mercoledì 30 giugno 2010

Comunicato di ECO dopo l'aggressione al Campidoglio

Ebrei contro l'occupazione: condanniamo l'aggressione avvenuta in Campidoglio
1 Rete ECO, Ebrei contro l'Occupazione, condanna l'aggressione subita da uomini e donne che manifestavano pacificamente sulle gradinate del Campidoglio da parte di un gruppo di persone che sventolavano bandiere israelianeCome ha scritto Alessandra Mecozzi, i manifestanti avevano un chiaro messaggio scritto sullo striscione" senza la loro libertà non saremo mai liberi". Hanno manifestato per «ricordare gli oltre 11 mila civili palestinesi ristretti nelle carceri israeliane, molti di loro senza possibilità di difendersi, il milione e mezzo di palestinesi rinchiusi nella Striscia di Gaza trasformata nella più grande prigione a cielo aperto esistente al mondo e per onorare i 1417 morti palestinesi dell'operazione Piombo Fuso», nonché «i 9 morti della motonave Marmara che trasportava aiuti umanitari per la popolazione di Gaza, uccisi dalle forze speciali israeliane il 31 maggio scorso». Il Comune di Roma ha sbagliato, non nel chiedere la libertà per il soldato Shalit, spegnendo le luci del Colosseo, ma nel non chiedere la libertà anche per i prigionieri palestinesi e per la popolazione di Gaza, ha sbagliato gravemente nel non ricordare le vittime dell'esercito israeliano. Del resto è proprio la madre del soldato Shalit che ha fatto un appello agli israeliani perché premano sul Governo per uno scambio di prigionieri!La faziosità dell'iniziativa al Colosseo, attivata dal Comune su richiesta della Comunità Ebraica, ha aperto la strada all'aggressione da parte del gruppo di giovani che, alla fine della manifestazione al Colosseo, si dirigevano verso il quartiere ebraico. L’aggressione dei giovani della Comunità non è un comune atto di teppismo, ma violenza fascista.E sventolare la bandiera israeliana, dopo aver preso a calci e pugni manifestanti pacifici e pacifisti, è disgustoso. L’utilizzo della Stella di Davide per azioni squadriste chiama in causa tutti gli ebrei. Da questo uso dissennato ci dissociamo e lo diciamo con forza.Il sindaco di Roma, Alemanno, anziché condannare gli aggressori fascisti ha mantenuto un silenzio complice; e la comunità ebraica romana non ha preso posizione contro i settori violenti e fascisti al suo interno. Questo non meraviglia, ma é una vergogna per l’ebraismo e la democrazia.

A PROPOSITO DELL'AGGRESSIONE ALLA RETE ROMANA

È davvero finita molto male la manifestazione per la liberazione del caporale israeliano Shalit, promossa dai movimenti giovanili «Benè Berith Giovani» e dall'Unione Giovani Ebrei Italiani (Ugei), presenti il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, il sindaco Alemanno, la Polverini per la Regione Lazio e Renato Zingaretti per la Provincia. Dove Alemanno ha tuonato dal palco: «Da quando il volto di Shalit campeggia sul Campidoglio gli ipocriti e i pacifisti a senso unico stanno lontani dalla piazza». Un retorica di parte, e nello stesso giorno di Gasparri e di Fini in visita in Israele, a malapena adatta a farsi perdonare un fastidioso dna fascista. È finita con l’aggressione fisica di un gruppo di giovani della Comunità ebraica a danno di quattro pacifisti della Rete romana di solidarietà al popolo palestinese e di due palestinesi - gli unici presenti -, Ahmed Abu Naga e Yousef Salman, medico pediatra e rappresentante in Italia della Mezzaluna rossa palestinese.

Proviamo a ripercorrere i momenti della tarda serata di giovedì. Quando, alle 23, le luci del Colosseo si sono spente per ricordare il caporale Gilad Shalit da quattro anni prigioniero di Hamas, abbastanza lontano, oltre via dei Fori imperiali e piazza Venezia, sotto la scalinata del Campidoglio i pacifisti della Rete di solidarietà con il popolo palestinese avevano avviato un piccolo presidio, non erano più di 40 persone per la maggior parte donne, con l’intenzione di accendere - mentre al Colosseo si spegnevano le luci per Shalit - lumicini di cera per non dimenticare gli undicimila prigionieri «amministrativi», tra cui molti giovani, bambini e donne, in carcere in Israele da anni nel silenzio della comunità internazionale. E per non dimenticare anche il blocco di Gaza, l’occupazione militare della Cisgiordania, il Muro, le espulsioni di famiglie arabe da Gerusalemme, la strategia di insediamenti ebraici che cancella lo Stato di Palestina. Quando all’improvviso è scattato l’agguato.

«Quando siamo arrivati - racconta Youssef Salman - erano quasi le 23, c’erano le camionette dei carabinieri, la Digos ecc. allora abbiamo deciso che per mandare il nostro messaggio era meglio la scalinata del Campidoglio per appoggiare le nostre candele. Avevamo appena cominciato ad accenderle, nessuno gridava o lanciava slogan. Io ero a metà della scalinata con una bandiera palestinese in mano, che mi sono saltati addosso, uno mi ha strappato la bandiera poi altri 4 o 5 sono arrivati su di me e mi hanno aggredito a pugni e calci. Tanti pugni e calci che non li ho contati più. Ferito, ho provato rabbia non per me ma perché vedevo questo gruppo di una quindicina di persone, molti con i caschi, prendere a calci e pugni le tante ragazze del presidio». E conclude: «Mi hanno fatto rabbia i titoli di alcune agenzie che hanno parlato di rissa. La rissa è almeno tra due che litigano, noi siamo stati semplicemente aggrediti. Del resto i feriti sono stati sei - anche gravi perché il giovane palestinese sarà operato allo zigomo fratturato nella zona maxillo facciale - e sono solo tra i pacifisti. Voglio aggiungere che dopo l’aggressione sono arrivati altri giovani e alla fine qualche rappresentante della comunità ebraica che a quel punto si presentava, voleva discutere. Poi sono tornati i picchiatori e solo a quel punto, dopo 20 minuti, la polizia si è messa in mezzo, nonostante fossero già schierati sulla piazza. La Comunità ebraica dovrebbe almeno scusarsi. E Alemanno non può comportarsi così: ha sempre parlato di voler ospitare una conferenza di pace sul Medio Oriente a Roma, città di pace, capitale d’Italia, del Vaticano. Dovrebbe essere neutrale, ma così non ha le carte in regola per una conferenza di pace. Io posso anche esprimere solidarietà umana alla famiglia di Shalit, soldato dell’esercito israeliano catturato in territorio occupato, ma ci sono 11 mila palestinesi da anni prigionieri e nessuno, tantomeno Alemanno, si muove per per la loro liberazione».

Tante le prese di posizione di solidarietà ai pacifisti aggrediti: da Un Ponte per... all’uffico internazionale della Fiom, da Sinistra e libertà che dà «solidarietà agli attivisti aggrediti», alla Federazione della sinistra e al Prc che con Nicotra invita il rabbino capo Di Segni ad «isolare i violenti». A proposito, piuttosto grave e incredibile la versione del presidente della Comunità ebraica, Riccardo Pacifici che prima ha denunciato «manifestanti ebrei aggrediti con insulti», poi si è rifiutato di scusarsi con l’aggredito Salman perché «saranno le forze dell’ordine a dire se chiedere scusa o no», invitandolo perfino ad andare insieme a Gaza a visitare Shalit. Ma si è guardato bene dal chiedere di andare a visitare gli undicimila palestinesi prigionieri in Israele.




http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/06/articolo/2967/

martedì 29 giugno 2010

La Croce Rossa sull'assedio di Gaza

SULLA ILLEGALITA’ DEL BLOCCO DI GAZA
La recente netta presa di posizione della Croce Rossa Internazionale sull'illegittimità della politica israeliana verso Gaza è un punto di svolta in diritto internazionale.

DI CHANTAL MELONI*

Gaza, 27 giugno 2010, Nena News - Blocco, blockade, oppure chiusura, closure, o semplicemente siege, assedio: queste sono le parole che si sentono ripetere per descrivere la situazione di Gaza. In verità nessuna è pienamente soddisfacente, specie da un punto di vista giuridico. Io stessa, in quanto ricercatrice di diritto penale in trasferta a Gaza, continuo ad essere in dubbio sulla terminologia da utilizzare quando ne parlo.

Blockade ha una accezione precisa in diritto internazionale: è uno strumento a cui gli stati possono ricorrere per privare il nemico dei rifornimenti militari in tempo di guerra. Di per sé non è illegittimo, ma deve essere strettamente limitato ai rifornimenti militari e finalizzato alla resa dell’avversario. Non è il caso di Gaza.

Ai palestinesi piace siege. Non mi stupisce: il linguaggio arabo è colorito, forte e descrittivo. A nulla è valso che io, arrivata dall’Italia con le mie piccole certezze giuridiche, abbia cercato di spiegare a quelli del centro palestinese per i diritti umani dove collaboro (peraltro fior di giuristi) che siege non è linguaggio tecnico. Ma oramai mi sono arresa. Con santa pace del linguaggio tecnico-giuridico, ho capito che la loro percezione della situazione è proprio di una Gaza sotto assedio, dove gli Israeliani puntano alla capitolazione dell’intero territorio nemico, a (ri)conquistare il controllo.

Io continuo a utilizzare closure più generico, ma proprio per questo adatto in riferimento a Gaza. Occorre però specificare: si tratta di “illegal” closure.

Il fatto è che, al di là delle parole che utilizziamo, è difficile descrivere la sostanza di quel che si vive a Gaza. Gaza è stata progressivamente isolata ed infine – dopo la presa di Hamas nel giugno del 2007 – chiusa, quasi ermeticamente. Da Gaza non si entra e non si esce. Immaginatevi una grande prigione a cielo aperto, dove la gente, completamente isolata – anche dal resto del territorio palestinese – è stata ridotta ai minimi termini esistenziali. I gazani non riescono più a lavorare perchè non hanno le materie prime, perchè manca la benzina, l’elettricità e l’acqua. Non si può commerciare, i giovani non possono uscire neanche per studiare, i malati non possono ricevere cure adeguate. I malati gravi sono costretti a passare per una complicatissima trafila burocratica per ottenere un permesso per curarsi all’estero, permesso che a volte arriva, a volte non arriva, a volte arriva troppo tardi.

Gaza è un’umiliazione quotidiana.

Per qualche giorno, dopo i tragici eventi del 31 maggio scorso e la morte dei 9 attivisti della flottilla umanitaria al largo di Gaza, l’attenzione su ciò che l’ONU ha definito l’insostenibile situazione umanitaria della popolazione di Gaza è stata altissima.

In questo clima di sdegno e di improvviso attivismo internazionale, tra commissioni di indagine internazionali invocate e la commissione di indagine-farsa istituita da Israele, la cosa forse più significativa che è accaduta è stata la pubblicazione di un breve report della Croce Rossa Internazionale (ICRC). http://www.icrc.org/web/eng/siteeng0.nsf/htmlall/palestine-update-140610. In un rarissimo e tempestivo comunicato del 14 giugno, l’ICRC ha senza mezze misure dichiarato il blocco di Gaza illegale, contrario al diritto internazionale e una forma di “collective punishment” dei civili (pratica vietata dall’art. 33 della IV Convenzione di Ginevra).

Ora, occorre sapere che quando la Croce Rossa parla è evento raro, eccezionale e per questo carico di significato. Si contano sulle dita di due mani o poco più, i report resi pubblici dalla ICRC in quaranta e passa anni di occupazione dei territori palestinesi. Una parola della Croce Rossa in materia di diritto umanitario vale oro; in un certo senso sono loro i guardiani delle Convenzioni di Ginevra, la loro interpretazione è massimamente autorevole. Per questo normalmente la Croce Rossa tace, per preservare la sua neutralità, proteggere i suoi contatti con entrambe le parti del conflitto, mantenere il dialogo aperto nello sforzo di ottenere ciò che poche altre organizzazioni riescono ad avere: contatti privilegiati e documenti confidenziali.

La netta presa di posizione della ICRC sull’illegittimità del blocco di Gaza è un punto di svolta in diritto internazionale. Quello che a livello locale già veniva denunciato da anni è stato finalmente autorevolmente confermato. Non solo che questo blocco di Gaza è illegale e rappresenta una forma di punizione collettiva della popolazione civile, ma anche che gli Stati e la comunità internazionale devono collaborare e prendere concrete misure per porvi definitivamente fine.

Non c’è alleggerimento del blocco che tenga. Il report dell’ICRC è chiaro sul punto: il blocco va eliminato in toto. Non si può avere una violazione “parziale” del diritto, non ci sono mezze misure ammissibili.

Per questo l’annuncio di Israele di domenica scorsa, che ha dichiarato che alleggerirà il blocco su Gaza ampliando la lista dei beni permessi è una mossa giuridicamente irrilevante, nonché pericolosa dal punto di vista dei palestinesi.

L’idea suggerita da Tony Blair e accolta da Israele, di passare da una esigua lista di merci permesse ad una di merci vietate è una mossa poco più che cosmetica che non porterà alcun significativo cambiamento per l’economia e la popolazione di Gaza.

Anzitutto la famosa lista delle merci permesse/vietate non è mai stata chiara (persino la sua esistenza è stata negata da Israele in più occasioni). Tanto meno è chiara la logica sottostante ai divieti. In verità è chiaro a chiunque esamini tali documenti che non c’è alcuna logica di sicurezza dietro alla lista dei beni vietati. Il cioccolato è vietato. Ok forse fa venire i brufoli, ma il suo uso per scopi terroristici sfugge. Il ketchup era vietato fino a settimana scorsa, come il coriandolo e la salvia. Ora, come prima conseguenza di questo alleggerimento del blocco, il ketchup può entrare a Gaza via Israele. Le capre però devono attendere, come i giocattoli, la frutta secca, i quaderni. Non c’era logica di sicurezza prima, non ci sarà dopo. E fatto salvo l’argomento sicurezza ogni proibizione diventa possibile.

Inoltre quel che serve a Gaza non è il ketchup e neanche il cioccolato. Qui serve il cemento, la benzina, i materiali da costruzione, le materie prime per la produzione. E su questo la proposta Blair-Israele non chiarisce affatto se e cosa cambierà rispetto a prima.

La stessa mancanza di chiarezza vale per le esportazioni da Gaza, totalmente vietate ormai da più di tre anni con la (poetica) eccezione di limitate quantità di fiori e fragole.

Soprattutto la recente proposta non chiarisce il punto fondamentale, ossia cosa ne sarà del diritto alla libertà di movimento, e quindi di tutta la serie di diritti umani fondamentali che ne conseguono, di più di un milione e mezzo di persone imprigionate a Gaza.

Si fa un gran parlare di tragedia umanitaria, di aiuti umanitari per Gaza. Ma la tragedia di Gaza non è misurabile semplicemente sul piano umanitario. É una tragedia sul piano umano. Non è una catastrofe naturale, non c’è stato alcun terremoto o uragano a Gaza. Qui non c’è la carestia, né sono arrivate le bibliche cavallette. La gente di Gaza non è stata colpita da un’epidemia di peste bubbonica, né è per altre ragioni inabile al lavoro. La popolazione di Gaza non è in cerca della carità di nessuno; ha il diritto di vivere una vita dignitosa, di lavorare e guadagnarsi da vivere. I giovani vogliono studiare e magari completare la loro formazione all’estero, per poi andare a lavorare.

La crisi di Gaza è una crisi indotta, fabbricata ad arte, orchestrata. La chiusura, il blocco, l’assedio, ha prodotto la crisi. E il blocco è illegale, contrario al diritto internazionale ed in violazione di una serie di diritti umani fondamentali. L’appello della Croce Rossa Internazionale è chiaro: non c’è altra soluzione sostenibile che la completa, immediata fine del blocco. Nena News

* Ricercatrice all’Universita’ Statale di Milano, specializzata in diritto penale internazionale. Al momento e’ a Gaza dove collabora con il Palestinian Centre for Human Rights.

lunedì 28 giugno 2010

Comunicato dell'ass. Amicizia italo-palestinese

Comunicato Stampa

dell’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus di Firenze



Per quanto è avvenuto nella tarda serata di giovedì 24 giugno 2010 a Roma, ai piedi della scalinata del Campidoglio, non è possibile trovare parole di condanna sufficientemente forti che siano in grado di censurare senza reticenze l’aggressione fascistoide compiuta da una squadraccia, costituita forse da elementi appartenenti alla comunità ebraica romana o a essa molto vicini, nei confronti di giovani dell’area del pacifismo filo-palestinese.



Mentre le luci del Colosseo venivano spente per ricordare il soldato israeliano Gilad Shalit, prigioniero nella Striscia di Gaza, altri lumicini di cera venivano accesi sulla scalinata del Campidoglio perché non venisse pretestuosamente rimosso dalla coscienza collettiva il fatto che pure oltre 11.000 prigionieri, questa volta palestinesi, stavano languendo da molti anni nelle carceri israeliane. Molti di loro sono civili reclusi in “detenzione amministrativa” – cioè senz’accusa e senza processo. Troppi i bambini e le donne, in patente violazione del diritto internazionale. Tutti accomunati di un’unica grave colpa: quella di essere palestinesi e di voler vivere liberi sulla terra che è stata sempre loro, anche se non c’è stato alcun Dio che l’ha promessa ai loro avi.

Forse per questa sfrontatezza, nessuno di loro, per quanto piccolo o innocente fosse, ha mai suscitato l’interesse o la pietà del sindaco Alemanno e dei tanti, bi-partisan, che gli si erano affiancati nella iniziativa unilaterale che si era conclusa con lo spegnimento delle luci del Colosseo.

Nel frattempo altre luci, ed in altro modo, venivano oscurate sulla scalinata del Campidoglio.

Alla presenza di carabinieri e della Digos, che sono rimasti a guardare, una quindicina di elementi fascistoiodi, alcuni dei quali protetti da caschi, inneggiando a Israele, hanno aggredito con calci e pugni due palestinesi, Ahmad Abu Naga e Salman Yousef, e le ragazze del presidio di solidarietà con il popolo palestinese che stavano disponendo i lumi accesi sulla scalinata.

Non si è trattato di una lite o di una rissa tra opposte fazioni, come diffuso subito dagli organi di stampa che ne hanno fatto la versione ufficiale, bensì di una vera e propria aggressione e la violenza usata è stata tale da portare al ferimento di sei persone e in modo abbastanza grave Ahmed Abu Naga.

Il presidente della comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici, che aveva avuto la spudoratezza di affermare che “manifestanti ebrei erano stati aggrediti con insulti”, si è rifiutato di denunciare la vera natura dell’aggressione e di condannare l’accaduto a nome della comunità ebraica di Roma, e di dissociarsi dalle forze fascistoidi che ne erano state responsabili.

Quanto avvenuto ai piedi del Campidoglio è solo l’ultimo episodio di violenza che aggressori filo-israeliani hanno praticato nei confronti di persone pacifiche che avevano partecipato a manifestazioni di condanna nei confronti dell’operato del governo israeliano.

Infatti, già nei primi giorni di giugno, di ritorno dalla dimostrazione di protesta per l’abbordaggio della Mavi Marmara che si era conclusa a Trinità dei Monti, c’era stata un’aggressione prima in via Barberini, a due donne palestinesi con bambini, poi in Largo Santa Susanna, a una coppia che era stata malmenata con caschi, calci e pugni da facinorosi fascistoidi filo-israeliani che avevano seguito in moto i manifestanti che stavano defluendo tranquillamente verso le loro case.

Fino ad ora, a quanto risulta, nessuno degli aggressori è stato individuato e denunciato agli organi competenti per le violenze commesse.

L’antisemitismo implicito, cieco e settario, di chi aggredisce con violenza coloro che criticano pacificamente l’attività politico-militare del governo israeliano per sostenere i diritti del popolo palestinese già sanciti e ripetutamente riaffermati dalle Nazioni Unite e dagli Organismi del Diritto Internazionale, non può e non deve rimanere impunito.

La comunità ebraica di Roma non può pretendere di garantirsi una presunta sicurezza trincerandosi dietro alla violenza di forze che nulla hanno a che fare con la loro cultura solo perché si dichiarano filo-israeliane, ma che riportano alla memoria, con il loro comportamento, il ricordo di un passato di tragedia.

Il sindaco Alemanno, da parte sua, dovrebbe ricordare che il destino del caporale Gilad Shalit è, ed è sempre stato, nelle mani del governo israeliano, il quale più di una volta si è rifiutato di effettuare uno scambio mettendo in libertà prigionieri palestinesi, nonostante l’intermediazione della Germania, che si era fatta garante per la ricerca di una soluzione definitiva e pacifica.

Dovrebbe capire anche che scatenare l’Operazione Piombo Fuso sulla Striscia di Gaza non è stato certamente il modo migliore perché il corpo di Gilad Shalit potesse venire restituito vivo. Tra i più di 1.400 cadaveri di coloro che vennero uccisi dalle bombe e dai proiettili israeliani avrebbe potuto esserci anche quello del giovane militare del quale ora richiede pretestuosamente la liberazione.

L’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus di Firenze conferma, perciò, la propria condanna per gli atti di aggressione e di violenza compiuti dai gruppi filo-israeliani contro coloro che hanno partecipato a manifestazioni a sostegno dei diritti dei palestinesi.

Dichiara la propria solidarietà al giovane Ahmed Abu Naga, al dr. Salman Yousef e a tutti coloro che sono stati aggrediti prima dai facinorosi fili-iraeliani, poi da una stampa incapace ormai di raccontare la verità dei fatti.

Denuncia la vigliaccheria di chi, in gruppo, aggredisce singoli indifesi, malmenandoli e terrorizzandoli, per negare loro il diritto di esprimere nella libertà il proprio pensiero.

Denuncia la connivenza mafiosa di chi protegge questi delinquenti e ne garantisce l’impunità, anche attraverso il travisamento e la mistificazione dei fatti accaduti.

Chiede che le istituzioni locali e nazionali non conservino un atteggiamento di assurda subordinazione nei confronti di Israele, sposandone sempre e comunque, qualsiasi sia il fatto accaduto, la posizione proposta dal suo governo, senza verificarne l’affidabilità e la validità.

Chiede alle istituzioni locali e nazionali il rispetto e l’applicazione del Diritto Internazionale ed Umanitario sempre e non solo quanto lo permette l’interesse e la real politik.

Chiede perciò l’adeguamento di tali istituzioni a quanto definito dalle Risoluzioni delle Nazioni Unite e del Tribunale Internazionale di Giustizia dell’Aja per il ripristino dei diritti negati del popolo palestinese e, con la loro attuazione, giungere infine alla realizzazione delle condizioni idonee all’instaurazione di una pace vera in quell’area del Medio Oriente.

Mariano Mingarelli
Presidente dell’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus di Firenze

Gli aiuti della flottiglia seppelliti con i rifiuti

Israele distrugge gli aiuti della Freedom Flotilla.

Scritto il 2010-06-24 in News

Gaza - Infopal. Le autorità d'occupazione israeliane continuano a trattenere gli aiuti trasportati dalle navi della Freedom Flotilla, attaccata in acque internazionali il 31 maggio con un'azione di pirateria condotta dalla Marina israeliana.

Israele ha esposto all'Onu la sua intenzione di consegnare gli aiuti alla Striscia di Gaza attraverso il valico di Kerem Abu Salim, nel sud della Striscia, senonché quegli aiuti non sono ancora arrivati alla gente che li aspetta.

Distruzione degli aiuti

Ma non basta. Secondo testimoni oculari tra gli abitanti del Negev, gli israeliani stanno distruggendo molti di questi aiuti.

Il cittadino A.M., residente nel Negev, ci ha contattato per riferirci che nei giorni scorsi gli occupanti israeliani hanno distrutto buona parte degli aiuti contenuti nelle navi rubate. Ciò sarebbe avvenuto a Duda'im, a sud di Rahit, nel Negev, dove gli aiuti sono stati sotterrati assieme ai rifiuti ordinari.

Pare infatti che decine di camion siano stati caricati con gli aiuti della Flotilla (carrozzelle elettriche, giocattoli, oltre agli effetti personali dei partecipanti che sono stati rubati dai militari), e tutto sarebbe stato gettato in una fossa scavata appositamente.

Un operaio del porto di Ashdod - dove sono state condotte con la forza le navi, dopo il massacro di vari partecipanti e il ferimento di molti altri - ha detto che sono state asportate le batterie delle sedie a rotelle. Le sedie sono state poi ammucchiate per poi essere distrutte.

Promesse mediatiche e basta

Hatim 'Uwaida, funzionario presso il ministero dell'Economia a Gaza e portavoce dell'Ente per i valichi, smentisce che gli aiuti siano stati portati a Gaza da parte di Israele, che adesso è solamente preoccupato di calmare l'opinione pubblica mondiale dopo l'atto di pirateria contro la Flotilla.

'Uwaida ci conferma che le voci secondo cui Israele ha distrutto la gran parte degli aiuti sono vere: "Anche in tv abbiamo visto svuotare e distruggere il contenuto delle navi della Flotilla, al porto di Ashdod, specialmente le carrozzelle e i giocattoli".

Pertanto il responsabile del ministero dell'Economia di Gaza, ribadendo il dovere di Israele, che era quello di consegnare gli aiuti, si è rivolto all'Onu: "Che fine hanno fatto le migliaia di tonnellate di materiali da costruzione, le medicine, le carrozzelle e le case prefabbricate?".

Avvertimento dell'Onu

Intanto l'Unrwa afferma che la crisi umanitaria a Gaza si sta aggravando sempre più e che anche con gli aiuti che dovessero arrivare essa non si risolverà. Bisogna, invece, che finisca l'embargo.

La situazione - sostiene l'Unrwa - non può andare avanti in questo modo, quindi le autorità d'occupazione devono aprire i valichi in maniera completa e permanente facendo entrare nella Striscia le merci e i materiali di cui la gente ha bisogno, specialmente quelli da costruzione per poter ricostruire ciò che è stato distrutto dall'aggressione israeliana della fine del 2008.

Israele, pochi giorni fa, aveva "acconsentito" all'ingresso nella Striscia di Gaza di materiali prima vietati col pretesto che verrebbero usati per fabbricare armi. Si tratta di merci come la marmellata, lo halawa (un dolce tipico mediorientale, ndr), la maionese ed alcune spezie, e piccole quantità di cemento e ferro per l'Unrwa.

La legge del più forte (o della giungla) trionfa

GAZA, NELL’OBLIO MORTI MAVI MARMARA
ANALISI – E’ passato meno di un mese dall’uccisione dei 9 attivisti turchi da parte dei commando israeliani e il governo Netanyahu si e' già messo alle spalle le critiche internazionali. L’«Intifada delle navi» pare già finita. Riprende bombardamento Gaza, due i morti palestinesi

Roma, 25 giugno 2010, Nena News – Sono rimasti delusi coloro che il 31 maggio, dopo il sanguinoso blitz israeliano contro le navi della Freedom Flotilla, credevano che l’accaduto avrebbe messo nell’angolo il governo di Benyamin Netanyahu costringendolo a revocare totalmente l’assedio che Israele mantiene da tre anni sulla Striscia di Gaza.

A meno di un mese dall’uccisione dei nove attivisti turchi sulla nave Mavi Marmara, Israele ha capito di essersi messo alle spalle anche questa crisi e di aver spento le critiche internazionali per la sua azione armata in acque internazionali contro un convoglio navale civile, assimilabile ad un atto di pirateria. Stati Uniti ed Europa, con l’Italia in testa, hanno ancora volta scelto di silurare il rispetto della legalità internazionale e di garantire allo Stato di Israele piena immunità. Lo stesso era accaduto dopo la devastante offensiva «Piombo fuso» (dicembre 2008 -gennaio 2009) e la presentazione del rapporto Goldstone sui crimini di guerra commessi da Israele nella Striscia.

L’Amministrazione Obama in sede di Consiglio di Sicurezza e del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, ha sabotato la possibilità di una inchiesta internazionale indipendente sulla strage del Mavi Marmara consentendo a Israele di formare una sua commissione – che, peraltro, non svolgerà indagini vere e proprie sull’uccisione dei nove cittadini turchi – che ha raccolto immediati consensi e applausi anche dal ministro degli esteri italiano Franco Frattini e dal Presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, in visita nei giorni scorsi in Israele. Quest’ultimo, difensore in Italia, almeno in apparenza, della Costituzione contro le picconate berlusconiane, in Medio Oriente ha abbracciato in modo acritico la posizione di Tel Aviv, tralasciando l’avvenuta gravisissima violazione di leggi e convenzioni internazionali.

A Benyamin Netanyahu è bastato annunciare – su suggerimento del suo consigliere occulto (ma neanche tanto), l’inviato del Quartetto Tony Blair – un alleggerimento del blocco di Gaza per soddisfare le blande pressioni giunte dall’Europa. E, su proposta del ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, Frattini presto potrebbe addirittura guidare una delegazione di ministri dell’Ue allo scopo di confermare la tesi israeliana: a Gaza non si muore di fame quindi l’assedio può andare avanti.

I morti del Mavi Marmara, tra i quali un ragazzo di 19 anni, sono già precipitati nell’oblio, dimenticati coscientemente da buona parte dei leader mondiali. E sotto l’urto dei pesanti avvertimenti israeliani (e americani), si è placata anche l’«Intifada delle Navi» mentre il premier turco Erdogan ha abbassato il tono delle accuse a Tel Aviv. Appena due settimane fa venivano date sul punto di salpare per Gaza almeno una dozzina di navi di vari paesi, in sfida al blocco navale imposto da Israele. Dal Libano, ad esempio, era attesa la «Mariam», una nave con a bordo soltanto donne. Dall’Iran la Mezzaluna Rossa annunciava la partenza di due imbarcazioni cariche di aiuti per la popolazione palestinese. Quelle navi sono improvvisamente scomparse, sparite di fronte alle «esigenze» della realpolitik e alla legge del più forte. «Non vogliamo che la questione degli aiuti a Gaza sia strumentalizzata – ha provato a giustificarsi Hossein Sheikholeslam, segretario generale della conferenza iraniana per il sostegno all’Intifada palestinese – perchè quello che ci interessa di più e prima di tutto è che il blocco sia sollevato. Invieremo aiuti con altri mezzi, senza che sia fatto il nome dell’Iran». Non desterebbe sorpresa perciò l’annuncio nei prossimi giorni della sospensione dei preparativi della Flotilla 2, da parte della Ong turca IHH.

E’ tutto alle spalle, tutto nella normalità. Il blocco di Gaza resta in piedi, incluso quello navale che pure l’Ue aveva chiesto a Netanyahu di revocare. E sono anche ripresi i bombardamenti aerei della Striscia. L’aviazione israeliana ha compiuto la scorsa notte quattro attacchi, a Jabaliya e Beit Lahiya e più a sud a Rafah, nei quali sono rimasti uccisi almeno due palestinesi, sorpresi dalle bombe all’interno di un tunnel sotterraneo tra Gaza e l’Egitto. Gravi i danni a diverse abitazioni. Il portavoce militare israeliano ha parlato di «risposta» al lancio di razzi artigianali palestinesi, gran parte dei quali però sono caduti all’interno del territorio di Gaza. (Nena News).

BOICOTTA ISRAELE

Solo un boicottaggio può convincere Israele
di Shani Ayala e Ofer Neiman

"Israele non cambierà a meno che lo status quo non abbia implicazioni negative" - queste parole sono state scritte dal giornalista Tony Karon, un Ebreo del Sud Africa. Questa frase rispecchia la logica dietro alla vasta campagna BDS – caratterizzata da sanzioni, boicottaggio istituzionale e disinvestimento – che ha iniziato a penetrare nella coscienza pubblica in Israele. Invece di una risposta difensiva, supponente, in linea con l'idea "il mondo intero è contro di noi", sarebbe meglio conoscere i dettagli della campagna e guardarsi allo specchio collettivo, che riflette le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale.
big-uk

L'attuale movimento BDS ha avuto originariamente inizio con un appello all'azione, lanciato nel 2005, e firmato da oltre 170 organizzazioni della società palestinese: i cittadini di Israele, i profughi in esilio e i palestinesi che vivono sotto l'occupazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. L'appello all'azione è stato pubblicato anche in ebraico e i cittadini di Israele sono invitati a dare il proprio sostegno. È per questo scopo che è stato fondato il gruppo israeliano "Boycott! Sostenere l'appello BDS palestinese dall'interno".

Il movimento BDS sviluppatosi in risposta all'appello palestinese d'azione non ha alcuna leadership formale centrale. Normali cittadini di tutto il mondo, tra cui molti ebrei, avviano iniziative e vi partecipano. L'obiettivo del movimento è quello di dimostrare a Israele il disgusto e il rifiuto della comunità internazionale per le sue azioni, in modo che Israele agisca per fare cessare immediatamente l'occupazione, porre termine alle discriminazioni contro i cittadini arabi di Israele, e riconoscere il diritto di ritorno dei profughi, in quanto formulato nella risoluzione 194 delle Nazioni Unite. Gli elementi di oppressione ai quali il movimento intende mettere fine corrispondono alla definizione giuridica del crimine di apartheid – la sistematica e istituzionalizzata separazione razziale, come avveniva un tempo in Sud Africa.

Il movimento non promuove alcuna specifica soluzione politica (uno stato o due, il ritorno di un determinato numero di rifugiati), ma piuttosto, si impegna a cambiare in modo nonviolento i rapporti di forza che rendono possibile per i governi israeliani di negare con la violenza i diritti fondamentali di milioni di persone, e di rinunciare alle loro responsabilità con dichiarazioni infondate ("il problema dei profughi è colpa degli arabi", "gli insediamenti sono legali", "non c'è nessun assedio su Gaza".)

Va sottolineato che il boicottaggio non è un boicottaggio personale contro gli israeliani ma, piuttosto, un boicottaggio delle istituzioni ufficiali israeliane e delle iniziative che si svolgono sotto il loro patrocinio. Quindi, per esempio, non c'è un appello per negare una ricercatrice israeliana il suo diritto a tenere lezioni all'estero. Invece, si fa appello contro lo svolgimento di conferenze internazionali nelle università israeliane che proclamano con orgoglio i loro legami con le istituzioni militari.

Israele viene ingiustamente bersagliato? Come è stato vero nel Sud Africa bianco, il mondo è giustamente sensibile a situazioni in cui una popolazione che gode di diritti civili determina il destino di un'altra popolazione, la quale non ha né diritti civili né il diritto di voto. La giustizia non è sempre una caratteristica delle relazioni internazionali, ma Israele gode di molti privilegi internazionali, come l'appartenenza all'OCSE. I cittadini di Cina, dove hanno luogo gravi violazioni dei diritti umani, non hanno mai avuto l'opportunità di esprimere una mancanza di fiducia nel governo che ha represso con la forza le manifestazioni studentesche del 1989. Al contrario, i cittadini di Israele esprimono il loro voto alle urne volta dopo volta per i partiti (compresi Kadima e Labour) e i governi sotto la cui amministrazione insediamenti sono costruiti, le persone sono torturate e detenute per anni senza processo, i cittadini inermi vengono uccisi, e le terre e le risorse idriche sono saccheggiate.

Tante persone in tutto il mondo chiedono, quindi, se ci siano buone ragioni per la normalizzazione dei rapporti con Israele. I portuali in Svezia e Norvegia, paesi che storicamente hanno avuto molto simpatia per Israele, si rifiutano di scaricare le navi container israeliane. Gli artisti chiedono perché fare spettacoli in Israele e rafforzare il senso di "business as usual", quando il fatto stesso del loro spettacolo sarà ritratto come un sostegno alla politica di Israele.

Un dibattito pubblico, profondo e di ampio respiro è necessario in questo momento, non solo sulla questione se il boicottaggio sia o non sia giustificato, ma sulla politica di Israele. Molti israeliani riconoscono gli atti odiosi fatti in nostro nome, sotto i nostri occhi. È giusto che una campagna efficace e nonviolenta contro queste azioni abbia il loro sostegno.

Gli autori sono attivi nel gruppo israeliano: "Boycott! Sostenere l'appello BDS palestinese dall'interno ".

Questo articolo è stato pubblicato originariamente in ebraico su Haaretz Online, 22 giugno 2010.

Tradotto dall'ebraico da Dena Bügel-Shunra, di Shunra Media.

Fonte in inglese: Jews Sans Frontieres

(tradotto dall’inglese da Stephanie Westbrook)

Ancora demolizioni a Gerusalemme

Demolendo case sulle orme di Re David
Il Comune di Gerusalemme ha approvato lunedì la demolizione di 22 case di famiglie palestinesi nel quartiere di Silwan a Gerusalemme Est.
di Barbara Antonelli



Il Comune di Gerusalemme ha approvato lunedì la demolizione di 22 case di famiglie palestinesi nel quartiere di Silwan a Gerusalemme Est. Ma le case a rischio sono 88. Per far posto al faraonico progetto del Giardino del Re, un parco archeologico con negozi, un centro di accoglienza turistico, gallerie d'arte e percorsi guidati.



Il sindaco Nir Barkat aveva varato il piano già mesi fa, per poi sospenderlo su richiesta del Primo Ministro israeliano Netanyahu che aveva proposto di consultare i residenti all'ultimo minuto. Lunedì il comitato di pianificazione e costruzione del municipio di Gerusalemme ha dato il via libera alla demolizione di 22 su 88 case palestinesi, nell'area di Al- Bustan, che Israele chiama Gan Hameleh o giardino del Re, perché qui sorgerà il King's garden, uno spazio archeologico a cielo aperto con negozi, gallerie d'arte, ristoranti, proprio sul luogo dove - secondo la tradizione biblica - Re David avrebbe scritto i salmi.
Poco più in là sorge già la Città di David, un'area archeologica visitata ogni anno da centinaia di migliaia di turisti, proprio ai piedi della città vecchia a pochi passi dal muro del pianto. La Città di David è situata nel cuore di Silwan ed è qui che i resti dell'antica Gerusalemme sono stati scoperti. Si dice che Re Salomone avrebbe costruito la cittadella sul picco più alto della collina. Nonostante alcuni scavi fossero stati iniziati dall'esploratore inglese Charles Warren a metà del XIX secolo, la Città di Davide è rimasta intatta fino al 1967, quando Israele occupando Gerusalemme Est ne ha preso il controllo. Elad, un'impresa immobiliare privata che per anni non ha voluto dichiarare chi fossero i nomi dei soci ne' dei fondatori, ha in gestione e finanzia la Citta' di David; sempre la stessa Elad dal 1991 ha iniziato ad acquistare proprietà nel quartiere arabo soprattutto a Wadi Helweh e Al Bustan (acquisendo dal Fondo nazionale Ebraico terra e proprietà trasferita nelle mani delle autorità israeliane per la legge sulla proprietà degli assenti), incoraggiando l'arrivo della presenza di famiglie ebraiche. Oggi a Silwan vivono circa 50.000 palestinesi contro circa 300 coloni ebrei.

Archeologia ad uso politico. "Chi controlla il passato, controlla il futuro, chi controlla il presente, controlla il passato", scriveva George Orwell nel 1984. Sfruttando l'archeologia, Elad ha tentato, riuscendoci, nel corso di tutti questi anni di riprendere il controllo dell'area e ristabilire una presenza ebraica. "Già soltanto denominando l'area "Città di David" si vuole dare l'idea che Silwan e la Città di David siano due aree separate", spiega Yonathan Mizrachi un archeologo israeliano che dal 2007 insieme ad altri archeologici propone tour alternativi a quelli organizzati dalla stessa Elad. "L'archeologia viene utilizzata per rafforzare l'identificazione del sito come appartenente esclusivamente alla tradizione ebraica. Inoltre perché se l'archeologia è un bene comune, e va preservato, c'è bisogno di torrette di appostamento, recinzioni e un tornello di sola uscita dal parco, senza che i residenti palestinesi possano liberamente accedere al sito?"

Da oltre 10 anni Elad porta avanti degli scavi sotterranei, con la scusa di "salvaguardare" resti archeologici. Scavi a porte quasi chiuse, i cui risultati scientifici non sono stati finora resi pubblici e che sarebbe impossibile condurre senza la connivenza del governo israeliano e dell'autorità per le antichità. Anche l'organizzazione indipendente israeliana Ir Amin ha dichiarato, che "Elad è ufficialmente un'organizzazione privata che agisce come braccio del governo israeliano". In una intervista su un settimanale israeliano, un portavoce di Elad ha affermato: "Portiamo qui i nostri soldati, cosi possono capire quello per cui combattono."

I turisti che Elad porta alla Città di David sui grandi bus del Fondo Nazionale Ebraico, entrano dall'ingresso principale, percorrono a piedi il tunnel sotterraneo di Hezekiah e sbucano dall'altra parte dove i bus sono di nuovo ad attenderli. Lontani anche dal ragionevole dubbio che accanto alla Città di David possano vivere 50.000 residenti palestinesi.

Tensioni a Silwan. I 600 metri di tunnel sotterranei scavati con i finanziamenti di Elad, corrono sotto le case palestinesi e si sono avuti crolli strutturali in alcune case dei residenti, inclusi i muri di un kindergarten. L'area di Silwan, già negli ultimi mesi, è stata scenario di tensioni e non solo per i crolli strutturali delle case palestinesi e le demolizioni di strutture precarie, ad opera del comune. Lo scorso 25 aprila una marcia di coloni oltranzisti avevano sfilato per le vie di Silwan, scortati dalla polizia e dall'esercito israeliano, per mostrare la sovranità ebraica sull'area. Più pacatamente intere famiglie di coloni da anni vivono nell'insediamento della città di David, ma rappresentano due facce della stessa medaglia. E della stessa politica mirata ad un processo di giudaizzazione del "Bacino Sacro", la valle appena fuori dalle mura della città vecchia.
Secondo il portavoce del municipio di Gerusalemme, il fatto che le case che verranno demolite sono soltanto 22 e non 88 come inizialmente previsto, rappresenta un buon compromesso e il sintomo che una soluzione e' stata trovata per tutti. Secondo il municipio le altre 66 abitazioni otterranno un permesso legale. Le 22 famiglie sfrattate invece potranno ricostruire le case altrove, ma al momento non è chiaro chi pagherà per queste ricostruzioni. Hajj Fahkri Abu Diab del comitato popolare di Silwan ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa: "Non gli crediamo, dicono solo 22 case ma sappiamo dai nostri avvocati tutti i dettagli del progetto. Perché se vogliono rendere legali 66 abitazioni, non lo hanno ancora fatto finora?"

Il patriota

“Il Patriota”

Che cosa vuole il patriota israeliano?Quale stato egli esattamente sogna prima di cadere addormentato la sera?In quale società egli spera mentre è immerso nella sua routine mattutina?

di Gideon Levy

Che cosa vuole il patriota israeliano? Quale stato esattamente egli sogna prima di cadere addormentato la sera? In quale società egli spera mentre è immerso nella sua routine mattutina? Incitazione, diffamazione e campagne di boicottaggio sono state lanciate da qui contro la Turchia, la Svezia, l’Alta Corte di Giustizia, B’Tselem, il Fondo Nuova Israele, i media, Richard Goldstone, Noam Chomsky, Elvis Costello, i Pixles, Ahmed Tibi, Hanin Zuabi, Tali Fahima, Barak Obama, Anat Kamm e il resto del mondo e anche un po’ contro il sottoscritto. Da queste campagne viene fuori una visione del mondo ipocrita, falsa e deprimente.



No, il patriota israeliano non è cattivo – gli hanno fatto solo il lavaggio del cervello ed è cieco.

Gli piacerebbe vivere in una democrazia – naturalmente vuole democrazia; dopo tutto, gli è stato insegnato a scuola che è una cosa buona, e si vanta in tutto il mondo che Israele è “l’unica democrazia nel Medio Oriente”. Ma è una democrazia senza la maggior parte dei suoi meccanismi. Si accontenta delle elezioni e del governo della maggioranza: la Maggioranza prenderà le decisioni e al diavolo la minoranza.

Il patriota israeliano vuole aprire il giornale e accendere la televisione per guardare che cosa sta succedendo nel mondo – ma solo in un mondo nel quale va tutto bene. Bene, se non l’intero mondo, almeno Israele, purché vada tutto bene. Egli vuole vedere un gran numero di partite del Campionato Mondiale di calcio, programmi di intrattenimento, un sacco di pettegolezzi e, la cosa più importante – solo buone notizie. Vuole solo commentatori che abbiano “posizioni contro” gli arabi e “colpiscano duro” quelli di sinistra o gli altri che odiano Israele e quelli che convocano scioperi su Gaza, gli Hezbollah, l’Iran, Istanbul e così via.

E’ un uomo di pace, il patriota, ma vuole pure una guerra ogni due o tre anni e vuole che anche i media lo affermino. In realtà non vuole sapere che cosa è successo durante l’Operazione Piombo Fuso, e che cosa pensa di noi il mondo – che ci odia – e perché. Non vuole sapere che cosa sta succedendo nei territori, tra la povera gente, non abbiente e sotto torchio.

Ma, meraviglia delle meraviglie, lui si sente svuotato, dove corre? Ai giornali e alla Tv, che ama detestare. Ma ama detestare anche quelli di sinistra dell’Alta Corte di Giustizia, ma al momento in cui ha una qualsiasi preoccupazione, a chi si rivolge? Al tribunale, naturalmente.

Il patriota israeliano vuole chi il mondo lo ami senza condizioni e senza limiti. Eppure, allo stesso tempo vuole ignorare l’intero mondo e si infrange con sdegno sulle sue istituzioni, convenzioni e leggi. Egli vuole con la Turchia un’offerta tutto compreso, globale, ma che non comprende lo stare ad ascoltare ciò che ha da dire la Turchia. Vuole disseminare Gaza di fosforo bianco e pretendere che il mondo reciti, come fa lui stesso, che è pioggia bianca. Vuole che le Nazioni Unite impongano sanzioni all’Iran, ma disattendano dall’applicare le stesse risoluzioni in riferimento a Israele. Vuole qui un regime a metà iraniano, ma descritto su tutte le guide turistiche come liberale.

Secondo il patriota israeliano, il mondo è costituito solo, di fatto, dagli Stati Uniti – ma anche allora solo fino ad un certo punto. Pure l’America di Obama sta cominciando a diventare sospetta. Il patriota vuole che l’America paghi il conto e stia zitta. Vuole che il mondo ebraico contribuisca con denaro, ci abbracci, venga qui in massa con il programma Taglit – Diritto di nascita. Ma se J Street, JCall, Goldstone o Chomsky si alzano fra gli ebrei, si affretterà a tacciarli di anti-semiti. O sono con noi o contro di noi, perfino gli ebrei.

Vuole una Knesset che rappresenti il popolo, intendendo il tipo di gente uguale a lui – senza Ahmed Tibi e Hanin Zuabi, preferibilmente del tutto priva di arabi, e se dobbiamo, allora solo Ayoob Kara. Permettiamo loro di viaggiare oltremare per sdraiarsi su tombe Tzadik, ma solo in comunità ebraiche, non in Libia. Facciamoli combattere per liberare il soldato rapito Gilat Shalit, ma non le miriadi di prigionieri del loro stesso popolo.

Shalit? Il patriota israeliano vuole il suo rilascio, anche tutti gli israeliani lo vogliono, ma non a qualsiasi condizione in cambio della liberazione di terroristi. Egli pure vuole ONG nei dintorni e donazioni che arrivano dall’estero, ma solo per le sinagoghe e per gli ospedali. E, soprattutto, vuole proteggere incondizionatamente i soldati e i comandanti israeliani. Essi devono rimanere esenti da ogni critica. Hanno ucciso a Gaza due donne che sventolavano una bandiera bianca? Hanno sparato a Gerusalemme ad un autista a distanza ravvicinata? Hanno ucciso – forse senza che ce ne fosse la necessità – dei turchi su una flottiglia? Chiunque faccia riferimento a fatti di questo tipo è un traditore.

Questo è il paese impossibile del patriota. E’ in dubbio se egli è felice perfino di viverci. Allora quando si deciderà a criticare il suo amato paese? Nell’ingorgo di un traffico senza fine, in una fila interminabile, e naturalmente, quando le Forze di Difesa Israeliane non stanno uccidendo a sufficienza. Qualche altra critica? No, grazie, io sono un patriota.

(tradotto da mariano mingarelli)

Altro che alleggerire l'assedio!

”Il Piano Blair-Netanyahu protegge Israele”
di Nabeel Shath

Ramallah, 21.06.2010

Il responsabile del dipartimento delle relazioni internazionale di Al Fatah, Nabeel Shath, ha criticato duramente il piano Blair-Netanyahu, per alleviare l’assedio sulla Striscia di Gaza, affermando che “il piano serve a proteggere Israele dalle pressioni internazionali, come è esplicitato nell’introduzione dello stesso piano”. Questo in particolare dopo le crescenti critiche allo stato occupante per il crimine commesso contro la flottiglia della libertà nelle acque internazionale del Mediterraneo.



Shath ha chiesto “la fine dell’assedio sulla Striscia di Gaza, in quanto esso rappresenta un crimine di guerra e viola il diritto internazionale”. Da tre anni, infatti, questo assedio colpisce solo i figli del popolo palestinese.

Citando il rapporto della Croce Rossa Internazionale - dove si affermava che l’assedio non era solo per vietare il cibo e le medicine, ma per distruggere l’economia palestinese in Gaza – ha sottolineato come un evidente risultato di questo assedio sia il furto di un terzo della terra agricola a Gaza, che Israele chiama “zona cuscinetto”. Inoltre Israele ha distrutto quel poco della produzione agricola esistente vietando l’ingresso di concimi e diserbanti. Come se non bastasse le conseguenze dell’assedio hanno lasciato il terreno pieno di veleni, hanno distrutto l’industria, vietando l’arrivo di nuovi macchinari o i pezzi di ricambio, o ancora le materie prime, comprese quelle per l’industria tessile che costituiva parte importante delle esportazione di Gaza. Infine l’embargo ha permesso l’esistenza del solo commercio dei tunnel, nelle mani di pochi speculatori che di proposito limitavano le quantità delle merci.

Shath ha poi aggiunto che “alleggerire” l’assedio in questo modo significa la permanenza del totale controllo israeliano sui nostri valichi, al contrario questo andrebbe trasferito sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese e degli osservatori internazionale. Shath ha anche respinto l’idea di vietare le merce di “doppio utilizzo”, in quanto in questo modo si dà a Israele il diritto di proibire arbitrariamente qualsiasi cosa con il pretesto “della sicurezza”, il che nella pratica significa la permanenza dell’assedio in modo legalizzato.

A questo proposito il capo della diplomazia palestinese si domanda: quando mai Israele ha giustificato che il coriandolo, la maionese, o il katchup sono merce di doppio utilizzo? Le conseguenze di questa situazione, ha detto Shath, non sono accettabili, per la mancanza di qualsiasi controllo su cosa Israele permette di fare entrare e cosa no.

La ricostruzione dopo la distruzione del 20% delle case di Gaza nella bieca guerra israeliana contro Gaza rimane senza soluzione, questo perché il nuovo piano non permette l’ingresso del cemento, del ferro, del legno e del vetro; se non per i progetti controllati dall’Onu e sempre dopo l’approvazione israeliana.

Infine Shath, considera “il piano Blair-Netanyahu nient’ altro che una legalizzazione dell’assedio, per rendere accettabile la brutta faccia dell’occupazione e sgonfiare la pressione internazionale dopo il crimini israeliano contro la flottiglia della libertà.

Shath ha rivolto un appello alla Comunità internazionale: rifiutare l’iniziative e le proposte che non mettono totalmente fine all’embargo. Un appello che rafforza quanto precedentemente affermato anche dal presidente Abbas , dal comitato esecutivo dell’Olp e dal consiglio dei ministri dell’Anp, che avevano respinto l’idea dell’alleggerimento dell’assedio, insistendo sulla necessità di porre fine a questo crimine mettendo realmente fine ad un embargo illegale.

Dipartimento Relazioni Internazionali / Fateh

Comunicato dell'ass. AMLRP dopo l'aggressione squadrista e le menzogne dei giornali e della comunità ebraica

L’Associazione Amici della MR Palestinese esprime piena solidarietà ai pacifisti aggrediti e picchiati la notte del 24 giugno da teppisti, sedicenti ebrei del BBG e dell’UGEI,
ed esprime:
- seria riprovazione per quei giornali che hanno parlato di “rissa”, giustificando con una menzogna i teppisti e facendosi loro complici;
- disgusto per le bugie e le dichiarazioni palesemente infami e intenzionalmente infamanti uscite dalla bocca dei rappresentanti della comunità ebraica i quali, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, avrebbero affermato che i manifestanti filo palestinesi erano armati di catene e coltelli, dimostrando così di aver fatto proprio uno stile comportamentale di cui ogni comunità democratica, soprattutto se storicamente vittima di bugie, dovrebbe vergognarsi;
- apprensione per i nostri amici Francesco e Ahmed, quest’ultimo attualmente ricoverato al CTO e in procinto di essere trasferito al San Giovanni per essere operato al maxillo facciale a causa delle percosse subite dagli squadristi antipalestinesi;
- pieno sostegno a Yousef Salman, medico pediatra, delegato italiano della Mezzaluna Rossa e vicepresidente della nostra Associazione, il quale porterà per molti giorni i segni dei pugni e dei calci ricevuti e che chiede con forza le scuse ufficiali e il distinguo dall’azione squadrista da parte dei rappresentanti della Comunità ebraica e dei Rappresentanti istituzionali;
L’Associazione Amici della MR Palestinese, per la sua natura statutaria e per la sua peculiare attività di tipo umanitario, ritiene che solo l’aperta condanna di un’azione tanto indegna e le scuse ufficiali di chi rappresenta quella Comunità nel cui nome i teppisti hanno agito, possa consentire un possibile dialogo. In assenza di ciò ogni richiesta di apertura è da considerarsi strumentale, faziosa, profondamente offensiva e, quindi, inaccettabile.

Associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese



pres@palestinamezzalunarossa.org
Patrizia Cecconi - 338.2218134

giovedì 24 giugno 2010

Alemanno devi spegnere il Colosseo almeno per 7.500 notti!!!

Mentre giungono da Gaza notizie terribili, questa dalla bacheca di Vittorio Arrigoni
"Ultima ora: Saber al telefono da Beit Hanoun, conferma l'invasione israeliana a Nord della Striscia: 4 jeeps, 10 carriarmati e 4 bulldozers all'interno di 800 metri i confini palestinesi stanno distruggendo ettari di terreni coltivati. La Resistenza sta cercando di fronteggiare l'invasione". Altro che alleggerire o eliminare l'assedio, e mentre Gaza continua a soffrire nell'indifferenza generale dei potenti, Alemanno si preoccupa di Shalit, un solo uomo vale più di 8mila palestinesi imprigionati da Israele con arroganza e ferocia. Il calcolo nazista che un nazista vale 10 uomini è stato largamente superato!!! Vergogna vergogna vergogna!!!!!

comunicato stampa

I prigionieri palestinesi attualmente nelle prigioni israeliane sono circa 7.500. 37 sono donne, 15 deputati del Consiglio Legislativo (Clp). Tra queste cifre ci sono anche i bambini palestinesi detenuti da Israele: sono 330. 5.000 sono i prigionieri palestinesi perseguiti e condannati: 790 stanno scontando pluriergastoli. 1.900 sono i detenuti senza condanna perché, nella maggioranza dei casi, senza alcuna accusa. I palestinesi in detenzione amministrativa sono 290 dall’inizio del 2010. 9 palestinesi, provenienti dalla Striscia di Gaza, sono stati sottoposti alla "Legge del combattente illegale". Questa sera l'amministrazione comunale di Alemanno, subalterna come sempre alla lobby filo-israeliana, farà spegnere il Colosseo per ricordare un solo detenuto: il soldato israeliano Shalit, un militare catturato in zona di guerra e prigioniero da quattro anni nella Striscia di Gaza. Il Colosseo - per senso di elementare giustizia - dovrebbe allora rimanere spento tutte le notti da oggi per almeno venti anni, tanti sono i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane da anni.

Roma, 24 giugno

Il Forum Palestina

mercoledì 23 giugno 2010

LA VERA FLOTTIGLIA DELLE MENZOGNE

UNA FLOTTIGLIA CHE PARTE DA MANHATTAN IN AIUTO A ISRAELE? E DA QUANDO ISRAELE HA BISOGNO DI AIUTI PER ESSERE STATA MESSA SOTTO ASSEDIO? E COSA trasportera' questa flottiglia? Forse cemento o giocattoli o pasta o carta per i quaderni dei bambini israeliani a cui qualcuno proibisce di averne? I promotori dell'iniziativa a quanto pare non temono il ridicolo. Evidentemente le navi di questa flottiglia non trasporteranno niente altro che menzogne e disinformazione e propaganda israeliana.Una vera provocazione contro ogni verità, giustizia e legalità.Avranno la faccia tosta di passare davanti all'ONU, per ribadire forse che Israele pur essendo l'unico stato avallato da una risoluzione dell'Onu è anche l'unico stato che ne ha disatteso 74.

PARTE DA MANHATTAN LA FLOTILLA DI ISRAELE
Cipro fa sapere che non aprira' i suoi porti alle imbarcazioni pacifiste libanesi. Domenica salpa per Gaza nave indonesiana

Roma, 23 giugno 2010, Nena News – Partirà da Manhattan, anche per confermare i legami stretti tra Israele e Stati Uniti, la flotilla filo-israeliana intenzionata a contrastare, almeno mediaticamente, le navi pacifiste che tentano, per ora invano, di superare la Marina da guerra israeliana e di arrivare al porto di Gaza city per portare aiuti e solidarietà politica alla popolazione palestinese sotto embargo da tre anni. Ad organizzare e finanziare la «flotilla anti-flotilla», che porta il nome di «True Freedom Flotilla», la «vera» flottiglia della libertà, è stata la Conferenza dei presidenti delle principali organizzazioni di ebrei americani.

Le quattro imbarcazioni, di grosse dimensioni e tutte a vela, passeranno davanti alla Statua della Libertà e all’Onu e, stando a quando dichiarano i promotori, trasporteranno centinaia di persone. Obiettivo ufficiale dell’iniziativa sarebbe quello di lanciare un appello per il rilascio del caporale Gilad Shalit, catturato esattamente quattro anni fa da un commando palestinese e da allora prigioniero a Gaza. Nei mesi scorsi si era parlato di un accordo tra Israele e il movimento islamico Hamas per uno scambio tra detenuti politici palestinesi e Shalit che però non si è ancora materializzato. Domenica prossima invece salpa per Gaza una imbarcazione indonesiana organizzata dal Medical Emergency Rescue Committee, un team medico di pronto intervento formata da studenti universitari. Si tratta di una «pinisi», la barca a vela tradizionale indonesiana, con 10 passeggeri, che dovrebbe arrivare non prima di 20-30 giorni.

Israeliani ladri

FLOTILLA: NUOVE DENUNCE PER USO CARTE DI CREDITO CONFISCATE DA ISRAELIANI
Carte di credito, Iphones e cellulari confiscati sulla Freedom Flottilla usati in Israele mentre gli attivisti erano detenuti ad Ashdod o già deportati. Lo dicono gli estratti conto dei derubati.

Roma, 21 giugno 2010, (foto www.wordpress.com) Nena News – Già Manolo Luppichini, il giornalista italiano a bordo della Sfintoni 8000, una delle navi della Freedom Flotilla che il 31 maggio hanno tentato di rompere l’assedio di Gaza, aveva denunciato in un articolo apparso a metà giugno sul quotidiano israeliano Haaretz, che la sua carta prepagata, confiscata dalle autorità israeliane, era stata usata per acquisti a un distributore automatico a Tel Aviv e poi anche per un successivo acquisto al mercato di Gedera. Luppichini come molti altri, non solo si è visto requisire tutta la sua attrezzatura video, ancora nelle mani delle autorità israeliane, ma ha anche denunciato con una lettera recapitata a Natanyahu, Peres, Barak, Liebermann e all’ambasciatore israeliano in Italia, che le spese effettuate con la sua carta sono relative al periodo in cui era detenuto al porto di Ashdod e a dopo, quando cioè era stato già rispedito in Italia.

Ora secondo le denunce di molti attivisti, l’esercito ha usato carte di credito, Iphones e cellulari, tutto materiale confiscato nell’assalto compiuto lo scorso 31 maggio alla Freedom Flottiglia.

Il britannico The Guardian ha raccolto numerose testimonianze di attivisti che erano su diversi navi del convoglio che ha tentato di raggiungere Gaza. Al rientro in Inghilterra, Ebrahim Musaji, 23 anni di Gloucester, ha scoperto dal suo estratto conto bancario che la sua carta di credito è stata utilizzata per effettuare spese ad un distributore automatico di Tel Aviv, per un valore pari a circa 98 euro. Spese effettuate il 9 giugno. La stessa carta è stata usata per acquisti su un sito internet olandese il 10 giugno, per importi di 50 e 44 euro. Musaji ha bloccato la carta il giorno dopo essere rientrato in Inghilterra, il 7 giugno, nel suo caso la banca ha deciso di trattare le spese effettuate come spese fraudolente e quindi non gli verranno addebitate. Sempre Musaji ha anche rilasciato nell’intervista che il suo telefono cellulare, confiscato, è stato usato per brevi telefonate in Israele.

Una cittadina americana Kathy Sheets, ha denunciato al Guardian di essersi vista ritirare dal suo conto circa 1000 dollari per spese effettuate con la sua carta di credito in Israele a partire dal 6 giugno. Sia Musaji, che la Sheets che Luppichini erano tutti su navi diverse, il primo sulla Navi Marmara, la seconda su Challenger 1 e il terzo sulla Sfintoni-8000. Il che lascia presupporre che l’uso di carte di credito requisite, sia stata una pratica diffusa da parte dell’esercito israeliano, nel periodo durante l’arresto ad Ashdod e fino a quando le carte non sono state bloccate dai legittimi proprietari, al rientro nei rispettivi paesi di appartenenza.

Anche l’Hiphone di un altro attivista americano, David Schermerhorn, di Washington, è stato usato, secondo i dati raccolti da The Guardian.

Al momento, secondo le denunce e le testimonianze raccolte dagli attivisti, materiale tecnico (video e fotocamere, laptop, attrezzature elettroniche), carte di credito e effetti personali per un valore pari a circa 1 milione di sterline, sono ancora nelle mani delle autorità israeliane. Che non sembra avere ancora diffuso alcuna informazione sulla restituzione di tutto quello che è stato confiscato. Nena News

domenica 20 giugno 2010

IL VISITATORE "ILLEGALE"

A un palestinese basta poco per perdere la residenza a Gerusalemme. E diventare clandestino a casa propria, scrive Amira Hass.

Sapevo che il giudice avrebbe indossato una kippah, a indicare che è un ebreo osservante. È un colono, ed è quindi portato ad avere una mentalità di destra. Il giudice doveva decidere il destino di un palestinese di Gerusalemme, Imad Hammada.

Vent’anni fa Hammada era andato a studiare negli Stati Uniti, perché le università palestinesi erano chiuse a causa della prima intifada. Dopo essersi specializzato in nanotecnologia, è tornato nei Territori con la moglie e i figli.

Ma quello che è permesso agli israeliani è vietato ai palestinesi nati a Gerusalemme: se rimangono all’estero troppo a lungo o se ottengono la cittadinanza (come ha fatto Hammada), il loro status di residenti di Gerusalemme è revocato. Questo significa essere espulsi dal loro paese (e non poter vivere nella città dove sono nati!).

Il giudice continuava a definire Hammada un “visitatore illegale”. Cercando di contenere la rabbia, pensavo a quel che c’è dietro alla politica israe­liana: la volontà di svuotare Gerusalemme del ceto medio e degli abitanti più istruiti.

Mentre l’avvocata di Hammada contestava l’uso del termine “visitatore illegale”, mi sono chiesta se dovevo fare riferimento alla kippah. Naturalmente no. Anche se molti la indossano per una precisa scelta politica, non è così per tutti.

Il genero dell’avvocata, per esempio, porta la kippah ma partecipa alle proteste contro l’espansione degli insediamenti a Gerusalemme. E la portano anche molti altri attivisti antioccupazione.

Amira Hass è una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, e scrive per il quotidiano Ha’aretz (altri articoli di Amira Hass pubblicati da Internazionale).

DEPORTAZIONI

I palestinesi della Cisgiordania trasformati in profughi nel loro stesso paese
Giovedì 17 Giugno 2010 08:23 Mel Frykberg
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11/05/2010


Il giornalista Mel Frykberg racconta i casi delle prime vittime di un’ordinanza contro i cosiddetti “infiltrati” emessa dall’esercito israeliano in Cisgiordania; tale ordinanza potrebbe colpire migliaia di palestinesi che sono nati a Gaza, ma che si sono trasferiti anni fa per vivere in Cisgiordania, dove adesso si trovano le loro famiglie

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Diversi palestinesi hanno eretto una tenda di protesta nella terra di nessuno situata a nord della Striscia di Gaza, vicino al valico di Erez al confine con Israele, per protestare contro la loro deportazione dalla Cisgiordania occupata a Gaza, dove le autorità di Hamas gli hanno negato l’ingresso.

È possibile che altre decine di migliaia di palestinesi si troveranno in una situazione simile nel prossimo futuro. Ciò deriva da una nuova e radicale ordinanza militare israeliana che permette l’espulsione dei palestinesi o degli stranieri che secondo Israele si trovano in Cisgiordania illegalmente come “infiltrati”.

Fadi Azameh, diciannovenne di Hebron, nella Cisgiordania meridionale, è stato arrestato presso il suo posto di lavoro dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) alcuni giorni fa, e poi trattenuto brevemente in una base militare prima di essere espulso a Gaza.

Azameh è nato a Gaza, ma la sua famiglia ha lasciato il territorio costiero e si è stabilita in Cisgiordania 12 anni fa. Egli non era più tornato laggiù da allora.

Anche Ahmed Sabah, un prigioniero di 40 anni proveniente da Tulkarem, una città della Cisgiordania settentrionale, è stato deportato a Gaza dopo aver scontato un lungo periodo di detenzione in un carcere israeliano.

Sua moglie e suo figlio, che egli non ha più visto da quando il ragazzo era piccolo, sono stati informati che Sabah non avrebbe preso parte alla gioiosa riunione che essi avevano organizzato per lui, dopo che egli era già stato rilasciato a Gaza.

I due palestinesi si stanno rifiutando di abbandonare la tenda, e hanno invocato un intervento internazionale in merito al loro caso.

La autorità di Hamas, da parte loro, hanno affermato che non vogliono ammetterli a Gaza poiché ciò incoraggerebbe Israele a procedere con questa politica.

L’ordinanza contro gli “infiltrati” potrebbe colpire migliaia di palestinesi in Cisgiordania, che sono nati a Gaza – o quelli i cui documenti di identità sono stati emessi a Gaza – ma che si sono trasferiti anni fa per vivere in Cisgiordania, dove adesso si trovano le loro famiglie così come i loro luoghi di lavoro e di istruzione.

I documenti di identificazione palestinesi, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza, sono formalmente emessi dall’Autorità Palestinese (ANP), ma Israele controlla i registri dell’anagrafe e deve approvare la maggior parte delle modifiche, compreso il trasferimento da Gaza alla Cisgiordania.

Migliaia di altri palestinesi provenienti dalla Giordania e dall’estero, che si sono riuniti alle loro famiglie nei Territori palestinesi controllati da Israele, potrebbero essere colpiti da questa ordinanza.

Molti di coloro che sono originari della Giordania hanno sposato donne della Cisgiordania e si sono trasferiti nel territorio palestinese, dove successivamente hanno messo su famiglia.

Anche altri palestinesi con passaporti stranieri che hanno aperto un’attività, creando opportunità di lavoro in un’area in cui la disoccupazione resta sempre alta, rischiano la deportazione.

Rischiano di essere presi di mira anche i cittadini stranieri che non sono di origine palestinese e che non dispongono del visto israeliano.

Israele ha cercato di prendere severi provvedimenti contro gli attivisti stranieri filo-palestinesi e contro coloro che lavorano con le organizzazioni non governative.

I lavoratori stranieri delle ONG di stanza nei territori palestinesi si sono lamentati della difficoltà di ottenere il rinnovo dei loro permessi di lavoro e di soggiorno dalle autorità israeliane.

La nuova ordinanza militare di Israele si applica persino all’Area C della Cisgiordania, che in base agli Accordi di Oslo del 1993 ricade sotto il pieno controllo civile e militare dell’ANP.

I critici di Israele hanno sostenuto che Tel Aviv stia cercando di consolidare la spaccatura geografica e politica tra la Cisgiordania controllata dall’ANP e la Striscia di Gaza controllata da Hamas. Altri dicono che questo potrebbe essere un precedente per una pulizia etnica della Cisgiordania.

Gli israeliani dell’ala estremista di destra hanno appoggiato a lungo l’espulsione dei palestinesi dalla Cisgiordania in Giordania, la quale secondo loro è il “vero stato palestinese”.

Numerose organizzazioni israeliane e palestinesi per la difesa dei diritti umani hanno scritto al ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, chiedendo il rinvio dell’attuazione dell’ordinanza in attesa di “una seria ed aperta discussione sulla faccenda”.

Il gruppo israeliano per i diritti umani HaMoked afferma che la nuova ordinanza è intesa a fornire un meccanismo “che bypassi la Corte Suprema”, facilitando la deportazione in futuri casi analoghi.

“L’esercito deve presentare i candidati per la deportazione innanzi alla commissione entro otto giorni, mentre essi possono essere deportati senza controllo giuridico entro 72 ore. Allo stesso tempo, ai candidati per la deportazione non è permesso appellarsi alla commissione, e a nessun tribunale, durante questi otto giorni”, afferma HaMoked.

La Quarta Convenzione di Ginevra impone una proibizione totale della rimozione coatta dei civili dalle loro abitazioni. Infrangere questa proibizione è ritenuta un grave violazione della Convenzione.

Nel frattempo, aumenta costantemente il numero dei cittadini di Gaza che sfidano le “no-go zones”, le zone di sicurezza israeliane alle quali è vietato l’accesso lungo i confini di Gaza con Israele. Essi continuano ad essere feriti e uccisi nel momento in cui provano ad accedere ai loro terreni agricoli, molti dei quali sono situati nelle fertili zone lungo il confine.

Una decina di giorni fa, Ahmed Deeb, un ragazzo ventunenne di Gaza, è morto dissanguato dopo che i soldati israeliani gli avevano sparato a una gamba, lacerandogli l’arteria femorale con un proiettile “dum dum”, che al momento dell’impatto si frammenta all’interno del punto colpito.

La settimana precedente, anche la ventottenne cittadina maltese Bianca Zammit era stata colpita a una gamba mentre filmava una delle sempre più frequenti proteste nonviolente contro le auto-dichiarate “zone cuscinetto” di Israele.

In un altro incidente, in cui cittadini di Gaza sono morti mentre cercavano un modo per poter vivere, quattro operai che lavoravano ai tunnel sono stati uccisi, e altro sono stati ricoverati in gravi condizioni, nella parte meridionale della Striscia di Gaza, dopo che le forze di sicurezza egiziane avevano gettato esplosivi in alcune delle gallerie per il contrabbando che collegano Gaza alla penisola del Sinai.

A causa del paralizzante blocco economico imposto da Israele – in collaborazione con gli egiziani – all’enclave costiera, i tunnel rappresentano una fonte di approvvigionamento vitale dei generi di prima necessità di cui il territorio impoverito di Gaza ha un disperato bisogno.

Lavorare nei tunnel fornisce ai poveri di Gaza un mezzo di sostentamento, in un’area in cui la disoccupazione è dilagante.

Mel Frykberg è un giornalista australiano; è corrispondente dalla Palestina per l’Inter Press Service

sabato 19 giugno 2010

La nave delle donne (50)

GAZA: UNIFIL FERMERA’ LA MARIAM?
Israele da parte sua minaccia di usare la forza contro l'imbarcazione con a bordo 50 donne

Beirut, 19 giugno 2010, Nena News – Difficilmente bastera’ la «benedizione» della vergine Maria – alla quale si sono affidate con una preghiera nel villaggio di Maghdousha – alle 50 donne cristiane e musulmane, in maggioranza libanesi, che domani saliranno a bordo della nave «Mariam» e partiranno per la Striscia di Gaza, decise a rompere il blocco imposto da Israele. A fermarle potrebbero essere le navi da guerra dell’Unifil, la forza Onu stanziata in Libano, con il pretesto che la missione umanitaria della “Mariam” per la popolazione di Gaza potrebbe rappresentare una violazione della risoluzione Onu 1701, che ha posto fine all’offensiva israeliana in Libano nel 2006. Lo scrive oggi il quotidiano di Beirut as-Safir, che cita fonti dell’Unifil a New York. La minaccia appare concreta anche se il comando Unifil in Libano non ha confermato la notizia.

Il viaggio della “Mariam” sara’ in ogni caso ad alto rischio. Oggi il sito online del quotidiano di Tel Aviv «Haaretz» riferisce che l’ambasciatrice israeliana alle Nazioni Unite, Gabriella Shalev, ha inviato una lettera al Segretario generale Ban Ki-moon per avvertirlo che Israele userà tutti i mezzi possibili per impedire che «venga violato il blocco navale» di Gaza. Un riferimento fin troppo esplicito all’arrembaggio lanciato il 31 maggio dai commando israeliani alla nave turca «Mavi Marmara», della «Freedom Flotilla», e terminato con l’uccisione di nove civili turchi.

Israele già nei giorni scorsi aveva comunicato che riterrà un atto «ostile» l’arrivo di navi libanesi e iraniane a Gaza, perché «appartenenti a paesi nemici». Queste imbarcazioni «arrivano da Stati nemici e ciò significa che il loro trattamento sarà differente», aveva avvertito il portavoce del ministero degli esteri Yigal Palmor. Hezbollah ha più volte chiarito di non essere coinvolto nell’organizzazione delle navi dirette a Gaza – «per non fornire pretesti a Israele per attaccare il Libano» – ma il governo israeliano continua a puntare l’indice contro il movimento sciita.

«Siamo soltanto un gruppo di donne indipendenti che intendono rompere il blocco di Gaza», aveva precisato qualche giorno fa la principale organizzatrice della «Mariam» Samar Hajj. «La nostra iniziativa non è collegata con Hezbollah, anche se per noi è un onore appoggiare la resistenza», aveva aggiunto. L’attacco all’iniziativa delle donne tuttavia non arriva solo da Israele ma anche dalla stampa araba abitualmente schierata contro Iran, Siria ed Hezbollah. Il quotidiano kuwaitiano «al-Siyassah», ad esempio, ha scritto che Hezbollah avrebbe impedito alla nota cantante libanese Haifa Wahbe di unirsi alle donne della «Mariam» perché l’artista sarebbe «priva dei requisiti morali necessari per partecipare all’iniziativa a favore di Gaza». La notizia è poi risultata priva di qualsiasi fondamento.

Sempre dal Libano dovrebbe partire una seconda nave, la Naji al Ali, con un carico di aiuti umanitari. A bordo vi saranno alcune decine di passeggeri, tra i quali giornalisti ed europarlamentari.

Procede intanto la navigazione dalle due navi organizzate dalla Mezza Luna Rossa iraniana cariche di aiuti umanitari per la popolazione di Gaza. Anche in questo caso Israele ha minacciato di intervenire con forza contro imbarcazioni appartenenti ad uno «Stato nemico».Continua inoltre la preparazione della «nave ebraica», organizzata da pacifisti ebrei tedeschi in solidarietà con la popolazione di Gaza. I promotori hanno comunicato di aver ricevuto numerose richieste di partecipazione ed adesione. A metà settimana la Ong turca IHH ha annunciato di aver cominciato a preparare l’invio a Gaza, alla fine di luglio, di una nuova flotilla. (red) Nena News

Venti di guerra

Tel Aviv: aumentare i depositi. Dagli Usa bombe «Jdam» e altre munizioni dalla base italiana
Arsenali israeliani riforniti con le armi di Camp Darby
L'Arabia Saudita non permetterebbe ai bombardieri israeliani di attraversare il proprio spazio aereo per colpire i siti nucleari iraniani: lo ha dichiarato il principe Mohammed bin Nawaf, inviato di Riyadh a Londra, smentendo la rivelazione di qualche giorno fa dal Times. Cessato allarme, dunque? Tutt'altro. Nessuno a Washington ha smentito l'informazione, da fonte del Pentagono, che l'attacco israeliano ai siti nucleari iraniani è stato «pianificato in accordo con il Dipartimento di stato statunitense», e che è previsto un altro corridoio aereo, soprattutto per l'attacco a Bushehr, attraverso Giordania, Iraq e Kuwait. E, al di là delle parole, sono i fatti a dimostrare che i preparativi di un attacco all'Iran si stanno intensificando.
Il ministro israeliano della difesa Ehud Barak, in visita a Washington, ha ottenuto altre grosse forniture militari, in particolare bombe «Jdam» della statunitense Boeing. Si tratta di ordigni ad alto potenziale che, con l'aggiunta di una nuova sezione di coda a guida satellitare Gps, possono essere sganciate a 60 km dall'obiettivo su cui si dirigono automaticamente. Recentemente sono state dotate di un sistema a guida laser, che le rende ancora più precise. Sono state usate, scrive il giornale israeliano Ha'aretz, nella seconda guerra del Libano nel 2006 e nell'Operazione piombo fuso a Gaza nel 2008.
Barak ha chiesto inoltre a Washington di aumentare del 50% i «depositi di emergenza» che l'esercito Usa ha costituito in Israele dallo scorso dicembre, su decisione dell'amministrazione Obama. Come documenta Ha'aretz, essi contengono razzi, bombe, munizioni per aereo, veicoli corazzati e altri armamenti, che vengono catalogati al momento dell'arrivo per assicurare un «facile e rapido accesso da parte israeliana». Sicuramente, anche se non si dice, parte degli armamenti destinati ai «depositi di emergenza» arriva in Israele da Camp Darby, la base logistica dello U.S. Army: già da tempo, documenta Global Security, il 31° squadrone di munizionamento della base è responsabile anche di depositi situati in Israele, una sorta di succursale di Camp Darby che ha rifornito le forze israeliane per gli attacchi al Libano e a Gaza.
Tra quelle che gli Usa forniscono a Israele vi sono «testate pesanti penetranti», come le Blu-117 da una tonnellata, adatte per l'attacco ai bunker iraniani. Le stesse che da mesi si stanno accumulando nella base statunitense di Diego Garcia, nell'Oceano Indiano, dove sono stati trasferiti bombardieri B-2 capaci di penetrare le difese anti-aeree. Secondo Dan Plesch, direttore del Centro di studi internazionali dell'Università di Londra, «i bombardieri Usa sono già pronti a distruggere 10mila obiettivi in Iran in poche ore». E, dietro le dichiarazioni tranquillizzanti, l'Arabia Saudita sta potenziando i suoi 150 cacciabombardieri F-15 forniti dalla Boeing, con le più avanzate tecnologie che li rendono più efficaci negli attacchi notturni e pienamente interoperativi con le forze aeree Usa.
Manlio Dinucci

Razzismo in Israele

I panni sporchi, ora, si lavano in pubblica piazza. In mezzo a migliaia di poliziotti e decine di giornalisti. Sconcertati, i primi e i secondi, per la frattura in seno all’Ebraismo.

E così, la giornata più difficile di Gerusalemme (e di Bnei Brak, sobborgo di Tel Aviv), è passata senza molti incidenti. Ma con un po’ di paura e tante incognite. Circa centomila ebrei ultraortodossi hanno invaso ieri il centro della capitale per affermare il diritto dei genitori ashkenaziti di far studiare i loro figli in scuole o classi separate da quelle dei coetanei sefarditi. L’accusa è che i sefarditi siano di costumi più liberali, meno attaccati ai precetti religiosi e tendenti “alle deviazioni”.

Non è mancato neppure qualche vaticinio rivolto alla Corte suprema. Che, pochi giorni fa, ha invece sentenziato il contrario. Riaprendo così una vecchia ferita tutta interna allo Stato ebraico: il diritto divino contro il diritto umano. Un diritto, quest’ultimo, che circa 800 mila ultraortodossi (15% della popolazione) non riconoscono.

All’origine della protesta c’è il rifiuto di circa una sessantina di genitori haredim (gli ultraortodossi), dell’insediamento cisgiordano di Imanu’el, di onorare l’imposizione della Corte Suprema di far studiare nelle stesse classi di una scuola elementare non statale ragazze ashkenazite e sefardite. Gli ashkenaziti hanno preferito la sanzione del tribunale (due settimane di carcere a ogni genitore che si fosse rifiutato di onorare la sentenza). Oggi perciò si sono consegnati alla polizia per essere trasferiti in prigione. Mancano all’appello 22 donne e quattro uomini, ora ricercati dalla polizia.

I disagi provocati dalle frizioni tra ashkenaziti e sefarditi fanno emergere anche l’insofferenza della maggior parte della popolazione israeliana che da anni denuncia i privilegi e gli stanziamenti statali copiosi destinati agli ultraortodossi. Per non parlare dell’esonero dal servizio di leva. Tutte cose che, sostengono in molti, sono state ottenute in cambio di una pax politica alla Knesset.

Gli ultraortodossi, poi, sono importanti anche per una ragione geopolitica. La comunità haredim rappresenta più di metà degli abitanti ebrei di Gerusalemme. Numeri che potrebbero tornare utili nel momento in cui verrà messo in discussione, con i palestinesi, lo status della Città Santa.

E Bibi Netanyahu? Si è limitato a invitare le parti «a mostrare ritegno e mantenere la calma in un momento in cui grandi pericoli minacciano l’esistenza stessa di Israele».

lunedì 14 giugno 2010

SENZA PUDORE!

ISRAELE ATTACCA CAMPAGNA INTERNAZIONALE BDS
Proposta di legge prevede misure durissime contro chi promuove boicottaggio dello Stato ebraico.

Gerusalemme, 14 giugno 2010, (Nena News) – C’è anche la «pacifista» Tzipi Livni, ex ministro degli esteri e leader del partito di opposizione Kadima, tra i 26 parlamentari che hanno firmato la proposta di legge in discussione alla Knesset che prevede sanzioni durissime per tutti coloro promuovono la campagna BDS, di boicottaggio di Israele e delle colonie ebraiche in Cisgiordania.

La legge in discussione chiede il sequestro dei dazi doganali e l’Iva destinati ai palestinesi – che Israele raccoglie ai transiti di frontiera – in rappresaglia per il boicottaggio avviato dall’Anp di Abu Mazen delle merci prodotte nelle colonie ebraiche costruite da Israele nei Territori occupati palestinesi in violazione delle leggi internazionali. I fondi palestinesi sequestrati verrebbero dati come «risarcimento» alle aziende nelle colonie ebraiche colpite dal boicottaggio. E’ previsto anche la confisca di fondi palestinesi depositati nelle banche israeliane.

Ma la legge presentata alla Knesset vuole colpire anche quei gruppi israeliani che promuovono il boicottaggio di Israele in cooperazione con associazioni straniere e palestinesi. Un cittadino israeliano che verrà trovato «colpevole» di boicottaggio dello Stato sarà punito con una sanzione fino a 8.500 dollari e la possibile confisca dei suoi risparmi. I cittadini stranieri coinvolti nella campagna BDS verranno puniti con il divieto di ingresso in Israele per almeno 10 anni e non potranno svolgere alcuna attività economica nello Stato ebraico o aprire un conto bancario.

Secondo indiscrezioni le autorità israeliane stanno ora raccogliendo all’estero informazioni sulle associazioni e gli individui che promuovo il boicottaggio di Israele a livello internazionale.(red) Nena News

La perdita più grande di Israele

Faceva veramente impressione la vista di quella marmaglia con le bandiere israeliane che festeggiava con fischi e cori da stadio l'assassinio di 19 pacifisti che andavano a soccorrere una popolazione chiusa in un lager. La popolazione israeliana preda dell'esercito, della religione delle armi e della sopraffazione dell'altro, è veramente impazzita? Il loro cervello si è ristretto e contratto irreversibilmente? Viene da pensare che forse chi ha sofferto nei campi di sterminio e chi è davvero stato annientato non si trova più in Israele se non nei panni di pochi sopravvissuti che vivono nell'indigenza benchè Israele abbia preteso risarcimenti milionari. Molto ci sarebbe da riflettere sul comportamento dei sionisti che hanno fondato lo stato ebraico ai danni dei palestinesi. Quei palestinesi che a centinaia hanno combattuto contro il nazismo arruolandosi nell'esercito britannico. Ma mentre la brigata ebraica viene continuamente ricordata loro sono stati dimenticati.

La perdita piu' grande di Israele: il suo immaginario morale
Se un popolo che cosi' di recente ha sperimentato un'inumanita' cosi' inenarraibile non puo' capire l'ingiustizia e la sofferenza che stanno infliggendo le sue ambizioni territoriali, quale speranza c'è per tutti noi altri?
di Henry Siegman
11 giugno 2010

Dopo la sanguinaria interdizione Israeliana alla Gaza Flotilla, ho chiamato un amico di vecchia data in Israele per chiedergli dello stato d'animo nel paese. Il mio amico, un intellettuale e uomo gentile e generoso, è stato tuttavia per lungo tempo dalla parte degli integralisti Israeliani. Allora, ero totalmente impreparato alla sia risposta. Mi ha detto —con una voce tremante per l'emozione—che lo sfogo mondiale di condanna di Israele è una reminiscenza del periodo buio dei tempi di Hitler.
Mi ha detto che la maggior parte di Israele ha vissuto quel sentimento, con l'eccezione di Meretz, un piccolo partito Israeliano pacifista. “Ma a tutti gli effetti pratici ,” ha detto, “essi sono Arabi.”

Come me, il mio amico ha sperimentato di persona quegli anni oscuri di Hitler, essendo vissuto sotto l'occupazione Nazista, come molti dei cittadini Ebrei di Israele. Percio' sono rimasto sbalordito dall'analogia. Ha proseguito dicendo che i cosiddetti attivisti dei diritti umani sulla nave Turca erano in effetti terroristi e malviventi pagati per attaccare le autorita' Israeliane per provocare un incidente che screditerebbe lo stato Ebraico. La prova di questo, ha detto, è che molti di questi attivisti sono stati scoperti dalle autorita' con addosso diecimila dollari, “proprio la stessa somma” ha esclamato.

Quando ho incominciato ad andare oltre lo shock di questo cambiamento, mi ha colpito che l'evocazione del periodo di Hitler fosse attualmente un'analogia spaventosamente intelligente e bruciante, per quanto non nello stesso senso che il mio amico intendeva. Un millione e mezzo di civili sono stati costretti a vivere in una prigione all aria aperta in condizioni disumane per piu' di tre anni attualmente, ma a differenza dei tempi di Hitler, non sono Ebrei ma Palestinesi. I loro carcerieri, incredibilmente, sono sopravvissuti dell'Olocausto, o loro discendenti. Naturalmente, i reclusi di Gaza non sono destinati alle camere a gas, come lo erano gli Ebrei, ma sono stati ridotti a una esistenza degradata e senza speranza.

Non meno dell'80% della popolazione di Gaza vive sulla soglia della malnutrizione, dipendendo dagli aiuti internazionali per la sua alimentazione quoridiana. Secordo l'ONU e le autorita' Sanitarie Mondiali, i bambini di Gaza soffrono di stati patologici drammaticamente aumentati che colpiranno e ridurranno la vita di molti di loro. Questa oscenita' è una conseguenza di una politica Israeliana deliberata e attentamente calcolata mirante a impedire lo sviluppo a Gaza distruggendo non soltanto la sua economia ma la sua infrastruttura fisica e sociale mentre la sigilla ermeticamente dal resto del mondo.

Particolarmente raccapricciante è che questa politica sia stata la fonte di divertimento per alcuni dirigenti Israeliani, che secondo le notizie della stampa Israeliana hanno scherzosamente descritto come “mettere a dieta.i Palestinesi”. Anche questo è reminiscenza degli anni di Hitler, quando la sofferenza degli Ebrei divertiva i Nazisti.

Un'altra caratteristica di quel tempo buio sono state le assurde cospirazioni attribuite agli Ebrei da Tedeschi altrimenti intelligenti e colti. Tristemente, anche Ebrei in gamba non sono immuni da queste patologie. E' davvero concepibile che attivisti Turchi che si suppone siano stati pagati diecimila dollari a testa portassero con sé quel denaro a bordo della nave sapendo che sarebbeto stati presi in custodia dalle autorita' Israeliane?

Che persone intelligenti e dotate di senso morale, siano Tedesche o Israeliane, possano convincersi di simili assurditia' (un genere di patologia che affligge anche gran parte del mondo Arabo) è l'enigma che va al cuore del mistero di come anche le societa' piu' civilizzate possano cosi' rapidamente perdere i valori che dovrebbero avere piu' a cuore e regredire agli impulsi piu' primitivi verso l'Altro, senza neppure essere consapevoli che lo hanno fatto. Cio' deve sicuramente avere qualcosa a che fare con una deliberata repressione dell'immaginario morale che mette le persone in grado di mettersi nei panni dell'Altro. Pirkey Avot, una raccolta di moniti etici che fa parte del Talmud, indica: “Non giudicare il tuo simile fino a quando non sarai capace di immaginare di stare al suo posto.”

Naturalmente, perfino le politiche Israeliane piu' ripugnanti non sono neppure lontanamente paragonabili con quelle della Germania di Hitler. Ma le questioni morali essenziali sono le stesse. Come avrebbero reagito gli Ebrei nel confronti dei loro torturatori se fossero stati relegati a quel genere di esistenza che Israele ha imposto alla popolazione di Gaza? Non avrebbero visto gli attivisti per i diritti umani preparati a rischiare la vita per far venire la loro situazione all'attenzione del mondo come eroi, anche se essi avessero picchiato selvaggiamente i commandos che cercavano di impedire il loro tentativo? Gli Ebrei ammiravano i commandos Britannici che abbordavano e dirottavano navi che trasportavano emigranti Ebrei illegali in Palestina subito dopo la fine della II Guerra Mondiale, come la maggioranza degli Israeliani adesso ammira i commandos navali d'Israele?

Chi avrebbe creduto che un governo Israeliano e i suoi cittadini Ebrei avessero cercato di demonizzare e chiudere organizzazioni Israeliane per i diritti umani per la loro mancanza di “patriottismo”, e scacciare i loro simili Ebrei che hanno criticato l'assalto alla Gaza Flotilla come “Arabi,” carico di tutte le odiose connotazioni che la parola ha acquisito in Israele, non differenti da quelle che i Tedeschi che stigmatizzavano i loro concittadini che chiamavano gli Ebrei “Juden” (“Giudei”, ndt)? Gli attivisti Tedeschi della Rosa Bianca, soprattutto studenti dell'Universita' di Monaco, che osavano condannare la persecuzione Terdesca degli Ebrei (ben prima che incominciassero gli stermini nei campi di concentramento Tedeschi) venivano considerati anche “traditori” dai loro concittadini Tedeschi, che non hanno portato il lutto per la decapitazione di questi attivisti da parte della Gestapo.

E cosi', certo, c'è motivo per gli Israeliani, e per gli Ebrei in genere, di pensare a lungo e duramente al periodo buio di Hitler in questo momento particolare. Perché il significato della incidente alla Gaza Flotilla non si trova negli interrogativi suscitati sulle violazioni del diritto internazionale in alto mare, o addirittura su “chi ha assalito chi” prima sulla nave Turca, la Mavi Marmara, ma nelle piu' ampie domande sollevate sulla nostra condizione umana comune dalle politiche di occupazione di Israele e la sua devastazione della popolazione civile di Gaza.
Se un popolo che cosi' di recente ha provato sulla sua stessa carne disumanita' cosi' inenarrabili non puo' fare appello al suo immaginario per comprendere l'ingiustizia e la sofferenza che le sue ambizioni territoriali—e perfino le sue legittime preoccupazioni—stanno infliggendo a un altra popolazione, quale speranza c'é per tutti noi altri?

Henry Siegman, direttore dell'U.S./Middle East Project (Progetto USA/Medioriente, ndt), è professore visitatore per ricerche nel Sir Joseph Hotung Middle East Program , School of Oriental and African Studies, University of London (Programma per il Medioriente Sir Joseph Hotung, Scuola di Studi Orientali e Africani, Universita' di Londra, ndt). E' un ex Senior Fellow (Membro Anziano, ndt) sul Medioriente al Council on Foreign Relations (Consiglio per le Relazioni Internazionali, ndt) e, ancor prima, è stato direttore nazionale dell'American Jewish Congress (Congresso Ebreo Americano, ndt) dal 1978 al 1994.

Vanunu libero subito!

Mordechai Vanunu libero subito!



Il 23 maggio scorso Mordechai Vanunu, cittadino israeliano ed ex tecnico nucleare della centrale di Dimona, è stato condotto nuovamente in carcere, dopo aver scontato ingiustamente 18 anni di reclusione, 11 dei quali passati in isolamento.



Attirato con l’inganno in Italia dopo essersi rifugiato in Gran Bretagna, nel 1986 Mordechai Vanunu è stato rapito a Roma dai servizi segreti israeliani, sequestrato e portato con la forza in Israele, dove è stato processato ed arrestato per le sue dichiarazioni di accusa nei confronti dei progetti nucleari di Israele – che non ha mai voluto sottoscrivere il Trattato di non proliferazione - , e da allora è considerato un “traditore” ed un “nemico” dello Stato. Da anni ormai gli sono vietati contatti con cittadini palestinesi ed internazionali, nonostante abbia ripetutamente chiesto di poter lasciare il paese.



Noi, cittadini italiani e membri della società civile, chiediamo che venga finalmente fatta chiarezza sulle modalità che hanno permesso il rapimento di un cittadino straniero sul territorio nazionale italiano, e ne chiediamo l’immediata liberazione. Mordechai Vanunu ha già scontato sin troppi anni di isolamento e reclusione per non aver commesso alcun reato, se non quello di dire la verità sui progetti nucleari dello Stato di Israele.



Ci appelliamo quindi alle autorità competenti perché Mordechai Vanunu possa immediatamente tornare in libertà, e non gli siano inflitte ulteriori ed ingiuste vessazioni.



Luisa Morgantini

Già Vice Presidente del Parlamento Europeo

Associazione per la Pace
luisamorgantini@gmail.com
+39 3483921465


Indirizzi a cui inviare le email di protesta:


Ambasciata di Israele in Italia:

Consolato: cons5@roma.mfa.gov.il

Ufficio Culturale: cultura@roma.mfa.gov.il

Ufficio Stampa - Portavoce: press-coor@roma.mfa.gov.il

Ufficio Affari Economici: econo-sec@roma.mfa.gov.il

Ministro Consigliere: minister-sec@roma.mfa.gov.il

Ufficio Affari Politici e Relazioni Esterne: info-coor@roma.mfa.gov.il

Segreteria dell'Ambasciatore: amb-sec@roma.mfa.gov.il



Ministero affari esteri:

ttp://www.esteri.it/MAE/IT/Ministero/Servizi/Sportello_Info/DomandeFrequenti/FAQRichiestaInfo.htm

cdr@esteri.it

Molestie sessuali su minori palestinesi

CASI DI MOLESTIE SESSUALI SU MINORI PALESTINESI
Accade nelle prigioni israeliane. Lo denuncia è di Defence For Children International. Ogni anno arrestati 700 ragazzi palestinesi processati in gran parte per lancio di sassi.

DI BARBARA ANTONELLI

Ramallah, 13 giugno 2010, Nena News – Ogni anno Israele arresta in media 700 minori palestinesi e li processa nelle corti militari. La maggior parte dei ragazzi arrestati subisce intimidazioni, violenze fisiche, maltrattamenti, sia prima che durante l’interrogatorio. L’accusa, nella quasi totalità dei casi, è di avere lanciato pietre.

Su 100 testimonianze raccolte da minori tra i 12 e i 16 anni arrestati l’anno scorso, la ong Defense For Children International (DCI) ha scoperto che il 69% sono stati picchiati, bendati e ammanettati e l’81% costretti a firmare confessioni forzate. Sempre nel 2009, DCI ha presentato al Comitato contro la Tortura delle Nazioni Unite, un rapporto di oltre 150 pagine. Solo questo mese sono emersi nuovi cinquanta nuovi casi di maltrattamenti e torture su minori palestinesi da parte di soldati e polizia israeliana.

Nulla di nuovo. Da anni organizzazioni internazionali, israeliane e palestinesi denunciano gli abusi e i maltrattamenti su minori palestinesi da parte dell’esercito e delle autorità di occupazione: il verdetto è sempre lo stesso, l’uso del maltrattamento è non solo diffuso ma letteralmente istituzionalizzato. DCI ha raccolto un’infinità di testimonianze, di ragazzini presi a calci, picchiati, imbavagliati, tenuti a sedere in posizioni scomode, bendati, minacciati anche di morte. Una routine che si ripete. Le confessioni estorte illegalmente vengono poi usate come prove nelle corti militari.

Il nuovo dato sconvolgente che emerge però è il crescente numero delle molestie sessuali e delle minacce a sfondo sessuale. Da gennaio 2009 ad aprile 2010, DCI ha raccolto e presentato all’ONU 14 casi di minori tra i 13 e i 16 anni che hanno denunciato di aver subito molestie sessuali, durante l’interrogatorio e la detenzione.

«Mentre ero seduto a terra un uomo parlando in arabo si è avvicinato e mi ha costretto a seguirlo – ha raccontato un ragazzo palestinese di 15 anni, arrestato a casa sua alle 2 del mattino nel settembre del 2009 – Dopo aver camminato circa 20 metri, da sotto la benda che mi copriva gli occhi ho potuto capire che ci eravamo fermati vicino a una jeep dell’esercito. Mi ha chiesto perché tirassi pietre e bottiglie incendiarie (Molotov). Ho risposto che non lo faccio. A quel punto mi ha preso a schiaffi e ha cominciato a strizzarmi i testicoli cosi forte. Mi ha picchiato e ha ricominciato a stringere forte. Mi ha detto “Non te li lascio andare fino a che non confessi”. Alla fine non ho avuto scelta, ho detto che avevo tirato pietre».

Secondo la denuncia di DCI, strizzare i testicoli dei ragazzi arrestati e minacciarli di stupro al fine di estorcere confessioni è pratica comune tra i ranghi dell’esercito israeliano. Su 600 denunce presentate contro gli uomini delle forze di sicurezza, nessuna singola indagine è stata aperta e condotta, sottolinea DCI.

I minori palestinesi inoltre vengono interrogati in assenza di un avvocato o dei loro familiari e il 32% ha firmato confessioni scritte in lingua ebraica, che quindi non ha potuto leggere e comprendere.

Attraverso gli organismi delle Nazioni Unite, è stato chiesto a Israele di adottare almeno due misure base: che l’interrogatorio avvenga alla presenza di un avvocato o, in assenza di quest’ultimo, che venga registrato in audio o video. Riferendosi alle registrazioni, l’esercito ha risposto che non è in grado per ora di affrontare questa spesa economica.

Da anni si chiede anche la modifica dell’ordine militare 132 che sancisce i 16 anni come maggiore età nei Territori occupati, al posto del normale standard dei 18 anni usato nelle corti israeliane. L’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite ha risposto che secondo la legge giordana in vigore fino al 1967 (prima dell’occupazione di Israele sulla Cisgiordania) l’età adulta era fissata ai 16 anni e che modificare un sistema legislativo sotto occupazione è contro le regole del diritto internazionale. Difficile credere in questa motivazione dato che Israele si disinteressa sistematicamente di tutte le altre regole che normalmente viola sotto occupazione, prima tra tutte la costruzione delle colonie e il trasferimento della popolazione ebraica in territorio occupato militarmente. Nena News