduto al capo della Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite Richard Falk, anch’egli ebreo americano, pensiamo all’attivista israeliano Jonathan Pollack, che ha trascorso tre mesi in carcere per una protesta contro il massacro di Gaza nel 2009, ai giovani israeliani che rifiutano il servizio militare obbligatorio e finiscono in carcere, e a molti altri ancora che vengono marginalizzati e pubblicamente classificati come traditori per aver osato criticare le politiche dello Stato di Israele. In ogni caso, nonostante tutto questo, il progetto di mistificazione sionista continua a trovare potentissimi alleati nei giganti Usa e Ue. Proprio l’Italia è ormai diventata il quarto partner commerciale dello stato Israeliano, e con l’ultima visita del primo ministro Monti è stato suggellato un “salto di qualità” nelle relazioni tra i due stati. Il Napoli Teatro Festival, forse ingenuamente o forse no, ha scelto di dare per l’ennesima volta spazio a questa tipologia di “cultura”, rappresentativa di uno Stato razzista e criminale, che ha violato più di 70 risoluzioni dell’ONU e che si sente impunibile perché gode di solido supporto dalle grandi potenze. Sta come sempre alla società civile, agli intellettuali, alla sensibilità di chi non vuole dimenticare la resistenza palestinese fare qualcosa, non semplicemente proponendo spazi eguali per la Palestina, ma finalmente boicottando iniziative come questa, che avallano l’idea di Israele come di uno Stato “normale” quando in realtà le sue politiche stanno sistematicamente distruggendo ogni aspirazione alla pace in Medio Oriente. Saremmo ben felici di andare ad ascoltare un concerto di Noa o uno spettacolo di danza delle compagnie israeliane, il giorno in cui abbandoneranno finalmente il loro silenzio e la loro ipocrisia per abbracciare realmente la causa di chi lotta per la propria dignità, rifiutando così di organizzare performance passando per le istituzioni Israeliane. Fino a quando questo non avverrà, continueremo a contestare chi organizza Festival del genere, non per chissà quale spirito ostruzionista,  ma per dare voce alla resistenza e al diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

SHALIT COMUNICATO STAMPA della AMLRP

COMUNICATO STAMPA LA CITTADINANZA ONORARIA AL SOLDATO DI UN ESERCITO OCCUPANTE È SOSTEGNO ALL’ILLEGALITÀ Nel rispetto dei principi ispiratori della Costituzione italiana e del Diritto universale cui fa riferimento la Dichiarazione dei Diritti Umani, esprimiamo assoluta contrarietà all’assegnazione della cittadinanza onoraria a qualunque soldato di qualunque esercito di occupazione e, pertanto, a Gilad Shalit, soldato israeliano rilasciato dopo 5 anni di sequestro da parte delle milizie di Hamas. La nostra contrarietà non investe l’aspetto umano della vicenda: siamo contro ogni forma di violenza e, pertanto, siamo felici che Gilad Shalit sia stato liberato. Vorremmo che anche le centinaia (forse migliaia) di sequestrati palestinesi, lasciati in isolamento senza capi d’accusa né diritto alla difesa venissero a loro volta liberati, così come vorremmo che le parole di Noam Shalit, padre di Gilad, che hanno scosso Israele il 15 marzo, venissero ripetute e ascoltate da queste stesse Istituzioni che ignorando l’inapplicazione di decine di Risoluzioni Onu e la quotidiana violazione dei diritti umani da parte di Israele, affermano di attribuire questo riconoscimento, a tutela e garanzia “dei valori universali di uguaglianza e libertà per tutti i cittadini del mondo attraverso la promozione del dialogo fra i popoli.” Denunciamo la mistificazione nelle parole pronunciate dal sindaco Alemanno e supportate, purtroppo, dall’intera giunta del Comune di Roma già nella Delibera n. 54 del 2009. Offrire la cittadinanza onoraria al soldato di un esercito che occupa illegalmente gli altrui Territori, che ha ucciso migliaia di civili inermi su comando di governi che praticano una politica di apartheid, di pulizia etnica, di distruzione e/o appropriazione di case e terre di un popolo al quale vieta persino il diritto a “domandare” il riconoscimento di un proprio Stato all’Onu, costringendolo a continue farse denominate ipocritamente “processo di pace”, offrire la cittadinanza onoraria al soldato Shalit, significa condividere le scelte di quell’esercito e dei governi che lo dirigono. Scelte che possono essere definite, secondo la stessa legalità internazionale, illegali e, pertanto, criminali. Noi, come associazione umanitaria che ha a cuore la difesa dell’infanzia palestinese resa orfana dall’azione di quell’esercito di cui Shalit fa parte, noi denunciamo l’azione del sindaco di Roma e dei suoi sostenitori, come sostegno all’illegalità e alla violazione dei diritti umani praticata sistematicamente dallo Stato di Israele. Associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese, onlus info@palestinamezzalunarossa.org ________________________________________________________________________________

martedì 15 maggio 2012

NAKBA, QUANDO LA LEGGE IMPEDISCE IL RICORDO

Nel 2011 è stato approvato dalla Knesset il provvedimento che taglia i fondi agli istituti pubblici che organizzano eventi per commemorare la "Catastrofe". Uno dei tanti tasselli di una legislazione volta a cancellare la memoria storica del popolo palestinese. GIORGIA GRIFONI Roma, 15 maggio 2012, Nena News -“Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente”, sostiene la maggior parte degli intellettuali e dei politici del mondo. “Mai, tra gli stati arabi vicini, si potrà ritrovare una legislazione che tuteli i diritti civili delle minoranze come nello stato ebraico”, aggiungono i simpatizzanti dei diritti umani. E ancora “gli arabi israeliani sono cittadini al pari degli ebrei: possono votare e sono rappresentati in Parlamento”. Non possono, però, organizzare eventi negli istituti pubblici nel loro giorno più significativo: la Nakba, la “catastrofe” della perdita della Palestina e dell’esilio di centinaia di migliaia di persone. Se lo fanno, gli istituti pubblici possono incorrere in una multa o nella riduzione del budget. Tutto questo perché, sul calendario, le celebrazioni della Nakba seguono di un giorno quelle dell’indipendenza dello Stato di Israele, ovvero la sua fondazione il 14 maggio 1948. La ‘legge sulla Nakba’ è stata promulgata dalla Knesset nel marzo del 2011. E’ una creatura del partito ultranazionalista Yisrael Beitenu ed è stata presentata nel 2009 dal parlamentare Alex Miller. La versione originale prevedeva che qualsiasi persona celebrasse la Nakba come giorno di lutto sarebbe finita in carcere. Dopo molte proteste e vari emendamenti, si è arrivati alla versione ‘più dolce’ odierna, che punisce i comuni, le organizzazioni o gli istituti pubblici “che abbiano effettuato un pagamento per un evento o un’azione che mini l’esistenza di Israele come stato ebraico e democratico, violi i simboli dello stato o contrassegni la data della fondazione di Israele come un giorno di lutto”. Dal momento che le due celebrazioni avvengono con un giorno di distanza, il parlamentare David Rotem, sempre di Yisrael Beitenu, ha suggerito che il giorno di lutto non deve necessariamente coincidere con quello dell’indipendenza: qualsiasi riferimento alla Nakba fatto durante l’anno può quindi rientrare nell’ambito della legge. Un emendamento che è entrato a far parte della versione finale del provvedimento. Alcune organizzazioni, tra cui l’Associazione per i diritti civili in Israele (Acri), il Centro legale per la minoranza araba in Israele (adalah) avevano rappresentato i genitori di cinque alunni della scuola mista arabo-ebraica ‘Galil’, in Galilea, presso l’Alta corte di giustizia israeliana. Alla petizione contro la legge si erano uniti una Ong di ex-allievi della scuola araba ortodossa di Haifa e il professor Oren Yiftachel dell’Università Ben Gurion di Tel Aviv. Il 5 gennaio scorso la Corte ha rifiutato la richiesta delle associazioni, in quanto la legge non è ancora “matura, mancando un fatto concreto necessario per sostenere le richieste della petizione”. Interrogato sulla costituzionalità della legge in questione, il consigliere legale della Knesset Eyal Yinon aveva risposto in modo affermativo, in quanto “la legge non impedisce in nessun modo ai singoli la libertà di parola, né quella di commemorare il giorno a cui gli Arabi israeliani e i Palestinesi chiamano Nakba”. Il giorno della catastrofe è celebrato da sempre dai palestinesi rimasti all’interno delle frontiere del ‘48. Dopo la fondazione dello stato di Israele, il ricordo dell’esilio è stato per alcuni anni una commemorazione a livello familiare o comunale, con gli abitanti dei vari villaggi che si recavano silenziosamente sul luogo della loro casa perduta. Nel 1958 si tennero alcune marce organizzate da alcuni studenti arabi bloccate dalle autorità israeliane. Dopo gli eventi del 1976 che hanno marcato il “Giorno della terra”, le marce verso i villaggi distrutti nel ’48 si fecero sempre più assidue. Nel 1991, dopo il fallimento della Conferenza di Madrid, l’Associazione per la Difesa dei diritti delle persone dislocate internamente organizzò la prima “Marcia del Ritorno”. Nei territorio occupati, invece, il giorno delle celebrazioni della Nakba fu istituito da Yasser Arafat nel 1998. Dopo la cancellazione di ogni riferimento alla dispersione palestinese nei libri di testo scolastici israeliani, la legge sulla Nakba aggiunge un tassello in più al tentativo di affossare la storia e la cultura palestinese in quello che oggi è lo Stato di israele; come se prima del 1948, a parte qualche sparuta moshav, su quella terra non ci fosse davvero nulla. Gli alunni palestinesi cittadini di Israele vedranno sfumare ogni possibilità di poter partecipare, a scuola, a un evento con un alto valore educativo, oltre che sentimentale. Stessa cosa verrà impedita ai bambini ebrei, che perderanno così la possibilità di conoscere un po’ più a fondo “l’altro”. Ma, dopotutto, come ha ricordato il parlamentare David Rotem poco prima della votazione finale della legge, “visto che siamo in guerra contro un duro nemico,promulgheremo leggi che gli impediscano di ferirci”. Nena News

Nakba

sabato 12 maggio 2012

Volantino della'ass. AMLR per la manifestazione di oggi

Raccogliamo l’appello a scendere in piazza con la nostra specificità di Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese per resistere alle scelte politiche che passo dopo passo stanno demolendo la Costituzione repubblicana in nome di una totale sudditanza alla dittatura finanziaria e a logiche belliciste mascherate da scelte “tecniche”. * * * Il nostro operare a difesa dei diritti del popolo palestinese ci vede parte attiva nella difesa degli artt. 1 e 11 della Costituzione italiana, - per questo diciamo BASTA al finanziamento dell’economia di guerra israeliana con i soldi prelevati dalle tasche di lavoratori e pensionati - per questo diciamo NO e poi NO all’acquisto degli F35 che rubano risorse da destinare al mondo del lavoro, alla cultura, ai servizi sociali e le trasformano in puro strumento di morte... e di profitto! - per questo ci sentiamo parte attiva in questa manifestazione, rispondendo all’appello per “un’alternativa all’insegna di politiche di pace e cooperazione contro le logiche di guerra” che non possono prescindere dalla riduzione delle spese militari e dal rifiuto di ogni forma di complicità col colonialismo sionista, al tempo stesso frutto e sostenitore di questo sistema economico - per questo condanniamo politicamente e moralmente le scelte di Mario Monti a sostegno del governo Netanyahu e la sua promessa di fornitura a Israele di 30 velivoli M346 garantendo a nome (e all’insaputa) del popolo italiano “un salto di qualità” nei rapporti, già amichevoli, tra i due paesi “stretti da un legame speciale e indissolubile”. Parole che suonano come uno schiaffo ai diritti del popolo palestinesi e come un sostegno alla pulizia etnica, all’apartheid, agli omicidi di stato, all’occupazione e all’assedio illegale che Israele esercita in totale impunità e illegalità internazionali. DICIAMO DUE VOLTE NO ALLE SCELTE DI QUESTO GOVERNO NO, come cittadini italiani che credono nella democrazia reale NO, come sostenitori dei diritti del popolo palestinese violati, anche, da queste scelte. Associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese, onlus info@palestinamezzalunarossa.org Roma 12 maggio 2012

SSiria: cosiddetti ribelli e oppositori sempre più pericolosi e criminali

Un nuovo centro di informazione sulla situazione in Siria. E un appello del Patriarca Gregorius III. E’ nato in Siria un nuovo centro d’informazione, promosso dalla diocesi greco-cattolica di Homs, e basato presso il monastero Deir Mar Yacub di Qara, retto dalla madre superiora Agnès-Mariam de la Croix, da tempo attiva nella documentazione circa le vittime della violenza e del terrorismo. La madre è palestinese con cittadinanza libanese e francese. Dice : « La situazione è grave. Ogni giorno rapimenti, decapitazioni, stupri, furti, attentati. Ricorda gli anni peggiori in Libano » Ecco il primo documento del Centro Vox Clamans, che abbiamo tradotto. Molto chiare le parole del patriarca greco-cattolico. La mancanza di sicurezza in Siria. Un’esperienza vissuta a Qâra. E un appello del Patriarca Gregorio III Qâra, Provincia di Damasco, Siria. 11 maggio 2012 I cristiani vivono a Qâra da molte generazioni. Sono cinquecento su una popolazione totale di 25mila sunniti. Minoranza, sono sempre stati molto rispettati e hanno sempre vissuto in buoni rapporti con i loro fratelli musulmani ; molte famiglie musulmane erano cristiane, convertitesi al tempo dei Mamelucchi. Dopo la caduta di Baba Amro e di altri quartieri della città di Homs e della sua provincia, molte famiglie sunnite si sono rifugiate a Qâra dove i « rivoluzionari » le hanno accolte in locali pubblici, palestre, moschee e centri culturali, o appartamenti privati. L’igumena del monastero San Giacomo l’interciso ha visitato queste famiglie ; ve ne sarebbero circa seicento, un terzo delle quali ha combattenti all’interno dell’Esercito siriano libero. La presenza di queste famiglie « combattenti » ha trasformato rapidamente la tranquilla quotidianità del paese di Qâra. Si sono verificati furti ma anche rapimenti a scopo di estorsione : una pratica che si sta diffondendo in tutta la Siria per rimpolpare le casse della « rivoluzione » o per riempire le tasche dei contrabbandieri che non possono continuare le loro pratiche vista la presenza dell’esercito regolare siriano. Facciamo il caso dei villaggi che ci circondano : Yabrud, Nebek, Deir Attieh. Bande armate rapiscono i cittadini e reclamano un riscatto per la loro liberazione. I leader dell’opposizione locale fungono da mediatori fra i rapitori e i parenti delle vittime. Si verificano risse armate fra le diverse squadre per dividersi il bottino o assicurarsi la supremazia. Sono presenti a Qâra persone forestiere dal comportamento sospetto. Giorno e notte circolano automobili con vetri oscurati e senza targa. I responsabili dell’opposizione sono diventati più autoritari. Ormai si mostrano armati e di recente hanno ricevuto uniformi nuove dell’ « Esercito siriano libero ». Fanno il bello e il brutto tempo, ormai. Indicono scioperi, coprifuoco e manifestazioni. Chi non collabora si trova a mal partito. Possono decidere di uccidere questo o quel « collaboratore » ; come un colonnello sunnita ucciso a sangue freddo e i cui funerali sono stati vietati. Dicono che sono qui per proteggere la popolazione civile dagli Shabbiha, cioè dalle forze dell’ordine ». In realtà creano un vacuum nella sicurezza che lascia spazio a banditi e terroristi. Malgrado le dichiarazioni tranquillizzanti dei leader dell’opposizione locale ci siamo trovati più di una volta a dover contrastare i tentativi di rubarci i raccolti e di far penetrare greggi sui pascoli. Ogni volta la risposta è : « le cose non sono più come prima », in altre parole « le forze dell’ordine non vi possono più aiutare, facciamo quel che vogliamo ». Sono corsi molti rimproveri da parte nostra, e alla fine la vendetta è arrivata. Hanno distrutto la nostra pioppeta. Una mattina, alberi grandi e piccoli erano tutti a terra, tagliati. Qualche mese prima era successo lo stesso a decine di alberi della riserva naturale di cui ci occupiamo con il ministero dell’agricoltura. La spiegazione fornita dall’opposizione è che « la popolazione è arrabbiata perché voi piantate alberi là dove le greggi andavano a pascolare ». Ma non è vero : la piana circostante conta migliaia di ettari ad accesso libero. Abbiamo taciuto. Ma oggi è successo di peggio. Mentre eravamo scioccati dal terribile attentato delo 10 maggio a Damasco costato la vita a decine di persone e con centinaia di feriti (il nostro fratello Jean Baudoin era passato per quella strada pochi minuti prima, e l’autobus della scuola greca cattolica ci passava qualche minuto dopo), ecco che ci arriva la notizia dell’aggressione della quale è stato vittima il nostro padre George Luis, curato della parrocchia greca cattolica di Saint Michel, nel centro storico di Qâra. All’alba dell’11 maggio due uomini armati e mascherati sono entrati nella sua stanza. L’hanno minacciato con la pistola e chiesto le chiavi. Temendo che entrassero in chiesa, il padre ha cercato di dialogare. L’hanno legato e gli hanno intimato di consegnare le chiavi. Davanti alla sua esitazione uno l’ha colpito sulla testa con una bottiglia di vetro che si è rotta. La ferita sanguinante si è rivelata a forma di croce. « Ecco, ti abbiamo stampato una croce sulla testa ». Il padre ha continuato a cercare di ragionare ma un pugno gli ha spaccato un dente. Dopo aver rubato la cassa della chiesa e il computer, i banditi hnno obbligati il padre a entrare nel bagno e l’hanno legato al water, chiudendoigli anche la bocca con dell’adesivo. Hanno anche cercato di strangolarlo ma, rispondendo a un segnale, si sono ritirati. Il padre si è liberato solo dopo due ore. Con le mani ancora legate ha chiesto aiuto. Il chirurgo gli ha dato cinque punti di sutura. Un simile fatto sarebbe stato impensabile fino a qualche mese fa. Gli slogan confessionali delle tivù satellitari saudite e qatariote hanno finito per rendere i cristiani – prima rispettati in virtù del diritto alla protezione delle minoranze – un obiettivo facile. Povera Siria. Nascono gruppuscoli un po’ ovunque. Sanno che nella congiuntura attuale rimarranno impuniti. Il villaggio si è stretto intorno al curato. I dignitari religiosi e civili, cristiani e musulmani hanno condanato l’accaduto. I leader dell’opposizione sono attesi a una riunione al municipio con l’igumena del monastero. Occorre evitare lo scontro confessionale. Grégoire III Laham, patriarca greco melchita di Antiochia e di tutto l’Oriente ci ha telefonato per esprimerci la sua tristezza e solidarietà paterna. Dopo gli attentati criminali della veglia che hanno scosso Damasco facendo settanta morti e 400 feriti, il Patriarca ci ha dichioarato che : « il dramma nella nostra amata Siria è la dissoluzione della società, il banditismo e la mancanza totale di sicurezza. E’ questo il sentimento della maggiorn parte dei cittadini siriani che non sanno più in quale luogo sicuro rifugiarsi. La violenza cieca e selvaggia colpisce ovunque. Gli elementi che rappresentano un pericolo per tutti - ma soprattutto per i cristiani e le altre minoranze – sono il caos insidioso, l’opposizione incontrollabile e superarmata e il banditismo. Sono tutti elementi che indeboliscono lo stato e creano una situazione di paura, o anche di terrore e uno stato psicologico molto grave presso la popolazione. Ci troviamo nell’insicurezza più totale. Oggi in Siria non c’è più uno scontro fra governo e opposizione. C’è un terzo elemento : è il banditismo che regna e approfitta della situazione, si nasconde dietro l’opposizione e sfrutta la mancata presenza dell’esercito e degli osservatori dell’Onu ». Commentando l’aggressione del curato, il Patriarca ha detto : « Francamente non ho paura dei musulmani, dell’islamismo, del salafismo. Posso aver a chef are con loro, so con chi ho a che fare. Ma davanti al banditismo non ho mezzi né difesa ». Abbiamo confidato al Patriarca che le forze dell’ordine, contattate da dignitari musulmani e cristiani del villaggio, esitavano a venire a Qâra perché, come ogni venerdì, c’è una manifestazione davanti alla moschea, che si trova a qualche metro dalla parrocchia e l’opposizione ha uomini armati. Le forze dell’ordine non hanno voluto venire per non provocare vittime civili, nell’affrontare i miliziani armati. Il patriarca ha risposto : « Il governo finché è in carica deve governare : è una regola internazionale. Non si può impedire a un governo di governare. E il governo non può esonerarsene. La rivoluzione, mettendo l’opposizione contro il governo, ha paralizzato quest’ultimo. Si direbbe che non c’è più governo. Il governo siriano è legato e annullato dalla politica internazionale, a causa di accuse continue senza vere indagini, lo si accusa di compiere massacri e ombardare i civili mentre gli atti barbari compiuti dagli insorti sono passati sotto silenzio. Per questo le persone chiedono aiuto . C’è un governo, deve governare. Bisogna aiutare il governo. Se questo governo cade, non ci sarà più nulla da fare. In quale vuoto ci troveremmo senza un’alternativa affidabile? Purtroppo constatiamo che c’è una volontà internazionale che cerca di esacerbare le differenze e propvoca il conflitto in Siria. Armando e appoggiando con mezzi diversi delle forze incontrollabili si spinge il paese a più violenza, più terrorismo, più sangue versato. Mi rivolgo alla comunità internazionale : salvate la Siria. Salvate la convivenza esemplare fra musulmani e cristiani. A coloro ai ai quali la Siria è preziosa io grido : Salvate la presenza cristiana in Siria : questi eventi tragici spingono i cristiani all’esodo per timore del caos e del banditismo ». Il patriarca termina con una preghiera : Damasco, la più antica capitale del mondo, ha accolto Saul il persecutore. Là egli si è trasformato in Paolo, apostolo delle nazioni. Damasco è il luogo dell’incontro con il Perseguitato. Con laiuto del cielo, di colui il quale è resuscitato fra i morti e che è per sempre solidale con le nostre disgrazie, Damasco può tornare a essere il luogo della conversione, della trasformazione interiore e della grande riconciliazione. Dio guarda dal Cielo e agisci con misericordia, tu amico degli umani ». Questi eventi debbono far riflettere ogni persona di buona volontà : un paese viene destabilizzato da insorti chge accettano di ospitare fra di loro dei banditi e dei terroristi. Instaurano uno stato di non-diritto le cui conseguenze sono disastrose e drammatiche per la popolazione civile. Come possiamo restare inerti ? ___ Da United Press International (Upi) Uomini armati cacciano i cristiani dal villaggio di Al Qastal Al Borj, provincia di Hama Il 10 maggio uomini armati hanno cacciato le famiglie cristiane dal villaggio Al Qastal Al Borj, nella provincia siriana di Hama. Un abitante ha detto che gli armati hanno intimato alle famiglie di andarsene prendendo quel che potevano portare via. E hanno trasformato la chiesa in quartier generale. Il villaggio è nella circoscrizione di Al Ziyara nella parte nord della pianura di Al Ghab (a 42 km da Saqalbiyeh), nel dipartimento di Saqalbiyeh (48 km a nord est di Hama). Le famiglie cristiane erano dieci. --

mercoledì 9 maggio 2012

CARCERIERI! iL POPOLO LIBERO NON DORME!

PRIGIONIERI: PROTESTE A TEL AVIV E RAMALLAH Bilal e Thaer, al 73° giorno di sciopero della fame, stanno morendo. La Corte Suprema rigetta il loro appello e Abbas avverte: se muoiono, nessuno controllerà la situazione. Manifestazioni a Tel Aviv e Ramallah: chiusi gli uffici dell’ONU. Appello UE: Israele consenta visite delle famiglie. EMMA MANCINI Beit Sahour (Cisgiordania), 09 maggio 2012, Nena News (nella foto, oggi dimostranti chiudono gli uffici dell’ONU a Ramallah, foto Wattan TV) – Bilal e Thaer stanno morendo. Sono giunti al 73° giorno di sciopero della fame contro la pratica della detenzione amministrativa. Lunedì la Corte Suprema israeliana ha rigettato il loro appello, condannandoli a morte. Il loro avvocato, Jamil Khatib, ha annunciato che i due prigionieri palestinesi non si arrendono e proseguono nello sciopero. Bilal è stato arrestato il 17 agosto 2011, Thaer il 28 giugno 2010, entrambi in detenzione amministrativa, senza che sia stato loro garantito un processo equo. Non conoscono le accuse che li costringono in prigione. Lunedì il giudice israeliano Elyakim Rubinstein non solo ha espresso preoccupazione per le loro condizioni di salute (suggerendo alle autorità militari di rilasciarli per malattia), ma ha anche criticato l’utilizzo smodato che l’esercito fa della pratica della detenzione amministrativa, definita dal giudice “procedura antiquata che non piace a nessun giudice”. “Ma che è comunque da considerare necessaria se il materiale raccolto contro il sospetto è segreto”, ha concluso. L’appello della UE e l’avvertimento di Abu Mazen Prosegue intanto lo sciopero della fame collettivo: dal 17 aprile 1.600 prigionieri palestinesi rifiutano il cibo. Nonostante le punizioni inflitte dall’Israeli Prison Service (trasferimenti da un carcere all’altro, privazione del sale per l’acqua, perquisizioni corporali continue, multe da 100 euro al giorno), nuovi detenuti aderiscono ogni giorno alla protesta. Ieri la missione dell’Unione Europea nei Territori Occupati ha fatto appello ad Israele perché intervenga subito e salvi la vita di Thaer e Bilal: la UE ha chiesto alle autorità israeliane di permettere ai prigionieri di ricevere visite familiari e cure adeguate in ospedali civili. Simile l’appello della Croce Rossa Internazionale. Ma il silenzio della comunità mondiale resta imbarazzante. Oggi il presidente dell’AP, Mahmoud Abbas, ha lanciato un avvertimento: se anche solo uno dei prigionieri in sciopero perderà la vita, “sarà un disastrato, nessuno potrà tenere sotto controllo la situazione”. “L’ho detto agli israeliani e agli americani: se non trovano subito una soluzione, commetteranno un crimine”. Le manifestazioni di solidarietà Sono decine le manifestazioni che in questi giorni si stanno tenendo a Gaza e in Cisgiordania. Nelle città e nei villaggi palestinesi, i comitati di solidarietà e le famiglie dei detenuti hanno montato tende in sostegno della protesta. Questa mattina, un centinaio di giovani si sono ritrovati di fronte agli uffici delle Nazioni Unite a Ramallah: “Hanno chiuso le porte di ingresso – racconta a Nena News un italiano presente alla manifestazione, che preferisce mantenere l’anonimato – impedendo agli impiegati di entrare e chiedendo all’ONU di prendere misure immediate per salvare la vita degli scioperanti. Sembra che la manifestazione andrà avanti fino alle 17, poi si sposteranno in Manara Square, principale piazza di Ramallah”. Sit-in del 7 maggio a Gaza in solidarietà con i prigionieri palestinesi Dimostrazione di protesta anche all’Università di Tel Aviv: circa 60 dimostranti, tra cui una decina di attivisti israeliani, ha manifestato a mezzogiorno all’ingresso dell’università per la libertà dei prigionieri politici palestinesi. Tanti gli slogan cantati: “Oh carceriere, il popolo libero non dorme”, “Libertà alle porte”, “Liberi tutti i prigionieri”. Nei cartelli in arabo e in ebraico, i manifestanti hanno scritto le loro ‘richieste’: “No alla detenzione amministrativa”, “Thaer e Bilal liberi”. Rifiutare il cibo per i propri diritti: l’esperienza di un ex prigioniero Bilal e Thaer non mollano. I loro corpi sono ridotti a pelle e ossa. “Di solito nei primi giorni di sciopero sei molto affamato. Dopo 10 giorni non hai più energie. In media si perde un chilo al giorno: io, nei primi 20 giorni di sciopero, persi 15 chili”, racconta a Nena News Abdel-Aleem Dana, professore al Politecnico di Hebron ed ex prigioniero. Abdel-Aleem ha trascorso 17 anni della sua vita in prigione. La prima volta fu incarcerato nel 1967, poi ancora negli anni Settanta, di nuovo durante la Prima Intifada, negli anni Novanta e nel nuovo millennio. Ha preso parte al primo sciopero della fame organizzato dai prigionieri palestinesi, il 5 luglio 1970: “Scioperammo per 13 giorni e ottenemmo di non dover più appellare i soldati come ‘nostri padroni’ e di non portare le manette ai polsi durante l’ora d’aria. Difficile raccontare cosa si prova durante uno sciopero della fame. La cosa che mi infastidiva di più era l’odore della mia bocca e sentire lo stomaco pieno solo di acqua. Ma io bevevo poco perché i soldati non mi autorizzavano ad andare in bagno spesso”. “Ma più difficile è vedere accanto a te i tuoi compagni che muoiono – continua Abdel-Aleem – Noi prigionieri non iniziamo uno sciopero perché ci piace non mangiare. Ma immaginate di essere sbattuto in una prigione per anni senza sapere di cosa siete accusato. A me hanno rinnovato la detenzione amministrativa di sei mesi in sei mesi per sei volte: 3 anni senza un processo né un’accusa”. “Quello che consola i prigionieri in sciopero – continua Dana – è sapere che fuori c’è chi li sostiene. Quella della prigionia in Israele è una questione sentita da tutto il popolo palestinese perché tocca tutte le famiglie. Basta pensare che dal 1967 sono stati ben 750mila i palestinesi detenuti: ogni famiglia ha un suo membro passato per le galere”. Nena News

martedì 8 maggio 2012

Lettera di Paola Canarutto a RAI "Uomini e profeti"

Gentile dott. Caramore, ho ascoltato l'ultima puntata di Uomini e profeti, con l'intervista alla Moderatora della Tavola Valdese, Maria Bonafede. Mi sembra che sulla questione del finanziamento al centro Peres sia necessario un chiarimento di fondo. Una sua sottosezione si fa vanto di curare i bambini palestinesi malati e feriti. Purtroppo, non ricordo una sua presa di posizione contro i bombardamenti a Gaza e contro gli assassinii più o meno mirati. Quanti morti e feriti hanno fatto, fra i bambini (e gli adulti) palestinesi? Non è più semplice prevenire ammazzamenti e ferite, che curare - con esiti incerti - chi è stato colpito? Anzi, S. Peres, il fondatore del Centro Peres ed attuale Presidente di Israele si è vigorosamente schierato a favore dell'attacco a Gaza del 2008-2009. Oggi, la sanità di Gaza è allo sfacelo, tra l'altro perché Israele, non permettendo ai medici di uscire, ne ostacola l'aggiornamento. Non lo dico io: lo afferma una rinomata organizzazione israeliana per i diritti umani, Physicians for Human Rights http://www.phr.org.il/default. asp?PageID=112&ItemID=1284 . Vede, dott. Caramore: tutti noi sappiamo che le risorse non sono illimitate. In genere occorre scegliere chi aiutare. Qualche anno fa, la Regione Piemonte aveva affidato alla Rete degli Ebrei contro l'Occupazione e al Comitato di Solidarietà con il Popolo Palestinese - Torino un micro-aiuto per un ambulatorio materno-infantile a Marda, sotto la colonia di Salfit, a una ventina di chilometri da Nablus. La sottoscritta (medico ospedaliero, e presidente di Rete-ECO - la Rete degli Ebrei contro l'Occupazione) aveva consegnato personalmente il contributo e visto l'ambulatorio in funzione: serviva a dare un sostegno di minima a una popolazione a cui buona parte delle risorse - gli olivi - erano state confiscate dalla colonia soprastante; e che nemmeno riusciva più a raggiungere in tempo utile l'ospedale, stante i tre posti di blocco per arrivare a Nablus. Dopo due anni, il microcontributo è stato sospeso. Aveva fatto pressione sulla Regione Piemonte l'associazione 'Amici del centro Peres', e la Regione, per il terrore di passare come 'anti-israeliana' aveva prontamente ceduto. L'ultima volta che sono passata da Marda, l'ambulatorio aveva chiuso. Ma, pensi che gioia: al suo posto i contribuenti italiani hanno finanziato ospedali israeliani, senza neppure saperlo.... Si tratta, in buona sostanza, di quel che gli anglofoni chiamano 'whitewashing': ricordare, anziché i crimini israeliani, qualche intervento chirurgico ultraspecialistico su un bambino palestinese ( come scelto?) . La domanda è: perché la chiesa valdese deve prestarsi a questo obbrobrio? Perché non si astiene del tutto dal finanziare l'occupante e la sua propaganda, e non sceglie di destinare i fondi ai palestinesi, e a quelle poche, povere organizzazioni israeliane che, insieme ai palestinesi, lottano contro l'occupazione? Glielo scrivo perché a questa Chiesa sono assai legata: è merito loro se vive il centro Agape, che davvero lavora per la pace. Rinunciare a dare loro quest'anno l'8 per mille per me è un vero sacrificio - per Agape, e non solo perché non una lira di quanto loro arriva va a finanziare le loro spese di culto. Speriamo che - memori del detto 'Frutto della giustizia sarà la pace' (v. Is. 32,17), che tante volte ad Agape ho visto esposto, il finanziamento al centro Peres cessi. dott. Paola Canarutto, della Rete degli Ebrei contro l'Occupazione

lunedì 7 maggio 2012

Parma 5 maggio "I bambini disegnano il conflitto"

      Il trauma subito dai bambini palestinesi, in particolare dai bambini di Gaza, è un trauma continuato. Ci sono nella vita avvenimenti traumatici da cui si riemerge con fatica, ma si tratta di un episodio, per i bambini palestinesi questi episodi sono rinnovati tutti i giorni della loro vita. Anni fa una delle associazioni in cui sono impegnata organizzò una mostra di disegni di bambini palestinesi, erano ovviamente disegni di carri armati, bombe che cadevano, morti e sangue. Mi colpì in particolare il disegno di un bambino di 8 anni: un petto aperto con un cuore trafitto da un pugnale sull’impugnatura era disegnata una stella a sei punte. Quel bambino esprimeva in quel disegno il suo cuore spezzato. Un altro disegno di un bambino più grande, di 12 o 13 anni, molto bello, rappresentava un’immagine apparentemente idillica: una bimba si dondolava sull’altalena, solo che sotto l’altalena c’era una voragine e un altro di Betlemme aveva disegnato una scena di natività, la madonna s. Giuseppe il bue e l’asinello e sulla mangiatoia al posto del piccolo Gesù c’era una bomba made in USA. In fondo al corposo libro con la traduzione in italiano del rapporto Goldstone su “Piombo fuso” ci sono pagg e pagg di nomi, sono l’elenco dei morti di quell’incursione. Pagg fittissime dove ogni rigo è un cadavere e in neretto i nomi di centinaia di bambini. L’incursione “Piombo fuso” non fu né la prima né l’unica incursione, fu solo la più efferata. Ne voglio ricordare alcune: “Giorni del pentimento” a ridosso del Kippur:70 morti, “Pioggia d’estate” come ritorsione della cattura di Shalit: centinaia di morti e la distruzione dell’unica centrale elettrica. Un successivo attacco provocò più di cento morti e la distruzione delle strutture del “Medical Relief” la clinica il centro disabili, ambulanza, medicinali e attrezzature. Ma già in quell’ultimo mese erano morti 93 bambini per via dell’assedio. Il ministro degli esteri israeliano promise in quell’occasione una shoah a Gaza. E prima c’era stata l’”Operazione Arcobaleno” eccetera ecc. Se Gaza è una prigione mortale, i punti più critici nei TPO sono Hebron e il distretto di Nablus, dove coloni e soldati scorazzano provocando morte e devastazione.   I molti modi di traumatizzare la vita dei bambini:   Incursioni: I bambini sono le prime vittime delle incursioni, a Gaza più della metà della popolazione è composta da bambini. Israele usa armi come il fosforo bianco e le bombe dime vietate dalle leggi internazionali e dopo Piombo fuso non fornì ai medici palestinesi le istruzioni per curare quelle particolari ferite, il risultato fu che morirono moltissimi feriti che avrebbero potuto salvarsi. Israele usa normalmente le freccette, sono proiettili che esplodendo a 30 metri dal suolo disperdono uno sciame da 8mila freccette investendo un’area di 300 metri le quali colpiscono facilmente i bambini. A Gaza i soldati giocano con la vita dei bambini alla playstation. Nelle torrette di avvistamento lungo il confine armi simili alla playstation consentono ai soldati di uccidere schiacciando un bottone. Si chiaMA “LOCALIZZA E SPARA”. NE FANNO LE SPESE I BAMBINI CHE RACCOLGONO LA GHIAIA da utilizzare per materiali da costruzione che non possono entrare a Gaza.   Povertà indotta La situazione di impoverimento palestinese non è dovuta a un disastro naturale ma all’occupazione che a Gaza in particolare, con l’assedio, e in tutti i TPO cresce con la distruzione di greggi e oliveti, con il furto di risorse e di terra, con il furto delle tasse doganali, con l’espropriazione delle case. Di questo ne fanno le spese soprattutto i bambini che vivono in uno stato di povertà che non consente loro di vivere serenamente e spesso sono obbligati a lasciare la scuola per aiutare la famiglia. A Gaza sono soprattutto loro che si infilano nei tunnel di Rafah con il rischio di rimanere seppelliti vivi. Il gioco è un’utopia, non ci sono spazi e a Gaza Israele ha proibito l’ingresso di giocattoli come se volesse punire in primo luogo i bambini.   Mancanza d’acqua   L’acqua è una risorsa vitale, l’occupazione israeliana ruba l’acqua ai palestinesi, in particolare nella valle del Giordano, costringendoli poi ad acquistarla a caro prezzo dalla società israeliana Mekorot. A Gaza la falda acquifera è inquinata, mentre il terreno è cosparso di veleni e fosforo bianco, questo danneggia fortemente la salute dei bambini che in particolare a Gaza sono affetti da anemia per il 52% (medical relief) e soffrono di gravi carenze nutrizionali, le malattie respiratorie sono numerose. I bambini affetti Da talassemia non possono essere curaTI A GAZA perché Israele impedisce l’ingresso del farmaco specifico per la cura di questa malattia.   Demolizioni e boicottaggio dell’istruzione   Le demolizioni di case lasciano i bambini senza un rifugio. Israele demolisce case a Gerusalemme, nella valle del Giordano e nel Neghev. Il 7 agosto 2010 Israele ha demolito un intero villaggio nel Neghev lasciando senza casa 200 bambini. Israele oltre le case ha distrutto oliveti e frutteti, risorse vitale degli abitanti di al Araqib, per lo più bambini e anziani, che sono stati lasciati nelle macerie senza riparo e senza acqua sotto un sole cocente. Il fine della distruzione è rendere disponibili i progetti del Fondo naz. Ebraico per piantare un bosco che chiameranno “Bosco della pace” forse della pace eterna. La stessa sorte è toccata a Ein il Hilwe, un villaggio nella valle del Giordano. Israele non si limita a distruggere case greggi e campi, distrugge anche le scuole, perfino quando sono tende.  I bambini del villaggio andavano a scuola nel villaggio di Tayasir, a 13 km di distanza, dovevano prendere un autobus e passare attraverso un checkpoint israeliano, Troppo spesso erano oggetto di vessazioni da parte dei soldati al checkpoint, alcuni sono stati costretti a scendere dal bus e fare a piedi i 13 km per andaRE E TORNARE DA SCUOLA. Per questo molti bambini hanno abbandonato la scuola. Lo scorso nov. La Campagna “Salva la valle del Giordano” ha costruito una tenda scuola per 35 bambini. A febbraio i volontari volevano costruire una seconda tenda scuola per altri 65 bambini, ma è arrivata sul posto una jeep militare che ha m minacciato di demolire entrambe le tende. Anche nel villaggio Ka’abneh era stata costruita una scuola per 66 studenti, per la scuola sono stati emessi 6 ordini di demolizione. Nel villaggio di Jiftlik, i bambini avevano abbandonato la scuola per il lungo percorso e i maltrattamenti dei soldati. Il villaggio ha costruito una tenda scuoLA  e tra il 2003 e il 2008 gli israeliani hanno demolito la scuola sette volte. Anche la scuola di gomme costruita da Vento di terra è a rischio demolizione, a Gaza non può entrare la carta per libri e quaderni, un trattamento speciale ha ricevuto la scuola di  Qurtuba a Hebron in SHuhada Street, la principale via all’interno della città vecchia il cui transito è proibito ai palestinesi dal 2000 a causa di un’ordinanza militare considerata illegale dalla stessa alta corte d’Israele. Ogni giorno per andaRE A SCUOLA GLI ALUNNI DEVONO ATTRAVERSARE UN PASSAGGIO ELETTRIFICATO CHE SEPARA L’AREA 1 DALL’AREA 2 DI Hebron. La presenza capillare delle colonie e il divieto per i palest.  di utilizzare le by pass road obbligano gli studenti a camminare per molti km per frequentare le lezioni. Il 13 ottobre coloni di Beit Hadassan hanno tirato pietre e bottiglie contro la scuola interrompendo le lezioni. Il giorno dopo l’IDF ha chiuso il checkpoint elettrificato verso Shuhada street impedendo agli studenti l’accesso alla scuola. I soldati hanno occupato le strade della città vecchia bloccando alunni e insegnanti che hanno reagito tenendo lezione daVANTI AL CHECK POINT. Due giorni dopo chiudevano la scuola per “ragioni di sicurezza”: Gli insegnanti e la preside si sono rifiutati di rispettare la chiusura. Ci sono state reazioni e i soldati hanno lanciato contro i bambini e i manifestanti proiettili di gomma, gas lacrimogeni e bombe sonore. 20 alunni sono rimasti feriti e intossicati.Gli insegnanti e i bambini hanno continuato la protesta al checkpoint.   Maltrattamenti, prigione, tortura.   Israele non rispetta in nessun modo la vita dei bambini e si sente in diritto di ucciderli, imprigionarli, usarli come scudi umani, torturarli, togliere loro il diritto all’istruzione. Perfino la loro maggiore età è anticipata di due anni e le ordinanze militari decretano che si può arrestare un bambino di 12 anni come se fosse un nemico combattente. Nell’ottobre del 2010 un bambino di 8 anni fu investito da un colono con la macchina, il colono venne fermato e poi rilasciato, il bambino invece venne arrestato nella notte prelevandolo da casa sua perché aveva tirato una pietra sulla macchina del colono. Un rapporto di Defence for children international documenta l’aumento della violenza dei coloni sui bambini, arrestati poi dai soldati in piena notte, torturati e condannati a mesi di prigione per aver tirato una pietra contro i cani dei coloni dall’altra parte della strada. All’aumento della violenza dei coloni corrisponde la totale impunità dei responsabili. L’ass. ha chiesto di aprire un’inchiesta su 14 casi di abusi sessuali di cui ha avuto conoscenza commessi da soldati e poliziotti da gennaio 2009 a aprile 2010. Alla fine del 2008  durante l’incursione Piombo fuso, un bambino fu costretto dai soldati a ispezionare sacchetti sospetti di contenere esplosivi, il procuratore militare che ha cercato di comminare una mite condanna a tre mesi ai soldati è stato minacciato e i due se ne sono andati liberi perché la corte militare ha definito il loro atto un semplice errore. Dai soldati israeliani i bambini vengono sottoposti a shock elettrici per costringerli a confessare crimini come aver lanciato pietre e a volte inventati. I bambini di Gaza dove gli israeliani sparano tutti i giorni hanno incubi e la notte non riescono a dormire, poi quando si fa buio, i soldati liberano branchi di cani pericolosi al confine. Vicino al confine c’è la torre di controllo e i bambini devono passare per quella strada per andare a scuola, hanno paura perché i soldati sparano e spesso sono mandaTI A CASA PRIMA DELLA FINE DELLE LEZIONI PERCHè ci sono spaRI E INCURSIONI NELL’AREA ATTORNO ALL’EDIFICIO. A Nabi Saleh, un villaggio che come tanti altri in Cisgiordania lotta settimanalmente contro l’espansione degli insediamenti, mesi fa era stata organizzata una manifestazione in risposta a un appello di giovani palestinesi, si chiamava “Colora la tua libertà”. I bambini del villaggio hanno sfilato assieme ad attivisti israeliani e palestinesi indossando maschere e vestiti colorati. Portavano con se palloncini e aquiloni, mentre si dirigevano verso la collina per far volare gli aquiloni l’esercito ha cominciato a lanciare lacrimogeni. Quando si sono trovati di fronte a dei bambini con le faccine colorate che cantavano per la strada non hanno esitato a sparare, due bambini di 4 e 11 anni sono stati feriti. Non solo i bambini vengono arbitrariamente arrestati, detenuti in prigioni israeliane dove non possono contattare un avvocato o vedere i propri familiari, non solo vengono trattati e detenuti in prigioni per adulti, non solo vengono picchiati, maltrattati, torturati fisicamente e psicologicamente, non solo vengono spesso minacciati di abusi sessuali, ma Israele ha anche trovato il modo di specularci ancora sopra e di arricchirsi con i bambini palestinesi arrestati. A Gerusalemme est la polizia rapisce i bambini e impone alle famiglie il pagamento di multe salate con l’accusa di aver tirato pietre ai militari. Oltre 9cento mila dollari di sanzioni sono state fatte pagare alle famiglie dei bambini arrestati per il loro rilascio, in pochi mesi. Gli israeliani, soldati e coloni non hanno pietà neppure per gli animali, in un villaggio i coloni hanno bruciato vive le pecore di un gregge, ad At Tuwani a sud di Hebron i soldATI hanno arrestato un ragazzino palestinese e disperso il gregge di proprietà della famiglia, quando i soldati se ne sono andati con il giovane prigioniero la famiglia ha trovato un agnello ucciso, una pecora accecata, altre 4 con le zampe spezzate, due pecore avevano abortito e 21 erano sparite.   Storie emblematiche     I numeri e i dati ci documentano le situazioni e bastano da soli a farci indignare, ma quando si vanno a vedere le singole storie, l’indignazione, la rabbia, l’emozione diventano travolgenti, questi numeri e questi dati sono bambini in carne e ossa, hanno un nome e una storia che ci colpisce come un cazzotto allo stomaco e ci viene da gridare “Fermiamo questi mostri”. Voglio raccontare qualche storia particolare che rivela tutto il disprezzo degli israeliani per la vita dei bambini palestinesi:   Abeer una e due. Iman   Abeer è un nome che profuma di fiori ma che non ha portato fortuna alle due baMBINE barbaramente uccise. La prima è Abeer Aramim, suo padre è un membro dell’ass. israelo-palestinese “Combattenti per la pace” Aveva 9 anni e quando è uscita da scuola un soldato le ha sparato uccidendola, non stava lanciando pietre. La seconda Abeer ha visto suo padre arrestato e portato via di casa. Questo le ha provocato un grande dolore, avrebbe voluto almeno abbracciarlo quando è andata a trovarlo in carcere, ma un vetro spesso lo separava da lei. Suo padre era irraggiungibile dall’altra parte, perduto. Abeer ha cominciato a battere i pugni sul vetro e a piangere, a casa ha continuato ad agitarsi e il dolore della perdita le ha provocato una paralisi e il coma. Mentre la piccola moriva suo padre in prigione ha avuto un infarto nell’apprendere la notizia. Abeer è morta di dolore, si uccide non solo con le pallottole ma anche con la crudeltà. Iman invece si è trovata a camminare a cento metri da una postazione militare ben protetta. Aveva la divisa della scuola e lo zainetto dei libri. Un soldato parlando via radio da UNA TORRE DI AVVISTAMENTO CON UN COLLEGA  DICE DI AVER VISTO UNA bambina spaventata a morte. Il capitano R. è uscito dalla postazione ed ha sparato alla bambina due volte alla testa, si è allontanato, poi è tornato indietro e le ha scaricato addosso tutto il caricatore. Il medico che controllò la bambina all’ospedale di Rafah contò 17 proiettili in varie parti del corpo, proiettili grandi e sparati da una distanza ravvicinata. Il capitano R. ha dichiarato che avrebbe fatto lo stesso anche se la bambina non avesse avuto 13 anni , ma tre, “perché questo è l’ordine, tutto ciò che si muove nella zona di sicurezza, anche se si tratta di un bambino di tre anni deve essere ucciso”. IL suo rapporto dopo l’omicidio: “Stiamo andando più vicino per confermare l’uccisione….Riceverete una relazione sulla situazione. Abbiamo sparato e l’abbiamo uccisa….Ho anche confermATO L’UCCISIONE, PASSO”. Il capitano è stato dichiarato non colpevole, non è reato uccidere i baMBINI PALESTINESI, confermare l’omicidio è una pratica standard. Dopo il verdetto il capitano R. è scoppiato in lacrime e si è rivolto al pubblico dichiarando “Vi avevo detto che ero innocente!”   Mohamed Halabiyeh  Mazin Zawahreh   Mohamed fu arrestato dalla polizia ad ABu Dis la sua città mentre passeggiava con alcuni amici. Nel vedere i poliziotti avvicinarsi si spaventò e si mise a correre cadendo in una buca e fratturandosi una gamba. Quando i militi lo raggiunsero cominciarono a colpirlo in particolare sulla gamba fratturata, le torture proseguirono per giorni anche all’ospedale Hadassa dove venne ricoverato. I poliziotti gli spingevano siringhe sulle mani e sulle gambe, lo colpivano coprendogli la bocca con un cerotto adesivo, gli davano pugni dappertutto e lo minacciavano perché non rivelasse le torture subite. Il ragazzo non si lasciò intimidire e durante l’interrogatorio descrisse gli abusi e le torture. Dopo altri interrogatori fu trattenuto e subì abusi sessuali e tentativi di ammazzarlo. Inspiegabilmente, i torturatori non ebbero nessun fastidio mentre lui fu arrestato e messo in una gabbia, poi nella prigione di Ofer in un una sezione per adulti. Questo episodio accadde nel sett. 2010 e fu denunciato da Addamer l’ass. non governativa palest. per il sostegno dei diritti umani dei prigionieri.   Mazin, 14 anni, di Betlemme fu arrestato l’11 sett. Scorso. Stava giocando a pallone con tre amici quando 7 soldati israeliani lo aggredirono colpendolo con il calcio del fucile. Lo misero in ginocchio, gli strapparono i vestiti, gli legarono le mani e gli coprirono gli occhi con la sua maglietta e poi lo picchiarono per due ore. I familiari furono avvertiti da un conoscente che aveva visto il ragazzo in quelle condizioni, altrimenti non avrebbero saputo nulla di che fine aveva fatto. Nel carcere israeliano di Mascobia a Gerusalemme fu interrogato per 29 giorni, tenuto in uno stanzino sotto terra legato al letto in una posizione forzata che gli ha provocato problemi respiratori. Dopo la prima udienza a cui i familiari non hanno potuto assistere è stato trasferito nel caRCERE DI Offeq per criminali comuni subendo ripetutamente percosse e minacce, tenuto in isolamento, privato di luce e aria costretto a dormire per terra in condizioni che hanno aggravato i suoi problemi respiratori. Qui ha subito anche vaste bruciature in tutto il corpo. Il secondo processo si è risolto con la richiesta di un pagamento di 20mila shekel. Il 4 novembre è stato liberato a un centinaio di km da Betlemme. Il processo resta aperto e il ragazzino rischia di essere ancora incarcerato. Rivolgendosi alla corte il padre di Mazin ha espresso la sua disperazione dichiarando che era meglio che uccidessero subito suo figlio invece di farlo giorno per giorno. Ayoub, 12 anni, è stato ucciso da un missile a marzo di quest'anno durante un'incursione mentre andava a scuola. La notte prima di essere ucciso aveva voluto dormire con la madre perchè aveva paura a causa degli attacchi. Si è svegliato la mattina presto per andare a scuola, prima di uscire aveva detto a sua madre che voleva comprarle un regalo per la festa della mamma. Quando sua madre ha sentito il missile cadere si è precipitata fuori, qualcuno stava gridando che era stato ucciso un bambinio con la divisa della scuola. Ayoub era stato fatto a pezzi, si è trovato solo la parte superiore del corpo. La madre è stata vista raccogliere i pezzi del suo corpo e degli abiti tra i limoni sporchi di sangue.                         

Dalla Palestina, lo sciopero della fame arriva a Roma

    Dalla Palestina, lo sciopero della fame arriva a Roma  con Vincenzo Vita, Luisa Morgantini e Moni Ovadia     Roma, 7 maggio 2012   Martedì 8 maggio alle 12, il sen. Vincenzo Vita (Pd), Luisa Morgantini (già Vice Presidente del Parlamento Europeo) e Moni Ovadia (scrittore, attore, regista) terranno una conferenza stampa sulle ragioni umane e politiche dello sciopero della fame indetto dalla Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese per ricordare gli oltre 2000 detenuti palestinesi dal 17 aprile 2012 in sciopero della fame nelle carceri israeliane, tra i quali Bilal Diab, che rischia la vita per lo sciopero che dura da ormai da 69 giorni.   La conferenza stampa avrà luogo alle ore 12 di martedì 8 Maggio, presso il presidio organizzato in via dei Fori Imperiali, alla fermata metro ‘Colosseo’.   Il presidio, organizzato dagli/dalle attivisti/e della Rete Romana, è iniziato domenica 6 maggio, alle ore 17, per manifestare solidarietà con la lotta dei prigionieri politici palestinesi, attualmente in sciopero della fame per rivendicare il diritto ad un trattamento umano e dignitoso all’interno delle carceri israeliane, come previsto dalla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, dalla IV Convenzione di Ginevra e dalla Convenzione Europea sui Diritti Umani.   Allo sciopero stanno partecipando circa 25 persone, tra cui anche Giovanni Franzoni (teologo e scrittore, animatore della Comunità Cristiana di Base S.Paolo di Roma) ed Ettore Zerbino (responsabile di Medici contro la Tortura).       Vincenzo Vita      tel.  0667064322 Luisa Morgantini tel. 3483921465 Moni Ovadia  Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese Info: Nino Lisi 339 3310021

venerdì 4 maggio 2012

LA FAMIGLIA SAMOUNI

GAZA, LA VITA DEI SAMOUNI NON VALE NIENTE

Nessuno tra i superstiti della strage del 5 gennaio 2009, durante "Piombo fuso", si attendeva la punizione dei soldati israeliani. Ma a Gaza la chiusura del caso fa ugualmente male. "Erano civili innocenti" ripetono i parenti delle vittime MICHELE GIORGIO Gaza, 04 maggio 2012, Nena News – In verità non si aspettavano giustizia i Samouni, certo non da Israele. Nessun membro di questa famiglia di Zaitoun, a est di Gaza city, aveva mai creduto che i militari responsabili per l’uccisione di 21 dei loro congiunti nei giorni di sangue del gennaio 2009, nel pieno dell’offensiva di terra dell’operazione «Piombo fuso», potessero essere puniti. Eppure l’esito dell’inchiesta militare israeliana – comunicato dal maggiore Dorit Tuval, procuratore aggiunto per le questioni operative, al Centro per i diritti umani israeliano “Betselem” – lascia l’amaro in bocca anche a chi non si era mai illuso. Tuval ha scritto che il caso è stato chiuso perché nell’attacco compiuto contro «civili che non prendevano parte a combattimenti»…«i soldati non hanno agito per volontà o conoscenza e nemmeno con fretta o negligenza». Chissà come avrebbe reagito a questa conclusione l’attivista italiano dell’Ism e giornalista Vittorio Arrigoni (assassinato un anno fa) di fronte a questa conclusione, lui che trascorse non pochi dei giorni più duri di «Piombo fuso» a bordo delle ambulanze di Gaza che provavano a portare aiuti a Zaitoun e altri centri abitati occupati dai mezzi corazzati israeliani. Vittorio non c’è più e oggi scuote il capo incredula la fotoreporter Rosa Schiano, che negli ultimi mesi ha effettuato decine di missioni di monitoraggio in mare con i pescatori palestinesi tenuti sotto tiro dalla Marina militare israeliana e nelle campagne di Gaza dichiarate «no go zone». Schiano ha più volte incontrato i Samouni. «Non è solo una questione di mancato rispetto della giustizia internazionale – dice – perchè stiamo parlando di vite umane, di uomini, donne e bambini che non avevano alcuna colpa e che sono stati uccisi. Ancora oggi, quando mi reco in visita dai Samouni, registro il trauma subito da quelle persone. I più piccoli ne portano i segni ancora oggi». Il massacro dei 21 Samouni è considerato dai palestinesi come il più grave dei «crimini di guerra» compiuti dall’Esercito israeliano durante «Piombo fuso». Rientra in quello che è noto come «Il caso Zaitoun», nel quale furono uccisi in totale 48 palestinesi e distrutte 27 abitazioni, una moschea e diverse fabbriche. Di fatto Zaitoun divenne in quei giorni in una sorta di base dalla quale sono partite parecchie delle incursioni di terra lanciate dalla Brigata Givati. Secondo la ricostruzione dell’accaduto fatta dalla giornalista di Haaretz Amira Hass, il 4 gennaio 2009, 24 ore prima della strage, i soldati israeliani ordinarono ad un centinaio di membri della famiglia Samouni, nascosti in un edificio di tre piani, di trasferirsi in un casa più piccola dall’altra parte della strada. I militari, sottolineò Hass, ebbero modo di vedere uomini, donne, bambini e anziani disarmati muoversi da una casa all’altra. I sopravvissuti hanno poi raccontato quanto si sentissero sicuri per il fatto che proprio i soldati li avessero raggruppati in quella abitazione. Il 5 gennaio però il comandante della brigata Givati, Ilan Malka, concluse – guardando immagini ad infrarossi trasmesse da droni – che nell’abitazione si trovavano uomini armati ed ordinò un attacco aereo in cui rimasero uccisi 21 Samouni e altri 40 feriti. I «miliziani armati» però non c’erano in quella casa, i morti sono tutti civili innocenti. Il colonnello israeliano Jonathan Halevi del “Jerusalem Center for Public Affairs”, che ha indagato sull’accaduto, ha provato a giustificare l’attacco sostenendo che tre membri della famiglia Samouni facevano parte del Jihad islami e si muovevano in quella zona durante le operazioni militari. La strage dei Samouni occupa non poche delle 575 pagine del rapporto del giudice sudafricano Richard Goldstone, chiamato dall’Onu ad indagare su «Piombo fuso», che accusa Israele di aver colpito intenzionalmente in varie occasioni i civili palestinesi. Poi, poco alla volta, a livello internazionale, Israele è stato scagionato. Prima con la clamorosa ritrattazione fatta da Goldstone (al Washington Post) della parte più scottante del suo rapporto fatta nel 2011: «Il bombardamento della casa (dei Samouni) fu la conseguenza dell’errata interpretazione dell’immagine di un drone da parte di un comandante». E poi con il rapporto di Mary McGowan Davis (Onu) secondo il quale «Israele ha dedicato risorse significative per indagare su oltre 400 accuse riguardo le sue operazioni militari». I razzi lanciati da Gaza, secondo Mary McGowan Davis, «prendono di mira» obiettivi civili mentre nel caso dei bombardamenti israeliani durante «Piombo fuso» – tra i quali quelli al fosforo bianco – i palestinesi «non furono colpiti per scelta». Ora giunge la conclusione della procura militare israeliana: tutti agirono secondo le procedure. I Samouni dopo tre anni hanno una sola certezza: la loro vita non vale niente. Nena News

giovedì 3 maggio 2012

SALVARE UNA VITA E' SALVARE IL MONDO? PER ISRAELE LA VITA UMANA NON CONTA UN CAZZO SPECIE SE E' LA VITA DEI PALESTINESI

Continua lo sciopero della fame di 2000 detenuti palestinesi Sono circa 2000 i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane in sciopero della fame dal 17 aprile. Protestano contro le condizioni nelle carceri e contro le politiche detentive israeliane Haaretz (Israele), 2 maggio 2012 Gravi quattro detenuti palestinesi in sciopero della fame Sono circa 2000 i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane in sciopero della fame dal 17 aprile. Protestano contro le condizioni nelle carceri e contro le politiche detentive israeliane. Il responsabile medico di una struttura sanitaria carceraria preoccupato per le condizioni di salute di quattro di loro. Di Amira Hass con Jack Khoury Si teme per la vita di quattro dei duemila palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane. Lo ha reso noto lunedì un medico del dipartimento penitenziario israeliano IPS. Qualche settimana fa proprio l'Israeli Prison Service aveva dato la notizia che 2000 detenuti palestinesi avevano iniziato lo sciopero della fame per protestare contro le condizioni nelle carceri e le politiche di amministrazione penitenziaria israeliana. Tra quelli che sarebbero in condizioni critiche ci sono Bilal Diyab, Ta'ir Halale e Omar Abu Shlal, condannati al carcere in regime di ‘detenzione amministrativa’ da un tribunale militare per ordine dello Shin Bet; chiedono di essere processati o rilasciati. Il quarto, Muhammad Siksak, originario della Striscia di Gaza, è in sciopero della fame perché ritenuto dalle autorità israeliane un "combattente illegale". L'IPS non ha ancora esplicitamente confermato quanto detto dal medico penitenziario che ritiene i prigionieri in pericolo di vita, ma ha fatto sapere ad Haaretz di "essere tenuto per legge a garantire la buona salute e la sicurezza delle persone che ha in custodia. L'incolumità di tutti i prigionieri in sciopero della fame è una priorità per il (nostro) dipartimento; molto viene già fatto dal punto di vista medico per assicurare l’assistenza sanitaria ai detenuti, tutti sotto stretto controllo medico. Quelli che hanno richiesto assistenza a tempo pieno sono stati ricoverati nella struttura sanitaria di Ramle. Qualora la situazione dovesse aggravarsi, i detenuti sarebbero trasferiti in un ospedale pubblico, come già successo in precedenza" afferma il servizio penitenziario. A causa dell'aggravarsi delle sue condizioni, Bilal Dyab, in sciopero da 67 giorni, si trova già da martedì 1/5 all'Assaf Harofeh Hospital. Lunedì un medico di Physicians for Human Rights Israel (Medici per i Diritti Umani Israele) ha fatto visita all'ospedale penitenziario; a suo parere i prigionieri dovrebbero essere rilasciati e ricoverati in una struttura sanitaria pubblica. Secondo Anat Litvin, l’attivista di Physicians for Human Rights, la struttura ospedaliera penitenziaria dell'IPS non ha le apparecchiature adeguate al monitoraggio e alla cura di persone in sciopero della fame in gravi condizioni. Nell'intervista che ha rilasciato al giornale online di Adalah, il Centro per l'assistenza legale per i diritti della Minoranza Araba in Israele, Litvin ha descritto conseguenze fisiche e psichiche dello sciopero della fame prolungato nei prigionieri. Secondo l’attivista, inoltre, i medici dell'IPS si troverebbero a dover rispettare tanto il dovere nei confronti dei detenuti che dell'istituzione per la quale lavorano, aspetto questo che potrebbe influenzare le loro decisioni. Nella struttura gestita dall'IPS ci sono altri quattro detenuti, tra i quali Ahmad Sa'adat, il segretario generale del FPLP, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ricoverato dopo il considerevole peggioramento del suo stato di salute. Lunedì l'avvocato Jawad Boulus, che rappresenta i prigionieri in sciopero della fame per la Palestinian Prisoner Society, ha detto ai giornalisti di Ramallah che, per quanto ne sa e a differenza di quanto successo nel caso di Khader Adnan, le autorità israeliane non avrebbero avviato trattative con i detenuti. Boulus si è detto molto colpito da quanto sta succedendo, perché i casi di Adnan e Hana Shalabi hanno portato all'attenzione internazionale la pratica israeliana della ‘detenzione amministrativa’. Secondo l'IPS, attualmente sono 300 i prigionieri in regime di ‘detenzione amministrativa’ nelle carceri israeliane. La procedura, introdotta con la legge speciale di emergenza ai tempi del Mandato Britannico, permette di trattenere in arresto cittadini palestinesi sospetti, per periodi di durata variabile e reiterabili, senza accuse specifiche o processo. I detenuti attualmente in sciopero della fame protestano principalmente contro il regime di isolamento, contro la ‘detenzione amministrativa’ e il perdurare delle disposizioni imposte prima del rilascio del soldato israeliano rapito Gilad Shalit. La ‘detenzione amministrativa’ è una procedura che permette alle autorità israeliane di mandare in galera, in seguito a informazioni di intelligence note solo a un giudice militare, sospetti terroristi senza processo per periodi prorogabili della durata di sei mesi. In seguito alle sanzioni che furono imposte per fare pressione su Hamas ai tempi del rapimento di Gilad Shalit, ancora oggi si tende ad impedire le visite dei familiari residenti a Gaza dei prigionieri; ciò rende la situazione particolarmente difficile per le famiglie della Cisgiordania con parenti nelle carceri israeliane, che devono ogni volta sottostare alla perquisizione fisica. Sono stati inoltre cancellati i corsi di studio e introdotte altre forme di quelle che i detenuti giudicano ‘punizioni collettive’. Lo sciopero vuole anche mettere in evidenza ciò che i prigionieri definiscono "provvedimenti umilianti", quali la perquisizione notturna della cella. Secondo l'avvocato Boulus Israele starebbe valutando quale potrebbe essere il potenziale danno dell’eventuale morte di uno dei detenuti in sciopero della fame. A suo dire non sarebbero in corso trattative per evitare il peggio, perché per i funzionari israeliani le conseguenze non sarebbero eccessive. L'Israeli Prison Service non ha ancora ribattuto a questa valutazione dell'avvocato.

NESSUNA PUNIZIONE PER GLI ASSASSINI DELLA FAMIGLIA SAMOUNI: I SOLDATI ISRAELIANI HANNO LICENZA DI UCCIDERE SENZA LIMITAZIONI

PIOMBO FUSO, L’IDF NON E’ RESPONSABILE E' stata archiviata per "inconsistenza di accuse" l'indagine interna all'esercito israeliano per l'attacco missilistico, il 5 gennaio 2009, alla casa della famiglia al-Samouni in cui persero la vita 21 civili. L'ennesima assoluzione di Israele per un conflitto che ha provocato 1400 morti in 22 giorni. GIORGIA GRIFONI Roma, 3 maggio 2012, Nena News – I soldati israeliani non sono responsabili per la morte dei 21 civili palestinesi nel bombardamento della casa nella quale si erano rifugiati durante l’operazione Piombo Fuso contro la Striscia di Gaza, nel gennaio 2009. A stabilirlo è un’inchiesta interna delle Forze di sicurezza israeliane (Idf), conclusa martedì scorso dopo che il procuratore militare, il generale di brigata Dani Efron, ha dichiarato che “dalle indagini è emerso che le accuse sono inconsistenti. Nessuno dei soldati e degli ufficiali coinvolti ha agito in maniera negligente”. Secondo il maggiore Dorit Tuval, procuratore militare aggiunto per le questioni operative, “nell’uccisione dei civili i soldati non hanno agito per volontà o conoscenza, e nemmeno con fretta o negligenza”. Semplicemente, un missile ha colpito un’abitazione a caso. LA VICENDA. Amira Hass, sul quotidiano Haaretz, racconta invece un’altra versione dei fatti. Il 4 gennaio 2009, un giorno prima del massacro, i comandanti della brigata Givati avrebbero ordinato a decine di membri della famiglia al-Samouni, nascosti in un edificio di tre piani, di trasferirsi in un’abitazione più piccola al lato opposto della strada di proprietà di Wa’el al-Samouni. I soldati avevano visto numerose donne, bambini, anziani e uomini disarmati spostarsi nell’altra casa. Alcuni uomini erano persino usciti, la mattina del 5 gennaio, per cercare un po’ di legna per il tè. Loro stessi hanno raccontato quanto si sentissero sicuri per la vicinanza dell’esercito e per il fatto che proprio i soldati li avessero raggruppati in quella casa. Secondo le testimonianze di ex-militari raccolte da Haaretz e dal gruppo Breaking the Silence, il comandante della brigata Givati Ilan Malka avrebbe poi concluso – grazie ad alcune immagini ad infrarossi – che nell’abitazione si trovavano uomini palestinesi armati. Avrebbe quindi ordinato un attacco missilistico aereo sulla casa. Il bilancio è stato di 21 morti e 40 feriti. IL RAPPORTO GOLDSTONE. Secondo il legale del movimento per i diritti umani B’tselem, Yael Stein, “le modalità con cui l’esercito si libera da ogni responsabilità su questo caso mostra nuovamente il bisogno di un corpo investigativo esterno all’Idf”. Eppure di inchieste esterne sull’attacco israeliano a Gaza nei mesi di dicembre 2008 e gennaio 2009 ce ne sono state. Nell’aprile del 2009, ad esempio, l’Onu affidava a Richard Goldstone, ex-procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia e per il Ruanda, l’incarico di indagare su tutte le violazioni dei diritti umani compiute durante il conflitto. Il rapporto, 575 pagine diffuse il 15 settembre 2009, accusava sia le Forze di difesa israeliane che i combattenti palestinesi di gravi violazioni di diritti umani, di cui alcuni possibili crimini contro l’umanità. Contestato sia da Israele che dai Palestinesi come “di parte”, il documento è stato approvato un mese dopo dal Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite. IL RAPPORTO MCGOWAN-DAVIS. Nel 2011, però, Goldstone ritratta il suo rapporto in un’intervista al Washington Post, scagionando Israele dall’accusa di aver colpito volutamente civili palestinesi. Il motivo? Qualche mese prima era stato diffuso il rapporto su un’inchiesta guidata dall’ex-giudice di New York Mary McGowan Davis, sempre per conto dell’Onu. Nel documento si legge che “Israele ha dedicato risorse significative per indagare su oltre 400 accuse riguardo le operazioni militari”, mentre Hamas non ha condotto neanche un’indagine sui lanci di missili verso la città di Sderot. Nel rapporto si giunge altresì alla conclusione che gli attacchi palestinesi siano mirati a obiettivi civili, mentre nel caso dei pesanti bombardamenti israeliani – tra i quali quelli al fosforo bianco – i civili “non furono colpiti per scelta”. Proprio quello che è accaduto alla famiglia al-Samouni: come spiega Goldstone nella stessa intervista “il bombardamento della loro casa fu la conseguenza dell’errata interpretazione dell’immagine di un drone da parte di un comandante” e che adesso “un ufficiale è sotto inchiesta per aver ordinato quell’attacco”. ALTRE INDAGINI E WIKILEAKS. Goldstone e McGowan-Davis non sono state le uniche inchieste condotte sull’accaduto. Un mese dopo il cessate il fuoco, l’ufficio del procuratore generale di Ankara aveva cominciato a investigare sui crimini commessi a Gaza dopo che un’organizzazione islamica per i diritti umani aveva presentato un reclamo. Nello stesso periodo, un giudice spagnolo aveva avviato un’inchiesta sull’operato di sette ufficiali israeliani per l’omicidio mirato di esponente di Hamas nel 2002, che aveva ucciso anche 14 civili tra i quali sette bambini. Con una risoluzione – sulla base del rapporto Goldstone – del novembre 2009, il Consiglio di Sicurezza aveva ordinato a Israele e all’Autorità Palestinese di condurre delle proprie indagini per le accuse di crimini contro l’umanità. Nel febbraio 2010 il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon le aveva dichiarate “poco indipendenti, credibili e conformi agli standard internazionali”. Nell’aprile del 2011, invece, la rivista Foreign Policy aveva citato alcuni cablogrammi esclusivi di Wikileaks in cui l’ambasciatrice degli Stati Uniti all’Onu Susan Rice faceva pressioni sul segretario generale Ban Ki-Moon perché ritrattasse le sue raccomandazioni per un’indagine più approfondita sugli attacchi agli edifici dell’Onu a Gaza. Secondo Wikileaks, Ban Ki-Moon avrebbe rassicurato la Rice confermandole che stava lavorando assieme alla delegazione israeliana e dicendole che sarebbe rimasta soddisfatta del risultato ottenuto. In un’altra rivelazione si legge che gli Stati Uniti e Israele avrebbero fatto pressioni anche sul Consiglio per i Diritti Umani, che poi avrebbe appuntato Goldstone per l’inchiesta su Gaza. Una schiera di indagini inutili, vista la decisione di qualche mese fa della Corte Penale Internazionale di non procedere alle accuse alle autorità israeliane di crimini contro l’umanità, in quanto la Palestina, e quindi Gaza, “non esiste”. Nena News