lunedì 28 febbraio 2011

LA RIVOLTA ARABA SCUOTE I PALESTINESI

LA RIVOLTA ARABA SCUOTE I PALESTINESI
Ieri a Ramallah oltre mille palestinesi, in gran parte giovani non schierati con alcun partito, ed esponenti e attivisti della sinistra, hanno sfilato nelle strade del centro per chiedere la fine degli Accordi di Oslo e la «riconciliazione» tra Fatah e Hamas.

DI MICHELE GIORGIO *

Roma, 26 febbraio 2011, Nena News – Il 25 febbraio delle manifestazioni di protesta nel Nordafrica e in Medio Oriente, ad un mese esatto dall’inizio della «rivoluzione egiziana», non poteva non coinvolgere anche i palestinesi, finora soltanto sfiorati dal vento della rivolta araba. Ieri a Ramallah oltre mille palestinesi, in gran parte giovani non schierati con alcun partito, ed esponenti e attivisti della sinistra, hanno sfilato nelle strade del centro per chiedere la fine degli Accordi di Oslo e, quindi, della cooperazione di sicurezza tra l’Anp di Abu Mazen e Israele.
Sono stati però scanditi slogan anche a sostegno della «riconciliazione» tra Fatah e Hamas e dell’unità tra Cisgiordania e Gaza. Temi ben diversi da quelli al centro delle manifestazioni, organizzate dall’Anp contemporaneamente a Nablus e in altre città, che hanno visto migliaia di palestinesi protestare contro il veto posto dagli Stati Uniti, qualche giorno fa, a una proposta di risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza dell’Onu nei confronti della colonizzazione israeliana.
«Naturalmente anche noi ci opponiamo con forza all’occupazione e contestiamo le colonie israeliane ma, allo stesso tempo, pensiamo che non possiamo limitarci a qualche sporadica protesta contro gli Stati Uniti e la loro politica nella regione. Dobbiamo ricostruire l’unità palestinese e a dare una nuova energia al nostro popolo sotto occupazione israeliana», spiega Hassen Faraj, uno degli organizzatori della manifestazione di Ramallah. «Oggi (ieri) i giovani palestinesi di ogni orientamento, tutti insieme, hanno lanciato un segnale chiarissimo di ciò che vogliono e di ciò che faranno in futuro», aggiunge Faraj. Non siamo di fronte a un movimento di decine di migliaia di giovani palestinesi decisi ad abbattere regimi e dittatori nel nome di pane e libertà, come avvenuto in Tunisia ed Egitto. Ma tra i ragazzi palestinesi cresce forte l’esigenza di trovare politiche alternative per liberarsi dell’occupazione israeliana, il problema principale, e per rinnovare una classe politica inadeguata ad affrontare la sfida sempre più difficile per la libertà. E ciò vale non solo in Cisgiordania ma anche a Gaza dove all’inizio di gennaio un gruppo di giovani ha messo in rete un manifesto di protesta «contro tutto e tutti» che ha fatto il giro del mondo e al quale hanno poi fatto seguire un altro documento con proposte e richieste concrete rivolte ad Hamas e Fatah.
«C’è un malessere diffuso tra i nostri ragazzi e i dirigenti politici di qualsiasi schieramento e partito, anche della sinistra, appaiono incapaci di comprenderlo», dice al manifesto Omar Barghouti, attivista palestinese divenuto un punto di riferimento per i gruppi di giovani che premono per un cambiamento profondo. «È qualcosa di nuovo che si è messo in moto e potenzialmente può coinvolgere tutti i palestinesi che non ce la fanno ad andare avanti in questa situazione», aggiunge Barghouti, che sottolinea l’importanza della forte richiesta – condivisa da una ampia porzione di palestinesi – di fine degli accordi di Oslo e dell’Anp nata nel 1994.
Ma a Gaza non restano con le mani in mano. «Ci stiamo organizzando per proseguire le contestazioni (di Hamas e Fatah) – dice Ebaa Rezeq, 20 anni – se non cambia il modo di concepire il potere e la politica, non sarà possibile realizzare le nostre aspirazioni». Ebaa prevede una partecipazione giovanile massiccia alla manifestazione per l’unità dei palestinesi che si terrà a Gaza il 15 marzo, in contemporanea a quelle previste a Ramallah e in altre città della Cisgiordania. «Quel giorno manifesteranno anche tanti palestinesi in Israele e all’estero per affermare che siamo un solo popolo, unito ora come in passato», aggiunge la ragazza.
Ieri era anche il 17esimo anniversario del massacro di 29 fedeli musulmani compiuto da un colono israeliano (Baruch Goldstein) nella Tomba dei Patriarchi di Hebron. Nella città cisgiordana sono scoppiati scontri fra l’esercito israeliano ed un migliaio di manifestanti palestinesi. Almeno quatto i feriti. I dimostranti, tra i quali attivisti stranieri e israeliani, hanno denunciato la chiusura permanente di Via Shuhada, una delle arterie commerciali di Hebron, per imposizione dei 500 coloni israeliani insediati nella città. A Rafah (Gaza), qualche ora prima, l’aviazione dello Stato ebraico aveva centrato un automobile palestinese ferendo due militanti di Hamas. Nena News

* questo articolo e’ stato pubblicato dal Manifesto

Unity

domenica 27 febbraio 2011

Appello dei giovani palestinesi all'unità

2° Appello alla Patria
Il popolo vuole porre fine alla divisione

O eroico popolo palestinese: è trascorsa una settimana dal 1° appello senza sentire alcun commento o dichiarazione a mezzo stampa da parte della leadership politica di Fatah e di Hamas. E’ come se ci dicessero "Sbattete le vostre teste contro il muro”. Ma noi diciamo loro che proseguiremo nelle nostre legittime richieste nazionali per porre fine a questa divisione umiliante che ha dato risultati quanto mai pericolosi sugli sviluppi della causa palestinese danneggiandola gravemente. La divisione politica e geografica, tra i palestinesi, che perdura per più di cinque anni senza alcun segno di voler cessare, ha ridefinito la questione palestinese nel modo più deleterio e la sua continuazione potrebbe significare una fine non felice per la causa del nostro popolo che a lungo combatte per la sua liberazione. Tale divisione ha spazzato via l’aureola specifica che ha caratterizzato la causa palestinese in quanto causa di un popolo occupato in cerca di libertà, colpendo il suo prestigio e il suo status, ufficialmente riconosciuti, per molti anni, con simpatia popolare e internazionale. I palestinesi sono stati feriti dalla vergogna e dalla frustrazione e i figli della nazione araba sono rimasti delusi così che i loro sentimenti di simpatia si sono trasformati in intolleranza e disprezzo. La divisione palestinese ha segnato una battuta d'arresto nelle prospettive di un progetto nazionale palestinese, sia a livello di Stato che di diritto all’autodeterminazione o del consolidamento nazionale.

O eroico popolo palestinese: in vostro nome e per conto dei prigionieri e dei martiri, ci rivolgiamo alla leadership di Fatah e di Hamas chiedendo una risposta immediata alle nostre richieste di porre fine a questa divisione. Invitiamo tutti a partecipare alle nostre attività che si terranno in tutti i territori della Palestina, da Gaza a Ramallah, a Hebron, a Nablus e a Gerusalemme.

Nota importante: vi informiamo che abbiamo avvisato il signor Fathi Hammad, Ministro degli Interni nella Striscia di Gaza, e il signor Dr. Said Abu Ali, Ministro degli Interni in Cisgiordania, con una lettera formale recapitata a ciascuno di essi nel proprio ufficio, delle nostre attività e luoghi di assembramento, chiedendo loro di fornire protezione ai manifestanti e non di ostacolarli.

Tende per i sit-in:
Striscia di Gaza – Milite Ignoto
Ramallah – Piazza della Muqataa.
Hebron - in prossimità del palazzo del governatorato.
Nablus - di fronte al Comune di Nablus.
Palestina occupata - " Umm al-Fahm" –di fronte al comune di Umm al-Fahm.

Vi faremo conoscere i nomi e i numeri di telefono dei coordinatori dei comitati nei luoghi succitati.

Le tende per i sit-in saranno allestite in tutte le zone, con unico appuntamento, da sabato del 26 febbraio 2011 fino a Giovedi, 3 marzo 2011.

Viva la Palestina Araba Libera!

I giovani della Palestina

Domenica, 13 / 2 / 2011

Manifestazioni in Iraq

Iraq, Si tinge di sangue la ''Giornata della rabbia''
Osservatorio Iraq, 25 febbraio 2011

“Giornata della rabbia”, ma anche di sangue. E’ salito a 14 morti, finora, il bilancio delle manifestazioni di protesta che si sono svolte oggi un po’ in tutto l’Iraq, a cominciare dalla capitale, dove le forze di sicurezza hanno fatto ricorso agli idranti e ai lacrimogeni per disperdere i manifestanti.Non era una folla oceanica quella che si è raccolta a Baghdad, dove in circa 5.000 sono arrivati in piazza Tahrir, nel centro cittadino, raccogliendo l’appello di un gruppo di organizzazioni non governative, intellettuali, attivisti, circolato attraverso Facebook.
Sono volati sassi, scarpe, e bottiglie di plastica all'indirizzo dei reparti antisommossa della polizia e dei soldati che bloccavano il Ponte della Repubblica, attraverso il quale si accede alla Green Zone – la cittadella blindatissima in cui hanno sede le istituzioni governative nonché diverse ambasciate, a cominciare da quella di Stati Uniti e Gran Bretagna.Secondo la testimonianza di un giornalista che era sul posto, i manifestanti avrebbero rovesciato due barriere anti-esplosioni in cemento, erette per sigillarne l’accesso, mentre le forze di sicurezza usavano idranti e lacrimogeni nel tentativo di disperdere la folla. Quindici i feriti, secondo fonti del ministero degli Interni.Ma in tutta Baghdad lo schieramento delle forze di sicurezza era imponente. Imposto anche il divieto di circolazione per i veicoli, dopo l’appello televisivo con cui ieri il Primo Ministro Nuri al Maliki aveva invitato gli iracheni a restare a casa oggi, sostenendo che le proteste organizzate avevano dietro “saddamisti, terroristi, e al Qaeda”, e che sarebbero stati loro ad avvantaggiarsene.
Anche se i nomi dei gruppi che giravano in questi giorni su Facebook raccontavano una realtà un po’ diversa: “Rivoluzione irachena della rabbia” e “Cambiamento, libertà, e democrazia reale”, ad esempio.



Basta con il silenzio   “Basta con il silenzio, dobbiamo parlare”: questo uno degli slogan che si leggevano sui cartelli dei manifestanti radunati in piazza Tahrir, in maggioranza giovani.   Giovani e con richieste ragionevoli, più che rivoluzionarie."Non vogliamo cambiare il governo, perché siamo noi ad averlo eletto, ma vogliamo che si mettano a lavorare!", diceva Darghan Adnan, studente 24enne. “Vogliamo che facciano rispettare la giustizia, vogliamo che riparino le strade, vogliamo che sistemino l’elettricità, che sistemino l’acqua”.

"Adesso sono otto anni, e non hanno fatto nulla per noi. Basta con le parole, vogliamo fatti!", urlava Ammar Raad, 33 anni. Qualcuno arrivava anche da Sadr City, l’enorme slum roccaforte del Movimento di Muqtada al Sadr, nonostante il suo leader, come anche il Grande Ayatollah Ali al Sistani, l’autorità religiosa più influente fra gli sciiti iracheni, avessero preso le distanze dalla protesta di oggi.Shashef Shenshun, 48 anni, raccontava di esserserla fatta a piedi fino a piazza Tahrir: due ore di cammino, "perché voglio che il governo cambi la situazione" – a cominciare dalla sua: “Sono disoccupato. Voglio lavorare, voglio che i miei figli possano andare a scuola”.Critiche nei confronti del divieto di circolazione per i veicoli sono arrivate da Reporters sans Frontières, che ha sottolineato che i canali televisivi non hanno potuto fare dirette della protesta perché impossibilitati a parcheggiare i loro furgoncini satellitari.Divieti simili erano stati imposti anche a Samarra, Tikrit, Ba’aquba, e Ramadi.In tutto, le manifestazioni di protesta sono state 17: oltre un centinaio i feriti, mettendo insieme le informazioni fornite dai vari funzionari.Quattordici morti in scontri con la polizia nel nord, si dimette il governatore di Bassora   Ma è nel nord che la situazione è andata fuori controllo, con scontri tra manifestanti e polizia a Mosul e Tikrit, che hanno fatto cinque morti in ciascuna città, mentre due persone sono state uccise a Hawija, vicino Kirkuk.A Mosul, la terza città del Paese, sono stati dati alle fiamme gli uffici del governo provinciale, mentre a Hawija a essere incendiata è stata la sede del consiglio municipale. Un morto, un ragazzo di 15 anni, anche a Kalar, cittadina della provincia di Diyala, a est di Baghdad, abitata in maggioranza da kurdi, e un altro manifestante ucciso a Samarra. A Bassora, la seconda città dell'Iraq, nel sud, c'è stata una vittima politica: il governatore della provincia, Shiltagh Abboud, che si è dimesso dopo le proteste, che hanno visto scendere in piazza circa 10.000 persone. Disperse dalla polizia che ha sparato in aria, fortunatamente senza provocare morti o feriti.Altre manifestazioni nel sud: a Nassiriya, Karbala, Kut – dove la folla urlava “Maliki bugiardo, bugiardo!” – e dove ci sono stati 14 arresti fra i dimostranti.Secondo un funzionario governativo, che ha chiesto l’anonimato, sarebbe stato lo stesso Maliki a rimuovere il governatore di Bassora (che appartiene alla sua stessa formazione politica) in seguito alle proteste. Sempre la stessa fonte riferisce che il premier ha chiesto anche al governatore di Ninive (provincia che ha per capitale Mosul) di dimettersi.

sabato 26 febbraio 2011

RIAPRITE QUELLA STRADA!

Mobilitazioni in varie città del mondo per quello che è ormai diventato il giorno di solidarietà con i residenti palestinesi, di Shuhada Street, quella che un tempo era la via principale del commercio della città di Hebron , in Cisgiordania e che oggi è diventata una strada fantasma come tutto il centro storico.

Hebron, 25 febbraio 2011, Nena News (Foto di Shawn Duffy)- Mobilitazioni ed eventi di solidarietà sono previsti oggi in varie città del mondo (hanno aderito Londra, Roma, Seattle, la Columbia University negli USA, e ancora due città australiane e associazioni sudafricane) per chiedere quello che gli attivisti palestinesi di Hebron dell’organizazione “Giovani contro gli Insediamenti” (Youth against Settlements), insieme ad internazionali e israeliani chiedono ogni sabato da almeno un anno: la riapertura di Shuhada Street alla popolazione palestinese e la fine dell’occupazione. Proprio poco prima dell’estate del 2010, Hebron/Al Khalil, ha aggiunto il proprio nome alla lista dei luoghi che regolarmente vedono sfilare comitati popolari per la resistenza nonviolenta: a Hebron, ogni sabato i manifestanti si radunano di fronte al checkpoint militare israeliano che segna l’inizio di via Shuhada e della città vecchia di Hebron, la zona «H2», occupata da coloni ebrei.



[shuhada-street-1] Shuhada Street in passato è sempre stata una delle principali vie di commercio per la popolazione palestinese, oltre che arteria fondamentale per i residenti di Hebron/Al Khalil. Oggi, poiché Shuhada Street attraversa la colonia ebraica dentro la città Hebron, appare come una strada fantasma in cui l’accesso è negato ai residenti palestinesi, e consentito soltanto ad israeliani e turisti. Graffiti inneggianti all’odio sono stati dipinti sulle saracinesche dei negozi ormai chiusi, e i palestinesi che vivono sulla strada sono costretti ad entrare e uscire dalle proprie case attraverso le porte sul retro, o a volte anche arrampicandosi sui tetti dei vicini.

Secondo i dati rilasciati dale organizzazioni in difesa dei diritti umani, con le progressive chiusure e restrizioni imposte a Shuhada Street e in generale a quello che un tempo costituiva il sud di Al-Khalil, più di 1000 residenti palestinesi hanno lasciato le loro abitazioni e più di 1800 negozi sono stati costretti a chiudere, cioè il 76,6% degli esercizi commerciali dell’area.

Nel 1994, in seguito al massacro di 29 musulmani in preghiera da parte di un colono israelo-americano, Baruch Goldstein, i negozi su Shuhada Street sono stati chiusi, e il traffico di automobili palestinesi è stato vietato. Nonostante un processo e l’ammissione da parte del governo israeliano che si tratta di misure illegali, 16 anni dopo la strada è ancora chiusa ai palestinesi. Shuahada street è oggi il simbolo della questione delle colonie illegali, della politica di separazione a Hebron/Al Khalil e nell’intera Cisgiordania, della mancanza di libertà di movimento, e dell’occupazione in generale.
[cosi era shuda street negli anni 90]

Così appariva Shuhada Street all'inizio degli ani '90 (foto archivio Open Shuhada Street)

Nena News pubblica qui di seguito la testimonianza di Zleikha Muhtaseb, una donna palestinese residente a Shuhada Street.

COSA SIGNIFICA RIAPRIRE SHUHADA STREET

Molte persone potranno chiedersi perché abbiamo bisogno che Shuhada Street sia riaperta. Collegando la parte nord della città con quella a sud, costituisce una delle arterie più importanti di Hebron (Al-Khalil). Non solo: mette in comunicazione i residenti…quando Shuhada Street è stata chiusa, molte persone sono state private della loro vita sociale, dal momento che i loro familiari e amici non vogliono essere fermati ai check-point o lungo il corso del tragitto, quando decidono di far visita a chi vi abita.

In passato poi, quando ancora era possibile accedervi, si trattava di una distanza percorribile a piedi, mentre oggi occorre fare il giro intorno alla città, per raggiungere l’abitazione e la famiglia dove si vuole andare a far visita. Adesso le persone ci pensano dieci volte prima di pianificare una visita a qualche famiglia in Shuhada Street: si deve, infatti, tenere in considerazione il tempo necessario per arrivare lì, oltre che il denaro che si spenderà.

Quando la strada è stata chiusa, molti hanno perso il lavoro, e le opportunità di guadagno ora sono molte meno che prima, per questo ci si pensa bene prima di spendere soldi.

La casa dove vivo, si trova a Shuhada Street, ma non posso usare l’ingresso principale, perché sono palestinese. I miei vicini hanno creato un’apertura nel muro, un passaggio che mi permette di non rimanere prigioniera nella mia stessa casa. Infatti, vivo a casa mia come fossi in una prigione. Per proteggermi dai “regali” dei coloni, le pietre che tirano costantemente contro casa mia, ho dovuto ricoprire i miei balconi con recinti di filo spinato. Prima che li mettessi, non potevo aprire le persiane. Ma se per sbaglio, le dimenticassi aperte, riceverei immediatamente i “regali” dei coloni. Le pietre continuano a essere lanciate, ma non mi colpiscono come prima, e le ho usate per decorare il mio giardino e scrivere la parola “pace” in arabo.

E’ davvero difficile vivere dove vivo, tutto è chiuso, prima andavo a fare la spesa vicino, ma ora se devo comprare qualcosa, devo camminare molto e portarmi a piedi le buste della spesa, dato che non posso usare la macchina. Una volta ho avuto dei forti dolori renali, e nemmeno l’ambulanza è potuta arrivare davanti alla porta di casa mia, per portarmi all’ospedale. Mio fratello vive a due minuti a piedi da Shuhada, ma impiego venti minuto per raggiungere casa sua.

L’esercito e la polizia israeliana ci dicono che la loro presenza è per proteggere sia i palestinesi che gli israeliani, ma nella realtà dei fatti, sono entrati a casa mia, per perquisirla, tre volte in una settimana, dopo la segnalazione di un soldato secondo cui alcuni ragazzini avrebbero tirato pietre sulla strada dalle finestre di casa mia; nonostante io viva da sola con mia madre e non abbia figli. Molte volte i bambini e gli adolescenti, figli dei coloni, hanno tirato pietre contro casa mia, ho presentato degli esposti ai soldati e alla polizia, eppure non hanno fatto nulla per fermali.

Riaprire Shuhada Street è necessario per la pace e per l’umanità.

Zleikha Muhtaseb

Shuhada street

venerdì 25 febbraio 2011

LIBIA: NON UNA RIVOLTA POPOLARE MA UNA GUERRA CIVILE

In Libia sta emergendo una spaccatura dentro il gruppo dirigente della Jamahyria che – diversamente dal conflitto asimmetrico degli scontri nelle piazze tunisine ed egiziane - ha portato ad uno scontro militare feroce ed equivalente che ha avuto nella regione storicamente ribelle della Cirenaica islamica la sua base di forza.

DI SERGIO CARARO *

Qualche giorno fa sulle pagine di Peacereporter, giustamente Christian Elia invitava a fare dei distinguo nelle rivolte popolari che stanno cambiando la mappa politica del Medio Oriente. Sarebbe infatti un errore non cogliere le diverse dinamiche e forze soggettive che si sono rese protagoniste di un processo storico atteso, inevitabile ma certamente imprevedibile nella velocità della sua estensione.

Questa accortezza diventa ancora più necessaria nel valutare gli eventi in Libia e le profonde differenze con quanto accaduto negli altri paesi del Maghreb, Tunisia ed Egitto soprattutto. Non solo, occorre anche separare il giudizio su Gheddafi rispetto alle cause e alle conseguenze degli eventi in corso.

In Libia, diversamente che in Tunisia e in Egitto, dobbiamo parlare di guerra civile e non di rivolta popolare. La differenza c’è. Ad esempio i centri strategici (da quelli legati al ciclo energetico a quelli militari) parlano infatti di guerra civile e non di rivolta. L’evacuazione del personale tecnico straniero e dei civili viene inoltre decisa quando il livello di conflitto supera di parecchio quello delle manifestazioni di piazza e degli scontri con la polizia.

In Libia le condizioni della rivolta popolare mancavano di un aspetto non certo secondario (decisivo invece negli altri paesi arabi): quello economico-sociale. I livelli di vita dei libici erano infatti sensibilmente migliori di quelli negli altri paesi. Il 70%della forza lavoro era impiegata nello Stato, i prezzi sussidiati e le rendite petrolifere molto più socializzate. (1)

In Libia non possiamo parlare di rivolta popolare ma di una spaccatura dentro il gruppo dirigente della Jamayria che – diversamente dal conflitto asimmetrico degli scontri nelle piazze tunisine ed egiziane – ha portato immediatamente ad uno scontro militare feroce ed equivalente che ha avuto nella regione storicamente ribelle della Cirenaica islamica la sua base di forza.

Gheddafi, come ha ricordato anche Luciana Castellina su il Manifesto, è stato un valoroso combattente anticolonialista e per anni ha cercato di alimentare focolai di rivolta contro il neocolonialismo in Africa e Medio Oriente. Gli USA, la Gran Bretagna, le organizzazioni islamiche reazionarie hanno cercato spesso di fargliela pagare. Ha costruito intorno a sé un misto di innocua retorica e di verità sui crimini del colonialismo. Lontano dalle frontiere di Israele ha blaterato molto sulla Palestina ma non ha mai agito seriamente. Dopo anni di embargo (e di bombardamenti USA non dimentichiamolo) nel 1999 Gheddafi ha cercato la strada del compromesso con l’imperialismo, soprattutto dopo l’11 settembre, temendo di fare la fine dell’Iraq di Saddam Hussein (2)

Dal 2003 ha stoppato il processo di socializzazione delle risorse ed ha avviato la liberalizzazioni in economia (sia nel settore energetico che negli altri). Ha ripreso le relazioni con gli USA e l’Unione Europea, Ha consentito a tutte le multinazionali petrolifere di ristabilirsi nel paese. Ha giocato molto sui due elementi di enorme vulnerabilità dell’Europa: il rifornimento energetico e le ondate migratorie dal sud. Su questo ha strappato accordi vantaggiosi (e vergognosi) con l’Unione Europea e soprattutto con l’Italia assicurandogli il pugno di ferro sui disperati che cercano di raggiungere le coste italiane. Non si è avveduto però che quando le cose devono cambiare…cambiano, e che 41 anni al potere sono troppi comunque e per chiunque. A questo si preparavano anche i servizi segreti italiani, forse senza che il Ministro Frattini avesse del tutto chiaro come stavano andando le cose (3).

Un corrispondente attento e “assai addentro” all’amministrazione USA come Molinari, sottolinea su La Stampa, che gli Stati Uniti sulla Libia hanno una linea diversa da quella sugli altri paesi. “Se in occasione della crisi egiziana l’amministrazione Obama aveva deciso di recitare un ruolo di primo piano per favorire la «transizione ordinata» verso il dopo Mubarak, di fronte alla rivolta libica la scelta è invece differente” scrive infatti Molinari (4). Che significa? Significa che dietro la guerra civile in Libia è perfettamente leggibile l’aperta ingerenza degli Stati Uniti. Obiettivo? Non solo togliersi di torno un leader arabo odiato, odioso e imprevedibile ma mettere le mani su quello che viene definito “il tassello essenziale della cosiddetta sicurezza energetica europea” (5) ed infine trovare il posto giusto e desiderato per l’Africom, il comando strategico statunitense per Africa e Medio Oriente la cui collocazione proprio sulla sponda sud del Mediterranea era stata rifiutata agli USA dalla vicina Algeria. Tre risultati con un colpo solo! L’unica incognita è rappresentata dall’emirato islamico che i senussiti vogliono instaurare in Cirenaica. Sarà disponibile a convivere con gli interessi USA o sarà una nuova variabile indipendente come Al Qaida?

Infine, ma non per importanza. Lo sviluppo e gli esiti della guerra civile in Libia sembrano lasciar intravedere un intervento militare delle potenze occidentali. Tre navi militari italiani già incrociano al largo della Libia. Gli Stati Uniti spingono Italia e Francia a intervenire e si preparano a farlo in prima persona qualora riescano a crearne le condizioni.

La differenza con quanto è avvenuto in Tunisia ed Egitto appare dunque notevole. La “democrazia” in Libia potrebbe arrivare con le portaerei USA o quelle delle ex potenze coloniali italiana e francese. Non è certo quello per cui si sono battuti i giovani tunisini né il popolo di Tahrir e del Sinai. Se questo è lo scenario allora è meglio la guerra civile che la stabilizzazione imperialista. A meno che anche a sinistra non si voglia lavorare per il re di Prussia o per il ritorno della monarchia!

* CONTROPIANO

(1) Dispaccio dell’ADN/Kronos del 22 febbraio

LIBIA, GHEDDAFI E’ SUL PUNTO DI CADERE

Speciali preoccupazioni ci opprimono per la sorte del popolo libico:
Ci sarà una carneficina?
Che intenzioni hanno gli USA con l'appoggio di alcuni paesi europei quando parlano di invasione militare o umanitaria che la storia recente ci ha mostrato essere la stessa cosa?
Hanno intenzione di gestire loro al posto dei libici il dopo-Gheddafi?
Le preoccupazioni sono concrete considerando gli enormi interessi che questa gente ha nel paese che è pieno di risorse importanti.
Fin'ora, l'Italia in testa, si sono preoccupati ben poco del bagno di sangue e molto dei loro interessi economici compromessi e delle "conseguenze" di una marea di libici scappati che possano approdare sulle nostre coste, con un cinismo disgustoso, ora speriamo che con la scusa di una ipocrita e pelosa "umanità" non scatenino una situazione disastrosa che resti nel tempo come ogni volta che parlano gli eserciti.


A Tripoli l'atto finale dell'insurrezione. Scontri ovunque nella capitale. Anche l'aeroporto e' caduto nelle mani dei rivoltosi. Il regime e' vicino alla fine, si teme una carneficina. Un mese fa cominciava in Egitto la rivoluzione

Roma, 25 febbraio, 2011 – Tensione altissima a Tripoli. Il regime pare sul punto di cadere, potrebbe essere una questione di ore, nonostante il tentativo in extremis del governo di riguadagnare consensi attraverso un generoso aumento dello stipendio ai dipendenti pubblici e dei sussidi alle famiglie più povere deciso questa mattina. I ribelli avrebbero preso nelle ultime ore le cittadine di Misurata e Ghadiyan e secondo quanto riferisce la televisione Al-Jazeera, questo pomeriggio anche l’aeroporto internazionale Maatinqa, a 11 km da Tripoli, sarebbe nelle mani dei rivoltosi dopo che i militari presenti al suo interno si sono ammutinati per unirsi alla rivolta. Nella capitale si ripetono scontri tra oppositori e sostenitori del colonnello Gheddafi nel quali tre forse cinque i manifestanti sono rimasti uccisi nel quartiere Janzour, nella zona di Suq Jal-umua e in via Jumhuriya. Manifestanti con slogan anti-Gheddafi si sono registrate anche a Fashloum, nella parte orientale della città e da poco sono cominciato combattimenti nel mercato. Militari ribelli starebbero marciando con centinaia di manifestanti verso la Piazza Verde, simbolo della rivoluzione «verde» di Gheddafi. In città oggi si è svolta anche una manifestazione a sostegno del colonnello alla quale hanno però partecipato poche centinaia di persone.

Nel paese la resa di Gheddafi viene data per certa ed è già in corso un tentativo per trovare una nuova direzione politica. Personalità della Libia orientale ed occidentale, tra cui membri del governo passati nei giorni scorsi con i manifestanti, starebbero trattando con i capi tribù e i leader della rivolta per formare un nuovo esecutivo. Sono in molti a pensare che l’epilogo sia vicino ma si teme un bagno di sangue. Gheddafi potrebbe mantenere fede all’impegno dato nei giorni scorsi di non arrendersi mai e di resistere fino all’ultimo uomo fedele. Il rischio di una «carneficina finale» perciò è alto. Stamani, inaugurando la sessione speciale del Consiglio dei Diritti Umani a Ginevra, l’Alto Commissario Onu, Navi Pillay, ha detto di avere informazioni secondo cui sono migliaia le persone uccise o ferite nella repressione della rivolta da parte del regime. Continuano a diffondersi in queste ore voci sulla fuga dalla Libia di alcuni familiari di Gheddafi. Uno dei sette figli del colonnello sarebbe da due giorni in Venezuela, nell’isola di Margarita. E Caracas, nonostante le smentite del presidente Hugo Chavez, potrebbe essere presto la destinazione di Gheddafi.

Il vento della rivolta araba non conosce soste ed ostacoli. Dopo la caduta del presidente tunisino Ben Ali e di quella dell’egiziano Hosni Mubarak, un terzo leader arabo ritenuto potente e fino a poche settimane fa, sta per uscire di scena. Se Gheddafi cadesse già oggi, avverrebbe ad un mese esatto dall’inizio della «rivoluzione egiziana del 25 gennaio». Rimane alta peraltro la tensione anche in Yemen, Bahrein, Algeria, Marocco e ora anche in Iraq. Chi sarà il prossimo? Nena News

LE PAGINE GIALLE ISRAELIANE PROMUOVONO AZIENDE CHE IMPIEGANO SOLO EBREI

Annunci di compagnie che precisano di impiegare solo"manodopera ebraica". In violazione alla legge sul lavoro che proibisce qualsiasi discriminazione su base religiosa, etnica, di genere. Ma la Yellow Pages Ltd. se ne lava le mani.

Gerusalemme 24 febbraio 2011, Nena News – Le Pagine Gialle israeliane pubblicano annunci di compagnie, aziende e stabilimenti che esplicitamente promuovono le loro attività commerciali specificando di impiegare “solo lavoratori ebrei”. A diffondere la notizia è stato qualche giorno fa il sito di controinformazione dell’Alternative Information Center, un ‘organizzazione fatta da attivisti e giornalisti sia israeliani che palestinesi che da anni svolge un attento lavoro di informazione e documentazione alternativa al mainstream.

Secondo quanto denunciato da AIC, annunci di questo tipo rappresentano una evidente violazione della Legislazione in materia di pari opportunità nel mondo del lavoro, in vigore in Israele, che proibisce appunto qualsiasi discriminazione da parte dei datori di lavoro sulla base della nazionalità, oltre ad altri parametri (religione, genere, etnia).

La Israel’s Yellow Pages Company Ltd., la compagnia che gestisce e distribuisce le Pagine Gialle in Israele è di proprietà delle aziende Bank Hapoalim, Psagot, Menorah Insurance e Clal Insurance. Shuftut-Sharaka, un forum di organizzazioni che condividono valori democratici e una visione di parità e uguaglianza tra arabi e ebrei in Israele, sta in questi giorni facendo pressione sulla compagnia Yellow Pages Ltd perché rimuova immediatamente gli annunci discriminatori sia dalla versione, attualmente on-line, delle Pagine Gialle, sia dalle prossime versioni su carta stampata.

Nella lettera di protesta invita alla compagnia gli organizzatori di Shutfut-Sharaka, mettono in evidenza come “il concedere spazi pubblicitari ad aziende che violano la legge in vigore, significa legittimare e sostenere una condotta inaccettabile”.

La risposta della compagnia è stata poi pubblicata da Arutz 7 (il network di informazione sul web vicino ai gruppi della destra religiosa nazionalista, un network che viene identificato come “la voce del movimento dei coloni”): vi si legge che “le Pagine Gialle si oppongono a qualsiasi fenomeno di discriminazione o razzismo sulla base di genere, razza, religione, età etc.” Che “la compagnia funziona da piattaforma di promozione per gli annunci dei suoi clienti e che non ha alcuna possibilità di influenzare la loro condotta e il modo in cui portano avanti i loro affari”. Quindi dato che gli annunci sono responsabilità del cliente, “tali annunci – prosegue la compagnia – non possono essere rimossi”.

Una astuta mossa per lavarsene le mani e continuare a far finta di nulla. Promuovendo annunci discriminatori.Nena News

giovedì 24 febbraio 2011

URGENTISSIMO APPELLO E STI-IN

APPELLO URGENTE



Primi firmatari: Andrea Camilleri, Luigi Ciotti, Margherita Hack, Dacia Maraini, Moni Ovadia, Igiaba Scego



FIRMA, FAI FIRMARE, ADERISCI, PARTECIPA

Primo appuntamento a Roma: presidio davanti a Montecitorio giovedì 24 febbraio ore 16.00



per adesioni: gelsomini2011@gmail.com



FERMIAMO IL MASSACRO IN LIBIA

Pane, lavoro, democrazia, accoglienza

IL MEDITERRANEO DEI GELSOMINI



C’è una Italia che si riconosce nella lezione di coraggio e dignità che arriva dal mondo arabo.



Il profumo dei gelsomini arriva anche nel nostro paese, anche nelle barche piene di giovani con la loro domanda di futuro.



Il messaggio che porta con sé ci dice che non è obbligatorio subire il furto di futuro, il sequestro della democrazia, né la fame di pane, lavoro e libertà.

Ci conferma che è possibile riprendere in mano il proprio destino, e scrivere insieme una nuova storia per il proprio paese e per il mondo intero.



Dimostra che il vento del cambiamento si può alzare anche dove sembra più difficile.

Oggi soffia da una regione rapinata dai colonialismi vecchi e nuovi, oppressa da dirigenti corrotti e venduti, violentata da guerre e terrorismi, troppo spesso contesa, divisa, umiliata.



Alzare la testa si può, anche quando costa immensamente caro, come il prezzo che il popolo libico sta pagando in queste ore per aver sfidato il dittatore.



Siamo tutti coinvolti da ciò che accade aldilà del mare. Le speranze e i timori, i successi e le tragedie delle sollevazioni arabe disegnano anche il nostro futuro.

Viviamo conficcati in mezzo al Mediterraneo ed è da qui che è sempre venuta gran parte della nostra storia.



Non possiamo restare in silenzio, mentre il Governo italiano tace, preoccupato solo di impedire l’arrivo di migranti sulle nostre coste, e ancora difende il colonnello Gheddafi.



Uniamo le nostre voci per chiedere la fine della repressione in Libia e in tutti gli altri paesi coinvolti dalla rivolta dei gelsomini, dallo Yemen al Bahrein fino alla lontana Cina.

Per sostenere i processi democratici in Tunisia e in Egitto e lo smantellamento dei vecchi regimi.

Per rafforzare le società civili democratiche che escono da anni di clandestinità e di esilio.

Per politiche di vero dialogo tra culture e per promuovere i “diritti culturali” delle popolazioni coinvolte.

Per la revisione degli accordi ineguali e ingiusti imposti dalle nostre economie ai vecchi regimi.

Per la fine delle occupazioni e delle guerre in tutta la regione.

Per chiudere la stagione dei respingimenti e di esternalizzazione delle frontiere, la stagione della guerra ai migranti.



Chiediamo che ai migranti della sponda sud sia, in questo frangente eccezionale, concesso immediatamente lo status di protezione temporanea.

Non possiamo tollerare che la reazione italiana ed europea alle rivoluzioni democratiche del mondo arabo sia la costruzione di un muro di navi militari in mezzo al mare.



Ai morti nelle piazze stanno aggiungendo in questi giorni ancora tanti, troppi, morti in mare. È arrivato il momento di dire basta!



Chiediamo a tutti e tutte di firmare questo appello, di farlo girare, di farsi sentire.



Primo appuntamento a Roma, GIOVEDÌ 24 FEBBRAIO ORE 16.00 davanti a Montecitorio.

martedì 22 febbraio 2011

Contro il veto USA

IL VETO USA AL CONSIGLIO DI SICUREZZA U.N

E' UN OLTRAGGIO ALLA LEGALITA’ INTERNAZIONALE



L’Associazione per la Pace condanna il veto imposto dagli USA sulla risoluzione in merito all’illegalità delle colonie israeliane e chiede di mobilitarsi per il

24 febbraio ore 17 davanti Ambasciata Usa a Roma





Il veto imposto dagli USA alla risoluzione in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulla illegalità delle colonie israeliane nei territori Palestinesi occupati, rappresenta un ulteriore disprezzo per il rispetto e l’applicazione della legalità internazionale e dei diritti umani. Inoltre simboleggia il sostegno incondizionato ad un paese, Israele, che continua ad agire in totale impunità mentre ogni giorno confisca terra, arresta ed uccide palestinesi.



La Convenzione di Ginevra, di cui Israele e Stati Uniti sono firmatari, proibisce infatti in modo esplicito ad una potenza occupante di trasferire la propria popolazione civile sul territorio occupato. Quindi proibisce quella che sui territori occupati Palestinesi (inclusa Gerusalemme Est) è diventata una realtà di fatto: la presenza di quasi 500.000 coloni israeliani, una presenza che la comunità internazionale non ha mai riconosciuto come l’annessione di Gerusalemme Est da parte di Israele.



L’Associazione per la Pace ribadisce la propria indignazione di fronte al veto USA, che come firmatario della Convenzione di Ginevra è tenuto a rispettarla e ad assicurarne il rispetto da parte di altri Stati. La propria indignazione per il ricatto – fatto nei giorni passati - dell’amministrazione USA sulla leadership palestinese perché ritirasse il testo o si accontentasse di una mozione non vincolante.



L’ Associazione per la pace insieme ad Ong, movimenti, cittadine/i continua a credere nella legislazione internazionale come mezzo per affermare la dignità e il diritto di avere un proprio Stato del popolo palestinese, il veto Usa rappresenta l'arroganza e l'ipocrisia della politica degli Stati Uniti e l’assoluta noncuranza del fatto che tale risoluzione fosse sostenuta da una ampia schiera di altri Stati, inclusa l’Unione Europea, e che gli altri 14 stati facenti parti del Consiglio di Sicurezza tra i quali la Germania e il Portogallo, hanno tutti votato in favore.

Il veto Usa dimostra la parzialità e l'appoggio alla politica di annessione coloniale israeliana. La Presidenza Obama, invece di mantenere le sue promesse della creazione di uno stato palestinese, sta sostenendo un governo che rappresenta nella sua coalizione le forze più oltranziste sia politiche che religiose, che reprime il dissenso interno e la resistenza popolare nonviolenta dei comitati popolari palestinesi.

Il veto Usa dimostra inoltre quanto sia necessario riformare le Nazioni Unite a cominciare dall'abolizione del veto nel Consiglio di Sicurezza.

l’Associazione per la Pace propone a tutti e tutte di mobilitarsi il prossimo 24 febbraio davanti all’Ambasciata USA alle ore 17 a Roma: per protestare contro il veto Usa, ribadire la centralità del diritto internazionale, fermare l'occupazione e le politiche coloniali e illegali di Israele e sostenere il diritto del popolo palestinese alla libertà e all'autodeterminazione.



per info e adesioni:

Luisa Morgantini

portavoce Associazione per la Pace - www.assopace.org

tel. 3483921465 luisamorgantini@gmail.com , www.luisamorgantini.net , skype: lulupaco1

lunedì 21 febbraio 2011

Il Medio Oriente non ha bisogno di stabilità.

Questa cosiddetta stabilità riguarda milioni di arabi che vivono sotto regimi criminali e scellerate tirannie.

di Gideon Levy



Quando un carro armato entra in un quartiere residenziale, semina paura e distruzione e i bambini del posto lo prendono a sassate, che cosa si dice che è? “Disturbo della quiete pubblica”. E come si chiama l'arresto di quei bambini che scagliano le pietre, per permettere al carro armato di proseguire sul suo cammino senza trovare più alcuno ostacolo? “Ripristino dell’ordine”.

E’ così che hanno plasmato in modo ingannevole il nostro linguaggio, riciclato perché possa servire al nostro solo racconto che ci descrive la realtà ingannevole in cui viviamo. Nel frattempo, anche se i carri armati non stanno più entrando nelle zone residenziali, nei territori palestinesi l’ordine viene mantenuto in qualche modo anche senza di loro. L’occupante opprime, il popolo occupato frena i propri istinti e la propria lotta, cosicché - per ora - l’ordine regna sovrano. Stabilità.

All’improvviso, anche l’Egitto ha avuto il coraggio di “turbare la pace”. Il suo popolo, che ne aveva abbastanza del governo corrotto del paese e della repressione tirannica della sua voce, è sceso in strada. Si è sollevato. Il mondo occidentale, compreso Israele, è preoccupato per questo grande pericolo – la stabilità in Medio Oriente sta per venire compromessa.

Infatti, la stabilità dovrebbe essere compromessa. La stabilità dell’area, cosa che gli occidentali e gli israeliani sono giunti al punto di desiderare ardentemente, significa semplicemente perpetuare lo status quo. Situazione che potrà anche essere accetta per Israele e l’Occidente, ma che è pessima per i milioni di persone che hanno dovuto pagarne il prezzo. Il mantenimento della stabilità in Medio Oriente implica il perpetuarsi dell’intollerabile situazione a causa della quale circa 2,5 milioni di palestinesi sono senza alcun diritto di esistere e vivono sotto il tallone del governo israeliano, e un altro paio di milioni di rifugiati palestinesi della guerra del 1948 che vivono profughi in campi nei paesi arabi, dove sono ugualmente carenti dei diritti, della speranza, dei mezzi di sopravvivenza e della dignità.

Questa cosiddetta stabilità riguarda milioni di arabi che vivono sotto regimi criminali e scellerate tirannie. Nella stabile Arabia Saudita, le donne sono considerate poste al più infimo gradino, nella stabile Siria ogni segno di opposizione viene represso, nelle stabili Giordania e Marocco, pupille agli occhi dell’occidente e di Israele, le persone hanno paura di pronunciare una parola di critica contro il loro re, anche nelle normali conversazioni da caffè.

La tanto sospirata stabilità in Medio Oriente, in Egitto riguarda milioni di persone povere e prive di istruzione, mentre le famiglie al potere fanno festa con i loro capitali miliardari. Riguarda regimi la cui maggior parte dei bilanci sono incanalati scandalosamente verso le spese militari, che inutilmente si riforniscono di armi in modo illimitato per preservare il regime – a scapito dell’educazione, dell’assistenza sanitaria, dello sviluppo e del benessere. Questa stabilità poggia su un governo che passa di padre in figlio (e non solo nelle monarchie della regione) e su elezioni falsificate, alle quali sono ammessi solo i rappresentanti dei partiti al potere.

Si tratta di guerre senza senso e inutili, di guerre civili e di guerre tra paesi nei quali le persone versano il proprio sangue per i capricci e la megalomania dei loro governanti. Si reprime il libero pensiero, l’autodeterminazione e la lotta per la libertà. E’ fatto di debolezza , di mancanza di crescita e di sviluppo, mancanza di opportunità di progresso e di benefici, pressoché inesistenti per le masse, la cui situazione è terribilmente stabile. Sono stabili nella loro miseria e nell’oppressione.

Una regione ricca di risorse naturali e umane, che avrebbe potuto prosperare almeno quanto l’Estremo Oriente, da decenni occupa una posizione stabile. Dopo l’Africa, è il luogo più arretrato al mondo.

Questa è la stabilità che all’apparenza si vuole preservare; la stabilità che gli Stati Uniti vogliono sempre salvaguardare, la stabilità che l’Europa vuole conservare. Qualsiasi cosa metta a repentaglio questa stabilità viene considerata come un disturbo alla quiete pubblica – e questo è un male almeno per noi.

Ma dobbiamo ricordare che quando Israele venne fondato, esso rappresentò un'enorme scossa per la regione – quello che minacciò la sua stabilità e costituì un grandissimo pericolo: ma per noi e per l’Occidente fu solo una scossa giusta. Ora è giunto il momento di disturbare la quiete un po’ di più, di mettere a repentaglio la stabilità senza senso il cui sta vivendo il Medio Oriente.

I popoli della Tunisia e dell’Egitto hanno dato l’avvio a processo. Gli Stati Uniti e l’Europa dapprima hanno balbettato, ma poi hanno riacquistato presto la ragione. Essi hanno finalmente capito anche che la stabilità della regione non è solo ingiusta, è illusoria: alla fine sarà messa a repentaglio. Quando il carro armato ci invade la nostra vita, bisogna prenderlo a sassate; nel Medio Oriente la stabilità va spazzata via.

(tradotto da mariano mingarelli)

domenica 20 febbraio 2011

LIBIA, BAHREIN, YEMEN: E’ SEMPRE RIVOLTA

Sono decine i morti della rivolta nell'Est della Libia. Gheddafi minaccia una repressione "devastante". Ma l'insurrezione scuote anche altri dittatori e monarchi arabi alleati degli Usa

Roma, 19 febbraio 2011, Nena News – Attraverso i «comitati» di quella rivoluzione «verde», della quale Muammar Gheddafi forse conserva solo un pallido ricordo, il leader libico minaccia una «repressione devastante» della rivolta senza precedenti che sta affrontando da quattro giorni e che si concentra, per il momento, nell’Est del Paese. Anche ieri Bengasi (la seconda citta’ del paese), Baida e vari centri abitati verso il confine con l’Egitto sono stati teatro di manifestazioni e scontri. Il bilancio di morti e feriti è pesante. Negli ultimi 3 giorni, secondo Amnesty International, almeno 46 persone sarebbero state uccise dalle forze di sicurezza. Per Human Rights Watch invece i morti sarebbero 84, un bilancio derivante da interviste telefoniche con ospedali e testimoni. Secondo il vicedirettore di Hrw per Medioriente e Africa settentrionale, Joe Stork, «le forze della sicurezza di Gheddafi hanno aperto il fuoco contro i civili e ne hanno uccisi a decine solo perchè chiedevano un cambiamento”. Lo stesso giornale del figlio “riformista” di Gheddafi, Seif al Islam, a riferire di almeno 20 morti a Bengasi e sette a Derna.

A Bengasi, migliaia di dimostranti sono scesi in piazza ed alcuni di loro hanno occupato l’aeroporto per impedire l’arrivo di rinforzi. In alcune zone della città è stata sospesa l’erogazione della corrente elettrica e per tarpare le ali della protesta, Facebook da ieri sera era stato reso inaccessibile. La navigazione su Internet resa più difficoltosa durante la notte, oggi è del tutto bloccata. Anche le comunicazione telefoniche per tutta la giornata di ieri sono risultate ardue. Due poliziotti sono stati impiccati dai manifestanti ad Al Baida (terza città del Paese) mentre a Bengasi la sede della radio è stata incendiata. Ci sono state vittime anche in due prigioni durante tentativi di evasione in due carceri. Invece a Tripoli, roccaforte del regime, nessun incidente e Gheddafi si è anche fatto vedere nel centro della capitale dove è stato accolto con entusiasmo da una folla di sostenitori.

Ma il vento della rivolta soffia anche su altri Paesi arabi. In particolare sul Bahrein, dove l’esercito ieri ha sparato di nuovo contro i manifestanti e sullo Yemen, dove diverse persone sono morte in scontri tra manifestanti pro o contro il presidente Saleh. In Giordania 8 persone sono rimaste ferite in tafferugli tra sostenitori e oppositori di re Abdallah. In Bahrein la coalizione Wefaq, principale gruppo di opposizione sciita, ha respinto l’offerta di dialogo avanzata da re Hamad, ribadendo che prima il governo dovrà rassegnare le dimissioni e ritirare i soldati dalle strade di Manama. Ieri sono stati almeno 50 i feriti durante i funerali dei 4 manifestanti uccisi nei giorni scorsi. Re Hamad Isa al-Khalifa aveva chiesto al figlio maggiore Salman di avviare colloqui a livello nazionale per risolvere la crisi.

Invece in Egitto ad una settimana dalla fine dell’era Mubarak, Piazza Tahrir ieri si è nuovamente riempita di manifestanti (almeno due milioni) per celebrare la «giornata della vittoria» e per tenere alto lo spirito della rivoluzione del 25 gennaio. Ma in un’altra piazza del Cairo si sono riuniti alcune migliaia di nostalgici del vecchio regime. Nena News

venerdì 18 febbraio 2011

AL- ARAKIB, DISTRUZIONE IN 18 MOSSE

L’abbattimento delle case del villaggio beduino nel deserto nel Neghev continua. Per far posto alle verdi foreste del Fondo Nazionale Ebraico, finanziate dagli evangelici cristiani di USA e Inghilterra.

Gerusalemme 18 febbraio 2011 – (foto Active Still e Negev Coexistence Forum) – Per la 18sima volta dalla fine di luglio, le tribù beduine del villaggio di Al – Arakib, nella zona desertica del nord del Neghev (Israele) si sono viste sradicare e distruggere le loro abitazioni dai bulldozer delle forze di sicurezza israeliane; mentre a meno di un chilometro dal villaggio dal novembre dello scorso anno, il Fondo Nazionale Ebraico (JFN) ha impiantato un ampio cantiere, iniziando le attività di riforestazione dell’area: un milione di alberelli che trasformeranno il deserto in una verde foresta di Israele, anzi “la foresta della pace”. Così infatti è chiamato il progetto che comporta lo spostamento forzato delle tribù beduine di Al- Arakib, villaggio non riconosciuto da Israele come almeno altri 180.000 beduini, finanziato dalla GOD-TV, un canale televisivo internazionale che fa riferimento ad un gruppo evangelico cristiano degli Stati Uniti e Inghilterra. I fondi donati da GOD-TV (che dichiara di “aver ricevuto istruzioni da Dio per preparare la terra per il ritorno di Suo Figlio…”) vengono così versati direttamente nelle tasche del Fondo Nazionale Ebraico, che si

Il cartello (in ebraico) spiega come i finanziamenti per la "foresta della pace" al JNF siano donazioni della GOD-TV.

serve delle forze di polizia e sicurezza per sgombrare con la forza le comunità beduine.

Alla fine di luglio gli oltre 300 beduini del villaggio, in maggioranza bambini, erano stati costretti a lasciare le loro abitazioni all’alba, circondati da oltre 1500 agenti armati, e stare a guardare mentre la polizia distruggeva le loro proprietà.

Dalla fine di luglio 2010, la comunità di Al – Arakib ha subito danni enormi dalle ruspe delle autorità israeliane. Nel mese di febbraio, i raid nel villaggio si sono intensificati, con un sempre maggior uso della violenza e della forza (proiettili di gomma, lacrimogeni e arresti dei portavoce della comunità ma anche di moltissimi minorenni), in conseguenza anche alla determinazione dei beduini di non lasciare le proprie terre e alla costante mobilitazione che da mesi vede le organizzazioni di attivisti israeliani a fianco delle comunità. Solo questa settimana, almeno 7 persone sono state arrestate, tra cui Awad Abu Frieh, portavoce del villaggio. Sempre il 10 febbraio la comunità, in prevalenza donne e bambini è stata dispersa da un massiccio uso di lacrimogeni e molte persone picchiate.

Lo spostamento forzato delle comunità beduine nel Neghev non è cosa nuova. Rispecchia la strategia delle politiche israeliane che intendono far migrare con la forza queste comunità considerate semi-nomadi, verso i centri abitati più grandi; una politica che avviene in modo speculare anche con le comunità beduine che si trovano in area C, in Cisgiordania (territori palestinesi occupati), soprattutto nella Valle del Giordano, a Sud di Hebron e nel tratto di statale tra Gerusalemme e Gerico. Alla politica di Isreale si aggiunge poi la campagna propagandistica del Ministero della sicurezza (come mostra un rapporto redatto dal Ministero stesso e diffuso dal quotidiano Ha’aretz), che tende ad instillare pregiudizi e stereotipi nella popolazione israeliana, definendo i beduini esseri primitivi e non civilizzati che hanno – per usare le parole del Ministro Aharonovitch “una scarsa consapevolezza dell’igiene il che causa molte malattie”, e che costituiscono “una minaccia nei confronti della proprietà di case”. Nena News

giovedì 17 febbraio 2011

EGITTO: DOVE SONO I DESAPARECIDOS?

Centinaia di egiziani sono finiti nelle prigioni della polizia politica ma anche dell'Esercito e di loro non si sa piu' nulla. Le Forze Armate promettono un referendum costituzionale ma intanto si schierano nuovamente contro le lotte dei lavoratori

Roma, 16 febbraio 2011, Nena News – Sono scomparsi a centinaia e nessuno sa più niente di loro. Centinaia di egiziani, arrestati durante le manifestazioni che hanno portato alle cacciata del presidente Hosni Mubarak, sono ancora introvabili e considerati ufficialmente «dispersi». Ma tutti sanno che i desaparecidos sono nelle mani dei servizi di sicurezza e detenuti in località segrete. L’Egitto post rivoluzionario potrà dirsi davvero più libero e trasparente solo se verranno totalmente cambiati i metodi del mukhabarat, il servizio segreto che per decenni ha arrestato, interrogato e torturato in nome della stabilità del regime di Hosni Mubarak. In questo caso però è chiamato in causa anche l’Esercito che pure gode tra gli egiziani di una ottima reputazione per l’atteggiamento avuto durante i 18 giorni della rivolta contro Mubarak. «Centinaia di persone sono detenute – ha denunciato Gamal Eid, direttore della Rete araba di informazione dei diritti umani – ma le notizie sul loro numero esatto non sono ancora complete. Sappiamo soltanto che l’Esercito aveva arrestato una parte dei cittadini ora dispersi». Eid perciò ha esortato i militari a stilare immediatamente una lista dei detenuti e a rispettare i loro diritti. Ieri il quotidiano indipendente al-Masry al-Youm aveva pubblicato un elenco di nomi di uomini e donne, in gran parte tra i 15 e i 48 anni, che sono svaniti nel nulla tra il 25 gennaio (primo giorno delle manifestazioni) e il 9 febbraio, due giorni prima delle dimissioni del raìs-faraone (le autorità egiziane non hanno finora fornito una cifra ufficiale degli arrestati durante gli scontri nei quali, secondo l’Onu e Human Rights Watch, sono state uccise oltre 300 persone).

Nassir Amin, avvocato alla guida del Centro arabo per l’indipendenza e la giustizia, ha aggiunto da parte sua che alcuni manifestanti potrebbero trovarsi nelle mani dell’esercito, ma un numero molto maggiore sarebbe stato arrestato da poliziotti in borghese, ossia della famigerata baltagiyyeh (polizia politica). Alcuni cyber-militanti protagonisti della rivolta hanno detto di aver ricevuto da alti gradi delle Forze Armate l’assicurazione che «tutti i manifestanti svaniti nel nulla saranno ritrovati». Ma i dubbi restano e le preoccupazioni per la loro sorte sono forti.

Entro dieci giorni l’Egitto avrà una nuova costituzione, promettono ancora i militari del Consiglio Supremo delle Forze Armate, che hanno affidato la direzione della commissione competente ad un giudice in pensione, Tareq Beshry. A sorpresa, però, hanno anche inserito nel gruppo un Fratello Musulmano, l’avvocato ed ex deputato Sobhi Salah. Che la confraternita, tuttora considerata fuorilegge ma da sempre tollerata, stia ricevendo un’ulteriore legittimazione costituzionale è segnalato anche da un’intervista ad un noto portavoce, Essam El Arian, fatta da una rete televisiva imprecisata, ma ripresa dalla tv di stato, in una prima volta assoluta per l’Egitto.

Altra novità di rilievo è la una nuova sfida all’ Esercito della «Coalizione dei giovani» anti-Mubarak, che aveva promosso la protesta del 25 gennaio. La Coalizione ha annunciato che se il Consiglio Supremo delle Forze Armate, che da venerdì scorso ha il controllo del paese, non comunicherà al più presto un calendario delle tappe del suo lavoro, non sarà cambiato il governo, come è stato promesso, e non sarà abolita la legge d’emergenza in vigore dal 1981, venerdì prossimo, giornata della «Marcia della Vittoria», potrebbe ricominciare un sit-in in piazza Tahrir. I vertici militari da parte loro hanno ribadito la loro contrarietà agli scioperi dei lavoratori che lottano e manifestano per migliorare la loro condizione e non soltanto per arrivare ad un Egitto più democratico. Secondo l’Esercito «il popolo deve capire che scioperi e sit-in e l’alt nel lavoro e nella produzione e i danni alle industrie non risolveranno i loro problemi…Il risultato di questo prolungato stato di instabilità sociale sarà catastrofico». I giovani, aggiungono i comandanti militari, devono «salvaguardare le infrastrutture sociali ed economiche, perchè la democrazia significa dialogo e non contrapposizione». In sostanza i militari dicono agli egiziani: la vostra ribellione è finita con la cacciata di Mubarak, ora tutti zitti e al lavoro e non turbate il sistema economico e sociale egiziano che vede il 40% della popolazione vivere in povertà, con 2 dollari al giorno. Nena News

lunedì 14 febbraio 2011

Piazza Al Manara (Ramallah) in festa per vittoria egiziana

Festeggiamenti a Ramallah per la vittoria egiziana

DA MIDAN AL TAHRIR A MANARA SQUARE
La vittoria del popolo egiziano festeggiata anche nei territori occupati palestinesi. Manifestanti nella piazza centrale di Ramallah.

Ramallah 12 febbraio 2011, Nena News – Anche nei territori occupati palestinesi si festeggia l’uscita di scena di Mubarak e la vittoria del popolo egiziano. Ieri sera, dopo la notizia delle dimissioni, un migliaio di persone si sono radunate spontaneamente nella piazza centrale di Ramallah, Al-Manara, ieri in connessione diretta con la Midan Tahrir (Piazza della Liberazione) a Il Cairo. Visibile la presenza della polizia dell’Anp, anche in borghese tra la folla, che nelle settimane precedenti aveva già represso due tentativi di manifestazione di solidarietà con le rivoluzioni tunisina ed egiziana. Questa volta invece non ha potuto impedire che si radunasse una folla, certo non oceanica, ma mossa da grande entusiasmo e commozione, come non si vedeva da parecchio tempo da queste parti.
“Non mi ricordo quando e’ stata l’ultima volta che sono stato cosi felice” dice Saed, cinquanta anni, agronomo, un passato da militante comunista.
In piazza si incontrano tanti giovani, cosi’ simili ai loro coetanei di piazza Tahrir, che oggi non hanno avuto bisogno di utilizzare facebook e twitter per radunarsi. Sono presenti persone di varia estrazione sociale, età ed appartenenza politica, anche se in maggioranza quello si potrebbe definire il “ceto medio” di Ramallah. Nessuna bandiera di partito, tante bandiere egiziane e qualcuna palestinese. Omar Bhargouti, coordinatore della campagna BDS in Palestina, porta un cartello con lo slogan : “Freedom wins! 2 down, 20 to go!” (La liberta’ vince! Due giu’, e ora gli altri 20!) con esplicito riferimento ad altri leader autoritari dei paesi arabi.

La folla intona gli slogan ormai divenuti celebri in Egitto, “il popolo vuole rovesciare il sistema” (Al sha’b yurid isqat al nitham!) ieri diventato “ il popolo ha rovesciato il sistema” (Al sha’b asqata al nitham).

Lo stesso slogan si trasforma, con un gioco di parole, “il popolo vuole la fine delle divisioni”, riferito sia alla situazione interna palestinese (all’opposizione tra Fatah e Hamas) ma rivolto anche alla divisione tra i paesi arabi, ricordando la figura di Abdel Nasser.

Tala’, una giovane palestinese, con un inglese impeccabile, afferma: “finora mi sono sempre sentita orgogliosa di essere palestinese, ma non di essere araba, perché i regimi arabi non supportavano veramente la causa palestinese. Oggi, grazie agli egiziani, mi sento fiera di essere araba”.

La domanda d’obbligo e’ che effetto avrà il cambiamento in Egitto sulla situazione palestinese. Omar Bharghouti, coordinatore della campagna BDS in Palestina risponde che “Israele e’ il principale perdente, e non potrà più arrogarsi il titolo di unica democrazia del Medio Oriente. Con la caduta di Mubarak ha perso il suo più’ grande alleato nella regione: l’Egitto e’ cambiato, il Libano e’ cambiato, nei paesi confinanti c’e’ aria di cambiamento. Anche l’Autorità Palestinese, che ha sempre apertamente sostenuto il rais, ne esce indebolita. Hamas, invece, che inizialmente non ha avuto il coraggio di appoggiare la rivolta egiziana, ha poi cambiato atteggiamento ed ora festeggia a Gaza e ne esce meno indebolita.”

Un altro Barghouti, Mustafa, leader del partito di sinistra Al Mubadara (Iniziativa Nazionale Palestinese), ribadisce che “assistiamo ad una celebrazione della libertà e della democrazia. Adesso l’Egitto, e gli altri paesi arabi, potranno finalmente esprimere piena e libera solidarietà al popolo palestinese. I nuovi governi democratici nei paesi arabi non potranno più sostenere gli accordi con Israele contrari ai diritti dei palestinesi e alla volontà della popolazione. I mutamenti in Egitto influenzeranno la politica interna palestinese. Come si sente in questa piazza, il popolo palestinese chiede unità e democrazia. Hamas e Fatah provengono dalla stessa scuola del “partito unico” di Mubarak: e’ arrivato il tempo per una vera libertà di espressione e multipartitismo”.
Al Manara riapre lentamente al traffico e i giovani palestinesi abbandonano la piazza ma non l’entusiasmo per gli eventi che hanno aperto questo 2011. Nonostante la coscienza di rimanere ancora sotto l’occupazione israeliana, si percepisce una forte sensazione positiva condivisa: che il processo di cambiamento nato in Tunisia e proseguito in Egitto investirà tutti i popoli arabi, inclusi i palestinesi. Visto che siamo in tema di rivoluzione, viene da dire: “ce n’est pas qu’un début”! Nena News

* Articolo di Martina YaniZzotto, Dahud al Akhmar, con la collaborazione di Nura Al Khalili

domenica 13 febbraio 2011

Festeggiamenti al Cairo

LA NOTTE DELLA FESTA, PRIMO GIORNO SENZA MUBARAK

LA NOTTE DELLA FESTA, PRIMO GIORNO SENZA MUBARAK
Sono andati avanti per tutta la notte, ovunque in Egitto, i festeggiamenti per la caduta di Hosni Mubarak. Ora comincia una fase delicata, con l'esercito al potere. Guarda il video.

Il Cairo, 12 febbraio 2011, Nena News – Il Cairo e l’Egitto si sono svegliati stamani nel primo giorno, dopo trent’anni, con Hosni Mubarak non piu’ al potere. Lo scarno comunicato, quaranta parole in tutto, letto ieri pomeriggio dal vice presidente Omar Suleiman a nome del Consiglio militare supremo, ha chiuso l’era di un leader che credeva di essere un faraone dei nostri giorni. Piazza Tahrir, gonfia di manifestanti, è esplosa in un boato liberatorio di gioia. I festeggiamenti si sono impadroniti delle strade di tutto il paese, dove migliaia di persone sono scese con bandiere nazionali, cantando e ballando. Qualche ora prima Mubarak aveva lasciato il Cairo e raggiunto con la famiglia la sua residenza di Sharm el Sheikh. L’annuncio ha chiuso 18 giorni di proteste e battaglie anche violente che hanno provocato la morte più di trecento morti manifestanti e aperto una fase delicata nella quale saranno le Forze Armate, che hanno ricevuto tutti i poteri da Mubarak, a gestire la transizione verso la democrazia. Un po’ tutti gli egiziani, dall’intellettuale all’uomo della strada, sono convinti che l’esercito continuerà a svolgere il ruolo positivo che ha avuto sino ad oggi nella crisi egiziana. Si prevede che il Consiglio militare scioglierà subito il Parlamento e nominerà un nuovo primo ministro, forse l’attuale presidente della Corte costituzionale Faruk Sultan, mentre rimane incerto il destino del vice presidente Omar Suleiman. Già scaldano i motori alcuni dei possibili candidati alla presidenza, come il leader delle opposizioni Mohamed el Baradei e il segretario generale della Lega Araba Amr Mussa.

A costare caro al “faraone” è stata con molta probabilità la sua impuntatura per rimanere al comando, dopo che per tutta la giornata di giovedi si erano susseguite voci che davano per certe le sue dimissioni entro la serata. La giornata di ieri era cominciata nel segno di quella dichiarazione e nel timore che la grande manifestazione annunciata al Cairo potesse indurre una reazione violenta dei soldati e dei carri armati, schierati fino a ieri quasi esclusivamente a proteggere i manifestanti (denunce di atti di segno contrario sono giunte però da centri per i diritti umanitari nei giorni scorsi), per fermare i dimostranti che volevano raggiungere il palazzo presidenziale. Il comunicato n. 2 del Consiglio Supremo delle Forze Armate diffuso ieri mattina apriva la porta a scenari inquietanti. Non si sa se siano state queste paure a convincere Mubarak a salire alle 14 su un aereo che lo ha portato a Sharm el Sheikh, o se i vertici delle forze armate abbiano deciso di metterlo di fronte alla necessità di andar via, dato il numero incredibile di persone che continuava ad affluire a Tahrir e delle migliaia che stavano marciando verso il palazzo presidenziale. Quello che certo che l’11 febbraio rimarra’ scolpito nella storia dell’Egitto per il successo di una rivoluzione popolare pacifica che in 18 giorni ha sconfitto un leader che appena qualche settimana fa appariva invincibile. Nena News

sabato 12 febbraio 2011

La ribellione egiziana e le sue implicazioni in Palestina

Questo articolo è stato scritto il 29 gennaio e come a dimostrare la giustezza delle analisi di Ali Abunimah, il primo febbraio il re giordano Abdallah ha licenziato il vecchio primo ministro sostituendolo con Maarouf Bakhit. L’obiettivo del monarca giordano era quello di stemperare la determinazione delle folle popolari che chiedevano riforme economiche e politiche oltre a manifestare solidarietà con il popolo tunisino ed egiziano. Il tentativo è miseramente fallito, ed è di oggi la notizia che le tribù beduine più vicine alla casa regnante hanno rotto un silenzio decennale per accusare la regina di corruzione.
Il 2 febbraio il dittatore yemenita, Ali Abdallah Saleh, ha tentato dal canto suo di tendere una mano all’opposizione, che da giorni è in piazza per chiedere la fine del regime, annunciando che alla fine del suo mandato, nel 2013, non si ripresenterà ed avvierà nel frattempo riforme politiche.
Come è noto, inoltre, molti altri Paesi della regione mediorientale, compresi i territori di Cisgiordania e Gaza, sono stati teatro, dopo la stesura di questo articolo, di manifestazioni che coniugano la solidarietà verso l’Egitto e rivendicazioni interne politiche, economiche e culturali, nonostante i divieti e le azioni repressive dell’ANP di Abu Mazen in Cisgiordania e di Hamas a Gaza. [C.N.]





La ribellione egiziana e le sue implicazioni in Palestina

Abunimah Ali
29 Gennaio 2011
n°20056

Siamo nel mezzo di un terremoto politico nel mondo arabo e la terra non ha ancora smesso di tremare. Fare previsioni quando gli eventi sono così mutevoli è rischioso, ma non c’è dubbio che la ribellione in Egitto – comunque finisca – avrà un impatto drammatico nella regione mediorientale e in Palestina.

Se il regime di Mubarak cadesse, e fosse rimpiazzato da uno meno legato a Israele e agli Stati Uniti, Israele perderebbe. Come ha commentato Aluf Benn su Haaretz, “Il dissolversi del potere del governo del presidente Hosni Mubarak in Egitto lascia Israele in uno stato di angoscia strategica. Senza Mubarak, Israele resta quasi senza amici in Medioriente; lo scorso anno, Israele ha visto indebolirsi la sua alleanza con la Turchia”. [1]

Inoltre, Benn osserva: “Israele ha due alleati strategici nella regione: la Giordania e l’Autorità Palestinese.” Ma ciò che Benn non dice è che nemmeno questi due “alleati” saranno immuni dagli effetti di ciò che sta avvenendo.

Nelle ultime due settimane sono stato a Doha a esaminare i Palestine Papers resi pubblici da Al Jazeera. Questi documenti sottolineano fino a che punto la divisione tra l’Autorità Palestinese a Ramallah (appoggiata dagli Stati Uniti e capeggiata da Mahmoud Abbas e da Fatah), da un lato, e Hamas nella striscia di Gaza, dall’altro, è stata il risultato di una decisione politica di tre attori regionali: gli Stati Uniti, l’Egitto e Israele [2]. Questa politica includeva la rigorosa applicazione da parte dell’Egitto dell’assedio di Gaza.

Se il regime di Mubarak cadesse, gli Stati Uniti perderebbero l’enorme influenza che hanno sulla situazione in Palestina e l’Autorità Palestinese di Abbas perderebbe uno dei suoi principali alleati contro Hamas.
Già screditata dal livello della sua collaborazione, come è dimostrato dai Palestine Papers, l’Autorità Palestinese sarà indebolita maggiormente. Senza un credibile “processo di pace” a giustificare il suo continuo “coordinamento della sicurezza” con Israele, o addirittura la sua esistenza, potrebbe cominciare il conto alla rovescia per l’implosione dell’Autorità Palestinese. Anche il supporto al repressivo Stato di polizia in costruzione dell’Autorità Palestinese da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea non sarebbe più politicamente difendibile. Hamas sarebbe l’immediato beneficiario di questa situazione, ma non necessariamente per lungo tempo. Per la prima volta da anni stiamo vedendo ampi movimenti di massa che, se includono anche le organizzazioni islamiche, non sono necessariamente dominati o controllati da queste.
C’è anche un effetto dimostrativo per i palestinesi: la durata dei regimi tunisino e egiziano si è basata sulla percezione che essi fossero forti e sulla loro capacità di terrorizzare alcune fasce di popolazione e di cooptarne delle altre. La relativa facilità con cui i tunisini si sono liberati del loro dittatore e la velocità con cui l’Egitto, e forse anche lo Yemen, sembrano seguire la medesima strada, possono rappresentare un messaggio per i palestinesi: né le forze di sicurezza israeliane, né quelle dell’Autorità Palestinese sono imbattibili come appaiono. In verità, la “deterrenza” di Israele ha già subito un duro colpo a causa del fallimento del tentativo di sconfiggere Hezbollah in Libano nel 2006 e Hamas a Gaza con gli attacchi dell’inverno 2008-2009.
Per questo motivo per l’Autorità Palestinese di Abbas, non è mai stato speso tanto denaro internazionale in forze di sicurezza con risultati così scarsi. Il segreto di Pulcinella è che senza l’occupazione da parte di Israele della Cisgiordania e senza il suo assedio a Gaza (con l’aiuto del regime di Mubarak), Abbas e i suoi apparati di sicurezza sarebbero caduti molto tempo fa. Sulla base di un falso processo di pace, gli Stati Uniti, l’Unione Europea e Israele col supporto dei decrepiti regimi arabi che sono ora sotto la minaccia della loro popolazione, hanno costruito in Palestina un castello di carte che probabilmente non starà in piedi ancora molto a lungo.
Questa volta il messaggio può essere che la risposta non sia tanto la resistenza militare quanto piuttosto il potere del popolo e la forte enfasi delle proteste popolari. Oggi, i palestinesi sono almeno metà della popolazione nella Palestina storica – Israele, la Cisgiordania e la striscia di Gaza unite. Se insorgessero tutti insieme per chiedere uguali diritti, cosa potrebbe fare Israele per fermarli? La brutale violenza di Israele e la sua forza letale non hanno fermato regolari manifestazioni nei villaggi della Cisgiordania inclusi Bilin e Beit Ommar.
Israele deve comunque mettere in conto che rispondendo a ogni ribellione con la forza, il suo già precario supporto internazionale possa cominciare a svanire velocemente come quello verso Mubarak. Il regime di Mubarak, sembra, stia subendo una rapida “delegittimazione”. I leader israeliani hanno chiarito di temere l’eventuale venir meno del supporto internazionale molto più di qualsiasi minaccia militare esterna. Col potere che stanno acquisendo le popolazioni arabe contrapponendosi ai loro regimi, i governi arabi potrebbero non essere in grado di continuare a essere complici silenziosi, come hanno fatto per anni, mentre Israele opprimeva i palestinesi.
Per quanto riguarda la Giordania, un cambiamento è già in corso. Ieri ho assistito a una protesta di migliaia di persone nel centro di Amman. Queste pacifiche e ben organizzate proteste, indette da una coalizione di organizzazioni islamiche e partiti di sinistra, si sono tenute per settimane nelle città di tutto il Paese. I manifestanti chiedono le dimissioni del governo del Primo Ministro Samir al-Rifai, lo scioglimento del parlamento, eletto in quelle che sono da molti viste come elezioni fraudolente del novembre 2010, nuove elezioni libere basate su leggi democratiche, giustizia economica, la fine della corruzione e l’annullamento del trattato di pace con Israele. Ci sono state grandi manifestazioni di solidarietà con il popolo egiziano.
Nessuno di questi partiti durante la manifestazione ha chiesto che una rivoluzione simile a quella che è avvenuta in Tunisia ed Egitto si realizzasse in Giordania e non ci sono ragioni per credere che uno sviluppo simile sia imminente. Ma gli slogan uditi durante le manifestazioni non hanno precedenti nella loro audacia e nella loro sfida diretta alle autorità. Qualsiasi governo sensibile ai desideri del popolo dovrà rivedere la sua relazione con Israele e gli Stati Uniti.
Oggi solo una cosa è certa: qualsiasi cosa accada nella regione, la voce del popolo non può più essere ignorata.
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Note
[1] “Without Egypt, Israel will be left with no friends in Mideast,” 29 January 2011.
(“Senza l’Egitto di Mubarak e con le relazioni con la Turchia in bilico, Israele potrebbe essere costretto a trovare nuovi alleati.”)

[2] Vedi i Palestianian Papers e il “colpo di Stato di Gaza”.

* The Electronic Intifada, 29 January 2011:
http://electronicintifada.net/v2/ar...

*Ali Abunimah è co-fondatore di Electronic Intifada, autore di “One Country: A Bold Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse” e ha contribuito a “The Goldstone Report: The Legacy of the Landmark Investigation of the Gaza Conflict” (Nation Books).

Traduzione Letizia Menziani

venerdì 11 febbraio 2011

Torture e soprusi inammissibili. Lo "scontro di civiltà" ha fatto molte vittime innocenti

MAROCCO: TORTURE IN NOME DELLA GUERRA ALL’ISLAM RADICALE
La vicenda di Abou Elkassim Britel, cittadino italiano, vittima delle "consegne straordinarie" denunciate dal senatore svizzero Dick Marty, e della presunta "lotta al terrorismo".

DI SILVIA CATTORI*

Roma, 11 febbraio 2011, Nena News (nella foto la prigione di Kanitra) – Quando incontrai la signora Khadija Anna L. Pighizzini, tre anni fa, e mi raccontò la sua storia inaudita, mi si spezzò il cuore. Viveva una vita serena e tranquilla fino a quando, nel novembre 2001, fu improvvisamente assalita da ondate di giornalisti che, dopo aver diffuso ripetute menzogne, con lo scopo di associare suo marito al terrorismo, pretendevano sue dichiarazioni. Avevano ripreso quelle menzogne provenienti da servizi segreti, da un articolo di Guido Olimpio, giornalista al Corriere della Sera.

Fu l’inizio di un calvario tutt’ora in atto. [1]

Era il periodo in cui ordinari cittadini che frequentavano la moschea, venivano sospettati, calunniati da giornalisti legati a servizi segreti, la cui missione era di diffondere notizie false nel quadro della guerra di propaganda contro l’Islam. Si trattava di preparare l’opinione pubblica a percepire come utile la guerra contro l’Islam.

Da allora, Khadija, una signora dolce e discreta, cresciuta in una stimata famiglia italiana di Bergamo, è stata costretta a lottare per difendere l’onore della sua famiglia e far conoscere la spaventosa sorte di suo marito Abou Elkassim Britel, una persona rispettabile ingiustamente associata al terrorismo, e mantenuto in prigione senza nessuna colpa.

Rapito nel 2002 da agenti della CIA, Abou ElKassim Britel, ha subito la sorte terrificante di migliaia di musulmani nell’ambito di quelle attività segrete e illegali chiamate “extraordinary rendition”, denunciate sin dal 2004 dal senatore svizzero Dick Marty.

Imprigionato e torturato in un luogo segreto in Pakistan, Abou ElKassim Britel è stato in seguito trasportato da agenti della CIA in Marocco, consegnato ai servizi segreti marocchini per essere di nuovo torturato e mantenuto in segreto nella sede dei servizi di intelligence a Témara. Sottoposto a trattamenti violenti e umilianti per oltre 8 anni, Abou Elkassim Britel ha intrapreso lunghi e rischiosi scioperi della fame per rivendicare la sua innocenza e il diritto di essere trattato umanamente. [2]

Sua moglie, vive con sempre maggiori difficoltà la realtà crudele che colpisce il suo sposo incarcerato in Marocco, un paese assai attraente per i turisti che ignorano tutte le violazioni commesse dal Regno. Di ritorno dalla sua ultima visita al marito in prigione racconta :

« È stato un viaggio faticoso soprattutto dal punto di vista emotivo. Ho incontrato mio marito nella Prigione Centrale di Kenitra dove è stato richiuso dopo il violento trasferimento dello scorso 9 ottobre. [3]

Ancora non si è ripreso dallo choc. È stato derubato di tutto. Gli sono stati restituiti solo in parte i suoi vestiti, persino il cibo gli hanno portato via.

L’ho trovato magro, debole. Spesso la notte non riesce a dormire, c’è tensione nel reparto. Mi ha parlato delle torture subite. Di come è stato trasferito dall’altra prigione lì, bendato e ammanettato, tremante di freddo nel primo mattino. Della spinta che gli hanno dato per farlo scendere dal furgone; lui non vedeva e le braccia erano bloccate dietro la schiena. Della sensazione di disagio e terrore per la caduta nel vuoto, poi i colpi di manganello, i calci, gli insulti, le minacce.

Un’esperienza orribile per Kassim riportato all’improvviso indietro nel tempo, alla detenzione segreta, all’extraordinary rendition: la stessa violenza che si ripeteva, la stessa impossibilità a proteggersi, lo stesso timore indotto dal non sapere cosa sta per succedere.

Si è difeso con urla disperate dicendo loro: “Voglio vedere subito il Console d’Italia! Voglio vedere subito il Console d’Italia!”. Questo ha bloccato i suoi torturatori e gli ha forse risparmiato altre brutalità, ma non il denudamento, la fame, il freddo.

Gli agenti della squadra speciale -quegli stessi che hanno picchiato i prigionieri, fra i quali mio marito, al momento del trasferimento- terrorizzano, provocano, cercano di creare incidenti per colpirli di nuovo.

Un giorno sono entrati nella stanza della visita, con i loro stivali pesanti facendo roteare il manganello appeso alla cintura, la trasmittente nell’altra mano, si è sentito il gelo, è sceso il silenzio, ho visto Kassim irrigidirsi, ho cercato di mantenere viva la conversazione, niente da fare. Un’intimidazione, per farci vedere chi comanda e a che condizioni.

Mio marito non sta bene, ha tanti disturbi causati dalle torture e dalle pessime condizioni in cui vive. A Kenitra non può cucinarsi nulla, deve mangiare lo scarso e spesso cattivo cibo della prigione, temo che aggiungano sostanze psicotrope, o velenose. L’hanno già fatto, l’ho visto tremare e non reggersi in piedi dopo aver mangiato il pasto della prigione.

Vive in una cella con la muffa che avanza sui muri, dorme su qualche coperta umida poggiata sul cemento, si ripara dal freddo stendendo una coperta dal giaciglio sopra al suo; mi ha detto che gli pare di dormire in una bara, che avrebbe bisogno di una cella da solo per attuare il massimo di precauzioni per la sua salute, ma gli è negata.

Niente libri, niente telefonate a casa, per noi così lontani queste comunicazioni erano preziose.

Mio marito è cittadino italiano, ma non ha mai avuto alcun sostegno decisivo dal nostro governo. Io sono qui in Italia, devo lavorare per mantenere lui e me e per andarlo a trovare ogni tre mesi. Sono preoccupata, nulla è certo in Marocco.

Il Console d’Italia, che aveva incontrato mio marito dopo il trasferimento e aveva visto com’era ridotto, mi ha accompagnato alla prima visita ed è riuscito a strappare un permesso di visita giornaliero, spero che continuerà ad aiutarci. Ora si è reso conto della gravità della situazione, che non sfugge nemmeno ai responsabili delle carceri. Gli scioperi della fame di coloro che sono incarcerati con mio marito – i cosiddetti “islamisti”, musulmani radicali – continuano ; come pure le proteste dei loro familiari.

Oltre un centinaio di prigionieri “islamisti”, fra i quali mio marito, sono stati deportati da sei diverse prigioni e rinchiusi in questo nuovo reparto, costruito proprio per loro. Sembra che lo stato marocchino pretenda delle ammissioni di responsabilità prima di liberarli, o voglia provocare reazioni forti per poi tenerli ancora in carcere.

Molti di loro, arrestati nel 2003, sono quasi al termine della pena. Queste persone, trattenute arbitrariamente sono per la maggior parte assolutamente innocenti. È un’ingiustizia. I processi sono stati iniqui, come denunciano i militanti che si battono da allora per la loro liberazione. Lo dicono e lo ripetono le organizzazioni nazionali e internazionali, ci sono molte prove. [4]

È una denuncia impressionante che descrive gli stessi metodi brutali e fuori dalla legge toccati a mio marito e a tanti altri.

Sono otto anni di torture per i prigionieri e le loro famiglie. Il Marocco ha rifiutato ogni richiesta di dialogo e di revisione; anzi da anni prima delle occasioni di grazia reale compare la solita notizia “smantellata cellula terroristica”, spesso poi non se ne sa più nulla. Non so cosa aspettarmi.

Mio marito è uno delle decine di migliaia di persone rapite da agenti della Central Intelligence Agency (CIA) dopo l’11 settembre cui è toccata questa dura sorte. Alcuni sono spariti per sempre; altri sono rientrati a casa distrutti, dopo anni rinchiusi a Guantanamo.

A noi manca il sostegno italiano, mai nessun governo ha chiesto con forza la liberazione di questo cittadino incensurato che è mio marito. Avrebbero dovuto farlo; la loro indifferenza mi ha fatto capire l’utilizzo che si fa dell’attività di servizi segreti che hanno inventato menzogne, che hanno mentito per fare di mio marito un criminale. La sorte di cittadini italiani di religione musulmana non ha nessun valore per loro.

Temo per la vita di mio marito e mi sento impotente. Ogni giorno mi chiedo se e come tornerà a casa.

Nonostante tutto insisto. In rete comunico le informazioni che i giornali non danno, contatto le ONG. Ma mi sento molto sola e non vedo una soluzione. Quello che manca è la presa di posizione esplicita di qualche personalità conosciuta; penso a esperti nel capo del diritto e dei diritti umani in particolare, qualcuno che possa aiutarmi a comunicare con lo stato italiano.

È assurdo che di fronte al pericolo di vita che mio marito corre ogni giorno, all’ingiustizia che lo tiene detenuto da quasi nove anni, l’azione della diplomazia italiana si limiti a un colloquio con il direttore del carcere.

Questa esperienza ci ha molto provato. Mio marito è completamente innocente. Si è trovato coinvolto, senza ragione, solo perché di religione musulmana, quando gli Stati Uniti volevano accreditare l’idea di una minaccia terroristica. Il Pentagono doveva fornire un certo numero di persone da definire “terroristi”. È così che vennero incriminati uomini innocenti come lui. »

Questa vicenda terrificante, che ha distrutto la vita di queste brave persone, ha fatto emergere il ruolo inquietante di giornalisti “esperti in terrorismo”, “esperti in servizi segreti” che, a volte all’insaputa dei giornali che pubblicano i loro articoli, sono in realtà agenti la cui principale attività à di diffondere notizie false, far regnare la paura fondata sulla falsa minaccia dell’Islam, in modo da far accettare come necessarie per la “sicurezza” le guerre più crudeli e sanguinose contro i musulmani.

Gli stati in guerra si sono sempre serviti di giornalisti come copertura per i loro agenti segreti. Ma da quando alcuni giornalisti sono stati identificati e denunciati dalle vittime delle loro menzogne [5], è nostro dovere portare alla luce fatti così gravi e dolorosi.

Si veda anche:

- « “Extraordinary renditions” : Ufficiali del Pentagono sequestrano, torturano, e poi si assolvono », di Michele Paris, silviacattori.net, 11 settembre 2010.

- « Una vittoria parziale per dei prigionieri sfiniti », di Silvia Cattori, silviacattori.net, 4 gennaio 2010.

- « Alcuni detenuti muoiono lentamente nell’indifferenza generale », di Silvia Cattori, silviacattori.net, 21 dicembre 2009.

[1] In prima pagina c’era questo titolo: « El Kassim, l’ insospettabile di Bergamo che arruolava volontari della Jihad », di Guido Olimpio, Corriere della Sera 20 novembre 2001.

L’articolo era a pag. 13: « Da Bergamo a Kabul: così il marocchino reclutava militanti ».

Si veda anche: « Il mistero di El Kassim, da Bergamo a Casablanca (via Kabul) », di Guido Olimpio, Corriere della Sera, 22 maggio 2003.

[2] Si veda : « Sciopero della fame, resistenza, richiesta di giustizia e condizioni dignitose: Abou Elkassim Britel nelle prigioni del Marocco », giustiziaperkassim.net.

[3] Si veda : « Ancora violenza contro Kassim Britel », kassimlibero.splinder.com, 11 ottobre 2010.

[4] – Denuncia di Alkarama al relatore Onu sulla tortura. Si veda in francese dal sito della Ong svizzera : « M. Abou Elkassim Britel, victime de tortures et de traitements cruels en détention », alkarama.org, 21 novembre 2010.

- Human Rights Watch lo ricorda nel recente rapporto sulle detenzioni arbitrarie in Marocco (rapporto di HRW – comunicato stampa in francese) : « Maroc : Le gouvernement doit faire cesser les abus liés aux arrestations dans le cadre de la loi antiterroriste », 25 ottobre 2010.

- Si veda il rapporto in lingua inglese « Morocco: ‘Stop Looking for Your Son’ – Illegal Detentions Under the Counterterrorism Law », Human Rights Watch, 25 ottobre 2010.

- Si veda anche questo breve, ma preciso articolo in francese: « Arrêtez de chercher votre fils est le titre du dernier rapport de Human Rights Watch (HRW) sur la détention illégale au Maroc », TELQUEL, 25 ottobre 2010.

[5] Si veda : « Islam : Il nemico inventato », di Silvia Cattori, silviacattori.net, 24 novembre 2008.

Si veda anche sul Sito ufficiale di Youssef Nada l’informazione su Guido Olimpio.

mercoledì 9 febbraio 2011

Ebraicizzazione di Jaffa

E SE JAFFA DIVENTA HEBRON?
Aumenta il numero delle provocazioni attuate da gruppi di ebrei religiosi nazionalisti, a Jaffa Con un sempre maggior indebolimento dei residenti palestinesi, a vantaggio delle comunità religiose ultranazionaliste o dell’avanzata delle boutique radical-chic, deii caffè e condomini Bauhaus di Tel Aviv.

Di Barbara Antonelli



Gerusalemme 2 febbraio 2011 Nena News – A metà gennaio un gruppo di 300 ebrei religiosi nazionalisti ha marciato nelle strade di Jaffa, fino alla moschea di Al Nohza, sul Jerusalem Boulevard, insultando diversi cittadini arabi. Un atto aggressivo al quale molti residenti palestinesi della città, ma anche israeliani, hanno reagito organizzando una marcia unitaria lo scorso sabato (vedi il video sotto). Quello dello scorso 15 gennaio è però solo l’ultimo dei tanti sintomi di un processo di “giudaizzazione” di questa città oggi mista, a due passi da Tel Aviv, supportato dalla complicità dalle politiche del municipio (unico, quello Tel Aviv-Jaffa) che da anni non ascolta i bisogni dei residenti palestinesi, lasciando spazio all’espansione sul territorio di associazioni religiose ebraiche legate ai leader del movimento dei coloni in Cisgiordania.





Grain Torani è una di quelle, un’associazione religiosa sionista che ha sede anche a Jaffa, dove è rappresentata da circa 50 famiglie ortodosse, ma che ha membri sparsi in molti insediamenti illegali in Cisgiordania. All’accusa dei residenti arabi che tale fenomeno – cioè l’acquisto di appartamenti ad uso esclusivo di religiosi ebrei ortodossi nel pieno dei quartieri arabi- trattasi di “colonizzazione”, il direttore di Garin Torani, Hai Garin si è difeso lunedì sulle pagine del quotidiano israeliano Ha’aretz dicendo che i partecipanti alla manifestazione di sabato scorso non erano di Jaffa, ma di fuori e che la sua organizzazione lavora per la coesistenza. Peccato però che abbia acquistato da poco un lotto edificabile proprio nel quartiere arabo Ajami, che lui dice destinato “a parenti e amici che conducono uno stile di vita nel rispetto dell’ortodossia religiosa ebraica”.

Il fenomeno di associazioni religiose ebraiche, spesso legate al movimento dei coloni, che acquistano lotti edificabili o interi fabbricati, è un fenomeno che è aumentato negli ultimi 10 anni a Jaffa e che è in costante incremento. La stessa manovra è stata compiuta anche dalla compagnia immobiliare B’Enumah, che come altre società simili, ha tra le sue priorità quello di creare spazi abitativi (con prezzi agevolati) per comunità e famiglie religiose e sioniste. B’Enumah, che costruisce abitazioni a costi stracciati soprattutto nelle colonie illegali della Cisgiordania, ha vinto a febbraio del 2010 una battaglia legale presso la Corte contro associazioni e comitati di residenti arabi, accaparrandosi la proprietà di uno dei pochi stabili rimasti liberi a Jaffa. Adottando una politica che ACRI, l’associazione in difesa dei diritti civili in Israele, ha definito “razzista.”

A metà del 2009 nel cuore di Ajami è stata anche creata una “hesder yeshiva” una scuola religiosa speciale per soli uomini, che combina gli insegnamenti religiosi della Torah con il servizio militare .I suoi studenti, hanno ribattezzato Ajami in Givat Aliyah (nome che in ebraico si riferisce all’immigrazione di ebrei in Israele). “B’Enumah si accanisce sulle città miste di Israele – spiega Sami Shuhada del comitato per il diritto alla casa chiamato Darna – utilizzando principi razzisti e separatisti”. E’ stato l’ILA( Israel Land Administration), che è parte del governo di Israele e che detiene oltre il 90% della terra pubblica dello stato, a vendere a B’Enumah il lotto immobiliare su Etrog Street. Ed è ancora l’ILA ad aver ingaggiato proprio come “contractor” per la gestione delle abitazioni AO (Absentee Ownership House, case cioè che i residenti palestinesi furono forzati ad abbandonare nel 1948, diventate proprietà dello Stato e riassegnate*), la compagnia immobiliare Amidah, che ha forti legami e sovvenzioni dal governo israeliano. Secondo il rapporto dell’associazione israeliana BimKom – Planners for Planning Rights, il 40% della popolazione palestinese di Jaffa abita in case AO. Una fetta di popolazione che è continuamente minacciata dal rischio di ricevere un ordine di sfratto. Quando un intestatario di un’abitazione AO muore, la casa passa automaticamente al figlio o al coniuge, ma la regola vale per una sola generazione. Dalla seconda in poi, il residente viene considerato automaticamente un “abusivo”. E può quindi essere automaticamente sfrattato. Lo stesso avviene se i residenti hanno violato i “termini di proprietà protetta” che vincolano le case AO: cioè se hanno apportato modifiche (aggiunta di bagni, cucine, o camere e piani extra) considerate dall’ILA atti di abusivismo edilizio.

Abusivismo al quale per i palestinesi è impossibile sfuggire, dal momento che il comune di Tel Aviv nega qualsiasi richiesta di modifica o ristrutturazione di tali immobili. Così l’ILA può sfrattare i residenti arabi, decidendo arbitrariamente i criteri di eleggibilità del residente ad avere la priorità sull’acquisto e rimettendo in vendita l’abitazione sul mercato ad un prezzo molto più alto, che le organizzazioni sioniste possono permettersi.

La collaborazione tra comune di Tel Aviv e interessi delle compagnie immobiliari mira alla completa marginalizzazione ed espulsione della popolazione araba, che da qualche anno ha già iniziato a migrare verso Lod o Ramle. Con un sempre maggior indebolimento dei residenti palestinesi, a vantaggio delle comunità religiose ultranazionaliste da una parte o dall’altra dei mercatini e delle boutique radical-chic, i caffè e i condomini Bauhaus di Tel Aviv, che hanno cominciato la lenta espansione verso Jaffa. Nena News

*Secondo i dati del Mandato Britannico, nel 1945 a Jaffa vivevano 101.580 persone, di cui 59.930 musulmani, 30.820 ebrei e 16.800 cristiani. Nel 1948, rimasero solo 4000 residenti. Il 90% della popolazione palestinese fu espulsa; oggi i circa 20.000 residenti arabi sono numericamente la metà dei residenti ebrei, dopo che a partire dagli anni ’50, ondate di immigrati in Israele sono stati “risistemati” dallo Stato nelle case che precedentemente erano di proprietà di palestinesi, diventati profughi.

Questo articolo è stato realizzato da Barbara Antonelli e il Palestine Monitor.

Vedi il video della protesta:



Video: http://www.youtube.com/watch?v=fwA1Hd-qO2E&feature=player_embedded

Jaffa

martedì 8 febbraio 2011

EGITTO: OGGI NUOVE MANIFESTAZIONI ANTI-MUBARAK

Il rais ordina aumenti dei salari e delle pensioni, prova a migliorare la sua immagine ma altre centinaia di migliaia di egiziani torneranno a manifestare in Piazza Tahrir e in altre citta'

Il Cairo, 08 febbraio 2011, Nena News (foto di Mohammed Hossam Eddin)- Hosni Mubarak prova migliorare la sua immagine. Il rais contestato da milioni di egiziani ha ordinato di aumentare pensioni e salari ai dipendenti pubblici e di creare un fondo per risarcire i danneggiati dalla crisi che da due settimane travolge il paese. Ha persino evocato una commissione d’inchiesta incaricata di indagare sui massacri di manifestanti (oltre 300 morti) compiuti dalla polizia. Ma Piazza Tahrir non gli crede e percio’ non si svuota. Gli egiziani oggi terranno nuove manifestazioni anti-Mubarak, al Cairo e in altre citta’, a conferma che la “rivoluzione del 25 gennaio”, che qualcuno ora chiama la “rivoluzione del Nilo”, non e’ finita e andra’ avanti.

Nena news vi propone il resoconto della situazione in Egitto che pubblica oggi il quotidiano il Manifesto

Trecento anime della bidonville di Duweika ieri reclamavano una casa davanti all’ufficio locale del governatore del Cairo. Una abitazione vera. Con pareti, porte e finestre, non fatta di lamiera come quella dove vivono come bestie. «Siamo disperati, anche noi siamo esseri umani chiediamo di avere una casa», urlavano uomini e donne bloccati dal muro formato da una cinquantina di poliziotti e guardie private. La rivolta dei miserabili che affollano la periferia della capitale egiziana potrebbe seguire a quella della classe media, di operai, intellettuali e dissidenti esplosa in Piazza Tahrir e in altre città. Una insurrezione che ora il regime di Mubarak prova a spegnere annunciando riforme e cambiamenti di facciata e persino un aumento dei salari. Da aprile quelli di impiegati e funzionari pubblici saliranno del 15%, così come le pensioni militari e civili. A deciderlo è stato proprio Mubarak, il raìs che la «rivoluzione del 25 gennaio» vorrebbe mandare in esilio.

Presiedendo ieri la prima riunione plenaria del nuovo governo, Mubarak ha anche ordinato al ministro delle finanze di creare un fondo di 840 milioni di dollari destinati a indennizzare i proprietari di negozi, fabbriche e automobili vittime di furti, atti vandalici o saccheggi avvenuti nei giorni scorsi. Qualcuno scrive che gli Stati Uniti preparano una exit strategy «onorevole» per Mubarak, attraverso il ricovero in una clinica tedesca nei dintorni di Baden-Baden. Ma il raìs non pare affatto sul punto di lasciare subito il potere e il paese come chiedono da 15 giorni milioni di egiziani. E rallentano pure gli Stati Uniti. Il segretario di stato Hillary Clinton – amica, assieme al marito ed ex presidente Bill, per un ventennio di Mubarak – ha detto che chiedere una uscita di scena immediata al presidente egiziano potrebbe complicare piuttosto che aiutare la transizione. Ne esce rivalutato l’ex inviato speciale Usa Frank Wisner, sconfessato brutalmente da Obama per aver affermato che gli Usa puntano ancora su Mubarak per una «transizione ordinata» in Egitto. In fondo aveva detto quello che, con ogni probabilità, pensano a Washington.

Il regime regge, appoggiandosi comodamente sulle Forze Armate. I militari provano a ripulire Piazza Tahrir, senza usare la forza ma ostacolando chi cerca di entrare nel luogo simbolo della «rivoluzione». Anche i giornalisti. Da ieri per accedere in Piazza Tahrir ci vuole l’accredito della televisione di stato che viene rilasciato dopo due giorni. I soldati sono gentili ma anche fermi nel rispettare gli ordini ricevuti. Ieri all’alba hanno anche aperto il fuoco in aria per far arretrare verso il centro della piazza le migliaia di manifestanti anti-Mubarak. Una mossa inutile – nessuno ha fatto marcia indietro – ma che fa temere scenari inquietanti per i prossimi giorni. Da parte sua il vice presidente Omar Suleiman, con la benedizione di Barack Obama puntella il regime e spacca le opposizioni attraverso il «dialogo» avviato due giorni fa. Ieri i nasseristi hanno lasciato la trattativa ma è centrale la posizione dei Fratelli Musulmani che domenica sono stati invitati con tutti gli onori alla trattattiva con il vicepresidente (che invece non ha convocato uno dei principali rappresentanti delle opposizioni, Mohammed ElBaradei). Oggi gli islamisti decideranno cosa fare. La leadership non intende rinunciare ad un possibilità mai avuta negli ultimi anni di negoziare con il regime; i militanti più giovani vorrebbero rimanere assieme al movimento 6 Aprile, principale promotore delle manifestazioni anti-Mubarak.

«Il regime sta flirtando con la Fratellanza» ha ammesso Mohamed el Baltagi, uno dei dirigenti del movimento islamico fondato nel 1928 da Hassan al Banna e illegale in Egitto da decenni. «La Fratellanza vuole il cambiamento e le riforme democratiche ma il suo primo obiettivo è quello di ottenere il riconoscimento ufficiale e di poter svolgere la sua attività alla luce del sole», spiega Ayman Hamed, giornalista esperto di movimenti islamici. D’altronde perchè i Fratelli Musulmani dovrebbero mantenere una linea di intransigenza verso il regime se ora anche gli Stati Uniti, sostenitori prima di Mubarak e ora di Suleiman, fanno aperture senza precedenti. «Gli Stati uniti riesaminano il loro rapporto con i Fratelli Musulmani». Era questo il titolo di un articolo sul Washington Post che descriveva il superamento delle teorie dei neocon sul «conflitto di civiltà» tanto care all’ex presidente George W. Bush. In casa americana l’Islam politico sembra fare meno paura e a Washington ora si considera seriamente la possibilità che i Fratelli Musulmani possano dare una mano ad un regime stretto alleato di Washington in Medio Oriente e che ha garantito il rispetto degli accordi di Camp David con Israele.

Per il ritorno della calma in Egitto, dice l’analista Nabil Abdel Fattah, e il contenimento delle proteste, il coinvolgimento dei FM potrebbe dimostrarsi fondamentale. «Le cronache di questi anni – dice Abdel Fattah – ci hanno abituato a considerare gli islamisti come le prime vittime del regime, soggetti ad arresti arbitrari e abusi. E’ vero ma in parte perchè Mubarak non ha mai affondato i colpi e la Fratellanza da parte sua ha evitato di chiamare alla sollevazione contro il potere. Un rapporto di mutua utilità che ha garantito agli islamisti la possibilità di ritagliarsi spazi politici e persino di partecipare alle elezioni, con liste di indipendenti, pur essendo illegali». Fratelli Musulmani pilastri del regime in cambio di riconoscimenti e garanzie? E’ prematuro (e poco corretto) affermarlo mentre i giochi non sono decisi ai vertici della confraternita. Però i FM in passato hanno contribuito, talvolta senza una piena consapevolezza, a spegnere rivolte e contestazioni. I «Battaglioni» del fondatore al Banna furono usate in funzione anti-sindacale e contro partiti o movimenti indipendentisti. In non pochi casi vennero usati dai servizi di re Farouk per reprimere la sinistra. La Cia considerò i Fratelli egiziani utili contro il comunismo durante il periodo di Gamal Abdel Nasser e nell’estate del 1953 il giovane ideologo del movimento islamico, Said Ramadan, incontrò nella stanza ovale il presidente americano Dwight D. Eisenhower. Sono tempi lontani, immaginare il ripetersi oggi di certi scenari del passato è antistorico, ma la «rivoluzione del 25 gennaio» deve guardarsi anche da una parte dell’opposizione che punta più a rapportarsi con un regime che indosserà in futuro una maschera meno mostruosa che ad un vero rinnovamento democratico.