lunedì 30 dicembre 2013

Non chiudiamoci gli occhi su Gaza assediata

Una delegazione di 34 italiani è da tre giorni al Cairo in attesa di potersi recare a Gaza. La delegazione ha l'obiettivo di portare a Gaza aiuti per l'ospedale Al Awda e manifestare solidarietà con il popolo palestinese ribadendo il diritto a poter tornare alle loro terre d'origini. Da tre giorni, invece siamo bloccati nella capitale egiziana, in balia di notizie contradditorie. In pratica da tre giorni viviamo sulla nostra pelle, seppur in millesimi, quello che quotidianamente vivono i nostri amici palestinesi. Tutto questo nonostante la delegazione “Per non dimenticare… il diritto al ritorno” abbia richiesto da mesi tutte le autorizzazioni fornendo all'ambasciata italiana i documenti richiesti. Comprendiamo le difficoltà che sta vivendo l‘Egitto, in questi giorni abbiamo potuto toccare con mano la tensione e il timore che il paese possa cadere nella spirale della violenza. Rispettiamo il suo travaglio e non vogliamo fare nessun tipo di ingerenza sulle scelte interne di questa nazione. Rivolgiamo alle donne e agli uomini dell'Egitto la nostra piena amicizia e solidarietà.
Questa nota si propone di parlare agli italiani. Lo vogliamo fare proprio in questi giorni di festa, nei quali molti nostri cittadini sono bombardati da false notizie tendenti ad istillare un clima di ovattata felicità e serenità, in assoluto contrasto con una realtà fatta, sia in Italia che nel mondo, di continui soprusi, di negazione di diritti e di attacchi alla democrazia e alle libertà. Temiamo che nessun appello in questa direzione arriverà dalla massima autorità dello Stato italiano, il Presidente Napolitano che, al contrario di quanto 31 anni fa fece un ben altro presidente, Sandro Pertini – quando denunciò senza mezzi termini i responsabili dell'eccidio di Sabra e Chatila – non spenderà una parola sulle ingiustizie a cui è condannato il popolo di Palestina. Vogliamo in questo modo essere megafono di quanti normalmente non hanno voce: quelle donne e quegli uomini che vivono tanto a Gaza e in Cisgiordania quanto nei miseri campi in Libano, Siria e Giordania. Tutto questo accade nel più assoluto silenzio della comunità internazionale che in questo modo si rende complice e responsabile di quanto accade in questa parte del mondo. Un silenzio a cui non si sottrae il nostro Paese. Il governo italiano che si vanta di avere rapporti eccellenti con i Paesi dell'area, che stringe le mani dei vari capi di stato di questa regione e firma accordi con un Paese, Israele, che non rispetta i diritti umani e civili, ha qualcosa da dire in merito a questa situazione? Ritiene normale che a suoi cittadini possa arbitrariamente essere impedito il movimento da uno Stato “amico” senza ricevere nessuna spiegazione?
Noi in tutta sincerità riteniamo che non sia assolutamente accettabile tutto ciò e che quindi è necessario che si levi con forza una voce di protesta e di condanna!!!
Per non dimenticare… il diritto al ritorno (per info 00201202057062 - tuttiagaza2013@gmail.com)

lunedì 23 dicembre 2013

5000 accademici statunitensi si schierano con i palestinesi boicottando Israele


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Evento storico’: accademici statunitensi si schierano con i palestinesi nel boicottaggio di Israele

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di Sarah Lazare

Un’associazione di 5.000 accademici è diventata lunedì la più vasta organizzazione di studiosi statunitensi che abbia mai aderito al boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane.

L’American Studies Association (ASA) che si autodefinisce “la più antica e più vasta associazione della nazione dedita allo studio interdisciplinare della cultura e della storia americana”, ha annunciato lunedì che i suoi membri hanno approvato una risoluzione che stabilisce che l’organizzazione “sottoscrive e onorerà l’appello della società civile palestinese a un boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane ”.

La risoluzione, che era stata proposta l’anno scorso ed è stata approvata all’unanimità dal consiglio nazionale dell’ASA il 4 novembre, ha attirato un numero di votanti senza precedenti, con il 66,05% a favore della risoluzione, il 30,5% contrario e il 3,43% astenuto, secondo la dichiarazione dell’ASA.

“La schiacciante maggioranza che ha votato a favore della risoluzione mostra che ci rifiutiamo di essere complici dell’aggressione israeliana”, ha dichiarato a Common Dreams Steven Salaita, docente associato d’inglese alla Virginia Tech e membro del polo attivista dell’ASA. “Questa posizione di solidarietà con la libertà dei palestinesi è un evento storico e segnala una nuova era di impegno nei confronti delle popolazioni colonizzate”.

La risoluzione è stata approvata con una profusione di sostegno dei membri dell’ASA, tra cui la famosa attivista, scrittrice e studiosa Angela Davis. “Le analogie tra le pratiche storiche in stile Jim Crow e il regime contemporaneo di segregazione nella Palestina occupata fanno di questa risoluzione un imperativo etico per l’ASA”, ha scritto quest’ultima. “Se abbiamo appreso la lezione più importante impartita dal dottor Martin Luther King – che la giustizia è sempre indivisibile – dovrebbe essere chiaro che un movimento di massa di solidarietà con la libertà dei palestinesi è qualcosa di dovuto da molto tempo.”

L’ASA ha affrontato una bufera di critiche e attacchi da parte delle forze filoisraeliane, tra cui appelli dell’ex rettore di Harvard e attualmente dirigente dell’amministrazione Obama, Larry Summers, a boicottare l’ASA sulla base della tesi che la risoluzione viola la libertà accademica e perpetua l’antisemitismo.

Tuttavia Alex Lubin, Direttore del Centro Studi e Ricerche sugli Stati Uniti presso l’American University di Beirut ha stroncato tali accuse scrivendo, il mese scorso, su The Nation:

“La libertà accademica significa ben poco quando ha luogo in un contesto di segregazione e apartheid. Il cambiamento è arrivato nel Sud di Jim Crow non dal dialogo accademico, bensì dalle proteste e, in alcuni casi, da boicottaggio di istituzioni che incoraggiavano la segregazione. Il cambiamento del sistema dell’apartheid sudafricano non è venuto dal dialogo accademico, bensì da proteste, resistenza e da un boicottaggio internazionale. Quelli tra noi che valorizzano la libertà accademica devono sempre lottare per garantire che il mondo che circonda l’accademia assicuri i diritti umani fondamentali che rendono possibile la vita accademica.”

“La risoluzione sul boicottaggio è intesa ad affrontare un caso grave di discriminazione contro il palestinesi ed è coerente con la precedente adesione dell’ASA a posizioni antirazziste in altre aree,” ha affermato Lubin nel sottoscrivere la risoluzione. “La risoluzione non prende di mira gli israeliani, gli ebrei o singole persone; in realtà il sostegno dell’ASA al boicottaggio afferma la sua opposizione a ogni forma di discriminazione razziale, tra cui, ma non limitatamente ad essi, l’antisemitismo e l’islamofobia”.

La chiamata al boicottaggio, ai disinvestimenti e alle sanzioni [BDS] contro Israele è venuta da organizzazioni della società civile palestinese nel 2005 con un invito a rivendicare i diritti umani, l’autodeterminazione e la libertà dall’occupazione per i palestinesi utilizzando tattiche simili a quelle attivate per trasformare il Sudafrica dell’apartheid.

L’attivista palestinese Omar Barghouti scrive su The Nation che il 2013 ha visto grandi progressi di questo movimento per i BDS nel settore accademico:

“Giorni fa, in una lettera di appoggio all’ASA, la facoltà di studi etnici dell’Università delle Hawaii è stata la prima facoltà accademica dell’occidente ad appoggiare il boicottaggio accademico di Israele. In aprile, l’Association for Asian-American Studies ha sottoscritto il boicottaggio accademico, la prima associazione accademica professionale degli Stati Uniti a farlo. Circa nello stesso periodo il Sindacato Insegnanti dell’Irlanda ha sollecitato all’unanimità i propri membri a “cessare ogni collaborazione accademica e culturale” con “lo stato israeliano dell’apartheid” e la Federazione degli Studenti Belgi di Lingua Francese (FEF), che rappresenta 100.000 membri, ha adottato “un congelamento di ogni collaborazione accademica con istituzioni accademiche israeliane”. Sempre quest’anno, comitati studenteschi di numerose università nordamericane, tra cui l’Università della California Berkeley, hanno sollecitato disinvestimenti da imprese che traggono profitto dall’occupazione israeliana.”

Quello che segue è il testo completo della risoluzione dell’ASA:

Considerato che l’American Studies Association è impegnata nel perseguimento della giustizia sociale, nella lotta contro ogni forma di razzismo, compresi l’antisemitismo, la discriminazione e la xenofobia e nella solidarietà con chi ne è leso negli Stati Uniti e nel mondo;

Considerato che gli Stati Uniti svolgono un ruolo considerevole nel rendere possibile l’occupazione israeliana della Palestina e l’espansione degli insediamenti illegali e del Muro, in violazione della legge internazionale, nonché nell’appoggiare la discriminazione sistematica contro i palestinesi, che ha avuto un impatto devastante documentato sul benessere generale, l’esercizio dei diritti politici e umani, la libertà di movimento e le opportunità di istruzione dei palestinesi;

Considerato che non esiste un’effettiva o sostanziale libertà accademica per gli studenti e gli studiosi palestinesi nelle condizioni dell’occupazione israeliana e che istituzioni israeliane di istruzione superiore sono partecipi delle politici statali israeliane che violano diritti umani e che hanno un impatto negativo sulle condizioni di lavoro degli studiosi e degli studenti palestinesi;

Considerato che l’American Studies Association è a conoscenza di studiosi e studenti israeliani critici delle politiche statali di Israele e che appoggiano il movimento internazionale per il boicottaggio, i disinvestimenti e le sanzioni (BDS) in condizioni di isolamento e di minaccia di sanzioni;

Considerato che l’American Studies Association è impegnata per il diritto degli studenti e degli studiosi a perseguire l’istruzione e la ricerca senza indebita interferenza, repressione e violenza militare dello stato e che, coerentemente con lo spirito di dichiarazioni precedenti, appoggia il diritto degli studenti e degli studiosi alla libertà intellettuale e al dissenso politico da cittadini e da studiosi;

Si delibera che l’American Studies Association (ASA) sottoscrive e onorerà l’appello della società civile palestinese a un boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane. Si delibera altresì che l’ASA appoggia i diritti protetti degli studenti e degli studiosi di tutto il mondo a impegnarsi in ricerche e dichiarazioni pubbliche riguardo al rapporto Israele-Palestina e a sostegno del movimento per il boicottaggio, i disinvestimenti e le sanzioni (BDS).

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Fonte: www.znetitaly.org

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Da: ki.noblogs.org News Aggregator

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venerdì 13 dicembre 2013

Sotto il fuoco israeliano, i pescatori di Gaza montano una tenda in segno di protesta per “liberare il mare della Terra Santa”



Martedì 17 Dicembre, i pescatori palestinesi monteranno una tenda in segno di protesta all’interno del porto di Gaza. La struttura, che resterà montata per tre giorni e sarà allestita con fotografie di pescatori attaccati o arrestati dalla marina militare israeliana, sarà intesa come manifestazione contro il blocco navale di Israele della Striscia di Gaza e i suoi attacchi ai pescatori palestinesi.
I pescatori che in precedenza sono stati arrestati o catturati, così come rappresentanti dei pescatori e di organizzazioni dei diritti umani, saranno disponibili per essere intervistati. Parteciperanno anche sostenitori palestinesi ed internazionali che parlano arabo, catalano, inglese, francese, tedesco, italiano, portoghese, spagnolo e svedese.
"Come pescatori, vogliamo che la gente stia in solidarietà con noi, per rendere libere le acque territoriali della Striscia di Gaza e per garantire il nostro pieno godimento del diritto fondamentale di poter navigare liberamente, e per porre fine alle enormi violazioni israeliane contro di noi,” ha affermato Zakaria Baker, pescatore ed attivista. "E’ giunto il momento di porre fine a tutti i tipi di crimini di guerra contro i pescatori. E’ giunto il momento di porre fine all’assedio illegale, una forma di punizione collettiva proibita dal diritto umanitario internazionale.”
"I pescatori di Gaza stanno cercando di usufruire dei loro mezzi di sostentamento, basati sulla dignità e sulla libertà,” ha affermato Khalil Shaheen, direttore del dipartimento economico e diritti sociali del Palestinian Centre for Human Rights (PCHR).
"Lasciate che la gente vivi la sua vita normale. Ponete fine alla punizione collettiva. Rispettate i diritti umani in ogni circostanza.”

La campagna “Liberare il mare della Terra Santa” è sostenuta da PCHR, Activists for Palestinian Prisoners, al-Mezan Center for Human Rights, the General Union of Fishermen, the International Solidarity Movement, Palestinian Press Network, Supporters for Fishermen's Rights, e Associazione Unadikum.
La tenda sarà allestita dale 10.00 alle 14.00 da Martedì 17 Dicembre a Giovedì 19 Dicembre.
Fonti:
Fishing under fire off the Gaza coast
The Guardian
8 December 2013

Israeli Attacks on Fishermen in the Gaza Sea
Palestinian Centre for Human Rights
8 November 2013

Restricted Livelihood: Gaza's Fishermen
United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs

mercoledì 11 dicembre 2013

Accordi Italia-Israele sulla sanità, una collaborazione bagnata dal sangue dei palestinesi

di Loretta Mussi
Mentre Letta e Netanyahu, in una Roma blindata e circondati da uno stuolo di ministri, funzionari e uomini della sicurezza, discutevano di affari, in tutta la Palestina storica (cioè l’attuale Israele ed i territori Occupati) si svolgevano manifestazioni e proteste contro il Piano Prawer, che prevede la distruzione di 45 villaggi beduini del Negev, con l’ espulsione e il trasferimento forzato di 70.000 beduini palestinesi in nuove “township”, e la confisca di oltre 800.000 dunam di terre, cioè 800.000 metri quadrati.
Tali manifestazioni, nel giorno dei sorrisi e degli affari tra i due Governi, ma anche tra Netanyahu ed i vertici del Vaticano, sono state duramente represse dalla polizia israeliana, che ha eseguito retate e numerosi arresti, incurante della giovane età di molti manifestanti, tra cui un dodicenne che è stato trascinato per terra per alcuni metri con una pistola puntata alla testa.

Tra i diversi accordi, sono stati stipulati anche un protocollo sanitario tra la Regione Abruzzo e il governo israeliano, una lettera di Intenti tra il Policlinico “Gemelli” e il “Rambam Hospital” di Haifa, ed un Memorandum di Intesa tra le Facoltà di Medicina ed il Politecnico dell’Università degli Studi di Torino e l’ “Israeli Insitute of Technology”.

“Sono convinto che la collaborazione tra il sistema sanitario israeliano e quello abruzzese, ci consentirà di affrontare al meglio le criticità e le sfide presenti e future della nostra realtà sanitaria”, ha detto il Presidente della regione Abruzzo Chiodi. “La nostra ambizione è creare, dopo il risanamento, una rete di emergenza urgenza di grandissima qualità. Per questo collaboreremo con il sistema sanitario di Israele che in questo settore è il migliore al mondo (…)….Una delle criticità che abbiamo rilevato nella rete dell’emergenza urgenza abruzzese era proprio la mancanza di un programma di formazione aggiornato ed omogeneo diffuso a tutti gli operatori della rete dell’emergenza. E dato che l’economia insegna che quando le risorse sono poche vanno ottimizzate e che quando non si ha la possibilità per crescere individualmente, bisogna creare sinergie, abbiamo deciso di dar vita a questa collaborazione con Israele”.

Queste affermazioni, oltre a sminuire il lavoro di chi, nonostante la carenza di risorse, il mercimonio e lo scambio politico che amministratori e politici fanno sul corpo della salute, riesce a far si che il nostro sistema sanitario continui ad essere uno dei migliori del mondo, in particolare proprio nel sistema dell’emergenza-urgenza, denotano cecità o noncuranza nei confronti delle violazioni che quotidianamente Israele compie proprio nel campo dei diritto alla salute, in violazione della IV convenzione di Ginevra.

Politici ed universitari che hanno firmato accordi e lettere di intenti nel campo della organizzazione dei servizi sanitari e della ricerca biomedica non possono non sapere che a Gaza si muore per l’impossibilità di accedere alle cure e per il gravissimo inquinamento ambientale provocato da guerre e da un embargo che impedisce il passaggio di medicine, attrezzature sanitarie e delle tecnologie necessarie alla potabilizzazione dell’acqua e alla ricostituzione del sistema fognario.
Non possono non sapere che i malati, tra cui donne incinta e bambini, vengono trattenuti e respinti ai checkpoint, dove talvolta muoiono.

E forse non sanno che tale avanzato sistema è tra i pochi in cui il virus della polio non è stato eradicato? E’ stata la OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) a lanciare l’allarme per Israele, dove il poliovirus selvaggio di tipo 1 (Wpv1) è stato isolato in 30 campioni di acque reflue provenienti da zone abitate dai beduini del Negev, ma anche nelle acque reflue in alcune zone costiere del Paese. C’entra forse qualcosa la mancanza d’acqua e l’insalubrità di alcuni territori palestinesi, causata dal furto delle risorse idriche sistematicamente operato da Israele, e lo scarico delle acque reflue degli insediamenti illegali in essi?

Questo Governo, i suoi ministri, i rettori delle facoltà di medicina del Gemelli e di Torino, il governatore dell’Abruzzo Chiodi, hanno firmato accordi con un paese che pratica costantemente la violazione del diritto alla vita, sancito dal Diritto Internazionale ed in particolare dalla e alla IV Convenzione di Ginevra.
Perché Israele ha compiuto, e compie, a Gaza e nella Cisgiordania, attacchi militari contro civili, attacchi indiscriminati e sproporzionati contro campi profughi, uccisioni mirate.
Usa ampiamente la tortura contro i prigionieri palestinesi, compresi i bambini e le donne, e si macchia di gravi colpe di negligenza medica e mancata assistenza nelle prigioni. Ma, oltre alla violenza, persegue una strategia di attacco alla vita, meno evidente ma incessante, attuando una sua “logica umanitaria”, al ribasso, per debellare i palestinesi.
Eyal Weizman, autore israeliano che ha smascherato magistralmente il sistema di oppressione israeliano nei suoi libri, dice in uno di essi, Il minore dei mali possibili: “In confronto ad altri conflitti nel mondo, il conflitto Israelo-palestinese non produce un maggior numero di morti dirette o violente. Ma è ormai diventata comune una forma di uccisione molto più sottile: quella messa in atto attraverso la degradazione delle condizioni ambientali, della qualità dell’acqua, dell’igiene, dell’alimentazione e delle cure; attraverso la riduzione del flusso dei materiali necessari per costruire le infrastrutture che sostengono la vita; attraverso il divieto di importazione di depuratori per l’acqua; e attraverso le restrizioni alla pianificazione sanitaria e al trasferimento dei pazienti.”
Per Gaza (e prima ancora per la Cisgiordania, al tempo della 2°Intifada), Israele ha studiato e calcolato il minimo vitale per la sopravvivenza sia in termini di beni primari, che in termini di calorie, per maschi, donne e bambini – quel giusto che possa tenere in vita e, allo stesso tempo, prevenire le critiche. La logica sottesa al sistema, la spiegò bene il consigliere Dov Weisglass del primo ministro laburista Olmert e’ “mettere a dieta i palestinesi, senza farli morire di fame”.

In un recente rapporto dell’UNRWA si stima che, a meno di interventi, entro il 2016 mancherà totalmente l’acqua ed entro il 2020 la situazione di Gaza sarà incompatibile con la vita.

Vale anche la pena segnalare che quasi tutte le città e i villaggi arabi nel nord di Israele non sono attrezzati con sirene di allarme contro gli attacchi aerei e sono privi di rifugi pubblici anti-bombardamento, a differenza di quanto succede per la maggior parte delle comunità ebraiche. A causa di ciò molte persone nei villaggi arabi sono morte sulle strade durante la guerra contro il Libano (2006). Inoltre, durante la guerra, le autorità israeliane diffusero alle famiglie istruzioni su come proteggersi in caso di emergenza attraverso la radio, la televisione e con brochure, ma soltanto in lingua ebraica, nonostante l’arabo sia una delle due lingue ufficiali di Israele.

E’ questo il sistema che si vuole imitare e con cui si vogliono creare sinergie? E’ questo il paese che può dar lezioni in materia di servizi sanitari e tutela dell’ambiente?

I rappresentanti di Israele sanno bene che la realtà è un’altra, tanto che hanno elaborato una vera e propria strategia, denominata Brand Israel, per far vedere al mondo un’immagine diversa da quella pessima, che nonostante tutta la censura dei media occidentali, i nostri in testa, riesce a filtrare. Fa parte di questa strategia anche la partecipazione di Israele all’Expo di Milano del 2015, il cui obiettivo, ha detto al vertice Elazar Cohen, ideatore del progetto, è: “Mostrare il vero carattere di Israele e non quello che di norma appare sui giornali”. Il nome del padiglione ‘Fields of tomorrow’ (Campi di domani) ne rappresenta bene li carattere: in tutta la sua estensione, pari a di 2400 metri quadrati sarà completamente verde per testimoniare i temi di fondo dell’Esposizione, agricoltura, sostenibilità, alimentazione.
Quindi tanta luce, sorgenti di acqua, e altre meraviglie, per nascondere la realtà dell’occupazione, dell’oppressione, e delle uccisioni indiscriminate o mirate, sostenuta con un apparato militare e tecnologico, nel quale invece Israele davvero eccelle.
9 dicembre 2013

martedì 3 dicembre 2013

Attivare l’appartenenza della Palestina all’UNESCO



di Valentina Azarov, Nidal Sliman

Panoramica

La Palestina ha ottenuto l’ammissione all'UNESCO nel 2011, ma i suoi rappresentanti non hanno ancora fatto l’uso migliore di questo nuovo status, in parte a causa delle pressioni da parte di Israele e degli Stati Uniti. Il membro di Al-Shabaka Policy, Nidal Sliman e Valentina Azarov rivedono il valore dell'UNESCO nel tentativo di veder riconosciuti i diritti dei palestinesi e di applicare gli strumenti pertinenti del diritto internazionale al caso della Palestina. Portano un argomento convincente del fatto che la Palestina può ottenere notevoli vantaggi pratici dalla sua appartenenza all’UNESCO, tra cui riaffermare la sovranità sul suo territorio e sul mare e obbligare gli altri Stati a ritenere Israele responsabile dei suoi doveri (1]).



Perché è importante essere membri dell’UNESCO

Il giorno dopo che la Palestina ha ottenuto l'adesione alla United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization (UNESCO), che è avvenuta il 30 ottobre 2011, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha anticipato la costruzione di 2.000 case negli insediamenti ed ha congelato la partecipazione di Israele al bilancio dell'Unesco.

Anche gli Stati Uniti hanno tagliato i fondi all'Unesco in seguito all'adesione della Palestina. L'Amministrazione ha sostenuto che è stata costretta a farlo dalle leggi approvate nel 1990 e nel 1994. Gli Stati Uniti hanno inoltre avanzato la tesi paradossale che questa adesione - che si basa sullo status della Palestina come Stato – ha minato l'obiettivo finale di un accordo negoziato sullo status finale che potrebbe portare a uno stato palestinese.

Eppure, anche prima che la Palestina ottenesse l'adesione, l'UNESCO si è dimostrata un luogo importante per difendere il diritto internazionale in materia di pratiche illegali israeliane nei Territori Palestinesi Occupati. Ad esempio, nel 2010, l'UNESCO ha ribadito che il tentativo di Israele di includere la Haram al-Ibrahimi/Tomba dei Patriarchi di Hebron e la moschea di Bilal bin Rabah (Tomba di Rachele) di Betlemme nella lista del patrimonio nazionale di Israele è stata "una violazione della legge internazionale," delle convenzioni UNESCO e delle risoluzioni delle Nazioni Unite. I siti sono stati rimossi, a causa di considerazioni finanziarie, da una lista israeliana dei siti di interesse proposta per il rinnovo nei primi mesi del 2012.

Sulla scia dell’appartenenza all'UNESCO, la Palestina ha ratificato la costituzione dell'UNESCO ed è diventata uno degli stati che ha approvato le otto convenzioni UNESCO e i relativi protocolli, tra cui la Convenzione dell'Aia del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e i suoi due protocolli. Particolarmente importante è il secondo protocollo della Convenzione che prevede la responsabilità penale individuale e le sanzioni in base al principio della giurisdizione universale. Infatti, l'articolo 15 del protocollo prevede che gli stati cerchino e perseguitino gli autori degli atti elencati in tale articolo nei loro tribunali nazionali, a prescindere dalla nazionalità del colpevole, come accade anche nel caso dell'articolo 146 della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949.

La Palestina ne ha anche tratto alcuni guadagni concreti: ha messo nell’elenco il suo primo sito di interesse mondiale, la Chiesa della Natività a Betlemme, nel giugno 2012, nonostante alcune proteste negli Stati Uniti. Dodici altri siti rimangono sulla lista provvisoria della Palestina. Tuttavia, nel giugno 2013, i rappresentanti palestinesi hanno ceduto alle pressioni di Israele e degli Stati Uniti, sulla scia dell'iniziativa del Segretario di Stato John Kerry a riprendere i negoziati israelo-palestinesi e hanno rinunciato al tentativo di includere i circa 400 chilometri di terrazzamenti del villaggio Battir nella Lista del Patrimonio Mondiale in Pericolo, archiviando il file dettagliato della candidatura, che era stato preparato con il supporto di esperti internazionali di fama. Se avessero insistito con questa richiesta, i rappresentanti palestinesi sarebbero riusciti a prevenire i piani di

Israele di costruire parte del muro in prossimità del villaggio che, attualmente, sono stati impugnati presso l'Alta Corte israeliana.

Nel maggio del 2013, Israele ha annullato una missione dell'Unesco a Gerusalemme, alla quale aveva precedentemente acconsentito nell’ambito di un accordo mediato dai russi in cambio del fatto che la Palestina rinviasse l’approvazione di cinque risoluzioni UNESCO sui cambiamenti fatti alla città da Israele. Il 5 ottobre 2013, l'UNESCO ha approvato sei risoluzioni di condanna al comportamento illecito di Israele.

L’adesione della Palestina all’UNESCO offre un banco di prova per promuovere la tutela dei diritti umani e il rispetto per il diritto internazionale sia a livello nazionale che internazionale. L'affermazione dello status della Palestina come stato appartenente all’UNESCO crea un precedente autorevole per gli Stati osservatori delle Nazioni Unite affinché entrino a far parte di altre istituzioni internazionali e ratifichino una lista di trattati internazionali per i quali è depositario il segretario generale delle Nazioni Unite, compreso lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. La Palestina rafforzerebbe la sua capacità di rivendicare il rispetto dei diritti, portando gli Stati terzi e gli attori internazionali a chiedere che Israele modifichi le sue pratiche in conformità al diritto internazionale.

Distruzione e appropriazione del patrimonio palestinese

Per quasi un secolo, il patrimonio culturale palestinese situato in quelli che oggi sono la Palestina e Israele è stato sottoposto a distruzione e appropriazione da parte di diverse amministrazioni. Dal 1967, Israele ha danneggiato e distrutto siti storici, culturali, religiosi e naturali in tutti i Territori Occupati. Subito dopo l'occupazione, le autorità israeliane hanno raso al suolo il quartiere marocchino della città vecchia di Gerusalemme e requisito edifici storici e religiosi, come il Museo Archeologico della Palestina (ora conosciuto come il Museo Rockefeller). Fin dalla sua annessione illegale di Gerusalemme Est, che non è riconosciuta da nessun altro paese, Israele ha sottoposto il patrimonio culturale della città alla sua legislazione nazionale. I progetti archeologici in corso comprendono il parco "Città di Davide", a Gerusalemme Est, nella zona di Silwan. Nel mese di ottobre del 2011, l'Alta Corte israeliana ha ignorato gli obblighi di Israele derivanti dai trattati e dai protocolli UNESCO ed ha considerato le opere archeologiche come coerenti con il diritto interno di Israele.

Un esempio altrettanto scioccante è la costruzione del Centro Simon Wiesenthal del Museo della Tolleranza a Gerusalemme Ovest, che ha comportato scavi vicino all'antico cimitero di Mamilla, causando l’esumazione di centinaia di tombe e resti. Risalente al 7° secolo, il cimitero fu riconosciuto come sito di antichità nel 1944, dalle autorità del Mandato Britannico. Gli scavi continuano in violazione degli obblighi di Israele sulla base della Convenzione dell’UNESCO del patrimonio mondiale naturale e culturale del 1972 e del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Lo statunitense Center for Constitutional Rights ha presentato una petizione agli organi delle Nazioni Unite e al governo svizzero in nome dei discendenti palestinesi di coloro che sono sepolti nel cimitero di Mamilla a Gerusalemme.

In Cisgiordania, le operazioni militari israeliane nella Città Vecchia di Nablus, nel 2002, provocarono ingenti danni al patrimonio culturale, comprese strutture risalenti alle epoche romana, bizantina e ottomana. Alcuni hanno sostenuto che l'attacco militare israeliano del 2002 alla Chiesa della Natività fu un crimine di guerra. Israele ha, inoltre, utilizzato l’archeologia come pretesto per trasferire forzatamente i palestinesi, demolire villaggi e ottenere il controllo territoriale sulla terra palestinese per promuovere il suo progetto di insediamento illegale e sfruttare le risorse naturali.

C'è un argomento forte che dimostra come ognuno di questi casi violi gli obblighi giuridici di Israele in quanto firmatario della convenzione dell'Aia del 1954 e del suo primo protocollo, così come i suoi obblighi ai sensi di altre leggi internazionali. Anche la relazione sulle libertà religiose del 2009 del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti rileva la natura discriminatoria della politica di Israele nel proteggere e finanziare solo i luoghi santi ebraici, trascurando molti siti musulmani e cristiani, molti dei quali sono "minacciati dai promotori immobiliari pubblici e privati." Tuttavia, ad oggi, gli obblighi giuridici di Israele non sono mai stati rispettati.

Diritto internazionale e tutela dei beni culturali

La Convenzione dell'Aja del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e il suo Primo Protocollo integrano e rafforzano le tutele per i beni culturali istituite dalla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e dal Regolamento dell'Aia del 1907. L'articolo 4 della Convenzione dell'Aia impone agli Stati di proteggere i beni culturali dagli attacchi e da altri "distruzioni o danni" a meno che la "necessità militare richieda obbligatoriamente una tale rinuncia." Il divieto della Convenzione del 1954 contro il saccheggio dei beni culturali integra il divieto generale di saccheggio presente nell'articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, applicabile sia alla Potenza occupante che ai privati.

I tribunali penali internazionali hanno esperienza nel perseguire i crimini legati alla distruzione e alla sottrazione di beni culturali. I tribunali nazionali, tuttavia, hanno dimostrato di essere un luogo meno promettente perché non sono né politicamente costretti, né è regolamentato a livello internazionale il modo in cui essi devono perseguire i presunti colpevoli. Molte delle cause di giurisdizione universale presentate contro i funzionari israeliani nei sistemi nazionali di tutta Europa e negli Stati Uniti sono state annullate per motivi politici.

La Convenzione si occupa specificamente di situazioni di occupazione belligerante. L'articolo 5 della convenzione e l'articolo 9 del secondo protocollo limitano l'autorità di un occupante a, al massimo, sostenere "le autorità nazionali competenti del paese occupato a salvaguardare e preservare il suo patrimonio culturale."

La Convenzione ha codificato il consueto divieto sull’esportazione di beni culturali dai territori occupati. Inoltre, il commercio illegale di manufatti, compresi quelli estratti dal sottosuolo del territorio occupato, è vietato ai sensi della Convenzione UNESCO del 1970, di cui ora la Palestina è uno Stato Membro, concernente le misure da adottare per interdire e impedire l'illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali.

Proteggere l’eredità culturale e riaffermare la sovranità

L’UNESCO ha ripetutamente condannato le pratiche illegali sotto l'occupazione israeliana del territorio palestinese, comprese le pratiche di Israele a Gerusalemme, l'occupazione dei siti nelle città vecchie palestinesi in tutta la Cisgiordania e la censura delle scuole e università palestinesi.([2]) Tali mosse sono significative non solo per l’affermazione della condanna dell'UNESCO degli atti di Israele, ma anche perché hanno portato l'UNESCO a condizionare la partecipazione di Israele ai programmi dell'UNESCO e agli altri benefici derivanti dalla sua appartenenza, al rispetto dei suoi obblighi. Questo è stato il caso del 1974, per esempio, quando gli scavi di Israele nella Città Vecchia di Gerusalemme, ampiamente condannati, hanno portato l'UNESCO a sospendere tutti gli aiuti a Israele.

L'articolo 1 dello statuto della Commissione del diritto internazionale sulla responsabilità degli Stati prevede che "ogni atto internazionalmente illecito di uno Stato comporta la responsabilità internazionale dello Stato."([3]) Una volta stabilita la responsabilità di uno Stato per un atto internazionalmente illecito, ne seguono diverse conseguenze giuridiche. Molto importante è l'obbligo dello Stato responsabile, di cui all'articolo 31, "di riparare integralmente il pregiudizio causato dall'atto internazionalmente illecito."

Le disposizioni del diritto internazionale hanno più probabilità di essere applicate quando i paesi sono costretti a rispettare i propri impegni e obblighi giuridici, comprese le leggi nazionali che comprendono gli obblighi derivanti dal diritto internazionale. La posizione del Canada in merito ai Rotoli del Mar Morto è un buon esempio di come gli obblighi degli altri stati avrebbero lavorato in favore della Palestina se essa, in quel momento, fosse stata un membro dell'UNESCO. Nel 2010 i Rotoli del Mar Morto, che l'esercito israeliano aveva illecitamente sottratto nel 1967al Museo Archeologico della Palestina a Gerusalemme Est, furono esposti dalla Israel Antiquities Authority presso il Royal Ontario Museum.

Anche se i firmatari della Convenzione dell'Aja del 1954 sono obbligati a trattenere sotto la propria custodia i beni culturali portati nel loro territorio direttamente o indirettamente da un territorio occupato, il Canada si rifiutò di farlo. Secondo la legge nazionale del Canada, solo uno Stato membro dell'UNESCO può chiedere un ordine del tribunale per far rispettare la richiesta di sequestro dei beni culturali importati illecitamente. Così, al momento, la Palestina non poté fare ricorso ai tribunali del Canada. Tuttavia, la successiva ratifica da parte della Palestina della Convenzione dell'Aia del 1954, dei suoi due protocolli e della convenzione sul commercio illecito del 1972, significano che la Palestina oggi può appellarsi alle legislazioni nazionali di diversi Stati membri. Si può chiedere loro di comunicare l’elenco dei manufatti di origine palestinese in loro possesso, di prendere in custodia tali manufatti ed impedire la loro esportazione o esposizione, in attesa del loro ritorno alla propria terra di origine.

Il significato del potenziale di azione non deve sopravvalutato. Il Ministero palestinese del Turismo e delle Antichità e fonti israeliane stimano che, tra il 1967 e il 1992, circa 200.000 reperti ogni anno sono stati rimossi dal territorio palestinese occupato e altri 120.000 o giù di lì sono stati rimossi, ogni anno, dal 1995 ad oggi. Esempi in cui i paesi sono stati in grado di organizzare il ritorno dei propri manufatti includono l'accordo del 1993 tra Israele ed Egitto, che prevedeva che "tutti i manufatti e i reperti provenienti dal Sinai fossero restituiti all’Egitto entro i successivi due anni".( [4]) L’Etiopia è riuscita a recuperare un obelisco di 1.700 anni

dall’Italia senza bisogno di un accordo e sta cercando di recuperare molti altri oggetti e manufatti antichi saccheggiati dalle truppe britanniche e poi messi nei musei britannici.

La Palestina potrebbe anche far valere i propri diritti ai sensi della Convenzione del 2001 sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, che ha ratificato nel 2011, per far valere il controllo sulle acque palestinesi al largo della costa della Striscia di Gaza. Per molti anni Israele ha imposto un blocco navale molto restrittivo, limitando l'accesso palestinese alle sue acque territoriali in uno spazio compreso tra 6 e 9 miglia nautiche.

Questo blocco potrebbe essere contestato attraverso l'elemento centrale della convenzione del 2001: la sua delimitazione delle acque territoriali di ogni Stato. L’articolo 7(1) assegna agli stati il "diritto esclusivo di regolamentare e autorizzare le attività relative al patrimonio culturale subacqueo presente nelle loro acque interne, acque arcipelagiche e acque territoriali" – cioè la parte del territorio sovrano di uno stato che si estende fino a 12 miglia nautiche dalla sua costa così come stabilito ai sensi degli articoli 2 e 3 della Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare. Gli articoli 8 e 23 garantiscono ai suoi membri anche il diritto di "regolamentare e autorizzare le attività dirette al patrimonio culturale subacqueo" entro ulteriori 24 miglia nautiche in cui si esercita la competenza per scopi speciali. Gli stati membri sono anche responsabili della regolamentazione di tutte le attività di esplorazione nella loro zona economica esclusiva e nella piattaforma continentale, che si estende fino a 200 miglia nautiche.

La Palestina potrebbe prendere in considerazione di seguire l'esempio dei Paesi Bassi. Il governo olandese ha istituito una zona contigua per prevenire violazioni dei suoi diritti sul patrimonio culturale ed ha esplicitamente esteso la portata della futura legislazione sui beni culturali alle sue acque territoriali e alla zona contigua. Nel caso della Palestina, misure equivalenti potrebbero creare una zona archeologica di controllo che si estende fino a 24 miglia nautiche al largo della costa di Gaza. Questo potrebbe bloccare le scoperte dei relitti al largo della costa di Gaza fatte Israele e altre attività simili e ristabilire il controllo sul potenziale culturale subacqueo di Gaza ([5]). La Palestina potrebbe anche pretendere il controllo sulle risorse del Mar Morto e di tutta la zona intorno, che è attualmente sotto il controllo quasi esclusivo di Israele.

Chiaramente, se correttamente utilizzato, il quadro UNESCO potrebbe sostenere non solo la capacità della Palestina di riprendere il controllo e il possesso del suo patrimonio culturale, ma anche di esercitare i diritti di sovranità sul suo territorio al fine di amministrare i siti di tale patrimonio. Tali misure potrebbero anche limitare il potere di Israele di presentare all'UNESCO siti palestinesi come parte della lista del proprio patrimonio nazionale. Mobilitando strategicamente la sua nuova posizione politica e giuridica nel sistema internazionale, la Palestina potrebbe trovare il sostegno per imporre a Israele di dare un risarcimento per tutti i torti subiti, tra cui la restituzione e il risarcimento, in particolare nei casi di distruzione o di danni irreparabili al patrimonio culturale palestinese.

Obbligo della Palestina di proteggere il proprio patrimonio culturale

Lo status di Stato e l'adesione alle organizzazioni internazionali ed ai trattati possono dare una tutela dei diritti, ma anche comportare degli obblighi da parte dello Stato membro. Così, la Palestina è tenuta a modificare il suo sistema giuridico nazionale e le istituzioni competenti in conformità con gli obblighi derivanti dalla Costituzione dell'UNESCO e dalle otto convenzioni che ha ratificato.

La normativa attualmente in vigore nei Territori Occupati – composta da leggi ottomane, del mandato britannico, giordane (West Bank), egiziane (Striscia di Gaza), israeliane e dell’Autorità Palestinese (PA) (leggi Consiglio legislativo, decreti presidenziali, regolamenti del Consiglio dei Ministri e direttive ministeriali) - non protegge adeguatamente il patrimonio culturale palestinese. È frammentata, soggetta ai capricci di Israele e non soddisfa gli standard internazionali. Ad esempio, la versione del 1929 dell’Ordinanza N. 51 sulle Antichità che è ancora in vigore nella Striscia di Gaza, e la versione del 1966, in vigore in Cisgiordania, riguardano solo il patrimonio culturale tangibile.

La Legge fondamentale palestinese obbliga il Presidente ad "essere fedele" al "patrimonio nazionale". Eppure il ruolo e il mandato degli organismi ufficialmente responsabile - Il Ministero dell’Autorità palestinese del Turismo e delle Antichità e il Ministero della Cultura, così la Commissione Nazionale per l'Educazione, cultura e scienza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina - non sono ben definiti, riducendo ulteriormente la capacità nazionale di proteggere il proprio patrimonio nazionale.

E, naturalmente, Israele limita la loro area di influenza: ordini militari israeliani esecutivi nell’​​Area C della Cisgiordania conferiscono tutti i poteri regolamentari in materia di beni culturali ad un ufficiale militare. Inoltre, Israele ha esteso l'applicazione del proprio diritto nazionale alla zona occupata di Gerusalemme Est e ha dichiarato tutti i manufatti scoperti in città come propri, in flagrante violazione del diritto internazionale. Tuttavia, come sostenuto alla fine di questa sezione, è importante che le autorità palestinesi approvino la

legislazione necessaria in linea con gli standard internazionali: questo renderà più difficile per Israele continuare a portar via illegalmente il patrimonio palestinese dai territori occupati e consentirà alle autorità palestinesi di portare avanti azioni legali nei paesi terzi per recuperare tali beni culturali.

Con l'assistenza tecnica da parte dell'UNESCO, il Ministero del Turismo e delle Antichità dell’Autorità Palestinese nel 2011 ha ripreso l'iniziativa di elaborare una nuova legislazione. Nel 2012, sono stati preparati due disegni di legge per la tutela del patrimonio culturale materiale e immateriale, a seguito di una consultazione con i soggetti pubblici e privati, che tengono conto degli obblighi internazionali della Palestina in base alla Costituzione e ai trattati dell'UNESCO, nonché alle “buone pratiche” internazionali, comprese le leggi modello preparate dalla World Intellectual Property Organization e dalla Lega araba.

Le principali disposizioni del disegno di legge del 2012 sul patrimonio culturale tangibile comprendono il principio della proprietà pubblica dei beni culturali, il divieto di vendita o di trasferimento di tali proprietà e un meccanismo che consenta alle autorità locali di recuperare i beni culturali usciti illecitamente dal territorio occupato. Il progetto di legge obbliga lo Stato a cercare la ratifica delle convenzioni internazionali volte a tutelare il patrimonio culturale. Tuttavia, la capacità e le risorse per la gestione e la conservazione dei siti in Palestina rimangono limitate, risultando arretrate nella documentazione e nella conservazione. Il progetto di legge cerca di affrontare questo stato di cose istituendo un'Autorità indipendente per conservare, tutelare e sviluppare il patrimonio culturale in Palestina.

Il progetto di legge del 2012 relativo al patrimonio culturale immateriale, che comprende, tra gli altri, la danza palestinese folk, il ricamo e la hikaye (una espressione narrativa praticata da donne) affronta le misure necessarie a salvaguardare tale patrimonio e definisce i reati che possono essere perpetrati contro di esso.

È un peccato che, data l'inattività del Consiglio legislativo palestinese dal 2007 a causa delle restrizioni israeliane e della situazione politica interna palestinese, la promulgazione formale delle leggi "è improbabile che abbia luogo nel prossimo futuro. Né tali leggi sono state presentate al Consiglio dei ministri dell’Autorità Palestinese per la revisione e l'approvazione prima della presentazione al presidente per l’emissione di un decreto, come è stato fatto in altri casi.

Gli obblighi della Palestina, ai sensi dei trattati del diritto internazionale, oltre alla necessità pratica e urgente di migliorare i meccanismi di protezione del patrimonio culturale palestinese di fronte alle minacce, dovrebbero anche incentivarla a garantire la conformità della propria legislazione agli standard internazionali. I progetti di legge potrebbero, se attuati, migliorare in modo significativo il quadro giuridico nazionale della Palestina, scoraggiare le violazioni nazionali e permetterle di costituirsi nei paesi terzi e nelle istituzioni internazionali per contestare, prevenire e prendere provvedimenti contro gli illeciti comportamenti israeliani.

Ad esempio, in una recente sentenza dell'Alta Corte israeliana, un imputato in un caso di rimozione illegale di beni culturali dai Territori Occupati, ha affermato che, poiché la legge attualmente in vigore nei Territori Occupati non dichiara tutti i beni culturali ancora da scoprire come beni di stato (cosa che accade, invece, nella legge israeliana), era responsabilità del pubblico ministero dimostrare che erano stati rubati dei beni culturali. La Corte ha respinto l’accusa e, allo stesso tempo, ha anche ignorato il diritto internazionale che vieta la rimozione dei beni culturali dai Territori Occupati. La questione dimostra solo l'urgenza di emanare una forte ed inequivocabile legge palestinese che dichiari tutti i beni culturali presenti in Palestina come beni di Stato.

Conclusioni e raccomandazioni

Le convenzioni e gli strumenti dell’UNESCO offrono un quadro di controllo e di tutela per il patrimonio culturale della Palestina e l'accesso alla cooperazione internazionale per la protezione del patrimonio culturale, fondata sul diritto codificato. Limitando severamente il ruolo di una potenza occupante in materia di scavi e uso dei beni culturali nel territorio occupato, la Convenzione dell'Aia del 1954, tra gli altri strumenti, tutela i diritti dello Stato legittimo proprietario e della sua gente sui propri beni culturali e sul patrimonio durante un conflitto armato.

Con la sua neo acquisita adesione all’UNESCO e la sua possibilità di aderire a ulteriori trattati, la Palestina oggi è meglio che mai attrezzata per chiedere la restituzione dei beni culturali illecitamente rimossi o commerciati, per affermare il controllo sul suo patrimonio subacqueo nella zona economica esclusiva e nelle acque territoriali al largo di Gaza, per includere i propri siti nazionali sulla lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO, rimuovendoli dall'ordine del giorno dei negoziati politici e assicurando la propria sovranità nazionale su di loro. La Palestina è anche in una posizione migliore per esplorare il potenziale di contenzioso e di altre misure giuridiche da far valere in giurisdizioni straniere per agevolare il ritorno dei manufatti e per portare i funzionari israeliani coinvolti negli scavi illegali di fronte alla giustizia.

La Palestina può rivendicare i suoi diritti, impegnandosi con le istituzioni dell'UNESCO e può cercare di costringere gli Stati terzi e gli attori internazionali a fare pressione su Israele affinché rispetti gli obblighi derivanti dall’essere membro dell’UNESCO. Alla luce del record di atti illeciti di Israele in questo campo (e in altri), i rapporti degli Stati Terzi con Israele dovrebbero essere strutturati in modo da garantire il rispetto del diritto internazionale da parte di Israele stesso al fine di garantire la capacità di uno stato terzo o di un attore internazionale, come l'Unione europea, di rispettare i propri obblighi legali internazionali e nazionali.

A sua volta, la Palestina deve dimostrare il proprio impegno verso il quadro di protezione dell'UNESCO adottando, all’interno del proprio diritto nazionale, le misure giuridiche e amministrative necessarie ed impegnandosi per la loro esecuzione, per quanto possibile, fino a che Israele continuerà a mantenere il controllo sul territorio palestinese. La stessa incapacità delle istituzioni locali palestinesi a far rispettare le proprie leggi e le politiche nazionali dimostra le violazioni di Israele dei suoi obblighi giuridici internazionali, per non parlare del furto, danneggiamento e distruzione del patrimonio palestinese.

È nel migliore interesse della Palestina rispettare gli obblighi giuridici internazionali che derivano dall’adesione, così come considerare le possibilità di promuovere tali obblighi attraverso le sedi internazionali dell'UNESCO e nei sistemi nazionali degli Stati terzi, cosa per la quale è necessario concordare una procedura di notifica nel contesto dell'UNESCO, per facilitare la restituzione dei beni culturali al loro contesto e alle loro origini geografiche.

Un'adeguata protezione giuridica del patrimonio culturale a livello nazionale sosterrà gli sforzi palestinesi per recuperare la proprietà dei beni culturali rubati e i suoi ulteriori sforzi per riguadagnare il controllo sul suo territorio. Una volta che i progetti di legge palestinesi saranno preparati in accordo con tutte le parti interessate, compresi il settore privato e la società civile, dovrebbero essere adottati attraverso il processo legislativo dell’Autorità Palestinese. In parallelo, dovrebbe essere messo a punto un inventario palestinese della documentazione sui manufatti rubati e sugli scavi eseguiti.

Organizzazioni della società civile, locali e internazionali, dovrebbero avere più voce nel chiedere al governo palestinese di adottare misure appropriate per tutelare il proprio patrimonio culturale adottando i disegni di legge e rafforzando le istituzioni nazionali incaricate di salvaguardare tale patrimonio. Le organizzazioni della società civile possono svolgere un ruolo importante nella sensibilizzazione nazionale e internazionale sulla necessità di separare la questione della tutela del patrimonio culturale dalla politica del "processo di pace".

In definitiva, l'effettiva tutela del patrimonio culturale e naturale della Palestina può essere raggiunta solo ricollegando il popolo palestinese a quel patrimonio. Il corretto utilizzo del quadro dell'UNESCO, sia a livello nazionale che internazionale, è un passo fondamentale per la capacità della Palestina di ottenere il controllo sul proprio patrimonio culturale, garantendo che esso sia gestito e governato dalla sua legge sovrana, in conformità con gli standard internazionali.



[1] Questa breve saggio si basa sulla ricerca e sul lavoro degli autori, tra cui "Palestine, UNESCO and Archaeology in Conflict" di Dr. David Keane e Valentina Azarov (Denver Journal of International Law and Policy, Vol 41, No 3 (2013)) e "The Protection of Cultural Property in Occupied East Jerusalem: Archaeological Excavations and Removal of Cultural Property" di Dr. Nidal Sliman (Thesaurus Acroasium: Multiculturalismo e diritto internazionale, Kalliopi Koufa Ed., 2007.)). Sliman ha redatto e rivisto con l'UNESCO e l'Autorità Palestinese la legislazione per la protezione del patrimonio culturale, e Azarov ha condotto la difesa e la ricerca sulle iniziative per la costituzione di uno Stato palestinese all’interno del gruppo per i diritti umani palestinese Al-Haq.

[2] Rispettivamente: Gerusalemme e l’attuazione di 35 C / Risoluzione 49 e 184 EX / Decisione 12, decisione della sessione 185 del Consiglio esecutivo dell'UNESCO (185 EX/14; 185 EX/52 Ap); Attuazione del 184 EX / Decisione 37 su "i due siti palestinesi di al-Haram al-Ibrahimi/Tomb dei Patriarchi a al-Khalil/Hebron e Bilal bin Rabah Mosque / Rachel 's Tomb a Betlemme", decisione della sessione 185 del Consiglio esecutivo dell'UNESCO (185 EX/15; 185 EX/52 Rev.), e attuazione di 35 C / Risoluzione 75 e 184 EX / Decisione 30 relativa alle istituzioni educative e culturali nei territori arabi occupati, decisione della Sessione 185 del Consiglio esecutivo dell'UNESCO (185 EX/36; 185 EX/52 rev.).

[3] Un organismo delle Nazioni Unite che è stato istituito per aiutare l'organizzazione dell'attuazione dell'articolo 13 della Carta delle Nazioni Unite riguardante la codificazione del diritto internazionale consuetudinario.

[4] Citato in Talia Einhorn, “restituzione di reperti archeologici: l'aspetto arabo-israeliano”, 5 International Journal of Beni Culturali (1996) 144.

[5] Vedi Robert Ballard et al., “Iron Age Shipwrecks in Deep Water off Ashkelon, Israel”, 106 American Journal of Archaeology (2002) 151. Secondo la mappa fornita da Ballard et al., il paese più vicino ai relitti è Gaza, se si traccia una linea diretta dai siti indicati alla linea di costa.

(tradotto da barbara gagliardi
per l'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus)