venerdì 30 gennaio 2015

Il ricatto delle tasse



Con che diritto? Israele, le tasse palestinesi e un sistema fallimentare.

Philip Leech
Giovedì 15 gennaio 2015
MIDDLE EAST MONITOR



Appena i palestinesi hanno deciso di aderire alla Corte Penale Internazionale, la risposta di Israele è stata di punirli trattenendo 175 milioni di dollari al mese di tasse, che raccolgono per conto loro [dei palestinesi]. Questa punizione è stata condannata dall’alleato più stretto di Israele, il governo USA, ed ha portato a una frattura molto significativa tra il presidente israeliano e il primo ministro. Comunque, se analizziamo più da vicino i rapporti economici tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), diventa ancora più chiaro che queste ultime azioni sono solo la punta di un iceberg molto più grande.

L’impatto dell’occupazione israeliana sul benessere e sulle prospettive dell’economia palestinese è oggetto di numerosi studi ed analisi. Comunque i dettagli rimangono largamente ignoti all’opinione pubblica in generale. Questo è un problema, soprattutto per chi è interessato a comprendere gli ostacoli per una soluzione più giusta e sostenibile del conflitto israelo-palestinese.

In effetti, per comprendere anche solo quanto siano realmente profondi i problemi economici della Palestina in queste condizioni, è importante ammettere il fatto che l’attuale stato della questione non è solo un prodotto della lunga occupazione, dell’espulsione e della negazione dei diritti fondamentali dei palestinesi, ma è dovuto anche allo specifico insieme di norme e regolamenti stabiliti negli accordi tra l’OLP e Israele negli anni ’90.

Il quadro politico e normativo

Nell’aprile del 1994, come parte del “processo di pace di Oslo”, i negoziatori israeliani e palestinesi firmarono un documento chiamato “Allegato IV all’accordo di Gaza - Gerico” – meglio noto come “Il Protocollo di Parigi”-; nonostante dovesse rimanere in vigore per soli cinque anni, questo accordo ha definito il principale quadro delle relazioni economiche tra l’ANP e Israele che è tuttora vigente.

Il Protocollo ha riconosciuto una serie di diritti economici dei palestinesi che fino a quel momento erano stati ignorati. Con il riconoscimento di questi diritti, c’è stata una serie di significativi progressi nella vita dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, così come un certo margine di controllo palestinese sulla destinazione degli investimenti privati e del flusso di risorse per la neonata ANP.

Comunque i risultati complessivi del processo erano profondamente carenti. In particolare ciò era dovuto al fatto che si stabilivano le relazioni tra l’ANP e Israele come se si trattasse di una normale unione doganale senza prendere adeguatamente in considerazione la realtà politica. In altre parole, il Protocollo di Parigi ha creato relazioni economiche tra Israele e l’ANP basate sull’assunto che le due parti fossero pronte a lavorare insieme per raggiungere l’obiettivo condiviso di porre fine all’occupazione e fondare uno Stato palestinese indipendente. Come è risultato evidente, non c’era da fare affidamento su questa supposizione.

In effetti le critiche nei confronti del Protocollo sono molto estese e, in molti casi, molto pesanti. Secondo Sara Roy, una docente di Harvard, i tre risultati problematici del Protocollo di Parigi non riguardano nient’altro che gli aspetti economici del più ampio processo di subappalto dell’occupazione israeliana ai palestinesi. E invece di portare al più presto alla fine dell’occupazione, il Protocollo l’ha ulteriormente rafforzata ed ha anche favorito il “sottosviluppo” della Palestina.



I problemi del Protocollo e il loro impatto duraturo

Benché ci sia qualche disaccordo nelle analisi accademiche sul fatto che l’interpretazione di Roy delle intenzioni israeliane sia o meno corretta o dimostrabile (altri studiosi, per esempio suggeriscono che è poco probabile che il processo fosse pianificato fin dall’inizio ma che sia stato piuttosto il risultato della volontà da parte dei successivi governi israeliani di massimizzare la propria supremazia), c’è un accordo sul fatto che il Protocollo sia diventato estremamente favorevole ad una sola parte e sia caratterizzato da una serie di difetti.

Questi punti deboli sono evidenti sia nella messa in pratica del Protocollo che nella mancanza di opportunità concesse ai palestinesi per controbilanciare lo squilibrio di potere anche nel momento in cui Israele chiaramente è andato oltre i propri diritti o ha ignorato i propri obblighi. Un chiaro esempio di una simile prevaricazione consiste nelle azioni intraprese attualmente da Israele per negare l’accesso da parte dell’ANP alle tasse riscosse per conto suo.

L’articolo V del Protocollo stabilisce che “Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese definiranno e regoleranno in modo autonomo la propria politica fiscale in materia di tassazione diretta.” Quindi l’ANP è responsabile della riscossione delle tasse dei palestinesi che lavorano nei Territori occupati. Ma Israele dovrebbe riscuotere le tasse dei palestinesi che lavorano in Israele e nelle colonie (circa l’11% della forza lavoro, in base a statistiche ufficiali) e versare i soldi all’ANP.

Il Protocollo prosegue specificando che Israele deve trasferire il 100% delle tasse riscosse dai lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane e il 75% delle entrate riscosse dai lavoratori palestinesi in Israele. Ciò a causa del fatto che Israele opera anche delle trattenute per la previdenza sociale e per l’assicurazione sanitaria dei lavoratori palestinesi sul suo territorio, nonostante il fatto che in genere questi lavoratori non ricevano in cambio nessuna prestazione (inoltre, i dati ufficiali non prendono in considerazione il lavoro di circa 30.000 lavoratori palestinesi senza documenti in Israele, che contribuiscono al PIL di Israele ma che presumibilmente non pagano tasse a nessuno).

Perdite fiscali e instabilità politica



Israele naturalmente ha già messo in pratica questo giochetto altre volte. In effetti, nel 2011 e nel 2012 allo stesso modo Israele ha trattenuto le risorse fiscali raccolte per conto dell’ANP, per restituire questo denaro solo quando la crisi fiscale dell’ANP è diventata un fattore determinante nello scoppio di proteste popolari che avrebbero anche potuto provocare una maggiore instabilità. Comunque attualmente le tasse palestinesi sono diventate una partita di calcio politica nel mezzo di una polemica campagna elettorale israeliana, per cui sembra meno probabile che la riproposizione [del blocco della devoluzione delle tasse all’ANP] segua una procedura senza intoppi come in precedenza.

Ma anche se queste tasse sottratte fossero restituite domani, difficilmente ciò scalfirebbe un sistema che è profondamente svantaggioso per le casse dell’ANP e di conseguenza per le condizioni economiche e sociali complessive dei palestinesi. Infatti, dati della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (CNUCS) mostrano che la tassazione diretta, come le imposte sul reddito– (di cui le tasse riscosse dai lavoratori palestinesi in Israele e nelle colonie e attualmente trattenute da Israele rappresentano solo una piccola parte) – è molto meno significativa per le entrate fiscali palestinesi della tassazione indiretta. E inoltre, come nel caso del regime di tassazione diretta, il sistema di tassazione indiretta stabilita dal Protocollo è decisamente favorevole ad una sola parte e fonte di problemi.

In che misura le azioni di Israele abbiano effetti sulla cifra che l’ANP raccoglie dalle tasse indirette è più complesso e meno scontato che nel caso del rifiuto di devolvere le tasse dirette. Ciò non vuol dire che questi dati non siano ben documentati o meno onerosi [per l’ANP].

In effetti questa vasta gamma di complesse dinamiche coinvolte si riduce in realtà a una serie di questioni che riguardano l’unilateralismo israeliano nella regolamentazione di tasse sui beni importati, nonostante la prescrizione stabilita dal Protocollo di coordinarsi con i palestinesi. Esempi di come simili azioni hanno conseguenze significativamente negative per l’ANP e per lo sviluppo dei palestinesi sono facili da trovare.

Per esempio, quando nel 2000 Israele ha cancellato o ridotto senza preavviso la tassa sugli acquisti [l’IVA] su un’ampia gamma di beni essenziali, le società palestinesi hanno subito perdite stimate a 30 milioni di dollari per il valore dei beni in magazzino (in quanto il loro valore era sceso sotto il prezzo pagato quando erano stati acquistati). Israele ha preso la stessa iniziativa senza preavviso nel 2013, riducendo tutti i dazi doganali su scarpe e indumenti, disinteressandosi totalmente del fatto che [in conseguenza di ciò] sarebbe rimasta una scarsa capacità produttiva in questi settori in Palestina.

Overall, according to UNCTAD, the amount lost to the Palestinian treasury either through weaknesses in the system, or through deliberate evasion of the system's rules by Israel, "exceeded $310 million in 2011, equivalent to 3.6 per cent of total gross domestic product (GDP) and 18 per cent of the tax revenue of the Palestinian National Authority." Moreover, around 40 per cent of the money lost to the treasury "is related to direct and indirect imports from Israel, and the remaining 60 per cent is in the form of evasion of customs duties."

Oltretutto, sempre secondo il CNUCS, l’ammontare perso dal Tesoro palestinese a causa delle carenze del sistema o della deliberata elusione delle norme del sistema da parte di Israele, “ha superato i 310 milioni di dollari nel 2011, che equivalgono al 3,6% del totale del prodotto interno lordo (PIL) e al 18% delle entrate fiscali dell’Autorità Nazionale Palestinese.” Inoltre circa il 40% del denaro perso dal Tesoro [palestinese]“ è relativo a importazioni dirette o indirette da Israele, e il rimanente 60% è dovuto al mancato pagamento dei dazi doganali.”

Quindi, anche al culmine dei danni causati alle prospettive dell’economia palestinese dalle costrizioni direttamente dovute all’occupazione, dalle correlate questioni di rischi politici, dall’accesso negato a risorse di base, ecc. – anche nei momenti in cui entrambe le parti sono di fatto “in pace” –, il lascito del Protocollo di Parigi garantisce che lo status quo sia largamente determinato dagli interessi israeliani e ignori le prospettive di sviluppo economico palestinese sia a breve che a lungo termine.



Philip Leech è ricercatore presso il Council for British Research in the Levant. Si trova su twitter e il suo curriculum accademico è reperibile su academia.edu.



(traduzione di Amedeo Rossi)

lunedì 26 gennaio 2015

Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 5

Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 5

Manlio Dinucci


Il ruolo dell’Italia nella Nato
«Amore per il popolo italiano»: lo dichiara il presidente Obama nel febbraio 2013, ricevendo alla Casa Bianca il presidente Napolitano. Perché tanto amore? Il popolo italiano «accoglie e ospita le nostre truppe sul proprio suolo». Accoglienza molto apprezzata dal Pentagono, che possiede in Italia (secondo i dati ufficiali 2014) 1428 edifici, con una superficie di oltre un milione di metri quadri, cui se ne aggiungono oltre 800 in affitto o concessione. Sono distribuiti in oltre 30 siti principali (basi e altre strutture militari) e una ventina minori. Nel giro di un anno, i militari Usa di stanza in Italia sono aumentati di oltre 1500, superando i 10mila. Compresi i dipendenti civili, il personale del Pentagono in Italia ammonta a circa 14mila unità.

Alle strutture militari Usa si aggiungono quelle Nato, sempre sotto comando Usa: come il Comando interforze, col suo nuovo quartier generale di Lago Patria (Napoli). «Ospitando» alcune delle più importanti strutture militari, l’Italia svolge un ruolo cardine nella strategia Usa/Nato che, dopo la guerra alla Libia, non solo mira alla Siria e all’Iran ma va oltre, spostando il suo centro focale verso la regione Asia/Pacifico per fronteggiare la Cina in ascesa.

Il Comando della forza congiunta alleata a Napoli (Jfc Naples) è tenuto ufficialmente in «standby», ossia pronto in qualsiasi momento a entrare in guerra. Il nuovo quartier generale a Lago Patria, costruito per uno staff di oltre 2mila militari ed espandibile per «la futura crescita della Nato», è in piena attività. Avamposto delle operaziont militari del Jfc Naples è la Turchia, dove la Nato ha oltre venti basi aeree, navali e di spionaggio elettronico. A queste è stato aggiunto (come già detto) uno dei più importanti comandi Nato: il Landcom, responsabile di tutte le forze terrestri dei 28 paesi membri, attivato a Izmir (Smirne). Lo spostamento del comando delle forze terrestri dall’Europa alla Turchia – a ridosso del Medio Oriente (in particolare Siria e Iran) e del Caspio – indica che, nei piani Usa/Nato, si prevede l’impiego anche di forze terrestri, soprattutto europee, in quest’area di primaria importanza strategica.

Il Jfc Naples (come già detto) è agli ordini di un ammiraglio statunitense, che è allo stesso tempo comandante della Forza congiunta alleata a Napoli, delle Forze navali Usa in Europa e delle Forze navali del Comando Africa. Un gioco strategico delle tre carte, che permette al Pentagono di mantenere sempre il comando. E l’Europa? Essa è importante per gli Usa geograficamente, chiarisce il Comandante supremo alleato: le basi in Europa non sono residui «bastioni della guerra fredda», ma «basi operative avanzate» che permettono agli Usa di sostenere sia il Comando Africa che il Comando centrale nella cui area rientra il Medio Oriente. Sono quindi essenziali per «la sicurezza del 21° secolo», garantita da una «potente e capace alleanza» diretta dagli Usa, che possiede «24mila aerei da combattimento, 800 navi militari oceaniche, 50 aerei radar Awacs».

Quanto ci costa la Nato
L’Italia sta assumendo nella Nato crescenti impegni che portano a un inevitabile aumento della spesa militare, diretta e indiretta. La Nato non conosce crisi. Si sta costruendo un nuovo quartier generale a Bruxelles, il cui costo, previsto in 460 milioni di euro, è quasi triplicato salendo a 1,3 miliardi. Lo stesso è stato fatto in Italia, dove si sono spesi 200 milioni di euro per costruire a Lago Patria una nuova sede per il Jfc Naples. Tali spese sono solo la punta dell’iceberg di un colossale esborso di denaro pubblico, pagato dai cittadini dei paesi dell’Alleanza.

Vi è anzitutto la spesa iscritta nei bilanci della difesa dei 28 stati membri che, secondo i dati Nato del febbraio 2014, supera complessivamente i 1000 miliardi di dollari annui (circa 750 miliardi di euro), per oltre il 70% spesi dagli Stati uniti. La spesa militare Nato, equivalente a circa il 60% di quella mondiale, è aumentata in termini reali (al netto dell’inflazione) di oltre il 40% dal 2000 ad oggi. Sotto pressione degli Stati uniti, il cui budget della difesa (735 miliardi di dollari) è pari al 4,5% del prodotto interno lordo, gli alleati si sono impegnati nel 2006 a destinare al bilancio della difesa come minimo il 2% del loro pil. Finora, oltre agli Usa, lo hanno fatto solo Gran Bretagna, Grecia ed Estonia.

L’impegno dell’Italia a portare la spesa militare al 2% del pil è stato sottoscritto nel 2006 dal governo Prodi. Secondo i dati Nato, essa ammonta oggi in media a 52 milioni di euro al giorno. Tale cifra, si precisa nel budget, non comprende però diverse altre voci. In realtà, calcola il Sipri, la spesa militare italiana (all’undicesimo posto su scala mondiale) ammonta in media a 72 milioni al giorno. Adottando il principio del 2%, questi salirebbero a circa 100 milioni al giorno.

Agli oltre 1000 miliardi di dollari annui iscritti nei 28 bilanci della difesa, si aggiungono i «contributi» che gli alleati versano per il «funzionamento della Nato e lo sviluppo delle sue attività». Si tratta per la maggior parte di «contributi indiretti», tipo le spese per «le operazioni e missioni a guida Nato». Quindi i molti milioni di euro spesi per far partecipare le forze armate italiane alle guerre Nato nei Balcani, in Afghanistan e in Libia costituiscono un «contributo indiretto» al budget dell’Alleanza.

Vi sono poi i «contributi diretti», distribuiti in tre distinti bilanci. Quello «civile», che con fondi forniti dai ministeri degli esteri copre le spese per lo staff dei quartieri generali (4000 funzionari solo a Bruxelles). Quello «militare», composto da oltre 50 budget separati, che copre i costi operativi e di mantenimento della struttura militare internazionale. Quello di «investimento per la sicurezza», che serve a finanziare la costruzione dei quartieri generali, i sistemi satellitari di comunicazione e intelligence, la creazione di piste e approdi e la fornitura di carburante per le forze impegnate in operazioni belliche. Circa il 22% dei «contributi diretti» viene fornito dagli Stati uniti, il 14% dalla Germania, l’11% da Gran Bretagna e Francia. L’Italia vi contribuisce per circa l’8,7%: quota non trascurabile, nell’ordine di centinaia di milioni di euro annui.

Vi sono diverse altre voci nascoste nelle pieghe dei bilanci. Ad esempio l’Italia ha partecipato alla spesa per il nuovo quartier generale di Lago Patria sia con la quota parte del costo di costruzione, sia con il «fondo per le aree sottoutilizzate» e con uno erogato dalla Provincia, per un ammontare di circa 25 milioni di euro (mentre mancano i soldi per ricostruire L’Aquila).
Top secret resta l’attuale contributo italiano al mantenimento delle basi Usa in Italia, quantificato l’ultima volta nel 2002 nell’ordine del 41% per l’ammontare di 366 milioni di dollari annui. Sicuramente oggi tale cifra è di gran lunga superiore. Si continua così a gettare in un pozzo senza fondo enormi quantità di denaro pubblico, che sarebbero essenziali per interventi a favore dell’occupazione, dei servizi sociali, delle zone terremotate.

Il riposizionamento militare Usa in Europa
«Gli Stati uniti ridimensionano le forze militari in Europa e sotto la scure dei risparmi cade anche la base di Camp Darby», titola un giornale toscano, precisando che «mezzo Camp Darby tornerà all’Italia». Un vero e proprio bluff: l’area che verrà restituita dal Pentagono nell’arco di 5 anni è in reatlà quantificata in 5-6 ettari su un totale di oltre 800.

In realtà, quella annunciata dal Pentagono non è una riduzione ma un riposizionamento delle forze militari Usa, così da «massimizzare le nostre capacità militari in Europa e rafforzare le nostre importanti partnership europee, sostenendo nel miglior modo i nostri alleati Nato e partner nella regione». Risparmiando allo stesso tempo, secondo i calcoli di Washington, circa 500 milioni di dollari annui.

In tale quadro si inserisce Camp Darby, la base logistica dello U.S. Army che rifornisce le forze terrestri e aeree nell’area mediterranea, africana, mediorientale e oltre, l’unico sito dell’esercito Usa in cui il materiale preposizionato (carrarmati, ecc.) è collocato insieme alle munizioni. Nei suoi 125 bunker e in altri depositi vi è l’intero equipaggiamento di due battaglioni corazzati e due di fanteria meccanizzata, che può essere rapidamente inviato in zona di operazione attraverso il porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa. Da qui sono partire le bombe usate nelle due guerre contro l’Iraq e in quelle contro la Iugoslavia e la Libia.

Il collegamento di Camp Darby col porto di Livorno è stato potenziato dai lavori effettuati dagli enti locali (a guida Pd) sul Canale dei navicelli, allo scopo dichiarato di dare impulso ai cantieri che fabbricano yacht (in realtà in crisi e in attesa di qualche compratore straniero). Il vero scopo emerge da uno studio della Provincia di Livorno: «Il Canale dei navicelli riveste una notevole importanza strategica militare, per il fatto di attraversare la base militare di Camp Darby, costituendo una componente determinante per i traffici della base». Per di più nel limitrofo interporto di Guasticce, sullo Scolmatore dove sono in corso lavori per accrescerne la navigabilità, si può creare un indotto per lo stoccaggio di materiali logistici di Camp Darby. In tal modo si può liberare, nella base, spazio da destinare agli armamenti. Per di più, la limitata area che il comando Usa dovrebbe «restituire all’Italia» nei prossimi anni andrà al Ministero della difesa, che la potrà destinare a funzioni di supporto di Camp Darby e alla proiezione di forze: l’aeroporto militare di Pisa è stato trasformato in Hub aereo nazionale da cui transitano gli uomini e i materiali destinati ai vari teatri bellici, e sempre a Pisa si è appena costituito il Comando delle forze speciali dell’esercito.

Il «ridimensionamento» di Camp Darby è comunque compensato dal potenziamento della base Usa di Aviano. Qui, annuncia il Pentagono, sarà trasferito dalla base aerea di Spangladem (Germania) il 606th Air Control Squadron, addetto (con un personale di 200 militari) al comando, controllo e rifornimento di grandi operazioni di guerra aerea. Il suo spostamento ad Aviano conferma il ruolo «privilegiato» dell’Italia quale base della proiezione di forze Usa/Nato nell’area mediterranea, mediorientale e africana. Ruolo destinato a crescere poiché, annuncia il Pentagono, «la U.S. Air Force dislocherà permanentemente suoi caccia F-35 in Europa», a cominciare dalla base britannica di Lakenheath, e quindi anche in Italia.

Il riposizionamento di forze e basi, sottolinea il Pentagono, non indebolisce ma rafforza la presenza militare Usa in Europa. Esso permette di «potenziare la presenza a rotazione di forze Usa in Europa per esercitazioni e altre attività Nato; migliorare le infrastrutture per una accresciuta presenza militare Usa e alleata nell’Europa orientale; permettere agli Usa di accrescere la capacità dei nuovi alleati, come Ucraina, Georgia e Moldavia». In tal modo, partendo dall’Europa, gli Usa e gli alleati Nato saranno in grado di «rispondere rapidamente alle crisi su scala planetaria». Ossia di scatenare guerre ovunque nel mondo siano ostacolati i loro interessi.

(5 – fine)

La moderazione deo palestinesi


La maggiore parte dei palestinesi si modera, nonostante il saccheggio da parte di Israele.

A differenza di singoli individui, [la maggioranza dei palestinesi] indirizza la propria rabbia e avversione verso iniziative nonviolente quali il BDS e la CPI [la Corte Penale Internazionale].


di Amira Hass

Haaretz 22.01.15


Come al solito il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman stanno ingannando gli israeliani. Non c'è bisogno di un incitamento da parte di dirigenti dell'Autorità Nazionale Palestinese o di personaggi pubblici arabo- israeliani perché un giovane palestinese in preda alla follia accoltelli circa una dozzina di persone.

Non c'è bisogno che elementi stranieri incoraggino un giovane palestinese a compiere una serie di vendette con il rischio di essere ammazzato o privato della libertà per molti anni. Qualunque sia la situazione sociale di Hamza Mohammed Hasan Matrouk [il giovane palestinese che ha attaccato a coltellate l'autista ed alcuni passeggeri di un autobus a Tel Aviv. N.d.tr.], la rabbia, l'odio, e il desiderio di profonda vendetta che si porta dentro sono esclusivamente sue.

Non c'è bisogno di un particolare“clima”. Il "clima" c'è sempre stato, da quando Matrouk è nato nel campo profughi di Tul Karm, anzi anche prima. Chi l'ha creato: l'esercito israeliano, l'Amministrazione Civile [israeliana, che è in realtà militare e che governa nei Territori Occupati. N.d.tr.], il servizio di sicurezza dello Shin Bet, il ministero della Difesa, le colonie e i loro abitanti, le torrette di sorveglianza dell'esercito israeliano, le recinzioni di filo spinato

“Clima” è una parola fuorviante. Questa è la realtà, una realtà che gli ebrei israeliani rifiutano di riconoscere, anche se è il risultato della loro opera. Dopo tutto, in elezioni democratiche hanno dato il voto ai politici, e se lo avessero voluto avrebbero potuto conoscere le condizioni in cui vivono i non ebrei sotto il regime di Israele.

Se vi è sobillazione, questa è la sua origine: la supremazia di una nazione convinta di avere il diritto di interferire e danneggiare la vita di una nazione palestinese più debole – il suo futuro, il passato, la sua economia, la moneta, le sue risorse e le relazioni familiari e sociali.

Gli attacchi da parte di individui che hanno agito di loro spontanea iniziativa colpendo civili israeliani, mostra l'impotenza e l'inefficienza della dirigenza politica palestinese. Contrariamente ai proclami senza fondamento di Lieberman, questi attacchi sono stati fatti da persone che non hanno ascoltato Mahmoud Abbas. Sono stati perpetrati da persone che non ripongono le loro speranze nelle iniziative diplomatiche del presidente palestinese dopo che Israele ha bloccato il processo negoziale.

Queste persone non ascoltano il chiaro richiamo di Abbas ad aderire alla resistenza nonviolenta contro l'occupazione. Gli attacchi individuali evidenziano l'assenza di una strategia palestinese, i messaggi contraddittori delle varie organizzazioni [palestinesi], la snervante rivalità tra di loro e la loro sclerotizzazione.

L'incredibile ragione per cui gli israeliani dovrebbero ringraziare è che la schiacciante maggioranza dei palestinesi non ha intenzione di fare danno ad ogni israeliano che incontra. La stragrande maggioranza dei palestinesi costantemente si trattiene per non esplodere di rabbia di fronte alla colossale arroganza e al comportamento degli israeliani “da padrone di casa”che quotidianamente si trovano davanti. La stragrande maggioranza dei palestinesi si trattiene dal vendicarsi del saccheggio che ha accompagnato la dominazione israeliana sin dal suo inizio e della lunga lista di palestinesi ammazzati.

Gli israeliani devono ringraziare il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni nonché la decisione palestinese di aderire alla Corte Penale Internazionale. Ambedue le iniziative indirizzano la rabbia e l'avversione comune a tutti i palestinesi verso un' azione civile e legale – iniziative nonviolente, in stridente contrasto con la quotidiana violenza del regime israeliano.

Gli israeliani devono anche ringraziare quegli attivisti che ogni settimana manifestano nei villaggi della Cisgiordania e che , al contrario di Matrouk, non aggrediscono i passeggeri dei bus israeliani. L'obiettivo delle loro dimostrazioni, e qualche volta delle loro pietre, sono gli israeliani armati fino ai denti che non esitano a sparare e ammazzare i civili.

Gli israeliani dovrebbero pregare per il successo di queste tattiche di resistenza non armata. Invece di vendetta queste tattiche sviluppano una riflessione ed iniziative che sono politiche. Sono un avviso agli israeliani affinché aprano gli occhi prima che sia troppo tardi.


(traduzione di Carlo Tagliacozzo)

domenica 18 gennaio 2015

Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 4

Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 4

Manlio Dinucci


Le armi nucleari Usa/Nato in Europa
Gli Stati uniti, mentre sono impegnati a Ginevra a denuclearizzare l’Iran, nuclearizzano l’Europa potenziando le armi mantenute in Germania, Italia, Belgio, Olanda e Turchia. Sono circa 200 bombe B-61, che si aggiungono alle oltre 500 testate nucleari francesi e britanniche pronte al lancio. Secondo una stima al ribasso, in Italia ve ne sono 70-90, stoccate ad Aviano e Ghedi-Torre. Ma ce ne potrebbero essere di più, anche in altri siti. Tantomeno si conosce quante armi nucleari sono a bordo delle unità della Sesta flotta e altre navi da guerra che approdano nei nostri porti. Quello che ufficialmente si sa è che ora le B-61 vengono trasformate da bombe a caduta libera in bombe «intelligenti» che, grazie a un sistema di guida satellitare e laser, potranno essere sganciate a grande distanza dall’obiettivo. Le nuove bombe nucleari B61-12 a guida di precisione, il cui costo è previsto in 8-12 miliardi di dollari per 400-500 bombe, avranno una potenza media di 50 kiloton (circa quattro volte la bomba di Hiroshima).
Altri aspetti, emersi da una audizione della sottocommissione del Congresso sulle forze strategiche, gettano una luce ancora più inquietante sull’intera faccenda. Washington ribadisce che «la Nato resterà una alleanza nucleare» e che, «anche se la Nato si accordasse con la Russia per una riduzione delle armi nucleari in Europa, avremmo sempre l’esigenza di completare il programma della B61-12». La nuova arma sostituirà le cinque varianti dell’attuale B61, compresa la bomba penetrante anti-bunker B61-11 da 400 kiloton, e la maxi-bomba B83 da 1200 kiloton. In altre parole, avrà la stessa capacità distruttiva di queste bombe più potenti.
Allo stesso tempo la B61-12 «sarà integrata col caccia F-35 Joint Strike Fighter», fatto doppiamente importante perché «l’F-35 è destinato a divenire l’unico caccia a duplice capacità nucleare e convenzionale delle forze aeree degli Stati uniti e di molti paesi alleati». Quella che arriverà tra non molto in Italia e in altri paesi europei, non è dunque una semplice versione ammodernata della B-61, ma un’arma polivalente che svolgerà la funzione di più bombe, comprese quelle progettate per «decapitare» il paese nemico, distruggendo i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee in un first strike nucleare. Poiché le bombe anti-bunker non sono oggi schierate in Europa, l’introduzione della B61-12, che svolge anche la loro funzione, potenzia la capacità offensiva delle forze nucleari Usa/Nato in Europa.
I piloti italiani – che vengono addestrati all’uso delle B-61 con i caccia Tornado, come è stato fatto nell’esercitazione «Steadfast Noon» svoltasi ad Aviano e Ghedi, saranno tra non molto addestrati all’attacco nucleare con gli F-35 armati con le B61-12. In tal modo l’Italia viola il Trattato di non-proliferazione che la impegna a «non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi direttamente o indirettamente». E gli Stati uniti lo violano perché si sono impegnati a «non trasferire a chicchessia armi nucleari né il controllo su tali armi».

Il nuovo confronto militare Ovest-Est
Mosca si oppone allo «scudo antimissile», che permetterebbe agli Usa di lanciare un first strike nucleare sapendo di poter neutralizzare la ritorsione. È contraria all’ulteriore espansione della Nato ad est e al piano Usa/Nato di demolire la Siria e l’Iran nel quadro di una strategia che mira alla regione Asia/Pacifico. Tutto questo viene visto a Mosca come un tentativo di acquisire un netto vantaggio strategico sulla Russia (oltre che sulla Cina). Sono solo «vecchi stereotipi della guerra fredda», come sostiene il presidente Obama? Non si direbbe, visto il programma annunciato dalla Nato nel 2013. Esso prevede «più ambiziose e frequenti esercitazioni militari» a ridosso della Russia. Tra queste la «Brilliant Arrow», effettuata in Norvegia con cacciabombardieri Nato (anche italiani) a duplice capacità convenzionale e nucleare; la «Steadfast Jazz», con lo spiegamento di cacciabombardieri Nato in Polonia, Lituania e Lettonia, al confine russo; la «Brilliant Mariner», effettuata da navi da guerra Nato nel Mare del Nord e nel Mar Baltico.
Gli Usa e gli alleati Nato accrescono nel corso degli anni la pressione militare sulla Russia la quale, ovviamente, non si limita a quella che Obama definisce «retorica anti-americana». Dopo che gli Usa decidono di installare uno «scudo» missilistico anche sull’isola di Guam nel Pacifico occidentale, il Comando delle forze strategiche russe annuncia che sta costruendo un nuovo missile da 100 tonnellate «in grado di superare qualsiasi sistema di difesa missilistica». Ed è già in navigazione il primo sottomarino nucleare della nuova classe Borey, lungo 170 m, capace di scendere a 450 m di profondità, armato di 16 missili Bulava con raggio di 9mila km e 10 testate nucleari multiple indipendenti, in grado di manovrare per evitare i missili intercettori.
Su questo e altro i media europei, in particolare quelli italiani campioni di disinformazione, praticamente tacciono. Così, prima che esploda la crisi ucraina, la stragrande maggioranza ha l’impressione che la guerra minacci solo regioni «turbolente», come il Medio Oriente e il Nordafrica, senza accorgersi che la «pacifica» Europa sta divenendo di nuovo, sulla scia della strategia Usa, la prima linea di un confronto militare non meno pericoloso di quello della guerra fredda.

Il colpo di stato in Ucraina
L’operazione condotta dalla Nato in Ucraina inizia quando nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica di cui essa faceva parte. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica. L’Ucraina – il cui territorio di oltre 600mila km2 fa da cuscinetto tra Nato e Russia ed è attraversato dai corridoi energetici tra Russia e Ue – non entra nella Nato, come hanno fatto altri paesi dell’ex Urss ed ex Patto di Varsavia. Entra però a far parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, della «Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» nei Balcani.
Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione Nato-Ucraina» e il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla Nato. Nel 2005, sulla scia della «rivoluzione arancione» (orchestrata e finanziata agli Usa e dalle potenze europee), il presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato a Bruxelles. Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della Nato» e nel 2008 il summit di Bucarest dà luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un accordo che permette il transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le forze Nato in Afghanistan. Ormai l’adesione alla Nato sembra certa ma, nel 2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur continuando la cooperazione, l’adesione alla Nato non è nell’agenda del suo governo.
Nel frattempo però la Nato tesse una rete di legami all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano per anni a corsi del Nato Defense College a Roma e a Oberammergau (Germania), su temi riguardanti l’integrazione delle forze armate ucraine con quelle Nato. Nello stesso quadro si inserisce l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina, di una nuova «facoltà multinazionale» con docenti Nato. Notevolmente sviluppata anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la partecipazione delle forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida Nato.
Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di informazioni sul ruolo e gli scopi dell’Alleanza e conservano nella propria mente sorpassati stereotipi della guerra fredda», la Nato istituisce a Kiev un Centro di informazione che organizza incontri e seminari e anche visite di «rappresentanti della società civile» al quartier generale di Bruxelles. E poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la Nato costruisce una rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di quella che appare.
Sotto regia Usa/Nato, attraverso la Cia e altri servizi segreti vengono per anni reclutati, finanziati, addestrati e armati militanti neonazisti. Una documentazione fotografica mostra giovani militanti neonazisti ucraini di Uno-Unso addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori Nato, che insegnano loro tecniche di combattimento urbano ed uso di esplosivi per sabotaggi e attentati. Lo stesso fece la Nato durante la guerra fredda per formare la struttura paramilitare segreta di tipo «stay-behind», col nome in codice «Gladio». Attiva anche in Italia dove, a Camp Darby e in altre basi, vennero addestrati gruppi neofascisti preparandoli ad attentati e a un eventuale colpo di stato.
È questa struttura paramilitare che entra in azione a piazza Maidan, trasformandola in campo di battaglia: mentre gruppi armati danno l’assalto ai palazzi di governo, «ignoti» cecchini sparano con gli stessi fucili di precisione sia sui dimostranti che sui poliziotti (quasi tutti colpiti alla testa). Il 20 febbraio 2014 il segretario generale della Nato si rivolge, con tono di comando, alle forze armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali», pena «gravi conseguenze negative per le nostre relazioni». Abbandonato dai vertici delle forze armate e da gran parte dell’apparato governativo, il presidente Viktor Yanukovych è costretto alla fuga. La direzione delle forze armate viene assunta da Andriy Parubiy, cofondatore del partito socialnazionalista ridenominato Svoboda, divenuto segretario del Comitato di difesa nazionale, e, in veste di ministro della difesa, da Igor Tenjukh, legato a Svoboda.
La Nato si sente ormai sicura di poter compiere un altro passo nella sua espansione ad Est, inglobando l’Ucraina. Lo conferma la riunione dei ministri Nato della difesa, che si svolge il 26-27 febbraio 2014 al quartier generale di Bruxelles. Primo punto all’ordine del giorno l’Ucraina, con la quale – sottolineano i ministri nella loro dichiarazione – la Nato ha una «distintiva partnership» nel cui quadro continua ad «assisterla per la realizzazione delle riforme». Prioritaria «la cooperazione militare» (grimaldello con cui la Nato è penetrata in Ucraina). I ministri «lodano le forze armate ucraine per non essere intervenute nella crisi politica» (lasciando così mano libera ai gruppi armati) e ribadiscono che per «la sicurezza euro-atlantica» è fondamentale una «Ucraina stabile» (ossia stabilmente sotto la Nato).

(4 – continua)

sabato 10 gennaio 2015

Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 3

Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 3

Manlio Dinucci


La strategia di demolizione degli Stati
La strategia Usa/Nato consiste nel demolire gli Stati che sono del tutto o in parte fuori del controllo degli Stati uniti e delle maggiori potenze europee, soprattutto quelli situati nelle aree ricche di petrolio e/o con una importante posizione geostrategica. Si privilegiano, nella lista delle demolizioni, gli Stati che non hanno una forza militare tale da mettere in pericolo, con una rappresaglia, quella dei demolitori.

L’operazione inizia infilando dei cunei nelle crepe interne, che ogni Stato ha. Nella Federazione Iugoslava, negli anni ’90, vengono fomentate le tendenze secessioniste, sostenendo e armando i settori etnici e politici che si oppongono al governo di Belgrado. Tale operazione viene attuata facendo leva su nuovi gruppi dirigenti, spesso formati da politici passati all’opposizione per accaparrarsi dollari e posti di potere.
Contemporaneamente si conduce una martellante campagna mediatica per presentare la guerra come necessaria per difendere i civili, minacciati di sterminio da un feroce dittatore.

Si chiede quindi l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, motivando l’intervento con la necessità di destituire il dittatore che fa strage di inermi civili (nel caso della Iugoslavia, Milosevic). Basta il timbro con scritto «si autorizzano tutte le misure necessarie» ma, se non viene dato (come nel caso della Iugoslavia), si procede lo stesso. La macchina da guerra Usa/Nato, già approntata, entra in azione con un massiccio attacco aeronavale e operazioni terrestri all’interno del paese, attorno a cui è stato fatto il vuoto con un ferreo embargo.

La guerra contro la Libia
Dopo essere stata attuata contro la Federazione Iugoslava, tale strategia viene usata contro la Libia nel 2011.
Vengono finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi. Vengono allo stesso tempo infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani facilmente camuffabili. L’intera operazione viene diretta dagli Stati uniti, prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa.

Il 19 marzo 2011 inizia il bombardamento aeronavale della Libia. In sette mesi, l’aviazione Usa/Nato effettua 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre 40mila bombe e missili. A questa guerra partecipa l’Italia con le sue basi e forze militari, stracciando il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due paesi. «Nel ricordo delle lotte di liberazione e del 25 aprile – dichiara il presidente Napolitano il 26 aprile 2011 – non potevamo restare indifferenti alla sanguinaria reazione del colonnello Gheddafi in Libia: di qui l'adesione dell'Italia al piano di interventi della coalizione sotto guida Nato».

Molteplici fattori rendono la Libia importante agli occhi degli Stati uniti e delle potenze europee. Le riserve petrolifere – le maggiori dell’Africa, preziose per l’alta qualità e il basso costo di estrazione – e quelle di gas naturale. Dopo che Washington abolisce nel 2003 le sanzioni in cambio dell’impegno di Gheddafi a non produrre armi di distruzione di massa, le grandi compagnie petrolifere statunitensi ed europee affluiscono in Libia con grandi aspettative, rimanendo però deluse. Il governo libico concede le licenze di sfruttamento alle compagnie straniere che lasciano alla compagnia statale libica (National Oil Corporation of Libya, Noc) la percentuale più alta del petrolio estratto: data la forte competizione, essa arriva a circa il 90%. Per di più la Noc richiede, nei contratti, che le compagnie straniere assumano personale libico anche in ruoli dirigenti. Abbattendo lo Stato libico, gli Stati uniti e le potenze europee mirano a impadronirsi di fatto della sua ricchezza energetica.

Oltre che all’oro nero, mirano all’oro bianco libico: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana (stimata in 150mila km3), che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità di sviluppo essa offra lo ha dimostrato il governo libico, costruendo una rete di acquedotti lunga 4mila km per trasportare l’acqua, estratta in profondità da 1300 pozzi nel deserto, fino alle città costiere e all’oasi al Khufrah, rendendo fertili terre desertiche. Su queste riserve idriche, in prospettiva più preziose di quelle petrolifere, vogliono mettere le mani – attraverso le privatizzazioni promosse dal Fmi­ – le multinazionali dell’acqua, che controllano quasi la metà del mercato mondiale dell’acqua privatizzata.

Nel mirino Usa/Nato ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo Stato libico ha investito all’estero. I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Da quando viene costituita nel 2006, la Lia effettua in cinque anni investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre. Tali fondi vengono «congelati», ossia sequestrati, dagli Stati uniti e dalle maggiori potenze europee.

L’assalto ai fondi sovrani libici ha un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.

Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria). Lo sviluppo di tali organismi potrebbe permettere ai paesi africani di sottrarsi al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, e potrebbe segnare la fine del franco Cfa, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi africani, ex-colonie francesi. Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo fortissimo all’intero progetto.

Importante, per gli Usa e la Nato, la stessa posizione geografica della Libia. all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Va ricordato che re Idris, nel 1953, aveva concesso agli inglesi l’uso di basi aeree, navali e terrestri in Cirenaica e Tripolitania. Un accordo analogo era stato concluso nel 1954 con gli Stati uniti, che avevano ottenuto l’uso della base aerea di Wheelus Field alle porte di Tripoli. Essa era divenuta la principale base aerea statunitense nel Mediterraneo. Abolita la monarchia, la Repubblica araba libica aveva costretto nel 1970 le forze statunitensi e britanniche a evacuare le basi militari e, l'anno seguente, aveva nazionalizzato le proprietà della British Petroleum e costretto le altre compagnie a versare allo Stato libico quote molto più alte dei profitti.

Con la guerra Usa/Nato del 2011, viene demolito lo Stato libico e assassinato lo stesso Gheddafi, attribuendo l’impresa a una «rivoluzione ispiratrice» che gli Usa si dicono fieri di sostenere, creando «una alleanza senza eguali contro la tirannia e per la libertà». Viene demolito quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo di fronte all’Italia, manteneva «alti livelli di crescita economica» (come documentava nel 2010 la stessa Banca mondiale), con un aumento medio del pil del 7,5% annuo, e registrava «alti indicatori di sviluppo umano» tra cui l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e, per il 46%, a quella di livello universitario. Nonostante le disparità, il tenore di vita della popolazione libica era notevolmente più alto di quello degli altri paesi africani. Lo testimoniava il fatto che trovavano lavoro in Libia oltre due milioni di immigrati, per lo più africani.

In Libia le prime vittime sono proprio gli immigrati dall’Africa subsahariana che, perseguitati, sono costretti a fuggire. Molti, spinti dalla disperazione, tentano la traversata del Mediterraneo verso l’Europa. Quelli che vi perdono la vita sono anch’essi vittime della guerra con cui la Nato ha demolito lo Stato libico.

L’inizio della guerra contro la Siria
Nell’ottobre 2012 il Consiglio atlantico denuncia «gli atti aggressivi del regime siriano al confine sudorientale della Nato», pronto a far scattare l’articolo 5 che impegna ad assistere con la forza armata il paese membro «attaccato», la Turchia. Ma è già in atto il «non-articolo 5» – introdotto durante la guerra alla Iugolavia e applicato contro l’Afghanistan e la Libia – che autorizza operazioni non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza. Eloquenti sono le immagini degli edifici di Damasco e Aleppo devastati con potentissimi esplosivi: opera non di semplici ribelli, ma di professionisti della guerra infiltrati. Circa 200 specialisti delle forze d’élite britanniche Sas e Sbs – riporta il Daily Star – operano in Siria, insieme a unità statunitensi e francesi.

La forza d’urto è costituita da una raccogliticcia armata di gruppi islamici (fino a poco prima bollati da Washington come terroristi) provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi. Nel gruppo di Abu Omar al-Chechen – riferisce l’inviato del Guardian ad Aleppo – gli ordini vengono dati in arabo, ma devono essere tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto saudita, urdu, francese e altre lingue. Forniti di passaporti falsi (specialità Cia), i combattenti affluiscono nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, dove la Cia ha aperto centri di formazione militare. Le armi arrivano soprattutto via Arabia Saudita e Qatar che, come in Libia, fornisce anche forze speciali.

Il comando delle operazioni è a bordo di navi Nato nel porto di Alessandretta. A Istanbul viene aperto un centro di propaganda dove dissidenti siriani, formati dal Dipartimento di stato Usa, confezionano le notizie e i video che vengono diffusi tramite reti satellitari. La guerra Nato contro la Siria è dunque già in atto, con la motivazione ufficiale di aiutare il paese a liberarsi dal regime di Assad. Come in Libia, si è infilato un cuneo nelle fratture interne per far crollare lo Stato, strumentalizzando la tragedia delle popolazioni travolte.

Una delle ragioni per cui si vuole colpire e occupare la Siria è il fatto che Siria, Iran e Iraq hanno firmato nel luglio 2011 un accordo per un gasdotto che, entro il 2016, dovrebbe collegare il giacimento iraniano di South Pars, il maggiore del mondo, alla Siria e quindi al Mediterraneo. La Siria, dove è stato scoperto un altro grosso giacimento presso Homs, potrebbe divenire in tal modo un hub di corridoi energetici alternativi a quelli attraverso la Turchia e altri percorsi, controllati dalle compagnie statunitensi ed europee.

domenica 4 gennaio 2015

Il 2014 è stato un anno di svolta in Palestina

5 ragioni per cui il 2014 è stato un anno di svolta in Palestina
23 dicembre 2014



di Ramzy Baroud - "The Palestine Chronicle"



In termini di perdite di vite umane, il 2014 è stato un anno terribile per i palestinesi, avendo superato gli orrori sia del 2008 che del 2009, quando una guerra israeliana contro la Striscia di Gaza ha ucciso e ferito migliaia [di palestinesi].

Mentre alcuni aspetti del conflitto sono bloccati tra un'Autorità Nazionale Palestinese (ANP) corrotta e inefficiente e il comportamento criminale delle guerre e dell'occupazione israeliane, bisogna essere onesti e sostenere che il 2014 è stato anche un anno di svolta a un certo livello, e che non si tratta solo di cattive notizie.

To an extent, 2014 has been a year of clarity for those keen to understand the reality of the ‘Palestinian-Israeli conflict’ but were sincerely confused by the contrasting narratives.

Here are some reasons that support the argument that things are changing.

Al contrario, il 2014 è stato un anno di chiarezza per chi vuole capire la realtà del "conflitto israelo-palestinese", ma era sinceramente confuso dalle contrastanti narrative.

Ecco qui alcune ragioni che sostengono la tesi che le cose stanno cambiando.



1. Un tipo diverso di unità palestinese

Nonostante ad aprile i due principali partiti palestinesi, Hamas e Fatah, abbiano raggiunto un accordo per un governo di unità, poco è cambiato in concreto. Sì, in giugno è stato formato ufficialmente un governo, e ha tenuto il suo primo incontro ad ottobre. Ma Gaza è ancora governata di fatto da Hamas, che in larga misura è stato lasciato da solo per gestire le questioni della Striscia dopo la guerra israeliana di luglio-agosto. Forse l'autorità di Mahmoud Abbas sta sperando che le massicce distruzioni indeboliscano Hamas e lo portino a sottomettersi politicamente, soprattutto se l'Egitto continuerà a tenere ermeticamente chiuso il confine di Rafah.

Ma mentre le fazioni non riescono a stare unite, la guerra israeliana contro Gaza ha ispirato un nuovo slancio alla lotta in Cisgiordania. I piani israeliani di colpire i luoghi sacri a Gerusalemme, soprattutto la moschea di Al-Aqsa, insieme alla profonda angoscia provata dalla maggior parte dei palestinesi per i massacri perpetrati da Israele a Gaza, si sono lentamente riflessi in un'ondata di piccole rivolte. Qualcuno supponeva che la situazione forse avrebbe portato a una massiccia Intifada che avrebbe travolto tutti i territori. Che una terza Intifada si scateni o meno nel 2015, è un'altra questione. Quello che importa è che il piano a lungo orchestrato per dividere i palestinesi si è disgregato e una nuova narrazione collettiva di una lotta comune contro l'occupazione ha finalmente preso forma.



2. Un nuovo modello di resistenza

Il dibattito riguardo a quale tipo di resistenza dovrebbero o non dovrebbero adottare i palestinesi è stato messo da parte e risolto, non dai donatori internazionali, ma dagli stessi palestinesi. Hanno scelto di adottare qualunque forma di resistenza efficace a loro disposizione che possa scoraggiare gli attacchi militari israeliani, come i gruppi della resistenza hanno attivamente fatto a Gaza. Benché l'ultima guerra israeliana contro Gaza abbia ucciso 2.200 palestinesi e ferito oltre 11.000, in grande maggioranza civili, non è tuttavia riuscita a raggiungere nessuno dei suoi obiettivi dichiarati o impliciti. E' un altro richiamo al fatto che la pura e semplice forza militare non è più il fattore principale del comportamento di Israele nei confronti dei palestinesi. Mentre Israele brutalizzava i civili, la resistenza ha ucciso 70 israeliani, più di 60 dei quali militari; questo è stato anche un importante passo che testimonia della maturità della resistenza palestinese, che ha prima colpito i civili durante la seconda Intifada e ha avuto come conseguenza più disperazione piuttosto che una strategia vincente. La legittimazione della resistenza ha raggiunto un tale livello da riflettersi nella recente decisione della Corte Europea di togliere Hamas dalla sua lista di organizzazioni terroristiche.

La resistenza in Cisgiordania ha preso altre forme. Anche se deve ancora maturare in una persistente campagna di attività contro l'occupazione, sembra si sia formata un'identità sua propria che prende in considerazione quello che è possibile e quello che è efficace. Il fatto è che il dibattito sui modi di resistere "uguali per tutti" sta diventando meno importante, lasciando il posto a un approccio organico di resistenza concepito dagli stessi palestinesi.



3. Il BDS rende normale il dibattito sui crimini israeliani

Un'altra forma di resistenza è cristallizzata dal movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) che continua a crescere, raccogliendo forza, sostenitori e continui successi. Non solo il 2014 è stato un anno in cui il BDS è riuscito a guadagnarsi l'appoggio di molte organizzazioni della società civile, di accademici, scienziati, celebrità e a raggiungere persone di ogni estrazione sociale, ha fatto qualcos'altro che è altrettanto importante: ha reso normale il dibattito su Israele in molti circoli in giro per il mondo. Mentre nel passato ogni critica nei confronti di Israele era considerato un tabù, ciò è stato definitivamente superato. Porre la questione della moralità e della praticabilità del boicottaggio di Israele non è più un argomento terrorizzante, ma è aperto al dibattito in numerose sedi mediatiche, università e in altri contesti.

Il 2014 è stato un anno che ha reso la discussione sul boicottaggio di Israele più popolare che mai. Anche se una massa critica deve ancora essere raggiunta negli USA, lo slancio è in continua crescita grazie agli studenti, a uomini e donne di chiesa, personaggi famosi e gente comune. In Europa il movimento ha riscosso un notevole successo.



4. I parlamenti sentono il fiato sul collo

Mentre tradizionalmente buona parte dell'emisfero sud ha offerto appoggio incondizionato ai palestinesi, l'Occidente si è schierato in modo arrogante con Israele. In seguito agli accordi di Oslo, si è sviluppata una sconcertante posizione europea, per cui hanno civettato con l'idea di trovare un "equilibrio" tra la nazione occupata e quella occupante. Ogni tanto l'Unione Europea (UE) ha criticato timidamente l'occupazione israeliana, mentre continuava ad essere uno dei principali partner commerciali di Israele, fornendo armi all'esercito israeliano, che poi le ha usate per perpetrare crimini di guerra contro Gaza e mantenere l'occupazione militare in Cisgiordania.

Questa politica immorale è stata messa in discussione da cittadini di vari Paesi europei. La guerra estiva di Israele contro Gaza ha messo in luce come non mai le violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra di Israele, svelando nel frattempo l'ipocrisia dell'UE. Per ridurre almeno in parte la pressione, alcuni Paesi europei sembrano aver preso posizioni più nette contro Israele, rivedendo la loro cooperazione militare e mettendo in discussione in modo più deciso le politiche di destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. E' seguita una serie di voti parlamentari, con schiaccianti maggioranze per riconoscere la Palestina come Stato. Benché queste decisioni rimangano largamente simboliche, rappresentano un evidente cambiamento nell'atteggiamento dell'UE nei confronti di Israele. Netanyahu continua a rimproverare l' "ipocrisia" europea, rassicurato forse dall'appoggio incondizionato di Washington. Ma con gli USA che stanno perdendo il controllo sul burrascoso Medio Oriente, il primo ministro israeliano potrebbe essere presto costretto a rivedere il suo atteggiamento ostinato.





5. La democrazia di Israele messa a rischio

Per decenni Israele si è autodefinito come uno Stato sia democratico che ebreo. L'obiettivo era chiaro: mantenere la superiorità degli ebrei sui palestinesi arabi, mentre continuava a presentarsi come una moderna democrazia "occidentale" - di fatto, " l'unica democrazia del Medio Oriente". Mentre i palestinesi e molti altri non hanno mai creduto alla farsa della democrazia, molti hanno accettato la dicotomia con qualche piccola riserva.

Benché Israele non abbia una costituzione, ha invece un "codice", chiamato "Legge fondamentale". Poiché non esiste un equivalente israeliano dell' "emendamento costituzionale", il governo di Netanyahu sta spingendo per una nuova legge nel parlamento israeliano, la Knesset. Questa fondamentalmente propone nuovi principi con i quali Israele definirà se stesso. Uno di questi principi definirà Israele come "lo Stato nazionale del popolo ebraico", facendo in questo modo di tutti i cittadini non ebrei dei cittadini di serie B. Anche se in pratica i cittadini palestinesi di Israele sono stati emarginati e discriminati in vari modi, la nuova legge fondamentale sarà una conferma a livello costituzionale della loro inferiorità stabilita dallo Stato. Il paradigma ebreo e democratico sta morendo una volta per tutte, mettendo in evidenza la realtà di Israele per quella che è.



ll prossimo anno

Sicuramente il 2015 ci porterà molto delle solite cose: l'ANP lotterà per la sua stessa esistenza, e cercherà di mantenere i propri privilegi, concessi da Israele, dagli USA e da altri, utilizzando ogni mezzo disponibile; Israele continuerà ad essere sostenuto da fondi, appoggio incondizionato e sostegno militare americani. Sì, il prossimo anno si dimostrerà familiare in modo frustrante da questo punto di vista. Ma è improbabile che il nuovo, concreto e contrario slancio cessi, sfidando e mettendo in evidenza da un lato l'occupazione israeliana, dall'altro aggirando l'inefficace Autorità Nazionale Palestinese, che serve solo a se stessa.

Il 2014 è stato un anno molto penoso per la Palestina, ma anche un anno nel quale la resistenza collettiva del popolo palestinese e dei suoi sostenitori ha dimostrato di essere troppo forte per essere piegata o spezzata. E in questo ci può essere un grande conforto.



- Ramzy Baroud è un editorialista noto a livello internazionale, un consulente dei mezzi di comunicazione, uno scrittore e il fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è "Mio padre era n combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza" (Pluto Press, London).



(Traduzione di Amedeo Rossi)



di Ramzy Baroud - "The Palestine Chronicle"



In termini di perdite di vite umane, il 2014 è stato un anno terribile per i palestinesi, avendo superato gli orrori sia del 2008 che del 2009, quando una guerra israeliana contro la Striscia di Gaza ha ucciso e ferito migliaia [di palestinesi].

Mentre alcuni aspetti del conflitto sono bloccati tra un'Autorità Nazionale Palestinese (ANP) corrotta e inefficiente e il comportamento criminale delle guerre e dell'occupazione israeliane, bisogna essere onesti e sostenere che il 2014 è stato anche un anno di svolta a un certo livello, e che non si tratta solo di cattive notizie.

To an extent, 2014 has been a year of clarity for those keen to understand the reality of the ‘Palestinian-Israeli conflict’ but were sincerely confused by the contrasting narratives.

Here are some reasons that support the argument that things are changing.

Al contrario, il 2014 è stato un anno di chiarezza per chi vuole capire la realtà del "conflitto israelo-palestinese", ma era sinceramente confuso dalle contrastanti narrative.

Ecco qui alcune ragioni che sostengono la tesi che le cose stanno cambiando.



1. Un tipo diverso di unità palestinese

Nonostante ad aprile i due principali partiti palestinesi, Hamas e Fatah, abbiano raggiunto un accordo per un governo di unità, poco è cambiato in concreto. Sì, in giugno è stato formato ufficialmente un governo, e ha tenuto il suo primo incontro ad ottobre. Ma Gaza è ancora governata di fatto da Hamas, che in larga misura è stato lasciato da solo per gestire le questioni della Striscia dopo la guerra israeliana di luglio-agosto. Forse l'autorità di Mahmoud Abbas sta sperando che le massicce distruzioni indeboliscano Hamas e lo portino a sottomettersi politicamente, soprattutto se l'Egitto continuerà a tenere ermeticamente chiuso il confine di Rafah.

Ma mentre le fazioni non riescono a stare unite, la guerra israeliana contro Gaza ha ispirato un nuovo slancio alla lotta in Cisgiordania. I piani israeliani di colpire i luoghi sacri a Gerusalemme, soprattutto la moschea di Al-Aqsa, insieme alla profonda angoscia provata dalla maggior parte dei palestinesi per i massacri perpetrati da Israele a Gaza, si sono lentamente riflessi in un'ondata di piccole rivolte. Qualcuno supponeva che la situazione forse avrebbe portato a una massiccia Intifada che avrebbe travolto tutti i territori. Che una terza Intifada si scateni o meno nel 2015, è un'altra questione. Quello che importa è che il piano a lungo orchestrato per dividere i palestinesi si è disgregato e una nuova narrazione collettiva di una lotta comune contro l'occupazione ha finalmente preso forma.



2. Un nuovo modello di resistenza

Il dibattito riguardo a quale tipo di resistenza dovrebbero o non dovrebbero adottare i palestinesi è stato messo da parte e risolto, non dai donatori internazionali, ma dagli stessi palestinesi. Hanno scelto di adottare qualunque forma di resistenza efficace a loro disposizione che possa scoraggiare gli attacchi militari israeliani, come i gruppi della resistenza hanno attivamente fatto a Gaza. Benché l'ultima guerra israeliana contro Gaza abbia ucciso 2.200 palestinesi e ferito oltre 11.000, in grande maggioranza civili, non è tuttavia riuscita a raggiungere nessuno dei suoi obiettivi dichiarati o impliciti. E' un altro richiamo al fatto che la pura e semplice forza militare non è più il fattore principale del comportamento di Israele nei confronti dei palestinesi. Mentre Israele brutalizzava i civili, la resistenza ha ucciso 70 israeliani, più di 60 dei quali militari; questo è stato anche un importante passo che testimonia della maturità della resistenza palestinese, che ha prima colpito i civili durante la seconda Intifada e ha avuto come conseguenza più disperazione piuttosto che una strategia vincente. La legittimazione della resistenza ha raggiunto un tale livello da riflettersi nella recente decisione della Corte Europea di togliere Hamas dalla sua lista di organizzazioni terroristiche.

La resistenza in Cisgiordania ha preso altre forme. Anche se deve ancora maturare in una persistente campagna di attività contro l'occupazione, sembra si sia formata un'identità sua propria che prende in considerazione quello che è possibile e quello che è efficace. Il fatto è che il dibattito sui modi di resistere "uguali per tutti" sta diventando meno importante, lasciando il posto a un approccio organico di resistenza concepito dagli stessi palestinesi.



3. Il BDS rende normale il dibattito sui crimini israeliani

Un'altra forma di resistenza è cristallizzata dal movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) che continua a crescere, raccogliendo forza, sostenitori e continui successi. Non solo il 2014 è stato un anno in cui il BDS è riuscito a guadagnarsi l'appoggio di molte organizzazioni della società civile, di accademici, scienziati, celebrità e a raggiungere persone di ogni estrazione sociale, ha fatto qualcos'altro che è altrettanto importante: ha reso normale il dibattito su Israele in molti circoli in giro per il mondo. Mentre nel passato ogni critica nei confronti di Israele era considerato un tabù, ciò è stato definitivamente superato. Porre la questione della moralità e della praticabilità del boicottaggio di Israele non è più un argomento terrorizzante, ma è aperto al dibattito in numerose sedi mediatiche, università e in altri contesti.

Il 2014 è stato un anno che ha reso la discussione sul boicottaggio di Israele più popolare che mai. Anche se una massa critica deve ancora essere raggiunta negli USA, lo slancio è in continua crescita grazie agli studenti, a uomini e donne di chiesa, personaggi famosi e gente comune. In Europa il movimento ha riscosso un notevole successo.



4. I parlamenti sentono il fiato sul collo

Mentre tradizionalmente buona parte dell'emisfero sud ha offerto appoggio incondizionato ai palestinesi, l'Occidente si è schierato in modo arrogante con Israele. In seguito agli accordi di Oslo, si è sviluppata una sconcertante posizione europea, per cui hanno civettato con l'idea di trovare un "equilibrio" tra la nazione occupata e quella occupante. Ogni tanto l'Unione Europea (UE) ha criticato timidamente l'occupazione israeliana, mentre continuava ad essere uno dei principali partner commerciali di Israele, fornendo armi all'esercito israeliano, che poi le ha usate per perpetrare crimini di guerra contro Gaza e mantenere l'occupazione militare in Cisgiordania.

Questa politica immorale è stata messa in discussione da cittadini di vari Paesi europei. La guerra estiva di Israele contro Gaza ha messo in luce come non mai le violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra di Israele, svelando nel frattempo l'ipocrisia dell'UE. Per ridurre almeno in parte la pressione, alcuni Paesi europei sembrano aver preso posizioni più nette contro Israele, rivedendo la loro cooperazione militare e mettendo in discussione in modo più deciso le politiche di destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. E' seguita una serie di voti parlamentari, con schiaccianti maggioranze per riconoscere la Palestina come Stato. Benché queste decisioni rimangano largamente simboliche, rappresentano un evidente cambiamento nell'atteggiamento dell'UE nei confronti di Israele. Netanyahu continua a rimproverare l' "ipocrisia" europea, rassicurato forse dall'appoggio incondizionato di Washington. Ma con gli USA che stanno perdendo il controllo sul burrascoso Medio Oriente, il primo ministro israeliano potrebbe essere presto costretto a rivedere il suo atteggiamento ostinato.





5. La democrazia di Israele messa a rischio

Per decenni Israele si è autodefinito come uno Stato sia democratico che ebreo. L'obiettivo era chiaro: mantenere la superiorità degli ebrei sui palestinesi arabi, mentre continuava a presentarsi come una moderna democrazia "occidentale" - di fatto, " l'unica democrazia del Medio Oriente". Mentre i palestinesi e molti altri non hanno mai creduto alla farsa della democrazia, molti hanno accettato la dicotomia con qualche piccola riserva.

Benché Israele non abbia una costituzione, ha invece un "codice", chiamato "Legge fondamentale". Poiché non esiste un equivalente israeliano dell' "emendamento costituzionale", il governo di Netanyahu sta spingendo per una nuova legge nel parlamento israeliano, la Knesset. Questa fondamentalmente propone nuovi principi con i quali Israele definirà se stesso. Uno di questi principi definirà Israele come "lo Stato nazionale del popolo ebraico", facendo in questo modo di tutti i cittadini non ebrei dei cittadini di serie B. Anche se in pratica i cittadini palestinesi di Israele sono stati emarginati e discriminati in vari modi, la nuova legge fondamentale sarà una conferma a livello costituzionale della loro inferiorità stabilita dallo Stato. Il paradigma ebreo e democratico sta morendo una volta per tutte, mettendo in evidenza la realtà di Israele per quella che è.



ll prossimo anno

Sicuramente il 2015 ci porterà molto delle solite cose: l'ANP lotterà per la sua stessa esistenza, e cercherà di mantenere i propri privilegi, concessi da Israele, dagli USA e da altri, utilizzando ogni mezzo disponibile; Israele continuerà ad essere sostenuto da fondi, appoggio incondizionato e sostegno militare americani. Sì, il prossimo anno si dimostrerà familiare in modo frustrante da questo punto di vista. Ma è improbabile che il nuovo, concreto e contrario slancio cessi, sfidando e mettendo in evidenza da un lato l'occupazione israeliana, dall'altro aggirando l'inefficace Autorità Nazionale Palestinese, che serve solo a se stessa.

Il 2014 è stato un anno molto penoso per la Palestina, ma anche un anno nel quale la resistenza collettiva del popolo palestinese e dei suoi sostenitori ha dimostrato di essere troppo forte per essere piegata o spezzata. E in questo ci può essere un grande conforto.



- Ramzy Baroud è un editorialista noto a livello internazionale, un consulente dei mezzi di comunicazione, uno scrittore e il fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è "Mio padre era n combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza" (Pluto Press, London).



(Traduzione di Amedeo Rossi)

giovedì 1 gennaio 2015

Invio la seconda parte (la prima è stata mandata il 26 dicembre). Tra qualche giorno la terza “puntata”.


Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 2

Manlio Dinucci


La Nato alla conquista dell’Est
Nel 1999 inizia l’espansione della Nato nel territorio dell’ex Patto di Varsavia e dell’ex Unione Sovietica. L’«Alleanza Atlantica» ingloba i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica ceca e Ungheria. Quindi, nel 2004, si estende ad altri sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss); Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già parte della Repubblica iugoslava). Al vertice di Bucarest, nell’aprile 2008, viene deciso l’ingresso di Albania (un tempo membro del Patto di Varsavia) e Croazia (già parte della Repubblica iugoslava). Viene inoltre preparato l’ingresso nell’Alleanza dell’ex repubblica iugoslava di Macedonia e di Ucraina e Georgia, già parte dell’Urss. Si afferma infine che continuerà la «politica della porta aperta» per permettere ad altri paesi ancora di entrare un giorno nella Nato.
Gli Stati Uniti riescono così nel loro intento: sovrapporre a un’Europa basata sull’allargamento della Ue un’Europa basata sull’allargamento della Nato. Entrando nella Nato, i paesi dell’Europa orientale, comprese alcune repubbliche dell’ex Urss, vengono a essere più direttamente sotto il controllo degli Stati Uniti che mantengono nell’Alleanza una posizione predominante. Va ricordato che il Comandante supremo alleato in Europa è, per una sorta di diritto ereditario, un generale statunitense nominato dal presidente, e che tutti gli altri comandi chiave sono controllati direttamente dal Pentagono.
Per di più, i nuovi paesi membri devono riconvertire gli armamenti e le infrastrutture militari secondo gli standard Nato: ciò avvantaggia l’industria bellica statunitense, dato che l’acquisto di armi statunitensi viene posto da Washington quale condizione per l’ammissione alla Nato. In tal modo gli Stati uniti si assicurano una serie di strumenti militari ed economici, e quindi politici, per tenere questi paesi in posizione gregaria all’interno della Nato alle dirette dipendenze di Washington. Non solo: poiché Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, Romania e Bulgaria entrano nella Ue tra il 2004 e il 2007, Washington si assicura notevoli strumenti di pressione all’interno della stessa Unione europea per orientare le sue scelte politiche e strategiche.

La Nato in Afghanistan
La costituzione dell’Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) viene autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu con la risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001. Suo compito è quello di assistere l’autorità ad interim afghana a Kabul e dintorni. Secondo l’art. VII della Carta delle Nazioni unite, l'impiego delle forze armate messe a disposizione da membri dell’Onu per tali missioni deve essere stabilito dal Consiglio di sicurezza coadiuvato dal Comitato di stato maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Anche se tale comitato non esiste, l’Isaf resta fino all’agosto 2003 una missione Onu, la cui direzione viene affidata in successione a Gran Bretagna, Turchia, Germania e Olanda.
Ma improvvisamente, l’11 agosto 2003, la Nato annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con mandato Onu». E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere la leadership, ossia il comando, dell’Isaf. Solo a cose fatte, nella risoluzione 1659 del 15 febbraio 2006, il Consiglio di sicurezza «riconosce il continuo impegno della Nato nel dirigere l’Isaf».
A guidare la missione, dall’11 agosto 2003, non è più l’Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene infatti inserito nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell’Isaf. Come sottolinea un comunicato del giugno 2006, «la Nato ha assunto il comando e il coordinamento dell’Isaf nell’agosto 2003: questa è la prima missione al di fuori dell’area euro-atlantica nella storia della Nato». La missione Isaf viene quindi di fatto inserita nella catena di comando del Pentagono. Nella stessa catena di comando sono inseriti i militari italiani assegnati all’Isaf, insieme a elicotteri e aerei, compresi i cacciabombardieri Tornado.
Il «disegno di ordine e pace» della Nato in Afghanistan ha ben altri scopi di quelli dichiarati: non la liberazione dell’Afghanistan dai taleban, che erano stati addestrati e armati in Pakistan in una operazione concordata con la Cia per conquistare il potere a Kabul, ma l’occupazione dell’Afghanistan, area di primaria importanza strategica per gli Stati Uniti. Lo dimostrano le basi permanenti che installano qui, tra cui quelle aeree di Bagram, Kandahar e Shindand.
Per capire il perché basta guardare la carta geografica: l’Afghanistan è al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale. In quest’area (nel Golfo e nel Caspio) si trovano le maggiori riserve petrolifere del mondo. Si trovano tre grandi potenze – Cina, Russia e India – la cui forza complessiva sta crescendo e influendo sugli assetti globali. Come aveva avvertito il Pentagono nel rapporto del 30 settembre 2001, «esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse». Da qui la necessità di «pacificare» l’Afghanistan per disporre senza problemi del suo territorio. Ma, impegnati su troppi fronti, gli Usa non ce la fanno. Ecco quindi il coinvolgimento degli alleati Nato sotto paravento Onu, sempre agli ordini di un generale statunitense.

Il sostegno Nato a Israele
Nell’aprile 2001 Israele firma al quartier generale della Nato a Bruxelles l’«accordo di sicurezza», impegnandosi a proteggere le «informazioni classificate» che riceverà nel quadro della cooperazione militare.
Nel luglio 2001 il Pentagono dà il nullaosta per la fornitura a Israele dei primi 1000 kit Jdam, realizzati dalla Boeing in collaborazione con la joint-venture italo-inglese Alenia Marconi Systems: questo nuovo sistema di guida rende «intelligenti» le bombe aeree «stupide» permettendo agli F-16 israeliani di colpire simultaneamente più obiettivi a oltre 50 km di distanza.
Nel giugno 2003 il governo italiano stipula con quello israeliano un memorandum d’intesa per la cooperazione nel settore militare e della difesa, che prevede tra l’altro lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica.
Nel gennaio 2004 un aereo radar Awacs della Nato atterra per la prima volta a Tel Aviv e il personale israeliano viene addestrato all’uso delle sue tecnologie.
Nel dicembre 2004 viene data notizia che la Germania fornirà a Israele altri due sottomarini Dolphin, che si aggiungeranno ai tre (di cui due regalati) consegnati negli anni ‘90. Israele può così potenziare la sua flotta di sottomarini da attacco nucleare, tenuti costantemente in navigazione nel Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico.
Nel febbraio 2005 il segretario generale della Nato compie la prima visita ufficiale a Tel Aviv, dove incontra le massime autorità militari israeliane per «espandere la cooperazione militare».
Nel marzo 2005 si svolge nel Mar Rosso la prima esercitazione navale congiunta Israele-Nato: il comando del gruppo navale della «Forza di risposta della Nato» è affidato alla marina italiana che vi partecipa con la fregata Bersagliere.
Nel maggio 2005, dopo essere stato ratificato al senato e alla camera, il memorandum d’intesa italo-israeliano diviene legge: viene così istituzionalizzata la cooperazione tra i ministeri della difesa e le forze armate dei due paesi riguardo l’«importazione, esportazione e transito di materiali militari», l’«organizzazione delle forze armate», la «formazione/addestramento».
Nel maggio 2005 Israele viene ammesso quale membro dell’Assemblea parlamentare della Nato.
Nel giugno 2005 la marina israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Golfo di Taranto.
Nel luglio 2005 truppe israeliane partecipano per la prima volta a una esercitazione Nato «anti-terrorismo», che si svolge in Ucraina.
Nel giugno 2006 una nave da guerra israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Mar Nero allo scopo di «creare una migliore interoperabilità tra la marina israeliana e le forze navali Nato».
Nell’ottobre 2006, Nato e Israele concludono un accordo che stabilisce una più stretta cooperazione israeliana al programma Nato «Dialogo mediterraneo», il cui scopo è «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione». In tale quadro, «Nato e Israele si accordano sulle modalità del contributo israeliano all’operazione marittima della Nato Active Endeavour» (Nato/Israel Cooperation, 16 ottobre 2006). Israele viene così premiato dalla Nato per l’attacco e l’invasione del Libano. Le forze navali israeliane, che insieme a quelle aeree e terrestri hanno appena martellato il Libano con migliaia di tonnellate di bombe facendo strage di civili, vengono integrate nella operazione Nato che dovrebbe «combattere il terrorismo nel Mediterraneo». Le stesse forze navali che, bombardando la centrale elettrica di Jiyyeh sulle coste libanesi, hanno provocato una enorme marea nera diffusasi nel Mediterraneo (la cui bonifica verrà a costare centinaia di milioni di dollari), collaborano ora con la Nato per «contribuire alla sicurezza della regione».
Il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell’attacco israeliano a Gaza, la Nato ratifica il «Programma di cooperazione individuale» con Israele. Esso comprende una vasta gamma di campi in cui «Nato e Israele coopereranno pienamente»: controterrorismo, tra cui scambio di informazioni tra i servizi di intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni militari congiunte Nato-Israele; allargamento della cooperazione nella lotta contro la proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica potenza nucleare della regione, ha rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione).

La Nato «a caccia di pirati» nell’Oceano Indiano
Nell’ottobre 2008, un gruppo navale della Nato, lo Standing Nato Maritime Group 2 (Snmg2) attraversa il Canale di Suez, entrando nell’Oceano Indiano. Ne fanno parte navi da guerra di Italia, Stati uniti, Germania, Gran Bretagna, Grecia e Turchia. Lo Snmg2 è il successore della Standing Naval Force Mediterranean (Stanavformed), la forza navale permanente del Mediterraneo, costituita nel 1992 dalla Nato in base al «nuovo concetto strategico». Questo gruppo navale (il cui comando è assunto a rotazione dai paesi membri) fa parte di una delle tre componenti dello Allied Joint Force Command Naples, il cui comando è permanentemente attribuito a un ammiraglio statunitense, lo stesso che comanda le Forze navali Usa in Europa. L’area in cui opera lo Snmg2 non ha ormai più confini, in quanto esso costituisce una delle unità della «Forza di risposta della Nato», pronta a essere proiettata «per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo».
Scopo ufficiale della missione dello Snmg2 nell’Oceano Indiano è condurre «operazioni anti-pirateria» lungo le coste della Somalia, scortando i mercantili che trasportano gli aiuti alimentari del World Food Program delle Nazioni Unite. In questo «sforzo umanitario», la Nato «continua a coordinare la sua assistenza con l’operazione Enduring Freedom a guida Usa». Sorge quindi il dubbio che, dietro questa missione Nato, vi sia ben altro. In Somalia, la politica statunitense sta subendo un nuovo scacco: le truppe etiopiche, qui inviate nel 2006 dopo il fallimento del tentativo della Cia di rovesciare le Corti islamiche sostenendo una coalizione «anti-terrorismo» dei signori della guerra, sono state costrette a ritirarsi dalla resistenza somala.
Washington prepara quindi altre operazioni militari per estendere il proprio controllo alla Somalia, provocando altre disastrose conseguenze sociali. Esse sono alla base dello stesso fenomeno della pirateria, nato in seguito alla pesca illegale da parte di flotte straniere e allo scarico di sostanze tossiche nelle acque somale, che hanno rovinato i piccoli pescatori, diversi dei quali sono ricorsi alla pirateria. Nella strategia statunitense e Nato, la Somalia è importante per la sua stessa posizione geografica sulle coste dell’Oceano Indiano. Per controllare quest’area è stata stazionata a Gibuti, all’imboccatura del Mar Rosso, una task force statunitense. L’intervento militare, diretto e indiretto, in questa e altre aree si intensifica ora con la nascita del Comando Africa degli Stati uniti. E’ nella sua «area di responsabilità» che viene inviato il gruppo navale Nato.
Esso ha però anche un’altra missione ufficiale: visitare alcuni paesi del Golfo persico (Kuwait, Bahrain, Qatar ed Emirati arabi uniti), partner Nato nel quadro dell’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Le navi da guerra della Nato vanno così ad aggiungersi alle portaerei e molte altre unità che gli Usa hanno dislocato nel Golfo e nell’Oceano Indiano, in funzione anti-Iran e per condurre, anche con l’aviazione navale, la guerra aerea in Afghanistan.