martedì 31 maggio 2011

Movimento dei giovani palestinesi

GIOVANI PALESTINESI PRONTI PER IL 5 GIUGNO
Il movimento, nato sull'onda delle rivoluzioni arabe, sta organizzando una marcia pacifica verso Gerusalemme in occasione del 44° anniversario della "Naksa", l'occupazione dei Territori nel 1967 .

DI MARTA FORTUNATO

Beit Sahour (Cisgiordania), 30 maggio 2011, Nena News (nella foto: manifestazione del 15 maggio a Betlemme) - In occasione del 5 giugno 2011, commemorazione della Naksa, inizio dell’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967, il movimento dei giovani palestinesi ha organizzato una grande manifestazione a Qalandyia. “Il nostro scopo è quello di manifestare tutti assieme davanti al più disumano posto di blocco di tutta la Cisgiordania e di cercare di oltrepassarlo per dirigerci verso Gerusalemme” ha dichiarato a Nena News Majd Hamid, un ragazzo di 23 anni di Ramallah, molto attivo nel movimento dei giovani palestinesi – “Cristiani e musulmani si raduneranno a Qalandyia e pregheranno insieme per poi dare inizio ad una marcia pacifica verso Gerusalemme”.

Il movimento dei giovani palestinesi ha iniziato a formarsi ben prima delle manifestazioni del 15 marzo 2011, giornata della mobilitazione nazionale per l’unità. Già a dicembre, sull’onda della rivoluzione in Tunisia, un gruppo di giovani ha organizzato una manifestazione a Ramallah, in sostegno ai fratelli arabi, e ha iniziato a delineare un piano d’azione politica.

Questo movimento è costituito principalmente da giovani palestinesi di età compresa tra i 22 e i 30 anni, nati o cresciuti durante la prima Intifada e diventati adolescenti durante il fallimento dei negoziati di Oslo e con l’inizio della Seconda Intifada. Molti di loro sono laureati e hanno avuto la possibilità di trascorrere un periodo di studio all’estero, in Europa o negli Stati Uniti. Secondo Majd, la novità rispetto ad altri movimenti del passato è che ci sono molte persone appartenenti alla classe media e medio-alta e questa è da considerarsi una conquista molto importante perchè “dopo la prima Intifada era diventato molto difficile mobilitare persone di classi sociali più ricche”.

I principi di base di questo movimento sono la rifondazione dell’OLP per rappresentare i palestinesi in tutto il mondo e la necessità di trovare un terza via alternativa alle soluzioni proposte da Fatah e Hamas, di svecchiare la retorica dei discorsi dei leader politici, di rinnovare la classe politica, di parlare delle reali necessità della popolazione palestinese come i diritti civili, la democrazia, la libertà.

Il movimento dei giovani è stato uno degli organizzatori delle manifestazioni del 15 marzo, data in cui migliaia di palestinesi sono scesi nelle piazze delle principali città della Cisgiordania e di Gaza facendo appello all’unità nazionale. Da questa data, i giovani si sono impegnati lavorando su due piani: internet ed azioni di base.

Per quanto riguarda il web, la più importante fonte di informazione sul movimento è la pagina Facebook Sawt al-Manara (La voce di al-Manara) dove si trovano le principali attività del gruppo di giovani di Ramallah e continui aggiornamenti sulle attività svolte e su quelle programmate.

Dall’altra parte, i giovani palestinesi hanno deciso di compiere azioni locali e concrete per informare i palestinesi sui loro progetti e le loro richieste. L’esempio più visibile è stata l’installazione di una tenda, detta Tenda dell’Unità, nelle piazze delle principali città della Cisgiordania.

La tenda dell'Unità a Betlemme

“Lo scopo era quello di dare nuova vita allo spazio pubblico,di utilizzare la piazza come luogo di incontro e di dialogo con le persone” ha spiegato Tarek Zboun, 22 anni, uno dei membri più attivi del movimento a Betlemme. Tuttavia “il problema principale che abbiamo affrontato è stato il fatto che la gente di Betlemme non crede nel nostro progetto e che la frammentazione tra i partiti politici palestinesi è più forte della nostra proposta di unità e di rinnovamento” ha continuato.

Nello stesso tempo, il movimento ha dovuto lottare contro l’opposizione dell’Autorità Palestinese, la quale ha tentato di ostacolare il progetto della tende e di offuscare il messaggio che i giovani volevano diffondere. A fine aprile, le tende allestite nelle varie città palestinesi sono state smantellate perché il numero delle persone coinvolte diminuiva di giorno in giorno e il sit-in permanente era diventato troppo stancante. Poco è stato anche il sostegno da parte degli studenti universitari, più impegnati nelle lotta partitiche tra Fatah e PFLP (il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) piuttosto che nella ricerca di un piano d’azione comune.

Tuttavia il movimento dei giovani continua e anche se il coordinamento avviene a livello locale o non nazionale, nelle principali città palestinesi i giovani organizzano work-shop, serate musicali e manifestazioni. A Ramallah ogni settimana ci sono dei laboratori sulla resistenza pacifica e ogni venerdì il gruppo di giovani palestinesi partecipa alla marcia settimanale nel villaggio di Nabi Saleh in sostegno agli abitanti che da anni sono costretti a combattere contro la confisca delle terre e la continua costruzione delle colonie israeliane.

Anche se finora il numero dei giovani coinvolti in questo movimento è ancora ristretto, secondo Lubna Massarwa, attivista del Free Gaza Movement, è solo questione di tempo. “Si tratta di un movimento nuovo e finora tutte le idee nuove hanno avuto bisogno di tempo prima di essere appoggiate. Noi dobbiamo essere pazienti e continuare. Sono sicura che qualcosa di nuovo sta per accadere nel prossimo futuro e penso che molti palestinesi aderiranno al nostro messaggio. Noi andremo avanti, è l’inizio di un nuovo importante movimento per la Palestina”. Nena News

lunedì 30 maggio 2011

Dalla parte dei palestinesi. APPELLO

APPELLO CONTRO LA KERMESSE DI ISRAELE A MILANO
Siamo dalla parte dei palestinesi
A chi rifiuta la guerra, sempre e comunque. A chi non accetta che nel 2011 ancora sopravvivano
regimi di apartheid. A chi pensa che ogni persona ed ogni popolo abbia il diritto di autodeterminarsi,
senza dover sottostare alla volontà e ai permessi (cinicamente poi sempre negati) di un altro
governo. A chi rifiuta ogni tipo di razzismo e discriminazione. A chi non può accettare che ancora
vengano costruiti muri per separare, ghettizzare e umiliare altri esseri umani. A chi pensa che la
terra sia di chi la abita, e che tutte/i abbiano il diritto di determinare e scegliere sui propri territori. A
chi pensa che a nessuno possa essere negato il diritto di muoversi, di spostarsi ma anche, poi, di
tornare a casa.
A tutte e tutti voi, chiediamo di aderire a questo appello, di condividerlo con altre/i.
Dal 12 al 23 giugno a Milano, in piazza Duomo, si terrà “Israele che non ti aspetti”, una
kermesse sulla tecnologia e sul turismo israeliani promossa dalle stesse autorità di Tel Aviv
in collaborazione con gli enti locali lombardi, per raccontare “un Israele diverso da quello di
Stato interessato da un conflitto”.
Un tendone di 900 metri quadri, per un costo annunciato che si aggira intorno ai 2,5 milioni
di euro (non è chiaro chi paghi), che vorrebbe cancellare la memoria della pulizia etnica
che ha dato origine alla nascita dello stato di Israele e che perdura tuttora: la cacciata
violenta degli abitanti della Palestina nel 1948-49, l’espropriazione della loro terra, la
soppressione dei loro diritti civili e dei più fondamentali diritti umani, la negazione del diritto
dei profughi palestinesi al ritorno nella propria terra.
Uno Stato che legittima l’apartheid come prassi quotidiana, nascondendola sotto la parola
“sicurezza” (tanto cara anche ai nostri governi), che costruisce un muro alto più di otto metri
che impedisce ai palestinesi di accedere ai propri campi, alle scuole e agli ospedali,
espropriando altra terra, case, fonti di vita. Un muro che - in aperta violazione di sentenze e
accordi internazionali - annette, sempre in nome del Santo Diritto alla Difesa, insediamenti
illegali, che neanche dovrebbero esistere.
Uno Stato che dalle alture siriane del Golan - occupate illegalmente dal 1967 - si appropria
di 450 milioni di metri cubi di acqua all’anno, lasciandone solo 22 ai palestinesi, quando
invece le risorse andrebbero divise equamente: ecco svelata la grande tecnologia idrica
israeliana.
Uno Stato che nega al popolo palestinese la possibilità di muoversi (costruendo check point
lungo il suo perimetro e dentro il territorio altrui) ed il diritto al ritorno per tutti coloro che
sono stati costretti a lasciare le loro terre durante le guerre e l’occupazione.
Uno Stato che viene definito “unico stato democratico del Medio Oriente”, ma che nei suoi
63 anni di storia ha continuamente alternato guerra ad alta e a bassa intensità, senza
costruire mai, realmente, un'ipotesi di pace e non riconoscendo uguali diritti ai suoi cittadini.
Uno Stato che tra il 27 dicembre del 2008 e il 18 gennaio 2009 ha bombardato la Striscia di
Gaza portando in soli 24 giorni alla morte di oltre 1.500 persone, utilizzando armi illegali
secondo la Convenzione di Ginevra, come le cluster bombs ed il fosforo bianco.
Uno Stato che dal 2006 condanna gli abitanti della Striscia di Gaza ad un assedio e ad un
embargo totali e permanenti, impedendo l’ingresso di materiali da costruzione come di altri
moltissimi beni, anche di prima necessità.
Uno Stato che, attraverso una campagna mediatica scaltra e feroce, vorrebbe farsi scudo di
uno dei maggiori scempi compiuti dall’umanità, l’olocausto nazifascista, per continuare
impunemente a non rispondere dei suoi sistematici attacchi alla vita quotidiana del popolo
palestinese e dei suoi progettati e sistematici atti di guerra e di distruzione della storia del
popolo palestinese.
Per questo non tolleriamo che Milano diventi la passerella per un’operazione di
propaganda tanto vergognosa quanto ipocrita!
Più di 70 risoluzioni delle Nazioni Unite in difesa dei Palestinesi, di condanna delle politiche
di Israele sono state ignorate: Israele le ha tutte disattese, con l’appoggio determinante
degli USA, l’inettitudine colpevole dell’Unione Europea e di tutti gli stati europei. In
particolare l’Italia si è resa complice sottoscrivendo numerosi accordi di cooperazione
economica, militare e scientifica con Israele.
Noi italiani ci vergogniamo del marcato servilismo dei nostri governi nei riguardi di Israele e
chiediamo a chi governa la Regione Lombardia, la Provincia e il Comune di Milano di
cancellare un evento che lede l’immagine di una Milano medaglia d’oro alla Resistenza,
che rifiuta ogni tipo di razzismo e discriminazione.
E invitiamo tutte e tutti a partecipare alle iniziative che metteremo in campo durante quei
dieci giorni, per dire NO alla guerra e a ogni regime oppressivo in qualsiasi forma si
manifestino - che siano ad opera di “governi amici” o “pericolosi dittatori”- e ad ogni forma di
razzismo o violazione dei diritti umani.
comitato “No all’occupazione israeliana di Milano”
“RESTIAMO UMANI”
Per aderire: contro.kermesse.milano@gmail.com
Per firmare la petizione on line:
http://www.petizionepubblica.it/PeticaoVer.aspx?pi=P2011N10557

Tubas: vivere senza acqua

Scritto da Associazione di Amicizia Italo-Palestinese,  29 Maggio 2011
B’Tselem.org
14.04.2011

Vita senz’acqua corrente nella Valle del Giordano, dove la carenza di acqua è grave.
Testimonianza di una madre di nove figli, residente a Khirbet Yarza nel distretto di Tubas, West Bank.
 
Mi sposai nel 1969 e venni a vivere a Khirbet Yarza nella Valle del Giordano. Vi abbiamo vissuto fino da allora. Possediamo una casa anche a Tubas ove risiedono i nostri figli e che utilizziamo per la villeggiatura e per le occasioni speciali. Ma dove non possiamo guadagnarci da vivere.
                        
Mio marito ha qualche appezzamento di terra, ma per lo più il nostro sostentamento deriva dall’allevamento di pecore e capre. L’esercito ha trasformato Yarza in un’area militare e l’utilizza per le sue attività di addestramento, che sono un danno per i residenti. Nel 1993, è stato ucciso mio figlio Ibrahim quando aveva appena nove anni. E’ stato ucciso per disgrazia. Nel 2006, sono stata ferita da un proiettile che mi ha colpito durante le esercitazioni militari. 
L’esercito ha cercato pure di impedirci di pascolare le nostre pecore e ci ha impedito di costruire qualsiasi cosa. Non ci ha permesso di ripristinare le strade, collegarci alla rete elettrica o installare tubi per l’acqua. Gli abitanti di Khirbet Yarza utilizzano l’acqua invernale che viene raccolta in cisterne. Quando questa si esaurisce, dobbiamo acquistarla e pagarne il costo di trasporto. L’acqua viene portata in contenitori tirati da trattori. Negli ultimi due anni abbiamo trasportato acqua dal pozzo di Tamun. La strada tra Tamun e il nostro villaggio è terribile. E’ in tali cattive condizioni da essere pericoloso percorrerla con un trattore, così fare il percorso comporta molto tempo e il viaggio viene a costare una gran quantità di soldi. Un contenitore di acqua di 3 metri cubi costa dai 90 ai 100 shekel [attorno ai 20 €, o poco meno, n.d.t.]. In questa cifra è compreso il gas per il trattore che lo porta. Le grandi cisterne, che possono trasportare una gran quantità di acqua hanno maggiori difficoltà a raggiungere il villaggio, per cui vi arrivano raramente. 
Per superare la scarsità d’acqua, la risparmio in tutti i modi. Ad esempio, lavo gli utensili in un contenitore e conservo l’acqua per lavare il pavimento e la toilette, oppure per annaffiare le piante. Conservo persino l’acqua per le abluzioni rituali prima della preghiera e la uso per abbeverare il gregge. Cerco di non sciuparne una goccia. Eppure, non ce n'è mai a sufficienza per la pulizia e le altre necessità. 
Vivere senza essere connessi ad un sistema idrico e alla corrente elettrica è duro per tutta la famiglia, e per me in particolare in quanto casalinga. Me ne rendo conto perché la casa che ho a Tubas è collegata all’acqua e alla luce. La differenza tra la vita là e qui è enorme. 
Ad esempio, qui devo lavare la biancheria a mano perché non si può far funzionare una lavatrice senza elettricità e un flusso continuo di acqua. Lavare porta via così una gran quantità di tempo e di energie. Tutte le volte che faccio il bucato, durante la notte sono tutta un dolore. La penuria di acqua è un problema in particolar modo per fare il formaggio in quanto per questo si devono lavare gli attrezzi ogni giorno. Se potessi esprimere un desiderio sarebbe per l’elettricità e per l’acqua con la quale lavare le cose, perché le pulizie mi richiedono un gran sforzo. 
Talvolta, l’acqua nel contenitore si esaurisce e quella in arrivo da Tamun è in ritardo. Quando succede, per lavarli, prendo gli utensili e la biancheria e me ne vado ad un piccolo pozzo che ha una piccola quantità di acqua. A volte, porto a casa da pozzo un po’ d’acqua per averla da bere. 
L’acqua è costantemente nei nostri pensieri e richiede organizzazione e pianificazione. Talvolta, immagino a che cosa potrebbe assomigliare la nostra vita se avessimo avuto una conduttura idrica come quella che posseggono tutti gli altri. Non mi ci soffermo molto, perché non accadrà mai e noi non ne abbiamo alcun controllo. Questo è il nostro modo di vivere.

Testo inglese in http://www.btselem.org/English/Testimonies/20110414_Life_without_running_water_in_JV.asp - tradotto da Mariano Mingarelli

http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&view=article&id=2722:testimonianza-vita-senzacqua-corrente-nella-valle-del-giordano&catid=25:dalla-palestina&Itemid=75

domenica 29 maggio 2011

Relazioni degli studenti del Galluppi

Ho deciso di pubblicare sul blog le relazioni degli studenti sul mio libro "Gabbie" come omaggio al loro impegno, per me sono molto preziose. La prima è di una studentessa Anna Maria Palaia.

Gabbie

"Con parole di sangue l'angoscia del presente scava l'anima..."
Sono queste commoventi parole ad aprire la narrazione del libro Gabbie dell'autrice Miriam Marino. "Silenziosa spettatrice del mondo" come lei stessa si definisce, con i versi sopracitati ha voluto darci la chiave per aprire la mente, il cuore e l'anima, toccando profondamente le corde della nostra sensibilità, al fine di aiutarci a continuare questo viaggio in un mondo per noi sconosciuto e lontano.
La protagonista del libro è infatti una sola, la voglia di vivere e di andare avanti, presente nell'animo di ogni personaggi. Il mistero delle vite si interseca con l'amara certezza della guerra creando così una rete di rapporti misteriosi che lega con i suoi fili evanescenti sentimenti alternati di disperazione e di speranza.
Gli avvenimenti sono narrati con una semplicità cristallina, senza coperture, senza veli o inibizioni, una realtà nuda si presenta davanti ai nostri occhi, lasciandoci violentemente spiazzati.
il tutto circondato da un'ironia, seppur amara, che costringe il lettore a soffermarsi maggiormente a riflettere sul senso della vita.
Il messaggio che si evince dal testo è unico e semplice: C'è bisogno di pace!
Basta guerre e sofferenze, occorre soltanto un mondo più giusto in cui tutti possiamo e dobbiamo riconoscerci.
Nella maggior parte dei racconti si evince che i personaggi non riescono più a vivere, non hanno nè patria nè affetti ma solo dolore e morte.
Questi stati d'animo possono essere riscoperti anche nelle liriche del poeta Giuseppe Ungaretti e in particolare in una che riassume a pieno i temi ivi descritti: "In Memoria".


In memoria

Si chiamava
Mohamed Sheab
discendente
di emiri di nomadi
suicida
perchè non aveva più
patria
Amò la francia e mutò nome
Fu marcel
ma non era francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè.
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L'ho accompagnato
insieme ala padrona dell'albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d'Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora che visse.

I temi che compaiono nella poesia sono struggenti come quelli del libro: lo spaesamento di chi non ha una patria in cui riconoscersi, la perdita d'identità e la solitudine che ne conseguono. La poesia aveva infatti anticipato la crisi della società e dell'individuo contemporaneo, derivata dall'incontro e scontro di civiltà diverse e dall'urto e conseguenti sconvolgimenti tra le tradizioni politiche e il fatale evolversi storico dell'umanità. L'io lirico dapprima trattegia la condizione esistenziale di Mohamed a Parigi caratterizzata dall'impotenza e dall'assenza, condizione che rispecchia peraltro gli stati d'animo di Fawzi, il protagonista del racconto "4 fratelli", successivamente ricorda il funerale dell'amico, che si svolge alla sola presenza del poeta e della proprietaria dell'albergo dove i due giovani avevano vissuto e dinnanzi a un paesaggio urbano desolato e in disfacimento. Nell'ultima strofa, infine, il poeta rende omaggio al ricordo di Mohamed e sembra quasi affidare alla voce ella poesia il compito di conservarlo nel tempo, di divenire testimonianza immortale del passaggio terreno dell'amico. La figura di Mohamed richiama un inevitabile confronto con quella del figlio di Fawzi: Alex.
Mohamed aveva adottato un nome francese nel tentativo inutile d'integrazione e così il piccolo Alex che portava quel nome per non sentirsi diverso dagli altri.Il suicidio inoltre è un punto di svolta e di liberazione in entrambi i testi, poichè solo per mezzo di esso Fawzi potrà permettere una vita migliore ad Alex, e Mohamed potrà finalmente sciogliere il canto del suo abbandono. Nel testo si evince anche un altro aspetto fondamentale, necessario da analizzare: il muro.
Esso non è solo una barriera reale, come descritto in qualche racconto, ma soprattuto una barriera mentale. In campo semantico il muro rappresenta l'impossibilità di comunicazione tra in dividui, ostacolo insormontabile e insuperabile. Il muro inoltre può essere considerato una gabbia del pensiero: Il poeta Eugenio Montale nella lirica "Meriggiare" descrive un assolato e arido paesaggio estivo colto nell'ora del meriggio quando per effetto della calura e della luce accecante la vita sembra come pietrificata. Dalla descrizione non emergono, se non in qualche tratto, sensazioni di gioia e di slancio vitale, domina, al contrario, il motivo dell'aridità, dell'isolamento della solitudine, rivelati da parole-chiave quali il muro e la muraglia, simboli del limite invalicabile che impedisce all'uomo di mettersi in contatto con gli altri e lo condanna all'isolamento: E' il limite della conoscenza: verso il poeta che spia la natura (dove l'uso del verbo "spiar" tradisce la ricerca di un segreto), questa resta chiusa, indifferente ed egli non arriva a capire, può solo "sentire" che la vita è un "seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia". Anche il filosofo Jean Paul Saretre parla di questa incomunicabbilità dell'essere nel suo libro "Il muro". Le 5 brevi vite racchiuse nelle pagine di questo libro rappresentano 5 modi tragici e differenti di rispondere alla capacità di trovare vie di fuga dall'esistenza, che sono però fermate da un muro, ma fuggire da questa esistenza significherà ancora una volta esistere. Ritornando a "Gabbie" e in particolare al racconto "Il muro del pianto" il testo lascia a noi un insegnamento di vita profondo: dobbiamo imparare a non fermarci davanti a questi muri dell'orrore, barriere e gabbie mentali, ma dobbiamo voler andare oltre, solo così troveremo l'amore, l'umanità e la solidarietà tra i popoli.
ABBIAMO BISOGNO DI PONTI NON DI MURI.

sabato 28 maggio 2011

Il progetto "Gutenberg"

Il 24 e 25 maggio sono stata ospite del liceo classico Galluppi di Catanzaro, dove ho incontrato gli studenti e abbiamo parlato del libro "Gabbie" che loro avevano già letto. L'incontro è stato tra i più belli e intensi che ho avuto nelle scuole, i ragazzi hanno posto domande intelligenti e profonde, alcuni di loro avevano anche scritto delle relazioni. L'incontro è avvenuto all'interno di un elaborato, vario e interessantissimo progetto, il progetto "Gutenberg" che è al suo nono anno e che si tiene quest'anno dal 24 al 28 maggio con il tema "L'uno e i molti".
Ho seguito qualche conferenza con molto interesse, il livello del progetto era molto alto e i relatori invitati docenti universitari, scrittori, giornalisti e operatori culturali. Gli studenti erano molto coinvolti e interessati e collaboravano con gli insegnanti per la riuscita dell'evento come protagonisti. Si avvertiva in tutti preside, insegnanti e studenti un'uguale passione e amore per la cultura. Il progetto era vario e molto articolato conferenze e incontri non si sono tenuti solo a Catanzaro, ma a Lametia, a Cosenza e in altri centri coinvolgendo molte altre scuole.Non sono mancate mostre di pittura, fotografia e concerti. Il lavoro che c'è dietro un progetto simile è davvero enorme e ci vuole davvero una grande passione per portarlo avanti. Questo è un esempio del grande lavoro di formazione che può fare la scuola pubblica, quella scuola pubblica a cui un ministro ignorante e di piccole vedute vuole togliere fondi e risorse.

venerdì 27 maggio 2011

Gli ebrei italiani e il PdL

Lunedì 16 Maggi 2011 23:34 Paola Canarutto

16 maggio 2011

Ho tirato un respiro di sollievo, a vedere i primi risultati per le amministrative. Che almeno il Nord Italia cominci ad avercene abbastanza, di Berlusconi e soci?
Tuttavia, per quanto riguarda le questioni israeliano-palestinesi, è inutile sperare che, con il PD più vicino a posti di potere, qualcosa cambi. Se Napolitano è in visita ufficiale in Israele proprio mentre questo ammazza manifestanti disarmati, il nostro presidente della repubblica nulla obietta. Berlusconi, credo, si sarebbe comportato esattamente allo stesso modo.
Il sostegno del PD a Israele (e più in generale alle politiche USA) è noto. Ma ai filo-israeliani d'Italia non basta. Sempre meglio Berlusconi, 'ragionano'.

Le estreme destre, di ogni popolo e Paese, tendono a far fronte comune. Quasi nulla ferma questo sforzo ad associarsi. Fino al '41 il gruppo ebraico sionista Lehi, considerando prioritario combattere i britannici, cercava attivamente di cooperare allo sforzo bellico della Germania nazista. Per gli ex combattenti del Lehi, lo stato ebraico ha istituito un'onorificenza; tra l'altro, era appartenuto al Lehi uno dei primi ministri di Israele, Yitzhak Shamir.
Ingenua come sono, mi aspettavo che le comunità ebraiche esprimessero qualche presa di posizione ufficiale, quando il nostro presidente del consiglio ha raccontato una barzelletta antisemita feroce. Nossignore. L'Unione delle comunità ebraiche italiane non ha preso le distanze nemmeno quando nel PdL ha preso la parola un Ciarrapico, un antisemita così privo di senso del pudore da esprimersi senza riserve. Non bastava.
Per queste elezioni amministrative, il PdL ha messo in lista a Napoli un hitleriano dichiarato. Allo scopo evidente di raccogliere voti di pari suoi.
Il presidente della comunità ebraica di Napoli ha consigliato di non votarlo. L'hitleriano, non la lista di cui fa parte.
Moked, il sito ufficiale dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, il giorno prima delle elezioni amministrative si dilettava di libri, etica medica e consimili amenità. Consigliare ai correligionari di non votare un partito che ha fra le sue file dei neonazisti, questo no.
L'importante, si sa, è che Berlusconi sostenga Israele. Poiché, diretto da Israele in Cisgiordania, ha dichiarato di 'non aver visto' il Muro, l'Unione delle comunità ebraiche passa sotto silenzio che nei ranghi ufficiali del suo partito ci siano pure hitleriani dichiarati.
Un noto detto antisemita sostiene che gli ebrei siano intelligenti. Non è solo antisemita: è pure falso. Gli organi direttivi degli ebrei italiani, non contenti di vedere lo Stato che si dice 'ebraico' in prima linea nel controllo coloniale di una parte importante del mondo, ed il rischio concreto di antisemitismo da parte dei colonizzati che ne consegue, neppure reagiscono nel caso in cui il partito che governa l'Italia esprima, per bocca di suoi rappresentanti, opinioni non solo antisemite ma pure hitleriane. Cretini, sono.

dott. Paola Canarutto, di Rete-ECO (Rete degli Ebrei contro l'Occupazione)

Damasco, funerali dei giovani uccisi

DA YARMOUK PARTE LA “TERZA INTIFADA PALESTINESE”?

Due mesi fa su Facebook è comparsa la pagina «La terza intifada palestinese». E' stata riempita con idee su come commemorare l'anniversario della Naqbe, quindi è stata presa la decisione di recarsi dall’Egitto, dalla Siria, dalla Giordania, dal Libano, da Gaza e dalla Cisgiordania ai confini con Israele.

DI CRISTINA DE LUCA



Damasco, 22 maggio 2011, Nena News (nella foto di Abed Al Naji, i funerali nel campo di Yarmouk di palestinesi uccisi il 15 maggio sulle Alture del Golan) – Il 15 maggio è il giorno della Naqbe, il giorno della «catastrofe» nazionale palestinese in cui, con la nascita di Israele, 750 mila palestinesi furono costretti all’esilio (oggi sono quasi 5 milioni).

Fino all’anno scorso – in tutti gli Stati dove sono presenti oltre che in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, Gerusalemme Est e nei territori israeliani – i rifugiati avevano celebrato questo giorno con manifestazioni, sit-in, proiezioni di film sull’argomento.

Ma quest’anno qualcosa è cambiato.

Incoraggiati dalle rivolte arabe che hanno infiammato il Medio Oriente negli ultimi mesi, quest’anno i rifugiati (soprattutto i giovani della terza e quarta generazione) hanno deciso di celebrare la Naqbe in modo più deciso, ed esprimere il loro «diritto al ritorno» ai villaggi e alla città nella terra d’origine, la Palestina.

Circa due mesi fa sul social network Facebook è comparsa la pagina «La terza intifada palestinese». Mano a mano è stata riempita con idee su come commemorare il 63° anno della catastrofe, fino a quando è stata presa la decisione di recarsi dall’Egitto, dalla Siria, dalla Giordania, dal Libano, dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania, ai confini con Israele. Il punto focale della terza intifada perciò è stato il «ritorno», perche’ a distanza di 63 anni milioni di palestinesi vivono in campi profughi negli Stati arabi dove sono nati o risiedono.

Sin dalla mattina del 15 maggio, ai confini di Libano, Striscia di Gaza e Cisgiordania, e sul Golan (territorio che appartiene alla Siria, ma che è occupato da Israele dal 1967) sono iniziati assemblamenti di giovani che hanno tentato pacificamente di oltrepassare i confini. I militari israeliani hanno risposto prima con il lancio di lacrimogeni per disperdere le folle, e successivamente con veri e propri colpi d’arma da fuoco. Il bilancio è stato di 10 morti in Libano, uno nella Striscia di Gaza e 4 in Siria, oltre che a diversi morti e feriti in Cisgiordania.

Il 16 maggio, nel campo palestinese “Yarmouk” di Damasco, si sono svolti i funerali di tre dei quattro giovani uccisi sul Golan il giorno precedente. Le manifestazioni sono cominciate al mattino. Al momento dell’arrivo delle salme, i partecipanti erano circa 70.000, riuniti intorno alle bare e lungo il percorso che le bare avrebbero fatto per raggiungere prima la moschea, e poi il cimitero. I morti per la patria sono considerati «martiri», e i sentimenti erano di sgomento e frustrazione per l’uccisione di giovani che pacificamente avevano cercato di far sentire la loro voce, e per l’impotenza di fronte ad una situazione che al momento non vede una possibile fine.

Le donne piangevano per queste morti ingiuste, ma non vane, perché avvenute per quel sentimento nazionale che accomuna tutti gli esseri umani. Piangevano e gettavano riso, che nella cultura araba sta a significare la fierezza e la dignitá dei partecipanti. Dai balconi veniva gettata acqua per rinfrescare il corteo che da ore accompagnava le bare sotto il sole.

Ma ciò che colpisce di più è stato il sentimento di unitá condiviso da quell’enorme massa di persone, con in mano i vessilli dei diversi partiti politici, ma soprattutto recanti le bandiere dello Stato palestinese, uniti nelle tragedie che puntualmente colpiscono questo popolo.

Bambini, donne, uomini, anziani, hanno marciato insieme, portando il messaggio che nonostante il passare del tempo e le generazioni che si rinnovano, la causa palestinese è viva anche per coloro che vivono ormai da generazioni fuori dalla Palestina, che hanno dovuto costruirsi una vita lontano dalla loro terra, e per mostrare che, oggi come ieri, l’ingiusto sacrificio di vite umane non conosce soste. Nena News

Visto Palestinese

UN VISTO PER LA PALESTINA

E’ quello che Fares Azar e Khaled Jarrar, giornalista e fotografo, stampano sui passaporti dei cittadini stranieri che si recano a Ramallah passando per il posto di blocco di Kalandia. Una provocazione? Qualcosa di più: una affermazione di esistenza

Ramallah, 24 maggio 2011, Nena News – Da qualche giorno a questa parte Khaled Jarrar e Fares Azar, sottraggono ogni mattina alcune ore al loro lavoro di giornalisti e fotografi, e si recano a Kalandia, all’enorme posto di blocco costruito da Israele per separare la zona araba di Gerusalemme dalla Cisgiordania. Armati di gentilezza e di sorrisi, Jarrar e Azar chiedono ai cittadini stranieri che si recano a Ramallah di trimbrare il loro passaporto con il «visto d’ingresso palestinese». A coloro che si mostrano disponibili, e sono tanti, rilasciano un visto a nome dello Stato di Palestina. Tutto tra sorrisi e brevi considerazioni sulla situazione dei palestinesi sotto occupazione militare israeliana e sulla possibilità che lo Stato palestinese venga proclamato unilateralmente dal presidente dell’Olp e dell’Anp Abu Mazen il prossimo settembre all’Onu.

Il “visto” palestinese è solo una provocazione, un gesto simbolico? Non proprio, spiega Jarrar, piuttosto è una “affermazione di esistenza verso chi (Israele) vuol negare i nostri diritti e persino la nostra esistenza come popolo”. Le reazioni alla sua iniziativa sono state favorevoli tra gli stranieri. «Sono orgogliosa di avere sul mio passaporto il visto dello Stato di Palestina» scrive sul suo blog Alison Ramer, una esperta di comunicazione e che si muove tra Gerusalemme e Ramallah, che poi si domanda come mai l’Olp e l’Anp non usino il visto palestinese dato che oltre 100 Stati riconoscono l’indipendenza della Palestina nei territori del 1967 (Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est) proclamata nel 1988 dallo scomparso presidente palestinese Yasser Arafat.

lunedì 23 maggio 2011

Ignobile manifesto

I giorni scorsi la comunità ebraica di Roma organizzava un festoso barbecue con i coloni di Itamar, un membro del gruppo "Martin Buber" Giorgio Gomel, scriveva una lettera di protesta che veniva pubblicata da "Shalom" giornale ebraico nazionale. A seguito di ciò compariva sul muro della scuola ebraica una scritta che recitava "Gomel pezzo di merda". Non contenti oggi è comparso sempre su suddetto muro un gigantesco striscione con scritto "Tutti gli ebrei sono nostri fratelli Giorgio Gomel e Moni Ovadia No". Non commento nemmeno tale comportamento fascista, questa gente si dovrebbe vergognare ma non lo farà, mi vergogno io per loro. Riporto sotto L'annuncio della vergognosa iniziativa della comunità ebraica, la lettera di Gomel e la reazione di altri ebrei contrari a tale sconcio.

  
Noi sottoscritti ci associamo alla lettera scritta da Giorgio Gomel a Shalom contro il disdicevole barbecue nel luogo di un assassinio orribile e ingiustificato. Poiché anche noi siamo contrari alla colonizzazione dei territori occupati, desideriamo che chiunque abbia scribacchiato l’infamia e chiunque nella Comunità la condivida l’attuale maggioranza della Comunità provveda a scrivere scriva sui muri del Portico d'Ottavia anche i nostri nomi, intesi come pezzi di merda. Profondendo Esalando il nostro repellente nauseante olezzo, inviamo viscidi ossequi.
E attenti a non scivolare, perché noi non portiamo bene.
 

 
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-----Messaggio originale-----
Da: giorgio gomel
Inviato: mercoledì 20 aprile 2011 19.33
A: Shalom (redazione@shalom.it)
Oggetto: Lettera al Direttore
Caro Direttore,
Un avviso trasmesso dall’Ufficio Giovani della Comunità ebraica di Roma (v. sotto) dal titolo “Happening e barbecue con i nostri fratelli ad Itamar” ci informa di un’iniziativa del suo Presidente diffusa tramite le strutture della Comunità stessa.
Il tono è da festa o gita bucolica in un luogo ameno.
Rivela una mancanza di sensibilità, di senso della misura e di onestà intellettuale che colpisce.
Itamar non è un posto da barbecue e i suoi abitanti non sono sentimentalmente i “nostri fratelli”.  Itamar è un insediamento in Cisgiordania. Qualche settimana fa vi è stata assassinata la famiglia Fogel – i genitori e tre bambini. Appena due giorni fa gli esecutori di questo orribile omicidio – due giovani di  Awarta, un villaggio palestinese vicino – sono stati catturati. Ma è appunto un insediamento, anzi uno dei più assurdi per la sua geografia e la sua storia, quasi un emblema della follia del conflitto israelo-palestinese e degli ostacoli immani che si oppongono alla sua soluzione pacifica con la costituzione di due stati in rapporti di almeno decente vicinato. Itamar è vicino a Nablus, la  maggiore città palestinese, ed è da anni un luogo di frizione continua fra i coloni che vi abitano e i palestinesi dei villaggi circostanti. I coloni che vi si sono insediati non sono innocentemente e sentimentalmente i “nostri fratelli”; sono persone che , mosse da motivazioni diverse – molti di loro militanti dell’estremismo nazional-religioso – si sono insediate a Itamar così come in molte altre località su terreni di proprietà di palestinesi o espropriati dallo stato di Israele come “state land”. Facendo ciò, edificando case e strutture, costringono l’esercito israeliano ad una onerosa opera di protezione, con conseguenti, infinite limitazioni e vessazioni punitive della libertà degli abitanti palestinesi.
Era difficile immaginare un’iniziativa peggiore di questa.
Giorgio Gomel
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Happening & Barbecue con i nostri fratelli ad Itamar
Giovedì 21 aprile 2011
Chol ha’moed Pessach
La Comunità Ebraica di Roma è lieti di informarvi ed invitarvi a partecipare ad un’esperienza indimenticabile per
i grandi e per i piccoli, un’occasione per trascorrere una giornata diversa e gioiosa con i cittadini di Itamar ed
intorni.
Trasporto organizzato: Partenza con il pullman alle ore 11.00 dal Hotel Dan Tel Aviv (HaYarkon 99), rientro a
Tel Aviv nel pomeriggio.
Costo: adulto 17 euro
Bambini sotto 12 anni avranno un prezzo agevolato
Per coloro che desiderano di venire con i propri mezzi vi preghiamo, per motivi di sicurezza, di unirsi in meno
mezzi autonomi possibili.
Considerando il breve preavviso, shabat e i moadim in mezzo, si chiede la conferma della vostra partecipazione
per motivi organizzativi presidenza@romaebraica.it oppure +393283593394 (Or Feldman)
La vostra presenza sarà molto gradita e speriamo di vedervi numerosi.
Rimango a vostra completa disposizione per ulteriori informazioni.
Un caloroso Shabbat Shalom e Hag Sameach!
Chag sameach e shabbat shalom

domenica 22 maggio 2011

La Coalizione sindacale palestinese per il BDS

La Coalizione sindacale palestinese per il BDS (PTUC-BDS)
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In commemorazione del Giorno Internazionale dei Lavoratori il movimento sindacale palestinese ha tenuto la sua prima conferenza sul BDS e annuncia la creazione della: 
Coalizione sindacale palestinese per il BDS (PTUC-BDS)
Dichiarazione di principi e appello al sindacato internazionale per il sostegno al BDS
Palestina occupata, 4 maggio 2011 - In commemorazione del primo maggio - una giornata per la lotta dei lavoratori e la solidarietà internazionale – la prima conferenza del sindacato palestinese a favore della campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele (BDS) si è tenuta a Ramallah il 30 aprile 2011. È stata organizzata dalla quasi totalità del movimento sindacale palestinese, tra federazioni, associazioni di categoria e sindacati che rappresentano l'intero spettro dei partiti politici palestinesi. La conferenza ha segnato un evento storico: la formazione della Coalizione sindacale palestinese per il BDS (PTUC-BDS), la più grande coalizione sindacale palestinese. PTUC-BDS sarà il riferimento palestinese più rappresentativo per i sindacati internazionali, promuovendo il sostegno e l'adesione all'appello BDS, lanciato dalla società civile palestinese nel 2005, guidato dalle linee guida e dei principi adottati dalla Comitato Nazionale Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BNC), di cui PTUC-BDS è diventato un componente chiave.
Il movimento sindacale internazionale ha sempre svolto un ruolo fondamentale e di ispirazione con il suo impegno coraggioso per i diritti umani e l'adozione di sanzioni concrete e innovative contro i regimi oppressivi in segno di solidarietà con i popoli oppressi di tutto il mondo. Il boicottaggio del Sud Africa di apartheid da parte dei sindacati si distingue come un esempio importante di questa tradizione di solidarietà effettiva. I sindacati oggi prendono l'iniziativa per difendere il diritto del popolo palestinese di autodeterminazione, giustizia, libertà, uguaglianza e il diritto al ritorno dei nostri rifugiati, come specificato nella Risoluzione 194 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Molti di loro hanno accolto l'appello della società civile palestinese, e in particolare il suo movimento dei lavoratori, di adottare la campagna BDS come la più efficace forma di solidarietà con i palestinesi nella nostra lotta per porre fine all'occupazione israeliana e all'apartheid.
Porre fine al sistema israeliano di oppressione su più livelli contro il popolo palestinese – che include l'occupazione, il colonialismo e l'apartheid - è una prova per l'umanità. Da decenni, Israele gode di impunità, pur continuando la sua graduale pulizia etnica dei palestinesi, in particolare nella zona occupata di Gerusalemme Est, la Valle del Giordano e il deserto del Naqab (Negev), l'occupazione durata 44 anni, il furto della terra e delle risorse naturali, la colonizzazione e costruzione di insediamenti coloniali e muri illegali, l'assedio di Gaza, la negazione implacabile dei diritti dei rifugiati; le guerre di aggressione senza fine e l'incarcerazione dei prigionieri politici, e l'uccisione di civili e la demolizione delle infrastrutture. La sistematica distruzione da parte di Israele dell'economia palestinese, l'esproprio delle più fertili terre agricole, così come l'umiliazione e la discriminazione razzista contro i lavoratori palestinesi sono tutti parte della realtà dell'apartheid israeliana, che non dovrebbe mai essere tollerata dal mondo di oggi.
Di fronte al fallimento completo e alla mancanza di volontà da parte delle potenze egemoniche di rendere Israele responsabile nei confronti del diritto internazionale, spetta a persone di coscienza e alla società civile internazionale, in particolare al movimento sindacale, di prendere iniziative concrete per porre fine alla collusione internazionale con decenni di violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani da parte di Israele, delle sue istituzioni e aziende internazionali.
Il sostegno della totalità del movimento palestinese sindacale per un totale boicottaggio di Israele [1], come la forma più efficace di solidarietà con il popolo palestinese, è stato il messaggio comune di questo incontro storico.
La Conferenza ha avuto l'onore di accogliere Joâo Felicio, Segretario per le Relazioni Internazionali del CUT, il sindacato brasiliano che rappresenta più di 20 milioni di lavoratori, che ha espresso solidarietà con il popolo palestinese e i loro legittimi diritti, e ha ribadito il sostegno del CUT per il BDS. La conferenza ha ricevuto numerosi messaggi di solidarietà da un gran numero di federazioni sindacali, tra cui la Federazione internazionale dei sindacati arabi, COSATU (Sudafrica), ICTU (Irlanda), e numerevoli sindacati singoli in Canada, Scozia, Italia, Francia, Spagna, Turchia, Australia, Stati Uniti e altri paesi. Tutti i principali partiti politici palestinesi hanno appoggiato con entusiasmo la conferenza e la formazione di PTUC-BDS.
La Conferenza ha condannato decisamente Histadrut e ha fatto appello perché il sindacato internazionale recida tutti i legami a causa della sua complicità storica e attuale nelle violazioni israeliane del diritto internazionale e dei diritti dei palestinesi. Histadrut ha sempre svolto un ruolo chiave nel perpetuare l'occupazione, la colonizzazione e il sistema di discriminazione razziale israeliano, con il:
1.Sostenere pubblicamente le violazioni di Israele della Quarta Convenzione di Ginevra e dei principi del diritto internazionale ;
2.Mantenere interessi commerciali attivi nelle colonie illegali israeliane [2]
3.Consentire l'iscrizione al sindacato di coloni ebrei nei territori occupati della Cisgiordania [3]
4.Sostenere la guerra di aggressione di Israele su Gaza assediata nel 2008/9, [4] e più recentemente giustificare il massacro israeliano di attivisti umanitari a bordo della Freedom Flottila il 31 maggio 2010 [5]
5.Trattenere illegalmente più di NIS 8,3 miliardi (circa $2,43 miliardi) per decenni dai salari percepiti dai lavoratori palestinesi dei territori Palestinesi occupati, [6] detratti per "benefici sindacali e sociali" che i lavoratori palestinesi dei territori Palestinesi occupati non hanno mai ricevuto.
Ricordando il motto sindacale "un danno ad uno è un danno per tutti", e dato il ruolo storico del movimento sindacale mondiale nella reale solidarietà internazionale con i popoli oppressi di tutto il mondo, PTUC-BDS:
Saluta cordialmente tutti i sindacati a livello mondiale per la loro solidarietà con i popolo palestinese, in particolare quelli che hanno aderito alla campagna BDS contro Israele,
Fa appello ai sindacati di tutto il mondo per dimostrare attivamente la solidarietà con il popolo palestinese attraverso l'attuazione di campagne BDS creative e sensibili al contesto come il modo più efficace per porre fine all'impunità di Israele. Per esempio:
Boicottando le società israeliane e internazionali (come Elbit, Agrexco, Veolia, Alstom, Caterpillar, Northrop Grumman, ecc) e le istituzioni che sono complici con l'occupazione e le violazioni del diritto internazionale israeliane;
Rivedendo gli investimenti dei fondi pensione con lo scopo di disinvestire da titoli israeliani e da tutte le aziende e le istituzioni israeliane e internazionali complici dell'occupazione, della colonizzazione e dell'apartheid israeliana;
Campagne di pressione sui governi per sospendere accordi di libero scambio e porre fine al commercio di armi e relazioni militari con Israele, con l'intenzione infine di tagliare tutti i rapporti diplomatici con esso;
Fa appello ai lavoratori portuali di tutto il mondo a boicottare il carico/scarico di navi israeliane, simile alle eroiche iniziative intraprese dai lavoratori portuali in tutto il mondo nel sospendere il commercio marittimo con il Sud Africa in segno di protesta contro il regime di apartheid, e
Fa appello ai sindacati di tutto il mondo a rivedere e interrompere tutti i legami con Histadrut.
Tali misure non violente di responsabilità devono continuare fino a quando Israele non adempia i suoi obblighi nel rispettare il diritto internazionale nel riconoscimento dell'inalienabile diritto all'auto-determinazione del popolo palestinese, e non sia pienamente conforme al diritto internazionale:
Ponendo termine alla occupazione e alla colonizzazione di tutte le terre arabe e smantellando il Muro,
Riconoscendo i diritti fondamentali dei cittadini palestinesi di Israele alla piena uguaglianza, così come ponedo fine al regime di discriminazione razziale nei loro confronti, e
Rispettando, proteggendo e promovendo i diritti dei profughi palestinesi al ritorno nelle loro case e nelle loro proprietà come stabilito nella risoluzione 194 dell’ONU.
La Coalizione sindacale palestinese per il BDS (PTUC-BDS) è la più ampia e rappresentiva del movimento palestinese sindacale e comprende la seguenti organizzazioni: General Union of Palestinian Workers, Federation of Independent Trade Unions (IFU), General Union of Palestinian Women, Union of Palestinian Professional Associations (che comprende gli ordini professionali di ingegneri, medici, farmacisti, tecnici agricoli, avvocati, dentisti e veterinari), General Union of Palestinian Teachers, General Union of Palestinian Peasants and Co-ops, General Union of Palestinian Writers, Union of Palestinian Farmers, Palestinian Federation of Unions of University Professors and Employees (PFUUPE), Union of Public Employees in Palestine-Civil Sector; e tutti i sindacati che compongono la Palestine General Federation of Trade Unions (PGFTU): Central Office for the Workers Movement, Progressive Labor Union Front, Workers Unity block, Progressive Workers Block, Workers solidarity organization, Workers Struggle Block, workers resistance block, Workers Liberation Front, Union of Palestinian Workers Struggle Committees, National Initiative (al-Mubadara) Block.
Palestinian Trade Union Coalition for BDS (PTUC-BDS)
ptuc-bds@bdsmovement.net

sabato 21 maggio 2011

TRIPOLI SOTTO BOMBE NATO “SALVACIVILI”

Racconto dalla capitale e dalla Libia occidentale dove proseguono i bombardamenti "umanitari". La vita di civili ignorati dai media.

REPORTAGE DI MARINELLA CORREGGIA*

Tripoli, 21 maggio 2011, Nena News -“Benvenuti a Tripoli ma adesso allontanatevi. Potrebbero tornare”. Ha un aplomb libico il piccolo comandante della nave in fiamme e fumo sotto la grande luna. Un cargo o una nave militare, non è chiaro. Quattro i feriti portati via dalle ambulanze e per fortuna nessun morto. I pompieri tentano di spegnere il fuoco fra il fumo acre. Altre imbarcazioni più piccole stanno affondando. Sono presi di mira i porti, punto d’entrata fondamentale anche per i rifornimenti civili.
I missili Nato salvacivili hanno colpito diversi punti del porto nella notte fra giovedì e venerdì, susseguendosi fra le 23,08 e le 23,55. Alla prima esplosione due bambini sono scesi nel giardino della casa prospiciente il porto e si sono messi a urlare “Allah Muammar Libia e basta”. Un signore di Sabha uscito dall’hotel Radisson commenta: “Hanno volato basso, strano. Vogliono spaventarci ma non ci riescono. Ieri ci sono state manifestazioni contro la Nato e per la Libia perfino perfino a Bengasi”.
In effetti la notte precedente, fra mercoledì e giovedì è stata percorsa, secondo la tivù libica, da una serie di contemporanee manifestazioni anti-Nato e pro-governo, con bandiere verdi alle finestre e assembramenti in strada, in diverse città, per la prima volta anche nell’est a Bengasi, e in Tunisia ed Egitto, ai confini con la Libia. A Tripoli erano tanti, per ore si sono visti e sentiti caroselli stradali con clacson, bandiere e ritratti di Gheddafi, spari in aria e piccoli fuochi d’artificio.
Sempre nella capitale si susseguono gli incontri fra leader tribali (che settimane fa hanno firmato un patto unitario per la nuova costituzione e l’autodeterminazione, e contro le interferenze straniere) e altre aggregazioni (religiosi, donne, sindacati, agricoltori) con le parole d’ordine “no alla guerra, no al colonialismo, no all’assedio, sì alla riconciliazione nazionale e all’unità”. L’assemblea della “Unione generale delle organizzazioni della società civile” ha divulgato un documento che chiede il cessate il fuoco e ricostruisce i fatti dal 17 febbraio e seguenti, denuncia crimini contro l’umanità (“confermati da foto e prove”) da parte dei ribelli “che si nascondono in moschee e case” . Segue la richiesta (la stessa del governo) “alle organizzazioni internazionali e della società civile: venite in Libia per accertare davvero i fatti”.
Sempre a Tripoli, nel teatro di un centro giovanile tipo scout, giorni fa c’è stata la cerimonia di rilascio dalla prigione di 230 ribelli pentiti. Quasi tutti giovani ma Abdel Karim, aria dimessa, ha la barba grigia. E’ di Misrata. Suo fratello è soldato, lui “ingannato da Al Jazeera” è passato dall’altra parte per qualche settimana prima di essere catturato. Impossibile verificare lo status e le responsabilità di ognuno di loro. Fra i quali ci sarebbero 89 stranieri, “mercenari”. In realtà, dice Ines, giornalista algerina che ha parlato con un presunto mercenario egiziano, forse buona parte di loro erano solo sospettati. Ma il messaggio, aggiunge lei, è un altro appello alla riconciliazione.
No alle bugie e sì all’unità da ritrovare è il mantra dalle persone incontrate a Zliten, 50 chilometri da Misrata. La strada da Tripoli attraversa palmeti e uliveti. La regione è tranquilla, i posti di blocco rari. Lunghe code per la benzina surreali in un paese petrolifero (ma la Libia è sotto sanzioni e al tempo stesso ha una limitata capacità di raffinazione interna, peggiorata dal conflitto). Zliten è rifugio di molti sfollati da Misrata. Se ne occupa la Mezzaluna rossa. Muna e Mohamed sono due giovani funzionari e denunciano il danneggiamento di una loro ambulanza in un crocevia fra Dafnyia e Misrata; “tre missili da una nave Nato”.
Soldati feriti a Misrata la notte precedente sono ricoverati all’ospedale cittadino. Fra loro Hayed, colpito all’addome, viene da Hubari; pelle scurissima. Il dottor Mohamed, chirurgo, sussurra: “Vedete, è cittadino libico, non è un mercenario straniero, un muntasika; è un soldato regolare, un jundi”. In un’altra stanza una bambina ferita è attaccata all’alimentazione ma non è grave. Vittima del bombardamento Nato a Dafniya, presso Misurata, dicono.
Un uomo in divisa che vuole restare anonimo aggiunge: “Se avessimo voluto, prima degli attacchi Nato avremmo riconquistato le città in pochissimo tempo, facendo però molte vittime civili. I ribelli e i delinquenti si proteggono con quelle”. Spingono avanti un uomo; si chiama HuSsein Mohamed e dice di essere stato catturato a Misrata il 28 febbraio, di aver visto suoi commilitoni sgozzati, di essere stato liberato dopo un mese dai soldati.
Ottomila famiglie di Misrata sono sfollate nell’area di Zliten. Nei magazzini sono accumulati kit di emergenza per 25mila persone. Non ci sono tendopoli, le famiglie sono ospitate in case offerte da privati (anche uno scantinato, pieno di materassi colorati), in edifici governativi, e negli appartamenti lasciati dai lavoratori stranieri (indiani, ucraini, eccetera) di un cementificio, partiti tutti. E’ quest’ultima la sistemazione migliore. Mentre visitiamo una famiglia con due figlie grandi, che ha perso la casa negli scontri, decine di bambini giocano sotto il sole dolce del pomeriggio nello spiazzo. Rahma, quattro anni, è di Bengasi. Bengasiano anche Mohamed Omar, capo della…tifoseria della principale squadra di calcio: “C’è molta violenza a Bengasi, siamo scappati da tempo. Girano anche ex galeotti scappati e tanta gente armata. Tutti devono stare zitti”.
“Dite i fatti nei vostri paesi, dite che la protezione dei civili non si fa così, che la Nato non può confondere la protezione dei civili con l’appoggio ai ribelli armati, che il nostro esercito ha il diritto di combattere, che hanno mentito parlando di migliaia di morti, che non è giusto che siano le bombe a decidere chi ci deve governare, che Al Jazeera sta facendo un lavoro sporco per conto degli emiri, che qui la gente vuole vivere tranquilla” dice Mohamed Ahmed, un leader tribale incontrato in una riunione a Tarouna. Ci presenta sussurrando tre bambini, Jinet, Aisha e Mabruk, figli di un soldato che sarebbe stato sgozzato.
Nella piazza centrale di Zliten, nel pomeriggio altra manifestazione con uomini in piedi sulle automobili e perfino sulla pala di una escavatrice, musica e slogan. Alcuni di loro, dicono, si stanno unendo a un’altra marcia verso l’Est, “per la riconciliazione”. Dopo quella che a Brega una settimana fa ha visto morire “missilati” undici leader religiosi, 50 i feriti. Scuse Nato: “Pensavamo che fosse un centro di comando delle operazioni contro i civili”. Li hanno sepolti vicino al mare. In fosse individuali.

*corrispondente per Radio Citta’ Aperta, Roma

venerdì 20 maggio 2011

QUALE FUTURO IN PALESTINA?

Scenario attuale e possibili prospettive, al di là di ogni banale "retorica di pace": di questo hanno discusso Jamil Hilal, Sari Nusseibeh e Ilan Pappé al Salone del Libro di Torino.

DI GIULIA DANIELE*

Torino, 20 Maggio 2011, Nena News – Riconciliazione intra-palestinese, fallimento della soluzione storica di “due Stati per due popoli”, trasformazione del mondo arabo, condivisione e uguaglianza tra le diverse comunità che vivono in Palestina/Israele. Questi sono stati i temi centrali del dibattito “Il futuro della Palestina” tra il sociologo palestinese Jamil Hilal, il rettore dell’al-Quds University di Gerusalemme Sari Nusseibeh, lo storico israeliano Ilan Pappé, e condotto dalla giornalista Paola Caridi presso il Salone del Libro di Torino 2011. Andando oltre la così definita “retorica della pace”, l’incontro ha rappresentato una rara opportunità di informazione sullo scenario attuale della Palestina, e in particolare sull’inevitabilità di un cambiamento verso cui è necessario incamminarsi. I mutamenti internazionali così come quelli regionali hanno avuto sostanziali riflessi sulla realtà palestinese, non soltanto istituzionale ma soprattutto tra i movimenti della “politica dal basso”.

Se da un lato le rivoluzioni avvenute nei mesi passati e ancora in corso nella maggior parte dei paesi arabi hanno influenzato la decisione di una riconciliazione tra le leadership di Fatah e Hamas, dall’altro conseguenze significative sono attese all’interno della società palestinese in vista delle prossime tornate elettorali che comprendono le elezioni presidenziali, quelle politiche e quelle per il rinnovo dell’OLP (entro cui dovranno venire rappresentati anche Hamas e la Jihad islamica). Si tratta di cambiamenti strutturali che coinvolgono l’intera regione, e che stanno spingendo nuove composizioni e alleanze politiche in tutto il Medio Oriente. A tale proposito i tre relatori hanno sottolineato come la Palestina non comprenda soltanto la West Bank e la Striscia di Gaza, ma può essere descritta come una sinfonia di cui fanno parte i Palestinesi del ’48 (ossia i Palestinesi cittadini di Israele), i Palestinesi della diaspora, e i Palestinesi di Gerusalemme Est. Per questa ragione, l’unità intra-palestinese non dovrebbe significare semplicemente un accordo politico tra le differenti fazioni, ma piuttosto una ritrovata compattezza tra le diverse componenti del popolo palestinese.

In realtà, in particolare secondo i due relatori palestinesi, tale riconciliazione non avrà alcun effetto significativo dato che non esiste un processo politico in corso: l’unico scenario fuori discussione è quello del fallimento della soluzione storicamente più appoggiata a livello internazionale, quella dei due Stati. Su quale sarà l’alternativa possibile, dal lato palestinese Nusseibeh non esclude l’opportunità di partire dalla proposta di uno scambio di prigionieri (che potrebbe corrispondere alla liberazione di uno dei leader più apprezzati come Marwan Barghouti), mentre Hilal ribadisce i suoi dubbi sull’ipotesi della formazione prossima di uno Stato palestinese, se non in forma di un grande banstustan sotto controllo israeliano. Dal canto suo, Pappé riporta le recenti preoccupazioni del governo israeliano riguardo la possibile nascita di uno Stato palestinese entro settembre e propone tre livelli su cui operare per sbloccare lo status quo: a livello internazionale è necessario continuare il lavoro di riflessione e azione della campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) in opposizione al regime sionista; all’interno del mondo palestinese occorre risolvere la questione della rappresentanza; e in Israele si deve lavorare sulla “de-programmizzazione” della società verso una realtà futura di condivisione con i Palestinesi. Tenendo uniti i tre livelli, la prospettiva di uno Stato unico, laico e democratico, seppure ancora considerato utopico dalla maggior parte di entrambe le popolazioni, ha iniziato tuttavia a far crescere la consapevolezza di un percorso politico in grado di uscire dall’attuale impasse di violenza e odio che permea ormai da più di mezzo secolo la terra di Palestina.

Al di fuori di ogni retorica, l’incontro tra tre intellettuali autorevoli come Nusseibeh, Hilal e Pappé è stata un’occasione importante per ricucire il filo che collega gli eventi recenti avvenuti nel mondo arabo e la realtà palestinese ancora sotto occupazione militare israeliana. Se è vero che i Palestinesi hanno sempre continuato la loro resistenza (e che sono in realtà gli altri popoli arabi ad essersi risvegliati soltanto ora) come ha affermato Jamil Hilal, così è arrivato il momento di scrivere una nuova narrativa palestinese che a partire dalla Nakbah possa arrivare fino alle più recenti proposte avanzate dai giovani palestinesi del 15 marzo. Infatti, l’ondata di cambiamento e di rivoluzione sembra finalmente aver investito la società palestinese, e magari potrà agitare anche quella israeliana iniziando a mettere le basi per una sempre più determinata critica nei confronti del fondamento sionista dello Stato di Israele.

*Giulia Daniele – Dottoranda Scuola Superiore Sant’Anna (Pisa)/ University of Exeter

giovedì 19 maggio 2011

NEL NOME DELLE ARMI

Partnership Italia-Israele nel nome delle armi



di Antonio Mazzeo





Peggior giorno non poteva scegliere il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per recarsi in Israele a ricevere il Dan David, il premio da un milione di dollari che il finanziere a capo del colosso internazionale delle apparecchiature fotografiche per fototessera (Photo-Me International Plc), riconosce annualmente ai vip distintisi nella “difesa dei valori universali della giustizia, della democrazia e del progresso”. La consegna del mini Nobel è avvenuta il 15 maggio a Tel Aviv nell’intervallo tra un incontro con il presidente Shimon Peres e quello con il premier Benjamin Netanyahu, mentre alla frontiera di Israele con il Libano e la Siria era in atto la feroce repressione dei manifestanti che commemoravano la Nakba, il giorno della “catastrofe” del 1948 quando con la creazione dello stato d’Israele, decine di migliaia di palestinesi furono costretti ad abbandonare la regione nativa. Almeno una ventina le persone uccise dall’esercito, ancora una strage che per l’ennesima volta non ha turbato l’élite politica ed economica italiana che insegue lucrosi affari con le imprese israeliane.

Il core business dell’asse Roma-Tel Aviv è rappresentato dal mercato delle armi e specie con Berlusconi, l’Italia si è distinta nel tessere sempre più proficue relazioni nel campo della “difesa” e della “sicurezza”. Oltre alla recente visita di Silvio B. in Israele, le tappe del riavvicinamento armato comprendono gli incontri del novembre 2009 tra il ministro della difesa Ignazio La Russa, l’omologo israeliano Ehud Barak e Netanyahu, la visita a Roma nel luglio 2010 del Capo di stato maggiore delle forze armate israeliane, generale Gabi Ashkenazi e il vertice a settembre tra il sottosegretario alla difesa, on. Guido Corsetto e l’ambasciatore di Israele in Italia, Ghideon Meir, per verificare appunto, “l’opportunità di eventuali e future collaborazioni nel campo militare”, come recita il comunicato ufficiale emesso a fine colloqui. Tre mesi più tardi, dicembre 2010, è stata la volta del Capo di stato maggiore della difesa italiano, generale Vincenzo Camporini, a recarsi in visita a Tel Aviv per discutere sul “rafforzamento della collaborazione strategica a livello politico, militare e tecnico-industriale; il consolidamento della conoscenza dei reciproci apparati militari e lo sviluppo di strumenti di raccordo e coordinamento delle attività di pace italiane nelle aeree d’interesse per lo stato israeliano”.

Le linee guida della cooperazione militare Italia-Israele sono tracciate dalla legge n. 94 del 17 maggio 2005 che ratifica l’accordo sottoscritto nel 2003 dall’allora ministro della difesa Antonio Martino. Roma e Tel Aviv s’impegnano nello specifico a collaborare nel campo dell’importazione, esportazione e transito di materiali militari, ad organizzare attività di addestramento ed esercitazioni e la “visita di navi ed aerei”, a coordinare la “partecipazione alle operazioni umanitarie”, a sviluppare “la ricerca e la produzione militare, la politica degli approvvigionamenti e l’industria per la difesa” e a “interscambiare materiali d’armamento”. Non si attese comunque il voto parlamentare per accendere i motori della nuova alleanza. Il 18 novembre 2004, dopo un summit a Roma tra il ministro della difesa del governo Sharon, Shaul Mofaz, l’omologo italiano Martino e il presidente del consiglio Berlusconi, venne annunciato lo stanziamento congiunto di 181 milioni di dollari per “lo sviluppo di un nuovo sistema di guerra elettronica progettato per inabilitare i velivoli nemici”. Da allora gli affari si sono fatti sempre più fitti: secondo una ricerca dell’Archivio Disarmo basata su dati ISTAT, nel 2005 il governo italiano autorizzò contratti di vendita ad Israele, in base alla legge 185, per circa 1,3 milioni di euro. Più recentemente, come evidenzia la Rete Italiana per il Disarmo, le vendite autorizzate al governo di Tel Aviv superano complessivamente i due milioni di euro l’anno, e riguardano in particolare “armi di calibro superiore ai 12,7mm e aeromobili, sistemi d’arma ad energia diretta e apparecchiature elettroniche”. Tra le imprese italiane coinvolte spiccano i nomi di Simmel Difesa, Beretta, Northrop Grumman Italia, Galileo Avionica, Oto Melara ed Elettronica.

A ciò vanno poi aggiunti i contratti stipulati all’estero dalle società controllate dalle holding nazionali, non considerati nei rapporti del governo. Nel dicembre 2007, ad esempio, DRS Technologies Inc., azienda del gruppo Finmeccanica con sede a Parsippany, New Jersey, ha sottoscritto un contratto di 6 milioni di dollari con l’U.S. Army’s Tank-Automotive and Armaments Command (TACOM) per produrre autoarticolati da 80 tonnellate per il trasporto dei carri armati “Merkava” in dotazione alle forze armate israeliane. Finmeccanica che con ElsagDatamat si è recentemente aggiudicata in Israele un appalto da 10 milioni di euro per la fornitura di un sistema automatico di smistamento della posta, punta ad una maggiore visibilità nel mercato armato e spera di entrare nella megacommessa autorizzata a fine 2010 da Washington per la fornitura di 20 cacciabombardieri stealth di nuova generazione F-35A Lightning II. I caccia sono prodotti dalle industrie statunitensi Lockheed Martin, Northrop Grumman e BAE Systems con il modestissimo contributo di Alenia Aeronautica. Il valore dell’accordo è stimato in 2,75 miliardi di dollari, ma potrebbero essere superati i 10 miliardi se venisse esercita un’opzione per l’acquisto di altri 55 cacciabombardieri. Le consegne avverranno a partire dal 2016 con la partecipazione di Israel Aerospace Industries e Elbit Systems.

Altrettanto significativi i numerosi progetti di “cooperazione scientifica e tecnologica” che i ministeri italiani per l’Industria e la Ricerca scientifica hanno sottoscritto in questi anni con Israele e i cui riflessi nel settore militare vengono opportunamente mascherati. Nel dicembre 2005, l’allora ministra per l’istruzione e l’università, Letizia Moratti, ha firmato un decreto con il quale sono stati finanziati 52 progetti con Stati Uniti e Israele, per un ammontare complessivo di 18 milioni di euro, in aree di rilevante interesse strategico quali “bioinformatica, bioingegneria, neurobiologia, chimica-farmaceutica, gnomica-proteomica, nanotecnologia, biotecnologia, Ict e linguistica computazionale”. Il sostegno ai programmi è avvenuto attraverso il Fondo per gli investimenti della Ricerca di Base del ministero mentre le attività scientifiche sono state realizzate dalle università di Milano, Roma (“La Sapienza”), Napoli (“Federico II”), Torino, Bologna, dagli atenei israeliani di Haifa e Tel Aviv, dalla Hebrew University, dal Weizmann Institute e dall’Istituto tecnologico “Technion”.

Attingendo sempre dai fondi del Ministero per l’istruzione e la ricerca scientifica, è stato co-finanziato il programma bilaterale “Shalom” per il lancio di due satelliti dotati di sensori iperspettrali in grado di captare emissioni. I due satelliti saranno collocati nella stessa orbita della costellazione italiana d’intelligence COSMO-SkyMed e “integreranno le osservazioni radar con osservazioni nell’infrarosso visibile e ultravioletto per numerose applicazioni, compresi monitoraggio ambientale, mappatura geologica, sicurezza e gestione dei rischi ambientali”, come afferma l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), partner italiano del programma.

Finalità militari ha pure il progetto di ricerca nel campo della fotonica finanziato dalla Regione Lazio attraverso Sviluppo Lazio che vede coinvolte l’Università di Tor Vergata, Selex Communications (società del gruppo Finmeccanica specializzata nelle “comunicazioni militari e protette”) e l’azienda israeliana Lynx Photonic Network. L’Università di Tor Vergata compare pure nel programma di sviluppo della rete di telecomunicazione satellitare “Savion” (Satellite Autoconfigurable Voice Image data Overlay Network) per il coordinamento degli interventi in “situazioni di sicurezza ed emergenza”. Il nuovo sistema, sperimentato nel maggio 2006 a Riva del Garda dalle società Telespazio e Maxtech, è finanziato dall’Unione europea e dai ministeri degli esteri di Italia ed Israele.

Il nostro paese, più che un esportatore di armamenti è un cliente preferenziale di Israele: negli ultimi due anni le importazioni di tecnologie militari hanno superato il valore complessivo di 50,7 milioni di euro. Tra le principali acquirenti l’industria Simmel che si rifornisce in Israele di componenti per bombe e la Beretta (componenti per armi automatiche, pistole e mitragliatori). Ci sono poi le acquisizioni di materiale bellico realizzate con fondi non provenienti dal ministero della difesa, come avvenuto ad esempio con una decina di radar fissi e mobili EL/M-2226 ACSR (Advanced Coastal Surveillance Radar) realizzati da Elta Systems, società controllata dalla Israel Aerospace Industries Ltd. (IAI). I radar entreranno a far parte della nuova Rete di sensori di profondità per la sorveglianza costiera che la Guardia di finanza sta implementando per contrastare gli sbarchi dei migranti. Acquistati grazie alle risorse del “Fondo europeo per le frontiere esterne”, programma quadro 2007-08 contro i flussi migratori, le apparecchiature hanno una portata di oltre 50 chilometri e sono appositamente progettate per individuare imbarcazioni veloci di piccole dimensioni. Gli EL/M-2226 fanno parte della famiglia di trasmettitori Linear Frequency Modulated Continuous Wave (LFMCW) in X-band (dagli 8 ai 12.5 GHz di frequenza)”, che operano emettendo microonde estremamente pericolose per l’uomo, la fauna e la flora. Per la loro installazione saranno sacrificate alcune aree protette e riserve naturali di Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna.

L’altro pilastro della partnership è rappresentato dalle esercitazioni dei reparti d’élite delle forze armate italo-israeliane. Buona parte di esse si tengono da alcuni anni nei grandi poligoni militari della Sardegna e nell’aeroporto di Decimomannu (Cagliari). Gli ultimi giochi di guerra in grande scala risalgono al novembre 2010, quando 38 aerei da guerra e oltre 600 militari italiani ed israeliani si sono dati appuntamento a Decimomannu per l’esercitazione “Vega”. Per diversi giorni sono stati simulati duelli aerei ed eseguiti bombardamenti con missili aria-terra. Protagonisti gli squadroni con caccia F-15 della base di Tel Nof (a sud di Tel Aviv) ed F-16 della base di Nevatim (Neghev) e un velivolo senza pilota “Eitam” G550, il drone di maggiori dimensioni sino ad ora costruito in Israele, al suo esordio in un campo di battaglia. In prima linea per l’Italia i cacciabombardieri Tornado ECR del 50° Stormo, gli F-16 del 37° Stormo, gli Amx ”Ghibli” del 32° Stormo e gli Eurofighter ”Typhoon” del 4° Stormo. Proprio i reparti che quattro mesi più tardi - con la benedizione del presidente Napolitano - sarebbero stati destinati da Berlusconi e La Russa alle operazioni di bombardamento in Libia.

martedì 17 maggio 2011

Lo stato pirata ancora all'opera

Israele attacca un’altra Nave per aiuti a Gaza in acque internazionali.


di Corrado Belli

Notizia arrivata poco fa da Globalresearch, la nave battente bandiera Malesiana e intitolata a Rachel Corrie ”Spirit of Rachel Corrie” è stata attaccata da forze navali Israeliane in acque internazionali, era partita dal porto di Piraus (Grecia) giorno 11 Maggio e trasportava aiuti umanitari per Gaza.

L’iniziativa era partita sotto la visione del PGPF “Perdana Global Peace Foundation”, a bordo dell’imbarcazione si trovano attivisti contro la guerra, giornalisti provenienti da diverse nazioni, 7 Malesiani, 2 irlandesi, 2 indiani e un Canadese, la Spirit of Rachel Corrie è stata finaziata dal Primo ministro Malesiano Dr. Mahathir Mohamed e da Globalresearch che partecipa dal vivo a questa missione.

La Spirit of Rachel Corrie è stata intercettata alle ore 10:54 da una nave da guerra Isreliana e da una nave da guerra Egiziana dopo aver disobbedito all’ordine di non dirigersi verso Gaza, pochi minuti dopo l’avvistamento la nave israeliana si dirigeva verso l’imbarcazione dei pacifisti oltrepassando la linea della acque internazionali dove appunto si trovava l’imbarcazione con gli aiuti per Gaza e quindi non aveva alcun diritto e motivo di attaccarla, poco dopo hanno cominciato a sparare da tutte le parti ma l’imbarcazione non si è fermata, dopo essersi avvicinati di più all’imbarcazione e sparati ancora alcuni colpi l’imbarcazione si è fermata, dopo aver bloccato l’elica del motore con una rete da pescatori hanno cominciato a girare intorno all’imbarcazione dei pacifisti che miracolosamente sono rimasti illesi e nessuno è rimasto ferito.

La Spirit of Rachel Corrie è stata costretta ad andare verso le acque territoriali Egiziane scortata dalla nave da guerra egiziana, nello stesso tempo il governo egiziano ha preso accordi con il Governo Israeliano al fine di intercettare gli attivisti pacifisti egiziani che cercheranno di mettersi in contatto con gli occupanti della nave che stava trasportando aiuti umanitari verso Gaza, nel frattempo le autorità Egiziani cercano di tenere i media all’oscuro dell’accaduto anche perché l’imbarcazione è stata presa di mira volontariamente e non come dicono le autorità Israeliane che sarebbero stati sparati dei colpi di arma in aria, l’imbarcazione è stata perforata da decine di proiettili sparati con l’intenzione di uccidere.

Si aspettano altre notizie in riguardo, Globalresearch metterà più notizie dettagliate al più presto possibile a disposizione sull’accaduto.

Corrado Belli

lunedì 16 maggio 2011

Testimonianza da Rafah

In migliaia di palestinesi gazawi oggi si sono recati al confine con israele nei pressi del valico di Rafah, mentre la terza intifada esplodeva in tutti i paesi confinanti con israele.
Era una manifestazione nonviolenta, partecipavano componenti di tutte le aree politiche, nessuno e nessuna portava armi. La risposta dei sionisti è stata invece estremamente violenta.
Inizialmente hanno sparato granate dai carri armati che stavano alla nostra sinitra, passavano sopra la nostra testa ed atterravano a 100 - 50 metri da noi alla nostra destra. I proiettili invce arrivavano da due torri, una di fornte a noi che sparava proiettili di calibro normale ed una sulla sinistra che sparava proiettili di calibro maggiore di quelli autorizzati dalla legislatura internazionale.
125 i feriti ed almeno un morto, probabilmente 2, quello certo è un un ragazzino di 18 anni.
Come internazionale portavo la giacca fosforescente, è tutta imbrattata di sangue schizzato da un uomo che è stato ferito in fianco a me. Mi sono trovata pezzetti della sua carne sulla sulla mano ed anche i pantaloni sono a chizze di sangue.
La manifestazione ha continuato nonostante i feriti fino alle 20. è, ancora una volta, incredibile la forza di questi uomini e donne, di fronte alle peggiori violenze, per difendere la loro terra.

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Oggi presidio ore 18

diffondete e partecipate, è importante!



cari amici e compagni,

certamente saprete tutti della mattanza che ieri Israele ha commesso contro i manifestanti disarmati che commemoravano la Nabka. Il Presidente della Repubblica italiana era in Israele per ritirare un premio per il suo agire democratico (Israele arriva perfino ad elargire premi a chi ritiene brilli nel rispetto della democrazia!) e non ha avuto parole per condannare l'uso della violenza ma, al contrario, si è apertamente schierato a difesa dello Stato che gli consegnava il premio in denaro sonante (un milione di dollari) dichiarando che questo aveva per lui "un valore speciale perchè si richiama alla singolare esperienza ed autorità di uno Stato nato e sviluppatosi come democrazia parlamentare nella difficile regione del Medio Oriente". Parole che oggi suonano particolarmente ingiuriose non solo verso il popolo palestinese, ma verso lo stesso principio democratico e i suoi corollari che, certamente, non sono l'apartheid o l'espropriazione di terre altrui, pratiche cui il democratico Stato di Israele si distingue con indiscutibile risolutezza.

Mentre l'esercito sparava sui dimostranti, Napolitano si dichiarava sinceramente emozionato per la nobile motivazione per cui veniva premiato!

Al dolore si aggiunge l'indignazione e la tristezza di sapere che quello che dovrebbe essere il garante della Costituzione non è in grado di esprimere una critica a uno Stato che oltre a praticare l'apartheid e non rispettare le Risoluzioni ONU, si macchia di altri crimini gravissimi da oltre 63 anni.
Per condannare la carneficina, per sostenere le giuste richieste del popolo palestinese, invitiamo tutte e tutti a venire



al presidio oggi 16 maggio in piazza San Manco (di fronte al Campidoglio) a partire dalle ore 18




_________________
Patrizia Cecconi
Presidente
Assoc. Amici della Mezzalunarossa Palestinese
+39 347.6090366
A volte il silenzio è tradimento (M.L.King)

domenica 15 maggio 2011

il COrum alla manifestazione per la Nakba al valico di Erez

Con i palestinesi in rivolta

La repressione israeliana non può fermare la Primavera araba anche in Palestina

Solidarietà con i palestinesi. Basta con la complicità dell’Italia con la politica israeliana

Lunedì 16 maggio ore 17.30 manifestazione a Piazza San Marco a Roma.

Il diritto al ritorno e l’autodeterminazione del popolo palestinese non possono continuare ad essere negati da Israele e dalle istituzioni internazionali.

Migliaia di profughi palestinesi dai campi disseminati in Libano, in Siria, a Gaza hanno di nuovo imposto all’agenda politica del Medio Oriente e a livello internazionale la questione palestinese.

La Giornata della rabbia palestinese ha coinciso con l’anniversario della Nakba, l’anniversario della pulizia etnica del’48 da parte del nascente Stato di Israele

Il bilancio provvisorio è di numerosi palestinesi uccisi e feriti, in parte sul confine libanese, in parte lungo quello sirianio e poi su quello di Gaza. Ma incidenti e scontri sono avvenuti anche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Manifestazioni, nonostante i divieti, sono avvenuti anche tra i palestinesi che vivono in Israele. Tutte le Palestine oggi sono tornate ad essere una sola Palestina in lotta per affermare nuovamente il diritto all’autodeterminazione, ad una pace fondata sulla giustizia e dunque anche sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi. A Gaza, per la prima volta in quattro anni, i sostenitori di Fatah e Hamas hanno marciato insieme e i leader di tutte le organizzazioni sono intervenuti insieme nelle manifestazioni. E’ il segno che l’accordo di riconciliazione nazionale sta dando i suoi frutti positivi anche in direzione della resistenza comune all’occupazione israeliana.

Non possiamo non denunciare ancora una volta la complicità delle istituzioni italiane con la politica israeliana. Non solo il governo Berlusconi ma anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che si trova in visita in Israele, anche in questo caso si è trovato nel posto sbagliato ed ha rilasciato dichiarazioni sbagliate. Il Presidente Napolitano ha affermato di condividere pienamente la politica del governo Berlusconi su Israele e Palestina e proprio in occasione della giornata della Nakba palestinese ha affermato ''non e' accettabile considerare la fondazione dello Stato di Israele un disastro, al di la' delle interpretazioni che nel mondo arabo si danno di quell'evento storico''.



Con le manifestazioni di oggi, la giornata della rabbia palestinese è entrata come protagonista nella Primavera araba e dei movimenti che intendono cambiare l’assetto politico del Medio Oriente. L’occupazione e l’apartheid israeliano non potevano pensare di rimanere immuni al vento che sta cambiando nella regione.

Già domenica pomeriggio attivisti solidali con la Palestina, protagonisti della grande e bella manifestazione di sabato a Roma hanno manifestato davanti all’ambasciata israeliana e chiamano a mobilitarsi nuovamente per lunedì 16 maggio in piazza San Marco alle ore 17.30.

Roma, 15 maggio

Il Forum Palestina

Comunicato del Pdci

Il Pdci condanna i crimini di Israele nel giorno della Nakba



Oltre venti morti e centinaia di feriti nella giornata che ricorda la
Nakba palestinese. Una vera e propria carneficina, quella messa in
atto dall'esercito di Israele contro uomini e donne palestinesi
colpevoli solo di chiedere quello che la legalità internazionale sulla
carta sancisce da anni: il diritto a poter ritornare sulla propria
terra.

Questa mattina migliaia di palestinesi erano scesi in piazza
affollando le strade vicino ai confini israeliani in Libano, Siria, e
Gaza, per protestare contro l'occupazione della Palestina. Non si è
fatta attendere la reazione durissima dei soldati israeliani, che
hanno aperto il fuoco lasciando sul terreno tantissimi feriti e oltre
20 morti. Evidentemente il recente accordo fra le forze politiche
palestinesi e i cambiamenti in atto in Egitto, che rendono meno
impermeabile il valico di Rafah, ha portato il Governo di Tel Aviv a
dare l'ordine di uccidere senza pietà.

I Comunisti italiani sono immediatamente scesi in piazza insieme ai
movimenti e alle associazioni solidari con la Palestina. A poche ore
dagli assassinii un sit-in ha portato la protesta del popolo italiano
sotto le finestre dell'ambasciata israeliana a Roma. Saremo in piazza
anche domani, alle 18 a piazza San Marco a pochi passi dal
Campidoglio.

Ma in queste ore non meno colpevoli sono i silenzi. Sconcertante è il
silenzio del nostro Presidente della Repubblica, proprio in questi
giorni in visita in Israele. Nessuna parola contro l'eccidio, nessuna
condanna contro un Governo Nethanyau che si è macchiato oggi
dell'ennesimo crimine. Invitiamo il Presidente Napolitano a far
sentire la propria autorevole voce chiedendo a Israele il rispetto del
diritto internazionale e l'immediato ritiro dai territori palestinesi.
Napolitano non si renda complice di uno Stato che fa dell'apartheid
verso la popolazione palestinese e araba il suo fondamento.

Sorprende invece di meno l'ennesimo silenzio da parte del Governo
Berlusconi, che si è contraddistinto in questi anni per stupidità e
per una politica estera del tutto fallimentare. Berlusconi impegnato a
salvaguardare i propri interessi ha reso il nostro Paese del tutto
estraneo alle dinamiche del Mediterraneo rendendolo complice delle
politiche di Israele.

Nessuna parola dal Pd, da Vendola, dall'Italia dei Valori... Infine,
semplicemente indegni i silenzi e la disinformazione messa in atto dai
Tg della Rai. Il Tg1 ha aperto l'edizione delle 20 dando notizia di
“scontri causati dai palestinesi che avrebbero aggredito i soldati
israeliani....”.

Il Pdci si oppone a questa logica, coerentemente con la sua storia,
rinnova la piena solidarietà verso la causa palestinese e si impegna
in queste ore a far sentire la propria voce con tutti i mezzi a
disposizione in difesa di uomini e donne che da troppi decenni vedono
negarsi il diritto ad avere una propria patria, una propria terra, una
vita degna di essere tale.

Maurizio Musolino

Direzione Nazionale - resp. Medioriente Pdci-Fds

Giornata della Nakba: morti e feriti

Nel giorno della Nakba manifestazioni in tutta la Palestina ad ogni check point, a Gaza al valico di Erez migliaia di persone , arrivano i carri armati e gli f16 e sparano uccidendo alcuni manifestanti e ferendone moltissimi.


Nelle stesse ore in cui il Presidente Napolitano riceve il premio alla tolleranza e al rispetto della democrazia, dai rappresentanti dello Stato capace di violare 73 Risoluzioni Onu e di massacrare impunemente i civili di qualunque età,

l'esercito di quello stesso Stato spara, uccidendo almeno una decina di manifestanti inermi e ferendone moltissimi per impedire che si commemori l'anniversario della Nakba.

Tra i manifestanti ci sono anche molti internazionali e tra questi molti italiani.

Il Presidente Napolitano non ha saputo rifiutare il premio, saprà almeno condannare la feroce repressione che si sta verificando a pochi metri dalla sua persona?



Invitiamo tutti al presidio sotto l'ambasciata di Israele convocato per le 16,30 dalla Rete romana di solidarietà col popolo palestinese.

Patrizia Cecconi


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Patrizia Cecconi
Presidente
Assoc. Amici della Mezzalunarossa Palestinese

Celebrazioni per la Nakba insanguinate

Gaza 15.05.2011. ore 13.15



Oggi 15 maggio, giornata della Naqba (la "catastrofe" per i palestinesi), mentre il presidente della Repubblica Napolitano è in visita ufficiale a Tel Aviv, dove ha incontrato il presidente israeliano Peres, nella Striscia di Gaza e in tutta la Cisgiordania si moltiplicano le manifestazioni, violentemente represse dall'esercito israeliano. Le manifestazioni vogliono ribadire il diritto del popolo palestinese a vivere in libertà sulla propria terra, il diritto al ritorno per tutti i profughi palestinesi espulsi in seguito alla costituzione dello Stato israeliano, e il rispetto delle risoluzioni dell’Onu che Israele infrange da decenni. In particolare a Gaza, nei pressi del valico di Heretz, dove si trovano anche gli 80 attivisti del Convoglio Restiamo Umani (CORUM), l'esercito israeliano ha aperto il fuoco sui manifestanti, facendo 7 vittime e decine di feriti, di cui 15 bambini soltanto a Beit Hanoun. Quattro le vittime a Tel aviv e numerosi feriti e arrestati a Qalandiya, Hebron e Ramallah. E’ troppo chiedere al presidente Napolitano che la sua visita di stato serva a richiamare fermamente il governo israeliano al rispetto del diritto?

Per manifestare solidarietà alle manifestazioni a Gaza e in Cisgiordania è stato indetto un presidio per oggi, 15 maggio, alle ore 16.30 davanti all'ambasciata israeliana a Roma.

sabato 14 maggio 2011

KHAN YUNIS, QUANDO RACCOGLIERE GRANO E’ “TERRORISMO”

Il racconto delle giornate di lavoro trascorse dai contadini palestinesi sotto il fuoco dei tiratori scelti israeliani mentre raccoglievano l'"oro giallo" nei loro campi nella "zona proibita".

DI SILVIA TODESCHINI

Khan Yunis, 14 maggio 2011, Nena News – L’8, il 9 ed il 10 di maggio sono stati 3 giorni di raccolta del grano per alcuni contadini di Khuza’a, villaggio vicino al confine con Israele nel sud della Striscia di Gaza. Per tre giorni essi si sono recati nei campi, partendo molto presto la mattina e raccogliendo i frutti della loro terra.

Per 3 giorni dalle torrette automatizzate le forze di occupazione israeliane hanno aperto il fuoco e per tre giorni i contadini hanno continuato a raccogliere il grano, senza permettere a chi sparava dalle torrette a controllo remoto di impedire loro di recarsi alla propria terra.

L’area dove i contadini, insieme con 3 attivisti internazionali dell’International Solidarity Movement e 5 attivisti palestinesi si sono recati si trovava a circa 450 metri dal confine. Prima della seconda intifada qui venivano coltivati angurie e meloni, c’erano alberi da frutto ed olivi. “Venivamo qui a fare barbecue, festeggiare e rilassarci… le jeep israeliane passavano in lontananza ma non ci disturbavano, ci lasciavano in pace.” racconta Ahmad. Oggi gli alberi sono stati sradicati, le piante distrutte. L’unica cosa che si riesce a coltivare, perché non richiede attenzioni continue, è il grano. Però anche il grano necessita di diverse ore di lavoro per essere raccolto, ed i cecchini evidentemente si divertono a terrorizzare i contadini in queste ore.

L’8 di maggio sui campi oltre agli attivisti erano presenti inizialmente otto agricoltori, per lo più donne, ma anche un bambino di 13 anni ed una bambina di 7 anni, tutti fratelli e sorelle di una delle famiglie anNajjar risiedenti nel villaggio. Stavano sul loro ettaro di terra raccogliendo il grano giallo oro in diverse fascine, quando anche i vicini, svegliatosi, hanno pensato che la presenza di attivisti (stranieri e non) potesse proteggerli nel lavoro, ed hanno deciso si allontanarsi più del solito per raccogliere erbe da dare a mangiare agli animali. Dove finiscono i campi di grano il terreno è incolto e solcato da dune e fossi causati dai bulldozer israeliani, crescono cespugli spinosi e piccole piante che sembrano secche, ma che sono un buon mangime per asini e pecore. Una donna chinata a raccogliere queste erbe alza il volto, allunga il braccio e punta il dito verso una duna a poche decine di metri: “la vedi quella terra li? Quella terra è mia e non ci posso andare.”

E dalle torrette, le forze di occupazione israeliane non hanno tardato a ricordare chi ha il potere di decidere quali terre possano o no coltivare: si sono uditi degli spari in aria, divisi in due raffiche tra le 7.40 e le 8.30. Prima delle 9:00, senza preavviso, tre proiettili sono atterrati a 50 metri o meno da chi stava lavorando la propria terra. Quando qualcuno spara in aria si sente solo un colpo, ma se il proiettile viene nelle tua direzione è possibile sentire il sibilo, ed il colpo dell’atterraggio. Il terreno era sabbioso e quindi, dopo i sibili, si sono levate 3 nuvole di polvere. Vicine, troppo vicine a un gruppo di quasi 20 civili che lavorava in maniera pacifica. Qualche decina di minuti dopo un uomo, inviperito, interrompe la sua raccolta dell’erba per gli animali e indica al di la del confine, dove un trattore sta arando un terreno: “guarda, gli israeliani possono coltivare indisturbati. Noi, invece, se usciamo qui fuori ci sparano contro!”.

Il secondo giorno anche un altro gruppo, sempre legato alla famiglia allargata anNajjar, ha iniziato a raccogliere il grano nella terra vicina, anch’essa che si estende su un’area di 10 dunam. Quindi in tutto erano presenti più di 10 contadini intenti a raccogliere il grano e qualche donna che raccoglieva erbe. Ma quanto puo’ rendere un ettaro di terra? Ahmad Najjar prova a quantificarlo: “in passato ci portavamo a casa 50-60 borse da un kg di grano, adesso ne riusciamo a fare tra le 10 e le 20: non riusciamo a prenderci cura della terra perchè non possiamo raggiungerla, e coltivandola sempre a grano per tanti anni di seguito si impoverisce:la dimensione de chicco è molto molto più piccola di quella che era 10 anni fa!”. Dalle torrette di controllo hanno sparato verso le 7.30 e verso le 8, il movimento di jeep e carri armati al di la del confine si cominciava a fare insistente. Il terzo giorno jeep e carri armati hanno continuato a spostarsi incessantemente, alzando nugoli di polvere in quella terra che oggi è riconosciuta come israeliana. Gli spari non sono mancati. Un uomo ci ha spiegato: “tutti i giorni le jeep israeliane si spostano e fanno i loro balletti al di la della rete. Tutti i giorni sparano. Però quando c’è presenza di internazionali sparano un po’ meno.”

Khuza’a è un villaggio di contadini che si trova al sud della striscia di Gaza, nel governatorato di Khan Younis. Il centro di Khuza’a si trova a circa un km dal confine, mentre circa l’80% delle terre coltivabili (per un totale di 200 ettari) si trova in aree dove è alto il rischio di essere colpiti dai proiettili israeliani o in zone in cui l’entità sionista ha unilateralmente proibito l’accesso, la cosiddetta “buffer zone”. Gran parte degli ettari non sono possono affatto essere coltivati, e l’accesso stesso ad alcune terre è stato ostruito dalle forze di occupazione. Secondo un rapporto dell’ONU, in tutta la striscia di Gaza le aree coltivabili che rientrano nella “zona ad alto rischio” comprendono il 35% delle terre coltivabili dai palestinesi, e non sono rari i casi di contadini feriti anche gravemente od uccisi mentre si recavano a coltivare la propria terra.

Ahmad spiega perchè ancora e di nuovo nonostante tutto lui e la sua famiglia si recano li a raccogliere il grano: “Vogliamo mangiare, vivere e fare una vita normale. Questo è un nostro diritto, questa è la nostra terra, non ce ne andremo, non abbandoneremo i nostri campi, anche se Israele continua a sparare e cercare di intimorirci”.

COMUNICATO AMICI DELLA MEZZALUNA ROSSA PALESTINESE

Domani, sabato 14 maggio, saremo in piazza con e per la Freedom flotilla 2.

Ci saremo per dire forte e chiaro che l’assedio di Gaza è un crimine, che opporsi ad esso è dovere categorico di chiunque lotti per il rispetto dei diritti universali e rifiuti l’arbitrio dei potenti.

Saremo in piazza portando con noi il nostro GRAZIE a VITTORIO, che il giorno prima di essere rapito aveva denunciato pubblicamente l’accordo di Berlusconi alla richiesta di Netanyahu di impedire la partenza delle navi.

Ci saremo per ringraziare chi parte portando solidarietà umana e politica alla popolazione della Striscia di Gaza, facendosi carico di un’enorme responsabilità: quella di ricordare al mondo democratico, ma un po’ distratto, che ignorare i crimini equivale a farsi strumento dei criminali.
Parlare di pace è facile, agire per la pace è ben più complicato.

Lo sanno i tanti attivisti del CoRUm, il convoglio creatosi nel nome di Vittorio, che in questi giorni è a Gaza, entrato dalla porta di Rafah che la rivolta dei giovani, coraggiosi, egiziani ha consentito di aprire.

Lo sanno gli attivisti che da mesi preparano la nuova flottiglia internazionale con la forza morale di chi sa che la giustizia non si lascia piegare dalla violenza.

In nome delle 9 vittime uccise dalla pirateria israeliana sulla Mavi Marmara, in nome di Vittorio,Juliano, Rachel, Tom,…..in nome dei 1400 adulti e bambini massacrati dall’ancora impunito “piombo fuso”

in nome della dignità umana

che assedio e occupazione israeliana tentano di annientare da oltre 63 anni, noi domani saremo in piazza.
Ci saremo a fianco di tutti coloro che, come diceva Vittorio, credono che il Mediterraneo debba unirci e non dividerci. Ci saremo, fieri di poter dire che anche l’Italia, malgrado il signorsì di Berlusconi, avrà la propria nave - “Stefano Chiarini”- per la libertà.


Con la FREEDOM FLOTILLA 2, contro l’assedio di Gaza

Per una Palestina unita, libera, laica, democratica.



SABATO 14 MARZO, 0RE 14, PIAZZA DELLA REPUBBLICA



Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese