giovedì 19 marzo 2015

"Macerie" recensione di Patrizia Cecconi

Recensione di “Macerie”, di Miriam Marino, ed. Città del Sole, 2014 Macerie.

Un romanzo doloroso e bello che riporta su carta la realtà palestinese. Un titolo pesante, proprio come le macerie di vite, di sentimenti, di diritti, di felicità e di bellezze violate che accompagnano quasi ogni pagina di questa storia dolorosa e bella. Una storia che ha per protagonista Tivka, adolescente israeliana che scopre di essere figlia di una donna palestinese. Inizia da questa scoperta sconcertante un percorso verso la verità fatto di decostruzioni e ricostruzioni che accompagnano la sua crescita fino a una consapevolezza che le renderà impossibile il ritorno nella famiglia israeliana di suo padre. Macerie che si sostituiscono alle certezze e che provocano disorientamento e dolore, ma anche entusiasmo e coraggio. Quel coraggio che è proprio dell’adolescenza, e che porta Tivka a riconoscersi con altri adolescenti che sanno lottare duramente come adulti, ma che sanno anche innamorarsi teneramente, nonostante il dolore che li avvolge. Come sempre nei suoi lavori letterari, Miriam afferra la realtà e la trasforma in una finzione narrativa che rende i personaggi - altrimenti schiacciati nel grigiore della cronaca - vivi nelle loro emozioni e capaci di coinvolgere il lettore fino a farlo soffrire d’indignazione o sorridere di tenerezza davanti alle espressioni di questa adolescenza che a dispetto di tutto ama la vita. Il volume si apre con l’agonia di un geco afferrato da una gatta. Un’agonia prolungata dalla pietà della protagonista, ancora bambina, che cerca di salvarlo. E’ casuale? O è forse una chiave di lettura? Certo, sapendo l’amore dell’autrice per gli animali e in particolare per gatti, resi addirittura protagonisti di alcuni suoi racconti struggenti, la domanda è pertinente, ma l’autrice non dà chiavi interpretative nello svolgersi del romanzo e quello del geco sembra soltanto un episodio che segnala la sensibilità di Tivka davanti al dolore dell’ altro. La stessa sensibilità che le farà fare una precisa scelta di campo, dapprima insieme al suo amico israeliano che si batte contro l’occupazione, poi del tutto interna alla società palestinese, reale vittima dello strapotere israeliano che nella famiglia paterna veniva esaltato come patriottismo. Il romanzo s’intreccia con circa dieci anni di eventi, segnati, quando più quando meno, dai drammi vissuti dal popolo palestinese e va a concludersi col massacro di Jenin del 2002. Anni che vedono nella vita privata di Tivka il fiorire di amicizie profonde e di inaspettati grandi amori e lo spegnersi di vite giovani e giovanissime per mano israeliana o per la disperazione di un dolore che non lascia scampo. Un romanzo doloroso e bello, fatto di storia vera, terribilmente amara, e di sentimenti delicati eppure forti come le piantine che i detenuti del carcere di Ansar 3, nel deserto, riescono incredibilmente a far crescere tra torture e privazioni imposte dai carcerieri israeliani. E come quelle piantine che sfidano il deserto e i carcerieri, riuscendo a crescere contro ogni perfida legge umana, così il romanzo si chiude con un’aspettativa di speranza nell’attesa che Jamal, il solo volto che ormai riesce a illuminare l’animo di Tivka, veda aprirsi le porte della prigione in cui è rinchiuso senz’altro motivo che quello di essere un palestinese che vuole la Palestina libera. Patrizia Cecconi – Marzo 2015 patriziacecconi2@gmail.com

giovedì 12 marzo 2015

L’Ucraina e la NATO-USA Connection


*
6 Marzo 2015

di *Antonio Mazzeo*

*Intervento all’incontro-dibattito “USA – NATO – Unione Europea: La
crisi ucraina e la ricostruzione del movimento contro la guerra”, Roma,
6 marzo 2015*

Per sostenere e “difendere” il regime fascista di Kiev,
l’amministrazione Obama e il complesso militare-finanziario-industriale
degli Stati Uniti d’America sono pronti a utilizzare i più micidiali
strumenti di guerra. A metà febbraio, Washington ha ribadito le proprie
intenzioni belliche di fronte ai partner europei e alla Russia di Putin,
rischierando a Spangdahlem (Germania) dodici aerei da attacco al suolo
A-10 Thunderbolt II e 300 aviatori del 355th Fighter Wing dell’US Air
Force, provenienti dalla base aerea di Davis-Monthan (Arizona). I
sofisticati velivoli hanno disseminato morte e distruzione in
Afghanistan, Iraq e Libia: sono armati con cannoni lunghi più di sei
metri, i GAU-8/ “Avenger” (vendicatori), in grado di sparare fino a
4.200 colpi al minuto. I proiettili di 30 centimetri contengono ognuno
300 grammi di uranio impoverito e riescono a perforare facilmente
blindati e carri armati. “I Thunderbolt opereranno per i prossimi sei
mesi congiuntamente ad altri velivoli da guerra della Nato
principalmente lungo le frontiere di Russia, Lituania, Estonia, Romania
e Bulgaria, ma potranno essere impiegati in caso di crisi anche nel
continente africano”, ha dichiarato il Dipartimento della difesa Usa.

Il trasferimento in Europa degli A-10 dell’US Air Force è stato deciso
nel quadro della cosiddetta “Operation Atlantic Resolve”, la missione
militare avviata dal Pentagono dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina,
e rientra nel Theater Security Package (TSP), il piano di sicurezza e di
“difesa attiva” che prevede la predisposizione di reparti di pronto
intervento nelle aree del pianeta ritenute “sensibili”. “Atlantic
Resolve è un’ulteriore dimostrazione della volontà degli Stati Uniti di
contribuire alla scurezza collettiva della Nato e supportare i nostri
partner in Europa orientale, alla luce dell’odierno intervento russo in
Ucraina”, ha riferito il generale Ben Hodges, comandante dell’Esercito
americano in Europa (USAREUR, US Army Europe).

Il piano statunitense di rafforzamento della propria presenza militare
in funzione anti-Russia prevede pure che ad aprile un imprecisato numero
di cacciabombardieri F-15C “Eagles” siano trasferiti dagli Stati Uniti
in alcune basi europee, sino ad oggi top secret. Sempre nel quadro
dell’operazione “Atlantic Resolve”, lo scorso mese di gennaio 75
velivoli da combattimento “Stryker” del 2° Reggimento di Cavalleria di
US Army sono stati schierati in alcuni paesi dell’est Europa per
partecipare a una serie di esercitazioni con le forze terrestri dei
partner Nato. Contemporaneamente, un centinaio di militari della IV
Divisione di Fanteria dell’esercito Usa di stanza a Fort Carson
(Colorado) sono giunti in Germania per coordinare in ambito alleato le
operazioni terrestri di “contenimento” della Russia sul fronte
orientale. A partire dal mese di marzo, oltre 3.000 militari del 1st
Heavy Brigade Combat Team, della 3rd Combat Aviation Brigade, della
Divisione d’artiglieria e della 3rd Infantry Division saranno distaccati
per non meno di tre mesi in Germania, Estonia, Lettonia, Lituania,
Polonia, Romania e Bulgaria. “Grazie a queste unità, il numero delle
esercitazioni con i nostri alleati nel quadro di Atlantic Resolve
aumenterà del 60% nel 2015”, ha spiegato il generale Tom Jones,
vicecomandante dell’US Air Force in Europa.

Nel 2014, il personale Usa assegnato alle basi dell’Europa orientale è
cresciuto di 3.000 unità, sommandosi così ai circa 67.000 militari già
presenti nel continente. In particolare, più di 400 tra militari e
dipendenti civili statunitensi sono giunti nella base di Mihail
Kogalniceanu, Romania, elevata a vero e proprio hub aereo per il
transito delle forze aeree Usa e Nato. Sempre in Romania si alternano
200 Marines Usa per partecipare ad esercitazioni e interventi marittimi
nel Mar Nero, nell’ambito della Black Sea Rotational Force 14 di US
Navy, attivata nel settembre 2014. Sei caccia F-15C e 150 avieri dell’US
Air Force sono stati trasferiti nel marzo 2014 in Lituania dalla base
britannica di Lakenheath per partecipare alla Baltic Air Patrol, la
missione Nato di pattugliamento e sorveglianza dello spazio aereo delle
Repubbliche baltiche e dell’Ucraina. Team dell’aeronautica statunitense
si addestrano a rotazione in Polonia dove dal novembre 2012 è attivo un
piccolo distaccamento aereo, la prima presenza in pianta stabile di
personale Usa in territorio polacco. Sempre in questo paese sono
periodicamente rischiarati i cacciabombardieri F-16 a capacità nucleare
provenienti dalla base Italiana di Aviano (Pordenone) e i velivoli cargo
C-130 “Hercules” impiegati in esercitazioni congiunte con le forze
armate polacche. Dal prossimo mese di aprile, altri tre velivoli C-130 e
un centinaio di avieri provenienti dalla grande base tedesca di Ramstein
giungeranno nello scalo aereo di Powidz. Il 24 luglio 2014, il
Comandante supremo delle forze Nato e Usa in Europa, generale Philip
Breedlove, ha chiesto al Pentagono di realizzare in Polonia un deposito
dove stoccare armi, munizioni ed equipaggiamenti militari “per
supportare il rapido dislocamento di migliaia di militari contro la
Russia”. Come se non bastasse, il governo polacco ha formalmente chiesto
a Washington di trasferire stabilmente in Polonia perlomeno un gruppo di
volo con cacciabombardieri F-16 di stanza oggi in Italia.

*L’escalation militare statunitense in Ucraina*

Ovviamente lo scoppio del conflitto in Crimea e nell’Ucraina orientale è
stato utilizzato pretestuosamente da Washington per rafforzare la
propria presenza militare nel martoriato paese europeo. L’escalation è
stata rapida ed inarrestabile: prima sono giunti “consiglieri” e
contractor, poi i parà, le forze speciali e i mezzi corazzati. Nel
giugno 2014, un gruppo di ufficiali Usa sono stati inviati a Kiev per
collaborare con le forze armate locali nella realizzazione “a medio e
lungo termine” della “riforma del sistema difensivo ucraino”. Qualche
mese dopo, gli uomini di vertice del Pentagono si sono incontrati con i
generali ucraini per discutere “le modalità con cui gli Stati Uniti
possono rafforzare la cooperazione militare e aiutare l’Ucraina a
potenziare le proprie forze armate”, come riportato dal Dipartimento
della difesa. Poi, a settembre, duecento paracadutisti della 173^
Brigata Aviotrasportata dell’esercito Usa di stanza a Vicenza, hanno
raggiunto Yavoriv (nelle vicinanze di Lviv, a 50 km circa dal confine
con la Polonia), per partecipare all’esercitazione multinazionale “Rapid
Trident”, la prima in territorio ucraino dopo la crisi politico-militare
in Crimea, insieme a più di 1.100 militari provenienti da 14 paesi
(Ucraina, Azerbaijan, Bulgaria, Canada, Georgia, Germania, Gran
Bretagna, Lettonia, Lituania, Moldavia, Norvegia, Polonia, Romania e
Spagna). “Nel corso di Rapid Trident sono state eseguite operazioni di
peacekeeping, trasporto mezzi, pattugliamento, individuazione e
disattivazione di materiale esplodente”, ha riferito il portavoce del
Pentagono, colonnello Steve Warren. “L’esercitazione ha contribuito a
promuovere la stabilità e la sicurezza regionale, rafforzare la
partnership con gli alleati e migliorare l’interoperabilità tra il
Comando delle forze Usa in Europa USAREUR, le unità terrestri
dell’Ucraina e gli altri paesi Nato”. Ancora nel grande centro di
addestramento di Yavariv (uno dei più grandi d’Europa, con una
superficie di 425 Km2), tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015, una
squadra di specialisti del “Tobyhanna Army Depot” (Pennsylvania) - il
principale centro logistico del Dipartimento della difesa per la
gestione dei sistemi elettronici - ha addestrato i militari ucraini
all’uso del nuovo sistema radar LCMR (Lightweight Counter Mortar Radar)
AN/TPQ-48/5, in grado di individuare le provenienza dei tiri di
artiglieria, mortai e razzi e indirizzare il tiro di contro-batteria.
Secondo fonti stampa statunitensi, il Pentagono avrebbe fornito alle
forze armate ucraine una ventina di esemplari di questo sistema radar.

Subito dopo la visita ufficiale a Kiev del generale Usa-Nato Phil
Breedlove (26 e 27 novembre 2014), una dozzina di medici dell’Air Force
Special Operations Command Europe (SOCEUR) di Stoccarda hanno raggiunto
Khmelnytskyi, nell’Ucraina occidentale, per formare più di 600
dipendenti del ministero della difesa ucraino alle procedure mediche da
seguire nei campi di battaglia. Il personale di SOCEUR, proveniente
dall’US Army 1st Battalion, dal 10th Special Forces Group, dall’Air
Force 352nd Special Operations Group e dalla Naval Special Warfare Unit
2, collabora oggi anche con l’organizzazione non governativa “Patriot
Defense” che conduce corsi di formazione a favore delle forze armate
ucraine e della famigerata Guardia nazionale. Le unità della Guardia
nazionale, comprendenti non meno di 45-50.000 “volontari”, sono state
costituite dal governo di Kiev nel marzo 2014 con un primo finanziamento
Usa di 19 milioni di dollari e hanno incorporato le formazioni
neonaziste Donbass, Azov, Aidar, Dnepr-1 e Dnepr-2, già addestrate nel
2006 da istruttori Nato in Estonia e poi utilizzate per il colpo di
stato in Ucraina e le pulizie etniche contro le popolazioni di lingua
russa. Il comandante di US Army Europe, gen. Ben Hodges, ha annunciato
che entro la fine del mese di marzo 600 paracadutisti circa della 173^
Brigata di fanteria aviotrasportata di Vicenza saranno inviati al centro
di Yavariv per addestrare tre battaglioni del Ministero dell’Interno.
“Questa nuova missione in Ucraina serve a rimarcare l’impegno Usa per la
sicurezza del Mar Nero”, ha spiegato Hodges. “I nostri paracadutisti
avranno il compito di preparare le forze armate ucraine a difendersi
dall’artiglieria e dai razzi dei Russi e dei ribelli e interverranno
pure nella messa in sicurezza di strade, ponti e infrastrutture”.

Contemporaneamente al potenziamento del dispositivo militare Usa in
Ucraina, sono aumentati a dismisura gli “aiuti militari” e le consegne
di armamenti pesanti al governo di Kiev. Il primo massiccio stanziamento
finanziario risale al marzo 2014 (23 milioni di dollari), con il “piano
di assistenza alla difesa delle frontiere ucraine contro le provocazioni
delle forze armate russe e le violenze fomentate dai ribelli
filo-russi”, come riferito dal Pentagono. Successivamente, Washington ha
approvato ulteriori stanziamenti a favore delle forze armate ucraine per
5 milioni di dollari in giubbotti antiproiettili, visori notturni,
caschi protettivi, dispositivi robot anti-esplosivi, kit sanitari e
equipaggiamenti per le telecomunicazioni. Altre attrezzature “non
letali” (sistemi d’allarme, vestiario, escavatori, camion, generatori
elettrici, apparecchiature radio, ecc.) sono state assegnate invece alla
neo-costituita Guardia statale di protezione delle frontiere.

Secondo quanto rivelato a fine gennaio dal New York Times,
l’amministrazione Obama si prepara a fornire “aiuti militari”
all’Ucraina per più di 3 miliardi di dollari nel triennio 2015-2017: tra
essi spiccherebbero missili anti-tank, lanciamissili anti-blindati,
radar, velivoli a pilotaggio remoto (UAV), contromisure elettroniche
anti UAV, blindati “Humvees”, ecc. Agli ucraini verrebbero fornite
inoltre armi e munizioni prodotte nell’ex Unione Sovietica, attualmente
stoccate in un deposito della CIA in North Carolina. All’estensione del
programma di riarmo hanno collaborato alcuni “assistenti esterni”
dell’amministrazione Obama, come il generale in pensione Michèle
Flournoy e l’(ex) ammiraglio James Stavridis, già Comandante delle forze
armate Usa e Nato in Europa.

*L’Ucraina è sempre più Nato*

Le relazioni politiche-militari tra le autorità di Kiev e gli alti
comandi della Nato si sono fatte sempre più strette a partire del 2002,
anno in cui fu adottato il cosiddetto “Piano di azione Nato-Ucraina” e
l’allora presidente Kuchma annunciò l’intenzione di aderire all’Alleanza
Atlantica. Nel 2005, il presidente “arancione” Yushchenko fu
ufficialmente invitato a partecipare al summit alleato di Bruxelles che
lanciò un “dialogo intensificato” Nato-Ucraina e, tre anni più tardi, il
vertice interalleato di Bucarest si espresse favorevolmente all’ingresso
dell’Ucraina nella Nato. Nel 2009 le autorità ucraine firmarono un
accordo che consentì il transito terrestre nel paese di mezzi e
rifornimenti per le forze Nato in Afghanistan, mentre gli uomini guida
delle forze armate ucraine furono ammessi a partecipare ai corsi del
Nato Defense College a Roma e Oberammergau (Germania). Sempre in vista
dell’integrazione delle forze armate ucraine con quelle Nato, presso
l’Accademia militare di Kiev è stata poi istituita una “facoltà
multinazionale” con docenti Nato. Con lo scoppio del conflitto in
Crimea, il governo ucraino ha deciso di accelerare l’iter di adesione
all’Alleanza atlantica: il 24 dicembre 2014, il Parlamento ha approvato
la proposta di legge del presidente Petro Poroshenko con cui l’Ucraina
rinuncia unilateralmente allo status di Paese non allineato e formalizza
la richiesta di ingresso nella Nato.

Secondo fonti giornalistiche indipendenti, in questi mesi Bruxelles
starebbe inviando in Ucraina carichi di armi, consiglieri militari ed
“esperti in contro-insorgenza” in vista di un attacco in grande scala
che le forze armate e i gruppi paramilitari locali intenderebbero
sferrare in primavera a Donbas. Con le linee strategiche anti-russe
approvate al vertice dei ministri della difesa della Nato tenutosi in
Galles nel settembre 2014, si è deciso di raddoppiare i fondi annuali a
favore dell’Ucraina del cosiddetto NATO Science for Peace and Security
(SPS) Programme, il programma interalleato di cooperazione e formazione
sui temi della “difesa” contro gli agenti chimici, biologici e nucleari
e delle cyber war. Nel corso della sua visita a Kiev il 20 e 21 novembre
2014, il generale Bartels, presidente del Nato Military Committee, ha
reso noto che saranno messi a disposizione dell’Ucraina i NATO Trusts
Funds per coprire finanziariamente le spese per la formazione e
l’assistenza del personale militare nei settori C3 (comando, controllo e
comunicazioni), della logistica, della cyber defence e della
riabilitazione del personale ferito in combattimento. A fine dicembre,
nell’ambito del Defence Education Enhancement Programme (DEEP), un team
di esperti militari Nato provenienti da Canada, Repubblica ceca,
Lituania, Polonia e Stati Uniti ha dato vita a Kiev a una serie di corsi
di formazione finalizzati ad accrescere l’interoperabilità dei reparti e
dei mezzi da guerra ucraini con quelli delle forze armate alleate.

*Una punta di lancia Nato contro Mosca*

Sempre in occasione dell’ultimo vertice dei ministri della Nato in
Galles è stato approvato all’unanimità il piano che modifica le azioni
d’intervento ai confini meridionali e orientali dell’Alleanza e triplica
il numero dei militari assegnati alla Response Force (NRF), la Forza
congiunta di rapido intervento che così potrà disporre di 30.000 uomini.
Prima dell’estate saranno definiti i dettagli logistici per il
potenziamento della task force, mentre la piena operatività sarà
raggiunta solo dopo il vertice Nato di Varsavia previsto nel giugno
2016. Sei i paesi che guideranno a rotazione la Response Force:
Germania, Italia, Francia, Gran Bretagna, Polonia e Spagna. Corpo
d’élite della nuova NRF sarà la brigata di terra Spearhead (punta di
lancia) con 5.000 militari circa e che sarà supportata da forze aeree e
navali speciali e, in caso di crisi maggiori, da due altre brigate con
capacità di dispiegamento rapido. “Al fine di garantirne la massima
prontezza operativa, la task force si avvarrà di sei nuovi centri di
comando e controllo dislocati in Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania,
Polonia e Romania”, ha annunciato il Segretario generale della Nato,
Jens Stoltenberg. “Se esploderà una crisi, questi centri assicureranno
che le forze nazionali e Nato, ovunque si trovino, possano agire subito.
Essi renderanno ancora più rapidi i dispiegamenti, supporteranno la
difesa collettiva e aiuteranno a coordinare l’addestramento e le
esercitazioni”.

“L’Italia assicurerà il proprio supporto al processo di implementazione
del Readiness Action Plan (RAP), il piano di risposta operativa della
Nato, nella certezza che garantirà all’Alleanza un insieme di strumenti
idonei a rafforzare la cornice di sicurezza globale, soprattutto in
risposta alle minacce derivanti dalla crisi tra Russia e Ucraina ed a
quelle provenienti dall’area mediorientale e del Nord Africa”, ha
dichiarato poche settimane fa la ministra Roberta Pinotti. All’Italia,
in particolare, è stato chiesto di ricoprire il ruolo di Framework
Nation per la costituzione della forza congiunta di pronto intervento
basata sulla brigata Spearhead. Inoltre, al nostro paese è stato
assegnato dall’1 gennaio 2015 - e sino alla fine d’agosto - il comando
della Baltic Air Patrol, la missione Nato di pattugliamento dei cieli
delle Repubbliche baltiche avviata nel 2004 e che dopo lo scoppio della
crisi ucraina ha visto quadruplicare il numero dei velivoli e dei
militari impegnati. Per le operazioni aeree anti-russe, l’Italia ha
messo a disposizione quattro caccia multiruolo Eurofighter “Typhoon”,
rischierati nell’aeroporto militare di Šiauliai, in Lituania. Al comando
italiano della BAP sono stati assegnati anche quattro caccia Mig-29
delle forme armate polacche schierati a Šiauliai, quattro Eurofighter
spagnoli di base nell’aeroporto di Amari (Estonia) e quattro
cacciabombardieri belgi F-16 a Malbork (Polonia).

“In Ucraina è in gioco la sicurezza dell’Europa e degli Stati Uniti
d’America e per questo dobbiamo rafforzare in questo paese il nostro
ruolo e la nostra presenza militare”, ha dichiarato il 25 febbraio
scorso il generale Philip Breedlove nel corso di un’audizione al
Comitato per le forze armate del Congresso degli Stati Uniti d’America.
“Non sappiamo cosa farà alla fine Putin, ma dobbiamo prepararci al
peggio. Le forze russe continuano ad operare sul campo in Ucraina,
fornendo sostegno diretto ai separatisti. Mosca ha inoltre inviato più
di 1.000 pezzi di armi pesanti, come carri armati e sistemi
d’artiglieria e di difesa aerea. L’aggressione della Russia non è solo
contro l’Ucraina ma riguarda altri stati ex-URSS come la Moldavia, dove
le forze armate russe sono presenti nella conflittuale regione del
Trans-Dniester”. Così l’Europa torna a sentire le odi alla guerra totale.

martedì 10 marzo 2015

Studenti sotto tiro

Gli studenti palestinesi temono torture ed abusi in conseguenza dell’impennata di arresti da parte dell’ANP e di Israele


Nei mesi scorsi un apparente aumento degli arresti di studenti in Cisgiordania ha colpito attivisti di orientamento islamista e dei partiti di sinistra.

Gli ufficiali della sicurezza hanno sottolineato l’importanza di eliminare le cellule armate in Cisgiordania, ma gli arrestati sostengono che raramente gli interrogatori riguardano la sicurezza.

Bethan Staton - MEE


Lunedì 2 Marzo 2015


L’università di Birzeit, nella periferia di Ramallah, ha la fama di essere una delle migliori università palestinesi. E’ un elegante complesso in pietra bianca che, sotto i raggi del sole, sembra nuovo di zecca, è costantemente affollato da gruppi di studenti che chiacchierano, radunati attorno a gazebo politici, o che corrono da una classe e all’altra.

Il mese scorso, tuttavia, l’area universitaria è diventata una prigione per sei studenti. Per circa tre mesi vi si sono accampati, hanno mangiato nel bar, studiato nella biblioteca e dormito in un piccolo ripostiglio. Per protesta e per paura, si sono rifiutati di uscire dal campus finché la loro sicurezza non fosse stata garantita.

Militanti del Blocco Islamico, il movimento studentesco di Hamas, hanno ricevuto mandati di comparizione per essere arrestati o interrogati dall’Autorità Nazionale Palestinese. Per questi giovani non era una novità. Molti sono al corrente degli arresti da parte di palestinesi o israeliani e sapevano che rimanere nell’università era il solo modo per evitare la brutalità da parte di entrambi.

Dopo lunghi negoziati delle organizzazioni dei diritti umani per garantire la loro incolumità, la scorsa settimana gli studenti hanno finalmente potuto tornare a casa. Ma la loro libertà è una piccola vittoria. Dure esperienze simili a quella degli ultimi mesi si sono presentate molte volte nel passato e i militanti pensano che sia solo questione di tempo prima di altri arresti ed interrogatori. Credono anche di essere stati colpiti per ragioni politiche.

“L’Autorità Nazionale Palestinese vuole rimanere al potere. Il loro principale avversario è Hamas e la sua popolarità sta aumentando,” ha dichiarato a Middle East Eye Abdel Rahman Hamdan, studente di ingegneria, uno di quelli che sono rimasti nell’università. “Hanno paura che, lasciando lavorare Hamas e il Blocco Islamico, la gente avrà ancora più fiducia in loro e forse si opporrà alle autorità.”

Come la maggioranza dei suoi colleghi, Hamdan si è accampato a Birzeit alla fine dello scorso anno, quando membri del Blocco Islamico hanno ricevuto una raffica di convocazioni ed arresti. L’escalation ha coinciso con l’anniversario della fondazione di Hamas in dicembre: una data importante che i militanti speravano di celebrare con una commemorazione.

Hamdan è stato arrestato poco prima di quella data. E’ stato rilasciato senza imputazioni dopo 24 ore di interrogatorio, che secondo lui riguardava le attività del Blocco Islamico ed ha comportato l’uso della tortura.

“Mi hanno chiesto delle attività all’interno dell’università e mi hanno detto che dovevamo disdire la commemorazione,” ha affermato. “Non mi hanno incolpato di niente ma questo è successo prima delle celebrazioni all’università: è stata una specie di messaggio: devi fermarla [la commemorazione], e non vogliamo che tu la faccia.”

L’esperienza degli studenti di Birzeit non è l’unica. Negli ultimi quattro mesi c’è stato un apparente aumento degli arresti di studenti in Cisgiordania, che ha colpito quelli che militano nei partiti islamici e di sinistra. Tra novembre e gennaio si è saputo che 41 studenti sono stati arrestati nelle università della Cisgiordania e in dicembre gli universitari di Hamas e del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [storico gruppo palestinese della sinistra marxista. N.d.tr.] hanno manifestato nei campus di Birzeit e di Al Quds per protestare contro gli arresti dei loro militanti.

Hamdan – e militanti di sinistra che vogliono rimanere anonimi per garantire la loro incolumità – hanno detto a MEE che gli arresti colpiscono in modo sproporzionato i gruppi islamici, ma che anche quelli dell’opposizione di sinistra sono colpiti. “Quando sono iniziati gli arresti politici, si sono opposti insieme, li hanno rifiutati,” ha detto Hamdan della collaborazione tra le diverse fazioni dello spettro politico. “Lavorano bene insieme contro la repressione.”

Un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese non ha risposto alla richiesta di MEE di commentare la questione. Ufficiali della sicurezza hanno sottolineato l’importanza di eliminare le cellule armate in Cisgiordania, ma gli arrestati affermano che raramente vengono poste domande relative alla sicurezza durante gli interrogatori, che riguardano piuttosto le attività dei gruppi universitari. Hamdan insiste che rappresentano una minaccia insignificante: gruppi come il Blocco Islamico hanno una funzione rappresentativa nelle associazioni studentesche, si occupano principalmente delle condizioni di vita, dell’assistenza finanziaria, di sport e di manifestazioni politiche all’interno del campus.

Nelle elezioni del 2014 a Birzeit il Blocco Islamico ha perso di stretta misura rispetto ai militanti di Fatah per 20 eletti contro 23. Ma ci sono indicazioni che durante l’estate la popolarità di Hamas è aumentata. Il professor Sameeh Hammoudeh di Birzeit spiega che per un’ANP dominata da Fatah la preoccupazione riguardo alla percezione di questa minaccia deve farsi sentire nella politica studentesca – un campo visto come un indicatore dei sentimenti dell’opinione pubblica.

“Vogliono ridurre il potere di Hamas: è una minaccia per l’ANP, quindi devono trovare il modo per limitarla,” afferma Hammoudeh. “Penso che sia una questione soprattutto politica. Non credo ci siano serie ragioni dovute alla sicurezza (per l’arresto degli studenti), perché Hamas in Cisgiordania non svolge attività violente contro Israele. Ma forse l’ANP vuol sapere se sta succedendo qualcosa o no.”

Le testimonianze degli arrestati, comunque, indicano che fare domande e raccogliere informazioni è importante per i servizi di sicurezza palestinesi. Gli studenti tendono a vedere gli arresti da parte dell’ANP come di breve durata ma caratterizzati da interrogatori brutali, mentre quelli da parte israeliana comportano il rischio di lunghe condanne.

Inoltre gli arresti da parte dell’ANP possono frequentemente essere seguiti da detenzioni da parte delle forze di sicurezza israeliane.

Sayed Hashesh, un membro del Blocco Islamico che, come Hamdan, è attualmente accampato a Birzeit, è stato arrestato sia dagli israeliani che dai palestinesi. Nel novembre del 2013, durante il suo secondo anno di università, è stato arrestato e interrogato dalla polizia dell’ANP; un mese e mezzo dopo anche dalle autorità israeliane.

Hashesh ha passato dieci mesi in un carcere israeliano, finchè ha patteggiato la pena. Dopo pochi mesi dal suo rilascio, tuttavia, le forze della sicurezza preventiva palestinese lo hanno di nuovo arrestato.

“Non mi hanno parlato per tutto il giorno e mi hanno lasciato senza cibo né acqua. Poi mi hanno detto di mettermi contro il muro e di alzare le mani “ ha raccontato la sua esperienza a MEE. “Dopo un’ora mi sono sentito stanco, per cui mi sono girato ed ho abbassato le mani. A quel punto hanno iniziato a darmi calci e a picchiarmi.”

Il ventunenne studente specializzando in scienze politiche racconta che ha perso i sensi, che stava sanguinando dalla testa per le percosse, e quando è stato rilasciato non gli hanno restituito la carta d’identità. Da allora ha avuto altre convocazioni – sia da parte di Israele che dell’ANP – ed è rimasto nell’università per evitare un altro arresto.

“Gli israeliani hanno minacciato che loro e l’ANP insieme non mi avrebbero lasciato continuare gli studi e mi avrebbero arrestato. Hanno detto che prima mi avrebbe arrestato l’ANP e poi lo avrebbero fatto gli israeliani,” ha raccontato. “E’ sempre così. Se vieni incarcerato dall’Autorità Nazionale Palestinese finisci anche nelle carceri israeliane.”

Hashesh crede di essere stato arrestato perché milita nel Blocco Islamico. “L’Autorità Nazionale Palestinese usa la tortura, e gli israeliani utilizzano un altro metodo di interrogatorio. Ma sono le stesse domande, le stesse risposte per ottenere lo stesso risultato. E’ come una gara a chi ottiene per primo le risposte,” dice.           

In base agli accordi di Oslo, l’ANP e le autorità israeliane condividono informazioni e coordinano le attività sulla questione della sicurezza. Non è chiaro cosa questo preveda precisamente: Hashesh è stato chiaro nel sottolineare che la sua esperienza non dimostra necessariamente che ci sia stata condivisione delle informazioni o coordinamento. Quello che sembra chiaro, comunque, è che gli studenti attivi in gruppi come il Blocco Islamico o il Fronte Studentesco di Azione Progressista [ PSAF, organizzazione studentesca legata al Fronte Popolare per la Liberazinoe della Palestina. N.d.tr.] corrono il rischio di essere presi di mira da entrambe le parti.

Ciò suggerisce che l’ANP ed Israele stanno lavorando allo stesso obiettivo, che è bloccare le attività di Hamas in Cisgiordania. “Mostra che entrambi voglio bloccare la crescita di Hamas” sostiene Hashesh. “Non so se ci sia stato coordinamento [tra ANP ed Israele] la prima volta che sono stato arrestato. Ma penso che entrambi mi abbiano arrestato per la stessa ragione.”

Anche Mohammed Jamil, direttore dell’Organizzazione Araba per i Diritti Umani, che si trova in Gran Bretagna, crede che il recente incremento degli arresti di studenti si tratti del risultato sia della collaborazione in materia di sicurezza che di una politica relativa ai propri interessi [dell’ANP]. AOHR ha rivelato in un recente rapporto che più di 1.206 palestinesi sono stati arrestati dall’ANP nel 2014, tra cui 353 studenti.

“In parte è per far contenti gli israeliani, perché a volte forniscono informazioni agli israeliani su questi studenti,” ha detto Jamil parlando a MEE su Skype. “Ed è anche per aiutare Fatah, la fazione rivale, a vincere le elezioni interne.”

Qualunque siano le motivazioni degli arresti, afferma, gli studenti pagano un prezzo alto. “Prima degli arresti c’è un essere umano, e dopo il rilascio alcuni di loro sono a pezzi. Diventano deboli, pessimisti, hanno idee più negative su quei servizi di sicurezza. Quando prendi uno studente e lo arresti, lo distruggi. E’ una distruzione sistematica.”

Durante la loro permanenza nell’università, Hamdan e Hashesh hanno descritto la loro situazione come se fossero in prigione: “La nostra vita ora è solo all’università,” ha detto Hashesh il mese scorso a MEE dalla biblioteca di Birzeit. “Siamo stufi perché non possiamo uscire e ci mancano i nostri genitori. Studiamo e durante il giorno aiutiamo gli studenti, e poi andiamo a dormire. E’ così.”

Nel campus, tuttavia, arresti e proteste come queste non scioccano più e, dopo una serie di scioperi e sit-in simili, la situazione degli studenti del Blocco Islamico non fa più notizia. Parlando dal suo ufficio nell’università, Sameeh Hammoudeh, docente universitario, dice che l’attuale contesto ha avuto un impatto soffocante sulla politica: dice che “nel cuore degli studenti” c’è paura, ispirata alla minaccia reale di torture ed abusi.

Comunque gli studenti dicono di non essere stati scoraggiati dal lavorare con il Blocco Islamico. “Le azioni dell’ANP hanno solo reso il Blocco Islamico più forte,” sostiene Hamdan. Reprimere questa organizzazione, secondo lui, aumenta solo la sua forza di attrazione e la sua legittimazione agli occhi dell’opinione pubblica. “Nonostante quello che stanno facendo le autorità, il Blocco Islamico continua a lavorare. Non si arrendono mai e la gente vuole persone così.”



(traduzione di Amedeo Rossi)

sabato 7 marzo 2015

Guerre per l’energia in Medio Oriente


Guerre per l’energia in Medio Oriente


Michael Schwartz -MEE


Giovedì 26 febbraio 2015



In termini energetici, Israele è sempre più disperato. Abbiamo di fronte la possibilità di guerre più vaste per il gas, con le distruzioni che probabilmente comporteranno.
Come il gas naturale di Gaza è diventato l’epicentro di una lotta internazionale per le risorse energetiche

Indovinate un po’? Praticamente tutte le guerre, insurrezioni e altri conflitti in Medio Oriente sono legati da un unico filo, che è anche una minaccia: questi conflitti sono parte di una sempre più frenetica competizione per trovare, estrarre e commercializzare combustibili fossili il cui successivo consumo sicuramente porterà ad una serie di catastrofiche crisi ambientali.

Tra i vari conflitti legati alle fonti energetiche fossili nella regione uno di questi, pieno di minacce, piccole o grandi, è stato largamente trascurato, e Israele ne è l’epicentro. Le sue origini si possono far risalire ai primi anni ’90, quando i leader israeliani e palestinesi hanno iniziato ad confrontarsi su supposti depositi di gas naturale nel Mediterraneo lungo le coste di Gaza. Nei decenni successivi questo è diventato un conflitto su più fronti che ha coinvolto vari eserciti e tre flotte. Nel frattempo ha già inflitto incredibili sofferenze a decine di migliaia di palestinesi e minaccia di aggiungere nuovi livelli di miseria alle vite di persone in Siria, Libano e Cipro. Forse potrebbe impoverire persino gli israeliani.

Le guerre per le risorse, ovviamente, non sono niente di nuovo. Di fatto tutta la storia del colonialismo occidentale e della globalizzazione successiva alla Seconda guerra mondiale è stata animata dallo sforzo di trovare e commercializzare le materie prime necessarie a costruire o conservare il capitalismo industriale. Ciò comprende anche l’espansione di Israele nei territori palestinesi, e la loro appropriazione. Ma le risorse energetiche sono diventate centrali nelle relazioni israelo-palestinesi solo negli anni ’90, e questo conflitto, inizialmente circoscritto, solo dopo il 2010 si è esteso, includendo la Siria, il Libano, Cipro, la Turchia e la Russia.



La storia avvelenata del gas naturale di Gaza

Nel lontano1993, quando Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) firmarono gli accordi di Oslo che si pensava avrebbero posto fine all’occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania e creato uno Stato sovrano, nessuno aveva prestato molta attenzione alla linea costiera di Gaza. Di conseguenza Israele accettò che la neonata ANP controllasse totalmente le sue acque territoriali, anche se la flotta israeliana stava ancora pattugliando la zona. Le voci di depositi di gas naturale su quella costa non interessavano molto a nessuno, perché allora i prezzi erano molto bassi e le riserve molto abbondanti. Non c’è dunque da stupirsi che i palestinesi se la siano presa comoda per reclutare la società British Gas (BG) – una delle principali attori globali nella ricerca di gas naturale – perché scoprisse cosa ci fosse davvero lì. Solo nel 2000 le due parti siglarono un modesto contratto per sfruttare quei giacimenti, che a quel punto erano stati effettivamente trovati.

BG promise di finanziare e gestire il loro sfruttamento, sostenere tutti i costi e di far funzionare i relativi impianti in cambio del 90% dei profitti, un accordo “di condivisione dei proventi”, esoso ma usuale. Avendo un’industria del gas naturale già in funzione, l’Egitto accettò di diventare il punto di smistamento e di transito del gas sulla terraferma. I palestinesi avrebbero ricevuto il 10% dei profitti (stimati in circa un miliardo di dollari in totale) e avrebbero avuto l’accesso garantito al gas sufficiente a coprire le loro necessità.

Se questo processo fosse stato un poco più rapido, il contratto sarebbe stato messo in pratica come descritto. Tuttavia nel 2000, con un’economia in rapida espansione, con carenza di combustibili fossili e in pessime relazioni con i suoi vicini ricchi di petrolio, Israele si trovò a dover affrontare la mancanza cronica di energia. Invece di cercare di rispondere a questo problema con un aggressivo ma fattibile sforzo di sviluppare fonti di energie rinnovabili, il primo ministro Ehud Barak diede inizio all’era dei conflitti per i combustibili fossili del Mediterraneo orientale. Egli portò al controllo navale di Israele sulle acque territoriali di Gaza per opporsi e bloccare l’accordo con BG. Chiese invece che Israele, e non l’Egitto, ricevesse il gas di Gaza e che controllasse tutti i proventi destinati ai palestinesi – per evitare che i soldi fossero usati per “finanziare il terrorismo.”

Con questo, gli accordi di Oslo erano ufficialmente destinati al fallimento. Dichiarando inaccettabile il controllo sui profitti del gas da parte di palestinesi, il governo israeliano si impegnò a non consentire la benché minima forma di autonomia finanziaria dei palestinesi, per non parlare della piena sovranità. Poiché nessun governo o organizzazione palestinese lo avrebbe potuto accettare, un futuro pieno di conflitti armati era assicurato.

Il veto israeliano portò all’intervento del primo ministro inglese Tony Blair, che cercò di fare da mediatore per un accordo che soddisfacesse sia il governo israeliano che l’Autorità Nazionale Palestinese. Risultato: una proposta del 2007 che avrebbe portato il gas in Israele, e non in Egitto, a prezzi inferiori a quelli di mercato, con un taglio dello stesso 10% dei proventi eventualmente destinato all’ANP. Comunque questi fondi sarebbero stati prima versati alla banca della Federal Reserve a New York per una futura devoluzione, garantendo che non sarebbero stati utilizzati per attacchi contro Israele.

Questo accordo non aveva ancora soddisfatto gli israeliani, che denunciarono la recente vittoria di Hamas, un partito di miliziani, nelle elezioni a Gaza come una rottura dei patti. Benché Hamas avesse accettato la supervisione della Federal reserve sull’uso di quei soldi, il governo israeliano, ora guidato da Ehud Olmert, insistette affinché “nessun diritto di estrazione venisse pagato ai palestinesi.” Invece gli israeliani avrebbero fornito l’equivalente di quei proventi “in beni e servizi.”

Ciò venne rifiutato dal governo palestinese. Poco dopo Olmert impose un blocco totale a Gaza, che il ministro della Difesa israeliano definì una forma di “guerra economica che potrebbe determinare una crisi politica, portando a un’insurrezione popolare contro Hamas.” Con la collaborazione dell’Egitto, a quel punto Israele prese il controllo di tutti i traffici commerciali dentro e fuori Gaza, limitando gravemente persino l’importazione di alimenti e distruggendo la sua industria della pesca. Come ha sintetizzato il consigliere di Olmert Dov Weisglass, il governo israeliano stava “mettendo a dieta” i palestinesi (cosa che, secondo la Croce Rossa, provocò rapidamente “malnutrizione cronica”, soprattutto tra i bambini di Gaza).

Quando i palestinesi rifiutarono di nuovo le condizioni di Israele, il governo Olmert decise di estrarre il gas in modo unilaterale, una cosa che, credevano, sarebbe stata possibile solo una volta che Hamas fosse stato rimosso dal potere o disarmato. Come ha spiegato l’ex comandante in capo dell’esercito israeliano e attuale ministro degli Esteri Moshe Ya’alon, “Hamas… ha dimostrato la sua capacità di bombardare le installazioni strategiche di gas ed elettricità di Israele…E’ chiaro che, senza un’operazione militare complessiva per estirpare il controllo di Hamas su Gaza, nessuna attività di perforazione può essere effettuata senza il consenso del partito radicale islamista.”

In base a questa logica, nell’inverno del 2008 venne lanciata l’operazione “Piombo fuso”. Secondo il deputato del ministero della Difesa Matan Vilnai, si intendeva sottoporre Gaza a una “shoah” (la parola ebraica per olocausto o disastro). Yoav Galant, il comandante in capo dell’operazione, affermò che era destinata a “far tornare indietro Gaza di decenni.” Come ha spiegato il parlamentare israeliano Tzachi Hanegbi, lo specifico obiettivo militare era “rovesciare il regime terroristico di Hamas e occupare tutte le zone da cui vengono sparati razzi contro Israele.”

L’operazione “Piombo fuso” ha effettivamente “fatto tornare indietro Gaza di decenni.” Amnesty International ha riferito che durante i 22 giorni dell’offensiva 1.400 palestinesi sono stati uccisi “compresi circa 300 bambini e centinaia di altri civili disarmati, e vaste aree di Gaza sono state rase al suolo, lasciando molte migliaia di senzatetto e la già disastrosa economia [di Gaza] in rovina.” L’unico problema è stato che l’operazione “Piombo fuso” non ha raggiunto il suo obiettivo di “trasferire la sovranità sui giacimenti di gas a Israele.”



Più fonti di gas uguale più fonti di guerra

Nel 2009 il neoeletto governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ha ereditato la situazione di stallo riguardo ai depositi di gas di Gaza e una crisi energetica israeliana che è diventata ancora più seria quando la Primavera Araba in Egitto ha interrotto e poi cancellato del tutto il 40% delle forniture di gas al Paese. L’aumento del prezzo dell’energia ha presto contribuito a determinare le più vaste proteste da parte di ebrei israeliani da decenni.

Quando ciò è accaduto, tuttavia, il regime di Netanyahu aveva ereditato anche una soluzione potenzialmente permanente del problema. Un immenso campo di gas naturale estraibile è stato scoperto nel Bacino Levantino, una grande formazione sottomarina nella parte orientale del Mediterraneo. Fonti ufficiali israeliane hanno immediatamente affermato che la “maggior parte” delle nuove riserve di gas scoperte si trovano “all’interno del territorio israeliano”. Così facendo hanno ignorato le asserzioni contrarie da parte di Libano, Siria, Cipro e dei palestinesi.

In altre parole, questo immenso giacimento di gas avrebbe potuto essere effettivamente sfruttato insieme dai cinque contendenti e un piano di produzione avrebbe potuto essere messo in atto per migliorare l’impatto ambientale del rilascio nel futuro di oltre 3 miliardi di metri cubi di gas nell’atmosfera del pianeta. Tuttavia, come ha osservato Pierre Terzian, direttore del giornale industriale Petrostrategie, “tutti i fattori di rischio sono presenti…Questa è una regione in cui è frequente fare ricorso ad azioni violente.”

Nei tre anni che hanno fatto seguito alla scoperta, l’avvertimento di Terzian è sembrato ancora più preveggente. Il Libano è diventato il primo punto caldo. All’inizio del 2011 il governo israeliano ha annunciato lo sfruttamento unilaterale di due campi, circa il 10% del Bacino Levantino di gas, che si trova nelle acque territoriali contese vicino al confine tra Israele e Libano. Il ministro dell’Energia libanese Gebran Bassil ha immediatamente minacciato uno scontro militare, affermando che il suo Paese non avrebbe “permesso a Israele o a qualunque compagnia che lavori per gli interessi israeliani di prendere una qualunque quantità del nostro gas che si trova nella nostra zona.” Hezbollah, la più agguerrita fazione politica in Libano, ha promesso attacchi con i razzi se “un solo metro” di gas naturale fosse stato estratto dai campi contesi.

Il ministro israeliano delle Risorse ha accettato la sfida, sostenendo che “queste aree sono all’interno delle acque commerciali di Israele…Non esiteremo ad usare la nostra forza e la nostra potenza per proteggere non solo il principio di legalità, ma anche il diritto marittimo internazionale.”

Terzian, giornalista esperto nel settore petrolifero, ha proposto questa analisi della realtà dello scontro:

“In concreto….nessuno è disposto ad investire con il Libano in acque contese. Non ci sono compagnie petrolifere libanesi in grado di fare le trivellazioni e non c’è una forza militare in grado di proteggerle. Ma dall’altra parte le cose sono diverse. Ci sono compagnie israeliane in grado di operare in mare, e potrebbero assumersi il rischio sotto la protezione dell’esercito israeliano.”

Sufficientemente sicuro, Israele ha continuato ad esplorare i fondali e a trivellare nei due campi contesi, schierando droni per controllare gli impianti. Nel frattempo il governo Netanyahu ha investito ingenti risorse per prepararsi ad un possibile conflitto futuro nella zona. Ad esempio, con un generoso finanziamento americano, ha sviluppato il sistema di difesa antimissilistico “Iron Dome”, destinato anche ad intercettare i razzi di Hezbollah ed Hamas diretti contro gli impianti energetici israeliani. Infine, a partire dal 2011 ha lanciato attacchi aerei in Siria con lo scopo, secondo fonti ufficiali USA, “di prevenire ogni spostamento di sistemi antiaerei avanzati, missili terra-terra e terra-mare “ ad Hezbollah.

Tuttavia Hezbollah ha continuato ad accumulare razzi in grado di demolire gli impianti israeliani, e nel 2013 il Libano ha fatto un passo autonomo. Ha iniziato a negoziare con la Russia. L’obiettivo era di avere a disposizione le compagnie del gas di quel Paese per sostenere le rivendicazioni libanesi sulle acque territoriali, mentre la potente marina militare russa avrebbe potuto dare una mano nella “disputa territoriale di lunga durata con Israele.”

Dall’inizio del 2015 è sembrato che si sia stabilita una situazione di deterrenza mutua. Benché Israele sia riuscito a far funzionare il più piccolo dei due campi che ha iniziato a sfruttare, la perforazione nel più grande è bloccata a tempo indefinito “alla luce della situazione della sicurezza”. I contrattisti americani di Noble Energy, incaricati da Israele, non hanno intenzione di investire i 6 miliardi di dollari necessari in infrastrutture che potrebbero essere sottoposte ad attacchi da parte di Hezbollah e potenzialmente nel mirino della flotta russa. Da parte libanese, nonostante la crescente presenza navale russa nella regione, nessuna attività è iniziata.

Nel frattempo in Siria, dove la violenza si è estesa ed il Paese si trova uno stato di collasso armato, si è concretizzata un’altra situazione di stallo. Il regime di Bashar al Assad, di fronte alla feroce minaccia da parte di vari gruppi jihadisti, è sopravvissuto in parte grazie al massiccio aiuto militare della Russia, concordato in cambio di un contratto di 25 anni per lo sfruttamento del giacimento di gas Levantino rivendicato dalla Siria. Nell’accordo è compresa una notevole espansione della base militare russa nella città portuale di Tartus, che garantirebbe una presenza navale russa molto maggiore nel Bacino Levantino.

Mentre la presenza russa ha apparentemente dissuaso gli israeliani dal tentativo di sfruttare qualunque giacimento di gas reclamato dalla Siria, non c’è una presenza russa nella Siria vera e propria. Così Israele ha contrattato la Genie Energy Corporation statunitense perché individuasse e sfruttasse giacimenti di petrolio nelle Alture del Golan, territorio siriano occupato dagli israeliani dal 1967. Per far fronte alla possibile violazione delle leggi internazionali, il governo Netanyahu ha invocato, come giustificazione dei suoi atti, una sentenza della corte israeliana in base alla quale lo sfruttamento di risorse naturali nei territori occupati è legale. Allo stesso tempo, per prepararsi all’inevitabile conflitto con qualunque fazione o insieme di fazioni esca vittoriosa dalla guerra civile siriana, ha iniziato a incrementare la presenza militare israeliana sulle Alture del Golan.

E poi c’è Cipro, l’unico Paese che rivendica diritti sul Levantino che non sia in guerra con Israele. I greco-ciprioti sono stati per molto tempo in conflitto permanente con i turco-ciprioti, per cui non è sorprendente che la scoperta del gas naturale Levantino abbia scatenato sull’isola tre anni di negoziati su cosa fare, arrivati ad un punto morto. Nel 2014 i greco-ciprioti hanno firmato un contratto di sfruttamento con Noble Energy, il principale contrattista di Israele. I turco-ciprioti hanno fatto un’altra mossa, firmando un contratto con la Turchia per lo sfruttamento di tutti i campi reclamati dai ciprioti “fino alle acque territoriali egiziane.” Imitando Israele e la Russia, il governo turco ha subito spostato tre navi da guerra nella zona per bloccare fisicamente qualunque intervento da parte di altri pretendenti.

Di conseguenza, quattro anni di manovre riguardo ai nuovi giacimenti scoperti nel Bacino Levantino hanno prodotto poca energia, ma hanno coinvolto nuovi e potenti pretendenti nella mischia, lanciando una significativa escalation militare nella regione e hanno incrementato in modo incommensurabile le tensioni.



Gaza, ancora e ancora

Ricordate il sistema “Iron Dome”, sviluppato anche per bloccare i razzi di Hezbollah diretti contro i campi di gas di Israele al nord? Nel corso del tempo è stato installato sul confine con Gaza per bloccare i razzi di Hamas ed è stato testato durante l’operazione “Eco di ritorno”, il quarto tentativo militare israeliano di riportare all’ordine Hamas ed eliminare qualunque “capacità palestinese di bombardare le installazioni strategiche di gas ed elettricità di Israele.”

L’operazione, lanciata nel marzo 2012, ha replicato su scala ridotta le devastazioni dell’operazione “Piombo fuso”, mentre “Iron Dome” ha raggiunto la percentuale del 90% di razzi di Hamas eliminati. Neppure questo, tuttavia, pur essendosi dimostrato un’utile appendice all’esteso sistema di sicurezza per i civili israeliani, è stato sufficiente a garantire la protezione degli impianti estrattivi del Paese esposti agli attacchi. Anche un solo colpo diretto lì potrebbe danneggiare o demolire strutture così fragili e infiammabili.

Il fallimento dell’operazione “Eco di ritorno” per mettere tutto posto ha dato il via a un’altra serie di negoziati, che ancora una volta si sono arenati sul rifiuto palestinese della richiesta israeliana di controllare tutto il combustibile e gli introiti destinati a Gaza e alla Cisgiordania. Allora il nuovo governo di unità palestinese ha seguito l’esempio di libanesi, siriani e turco-ciprioti e alla fine del 2013 ha firmato una “concessione di sfruttamento” con Gazprom, l’enorme compagnia russa di gas naturale. Come con il Libano e la Siria, la flotta russa si è profilata sull’orizzonte come un potenziale deterrente contro l’intromissione di Israele.

Nel frattempo, nel 2013, una nuova serie di blackout energetici ha provocato “caos” in Israele, scatenando un drastico aumento del 47% nel prezzo dell’elettricità. In risposta il governo di Netanyahu ha preso in considerazione la proposta di iniziare l’estrazione sul proprio territorio di petrolio dallo scisto argilloso [shale oil], ma il rischio di inquinamento delle falde acquifere ha provocato un movimento di rifiuto violento che ha frustrato questo tentativo. In un Paese pieno di nuove imprese nel campo delle tecnologie avanzate lo sfruttamento di fonti di energia rinnovabile non ha ancora avuto una seria attenzione. Al contrario, ancora una volta il governo si è rivolto contro Gaza.

Avendo sullo sfondo la mossa di Gazprom di sfruttare i depositi di gas rivendicati dai palestinesi, gli israeliani hanno lanciato il loro quinto tentativo militare per obbligare i palestinesi a cedere, l’operazione “Margine protettivo”, con due obiettivi principali legati agli idrocarburi: scoraggiare i piani russo-palestinesi ed eliminare il sistema missilistico di Gaza. Il primo obiettivo è stato apparentemente raggiunto quando Gazprom ha rinviato (forse per sempre) il suo accordo di sfruttamento. Il secondo, tuttavia, è fallito quando i due attacchi sia da terra che dal cielo – nonostante le devastazioni senza precedenti a Gaza – non sono riusciti a distruggere le riserve di razzi di Hamas o il suo sistema sotterraneo di assemblaggio; né ”Iron Dome” è riuscito a raggiungere la percentuale di intercettazioni quasi totale necessaria a proteggere le strutture energetiche previste.
Senza fine

Dopo 25 anni e cinque tentativi militari israeliani falliti, il gas naturale di Gaza è ancora sotto la superficie del mare e, dopo quattro anni, lo stesso si può dire di quasi tutto il gas del Levantino. Ma le cose non sono rimaste le stesse. In termini energetici, Israele è sempre più disperato, proprio mentre ha ingrandito il proprio esercito, compresa la Marina, in modo significativo. Gli altri pretendenti hanno, a turno, trovato partner più grandi e potenti che li possono aiutare a rafforzare le proprie richieste economiche e militari. Indubbiamente tutto ciò significa che il primo quarto di secolo di crisi del gas naturale nel Mediterraneo orientale non è stato altro che un preludio. Ci troviamo davanti alla possibilità di più estese guerre per il gas, con tutte le devastazioni che probabilmente porteranno.



-Michael Schwartz, un eminente docente emerito di sociologia alla Stony Brook University, è l’autore di libri pluripremiati come “Protesta radicale e struttura sociale” e “ La struttura del potere nel mondo degli affari americano” (con Beth Mintz). Il suo libro sul sito TomDispatch [sito alternativo nordamericano], “Guerra senza fine”, è centrato su come la geopolitica militarizzata del petrolio ha portato gli USA a invadere e occupare l’Iraq.

Il suo indirizzo mail è Michael.Schwartz@stonybrook.edu.



(traduzione di Amedeo Rossi)

martedì 3 marzo 2015

Israele sta correndo verso la prossima guerra a Gaza



Israele sta correndo verso la prossima guerra a Gaza

Israele sta andando verso il prossimo scontro violento con i palestinesi come se si trattasse di una specie di disastro naturale che non può essere evitato.

Di Gideon Levy 26-02-2015 Haaretz

La prossima Guerra scoppierà nella prossima estate. Israele le darà un altro nome infantile e si svolgerà a Gaza. C’è già un piano per evacuare le comunità che si trovano lungo il confine con la Striscia di Gaza.

Israele sa che questa guerra scoppierà, sa anche perché – e sta correndo in quella direzione con gli occhi bendati, come se si trattasse di un rituale ciclico, una cerimonia periodica o un disastro naturale inevitabile. Qua e là si percepisce persino dell’entusiasmo.

Non importa chi sarà il primo ministro e il ministro della difesa – non c’è differenza tra i candidati per quanto riguarda Gaza. Isaac Herzog [candidato laburista alla presidenza con la coalizione di centro sinistra“Unione Sionista”. N.d.tr.] e Amos Yadlin [candidato per la stessa coalizione] naturalmente non ne parlano e Tzipi Livni [alleata centrista nella coalizione. N.d.tr.] si sta vantando che grazie a lei non è stato aperto nessun porto a Gaza. Il resto degli israeliani non è affatto interessato al destino di Gaza e presto sarà obbligato a ricordarsi di nuovo del suo disastro nel solo modo in cui ciò è possibile, i razzi.

Il disastro di Gaza è spaventoso, Nel discorso pubblico israeliano non viene mai citato e sicuramente non nella più stupida, vuota campagna elettorale che ci sia mai stata qui. E’ difficile crederlo, ma gli israeliani hanno inventato una realtà parallela, tagliata fuori da quella vera, una realtà indifferente, insensibile, che nega l’evidenza, mentre tutte queste difficoltà, molte delle quali sono provocate da loro stessi [gli israeliani], si trovano a poca distanza da casa loro. Bambini stanno morendo di freddo sotto le macerie delle loro case, giovani rischiano le loro vite e attraversano le barriere di confine solo per avere un po’ di cibo in una prigione israeliana. Qualcuno ne ha sentito parlare? Importa a qualcuno? Qualcuno capisce che ciò porterà alla prossima guerra?

Salma ha vissuto solo 40 giorni, come l’eternità di una farfalla. Era una neonata di Beit Hanoun, nel nordest della Striscia di Gaza, che è morta il mese scorso di ipotermia, dopo che il suo piccolo corpo è congelato nel vento e nella pioggia che sono entrati nella baracca di compensato e plastica in cui ha vissuto con la sua famiglia, da quando la loro casa è stata bombardata.

“Era fredda come un gelato,” ha detto sua madre dell’ultima notte della sua vita infantile. Il portavoce dell’UNWRA [l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi. N.d.tr.] Chris Gunness ha scritto di Salma la settimana scorsa sul giornale inglese “Guardian”. Mirwat, sua madre, gli ha raccontato che quando è nata pesava 3.1 chili. Sua sorella di tre anni, Ma’ez, è in ospedale per congelamento.

Ibrahim Awarda, di 15 anni, che ha perso il padre in un bombardamento israeliano nel 2002, è stato più fortunato. Ha deciso di superare la barriera tra Gaza e Israele. “Sapevo che sarei stato arrestato,” ha raccontato la settimana scorsa al giornalista del “New York Times” che si trova a Gaza. “Mi sono detto, forse troverò una vita migliore. Mi hanno dato del cibo buono e poi mi hanno rispedito indietro.”

Ibrahim è stato tenuto per circa un mese in due prigioni israeliane prima di essere ricacciato nella distruzione, nello squallore, nella fame e nella morte. Trecento gazawi sono morti annegati nel mare lo scorso settembre nel disperato tentativo di lasciare la prigione che è la Striscia. Ottantaquattro gazawi sono stati arrestati dall’esercito israeliano negli ultimi sei mesi dopo aver tentato di entrare in Israele, molti dei quali solo per fuggire dall’inferno in cui vivono. Altri nove sono stati arrestati questo mese.

Anche Atiya al-Navhin, di 15 anni, ha tentato di entrare in Israele in novembre, solo per sfuggire al suo destino. E’ stato colpito dai soldati israeliani, curato in due ospedali israeliani e rispedito a Gaza in gennaio. Ora si trova a casa sua paralizzato e incapace di parlare.

Circa 150.000 senzatetto vivono a Gaza e circa 10.000 profughi nei rifugi dell’UNRWA. Il bilancio dell’organizzazione è stato speso dopo che il mondo ha totalmente ignorato il proprio impegno a contribuire con 5.4 miliardi di dollari per ricostruire Gaza. Neanche quello di negoziare l’eliminazione dell’assedio a Gaza – l’unico modo per evitare la prossima guerra e quella ancora seguente – è stato rispettato. Nessuno ne parla. Non interessa. C’è stata una guerra, in cui israeliani e palestinesi sono morti per niente, forza, andiamo verso la prossima guerra.

Israele sosterrà di nuovo di essere sorpreso e offeso – i crudeli arabi lo stanno di nuovo attaccando con i razzi senza nessuna ragione.

Gideon Levy



(traduzione di Amedeo Rossi)